Travis Kalanick è il miliardario 43enne fondatore ed ex amministratore delegato di Uber, ai cui vertici è rimasto fino al 2017 o meglio fino a che non gli è piovuta addosso l’accusa di aver ignorato le denunce di molestie sessuali nell’azienda. Via dal business del car sharing, Kalanick ha capito presto quale sarebbe stato l’affare successivo e così non ha puntato solo sul mercato in espansione delle consegne di cibo a domicilio – come nel caso di Uber Eats – ma ha previsto quale sarebbe stata la sua evoluzione mentre ancora nessuno la vedeva. Oggi Cloud Kitchens, la sua recente creatura, fa una cosa molto semplice: “Smart kitchens for delivery only restaurants” è il motto. In sostanza, affitta spazi e cucine (un po’ come si affittano le scrivanie in spazi comuni per lo smart working) per chi voglia cucinare solo per le consegne, senza quindi aprire un vero e proprio ristorante.
Li chiamano “ristoranti fantasma” (ghost restaurants) o dark restaurants e sono in aumento. Niente tavoli, niente camerieri, niente servizio: si cucina e si consegna, con un risparmio di spazio, tempo, energie e con una clientela potenziale grande quanto la metropoli in cui si lavora. Tutto questo per contenere i costi. E se non sono fantasma, le cucine sono “virtuali”. Si può ordinare da quella che sulla piattaforma sembra essere una panineria, ma potrebbe accadere che il pasto arrivi da una pizzeria. Succede questo: il ristorante è specializzato in pizze, ha alcuni tavoli dove le serve, ma in cucina prepara anche hamburger che vende tramite le consegne e che non sono sul menu. Basta aprire una qualsiasi applicazione per le consegne a domicilio e verificare per ogni annuncio, di persona o su Google Maps, se il nome dell’esercizio commerciale coincide con quello presente all’indirizzo indicato. Almeno una volta su cinque non è così. È l’inizio della fine della ristorazione tradizionale? Può darsi.
La trasformazione, nel frattempo, è una certezza, l’avvio di un nuovo oligopolio digitale anche. I grandi nomi delle consegne mondiali scalpitano, si alleano, si fondono, si reinventano per non perdere quote di mercato e per assicurarsi un posto al sole. Il settore del food delivery è da tempo in forte crescita, oggi – secondo le stime di decine di ricerche di mercato, tra cui quella di Euromonitor è la più citata – il mercato delle consegne a domicilio vale 84 miliardi di euro. La banca Ubs ha però stimato che nel 2030 il giro d’affari arriverà a 365 miliardi di dollari. Non mancano i focus sull’Italia dove il giro d’affari è di 4,7 miliardi di euro e le consegne dei rider coprono il 7 per cento del mercato della ristorazione, il doppio del 2013. La sola Deliveroo qualche giorno fa ha annunciato di voler investire in Italia altri 25 milioni di euro. Nella realtà, lontana dai numeri, si cucina sempre meno, e i dati Nielsen raccontano che i piatti “food-to-go”, cioè quelli già pronti da mettere in tavola, sono cresciuti del 12,3 per cento nel 2018.
Se si guarda però alle movimentazioni degli attori del mercato, ci si accorge che aumenta la consapevolezza che i margini di guadagno nel settore sono destinati a ridursi. Con il consolidamento stanno nascendo alleanze e fusioni. A luglio, la britannica JustEat e l’olandese Takeaway.com hanno annunciato la loro fusione con la nascita di un gruppo globale del valore di circa 9 miliardi di sterline. L’obiettivo è fare concorrenza alla britannica Deliveroo e all’americana Uber Eats. Poco prima, Amazon (la multinazionale dell’e-commerce di Jeff Bezos) ha rinunciato ad Amazon Restaurants, un servizio collegato a Prime per consegnare i piatti direttamente a casa, ma poi ha investito 575 milioni su Deliveroo. Uber Eats, con un giro d’affari di 8 miliardi, ha conquistato il 23 per cento del mercato degli Stati Uniti ed è in rapidissima crescita in Europa. Gli ultimi rumors raccontano di dialoghi esplorativi per una possibile fusione o una acquisizione tra Uber e Deliveroo e la spagnola Glovo.
Tutte alleanze che, però, rischiano di soffocare la ristorazione tradizionale: “Anche se le app di consegna creano nuovi tipi di ristoranti, stanno danneggiando le attività tradizionali, che già affrontano costi operativi elevati e concorrenza brutale” scrive il New York Times in una recente indagine.
I ristoranti che utilizzano app di consegna come Uber Eats pagano commissioni che vanno dal 15 al 30 percento su ogni ordine. Le piattaforme digitali risparmiano sui costi generali, ma i piccoli ristoranti indipendenti con margini di profitto ristretti non possono permettersi tali commissioni oppure possono permettersi solo quelle, rinunciando così al servizio in sala anche a fronte di un conseguente aumento dei profitti della propria concorrenza tradizionale. “Il timore è che si stia formando un sistema in cui i proprietari di ristoranti sono intrappolati in un modello commerciale instabile e inadatto”, ha detto al New York Times Mark Gjonaj, presidente del comitato per le piccole imprese del New York City Council. “Esistiamo perché c’è una domanda – ha risposto una rappresentante di Uber negli Usa – Perché un ristorante dovrebbe lavorare con noi se non li aiutassimo ad aumentare i loro ordini?”.