Tra cucine fantasma e fusioni, l’oligopolio del cibo a domicilio

Travis Kalanick è il miliardario 43enne fondatore ed ex amministratore delegato di Uber, ai cui vertici è rimasto fino al 2017 o meglio fino a che non gli è piovuta addosso l’accusa di aver ignorato le denunce di molestie sessuali nell’azienda. Via dal business del car sharing, Kalanick ha capito presto quale sarebbe stato l’affare successivo e così non ha puntato solo sul mercato in espansione delle consegne di cibo a domicilio – come nel caso di Uber Eats – ma ha previsto quale sarebbe stata la sua evoluzione mentre ancora nessuno la vedeva. Oggi Cloud Kitchens, la sua recente creatura, fa una cosa molto semplice: “Smart kitchens for delivery only restaurants” è il motto. In sostanza, affitta spazi e cucine (un po’ come si affittano le scrivanie in spazi comuni per lo smart working) per chi voglia cucinare solo per le consegne, senza quindi aprire un vero e proprio ristorante.

Li chiamano “ristoranti fantasma” (ghost restaurants) o dark restaurants e sono in aumento. Niente tavoli, niente camerieri, niente servizio: si cucina e si consegna, con un risparmio di spazio, tempo, energie e con una clientela potenziale grande quanto la metropoli in cui si lavora. Tutto questo per contenere i costi. E se non sono fantasma, le cucine sono “virtuali”. Si può ordinare da quella che sulla piattaforma sembra essere una panineria, ma potrebbe accadere che il pasto arrivi da una pizzeria. Succede questo: il ristorante è specializzato in pizze, ha alcuni tavoli dove le serve, ma in cucina prepara anche hamburger che vende tramite le consegne e che non sono sul menu. Basta aprire una qualsiasi applicazione per le consegne a domicilio e verificare per ogni annuncio, di persona o su Google Maps, se il nome dell’esercizio commerciale coincide con quello presente all’indirizzo indicato. Almeno una volta su cinque non è così. È l’inizio della fine della ristorazione tradizionale? Può darsi.

La trasformazione, nel frattempo, è una certezza, l’avvio di un nuovo oligopolio digitale anche. I grandi nomi delle consegne mondiali scalpitano, si alleano, si fondono, si reinventano per non perdere quote di mercato e per assicurarsi un posto al sole. Il settore del food delivery è da tempo in forte crescita, oggi – secondo le stime di decine di ricerche di mercato, tra cui quella di Euromonitor è la più citata – il mercato delle consegne a domicilio vale 84 miliardi di euro. La banca Ubs ha però stimato che nel 2030 il giro d’affari arriverà a 365 miliardi di dollari. Non mancano i focus sull’Italia dove il giro d’affari è di 4,7 miliardi di euro e le consegne dei rider coprono il 7 per cento del mercato della ristorazione, il doppio del 2013. La sola Deliveroo qualche giorno fa ha annunciato di voler investire in Italia altri 25 milioni di euro. Nella realtà, lontana dai numeri, si cucina sempre meno, e i dati Nielsen raccontano che i piatti “food-to-go”, cioè quelli già pronti da mettere in tavola, sono cresciuti del 12,3 per cento nel 2018.

Se si guarda però alle movimentazioni degli attori del mercato, ci si accorge che aumenta la consapevolezza che i margini di guadagno nel settore sono destinati a ridursi. Con il consolidamento stanno nascendo alleanze e fusioni. A luglio, la britannica JustEat e l’olandese Takeaway.com hanno annunciato la loro fusione con la nascita di un gruppo globale del valore di circa 9 miliardi di sterline. L’obiettivo è fare concorrenza alla britannica Deliveroo e all’americana Uber Eats. Poco prima, Amazon (la multinazionale dell’e-commerce di Jeff Bezos) ha rinunciato ad Amazon Restaurants, un servizio collegato a Prime per consegnare i piatti direttamente a casa, ma poi ha investito 575 milioni su Deliveroo. Uber Eats, con un giro d’affari di 8 miliardi, ha conquistato il 23 per cento del mercato degli Stati Uniti ed è in rapidissima crescita in Europa. Gli ultimi rumors raccontano di dialoghi esplorativi per una possibile fusione o una acquisizione tra Uber e Deliveroo e la spagnola Glovo.

Tutte alleanze che, però, rischiano di soffocare la ristorazione tradizionale: “Anche se le app di consegna creano nuovi tipi di ristoranti, stanno danneggiando le attività tradizionali, che già affrontano costi operativi elevati e concorrenza brutale” scrive il New York Times in una recente indagine.

I ristoranti che utilizzano app di consegna come Uber Eats pagano commissioni che vanno dal 15 al 30 percento su ogni ordine. Le piattaforme digitali risparmiano sui costi generali, ma i piccoli ristoranti indipendenti con margini di profitto ristretti non possono permettersi tali commissioni oppure possono permettersi solo quelle, rinunciando così al servizio in sala anche a fronte di un conseguente aumento dei profitti della propria concorrenza tradizionale. “Il timore è che si stia formando un sistema in cui i proprietari di ristoranti sono intrappolati in un modello commerciale instabile e inadatto”, ha detto al New York Times Mark Gjonaj, presidente del comitato per le piccole imprese del New York City Council. “Esistiamo perché c’è una domanda – ha risposto una rappresentante di Uber negli Usa – Perché un ristorante dovrebbe lavorare con noi se non li aiutassimo ad aumentare i loro ordini?”.

“Donne e mafia”, la 9ª Summer School di Nando dalla Chiesa

Che cosa sta succedendo nel rapporto tra donne e mafia, l’universo maschilista per antonomasia? Se è vero che si aprono ormai carriere femminili anche dentro alcune organizzazioni mafiose, è altrettanto vero che il muro dell’omertà e della sudditanza femminile va sgretolandosi. Non solo, nella società italiana va sempre più estendendosi, e diventando maggioritaria, la partecipazione delle donne ai movimenti antimafia. Per questo la nona edizione della Summer School on Organized Crime del Dipartimento di Studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università di Milano, diretta da Nando dalla Chiesa ha promosso dal 9 al 13 di settembre un’importante occasione di aggiornamento e confronto su questo tema. Per cinque giorni sociologi, magistrati, ex detenute, giornalisti, attori, registi, uomini di chiesa, esponenti politici mescoleranno scienza sociale e arte, informazione e giustizia, fede e testimonianze di vita: da Rosy Bindi a Federico Cafiero de Raho, da don Luigi Ciotti a Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, da Alessandra Dolci a Roberto Di Bella, da Concita De Gregorio a Luigi Gaetti, da Alessandra Dino e Gabriella Gribaudi a Piero Grasso e Giuseppe Sala.

Ruote, acquari, porti: la Sicilia del futuro è un annuncio di carta

Sulla carta, la ruota panoramica sarebbe alta 50 metri, avrebbe 14 cabine “a gondola” per spaziare la vista dal mare, da Ustica alla conca d’Oro, e costerebbe 5 milioni di euro investiti da un’azienda russa che, in cambio, chiederebbe di gestirla per dieci anni: al Comune di Palermo il compito di individuare il terreno e garantire l’energia elettrica. Promossa dalla Lega (“dobbiamo verificare le credenziali dell’azienda e trovare il posto dove piazzarla”, dice il consigliere comunale Igor Gelarda), la ruota, già chiamata Palermo Eye sulla scorta dell’impianto londinese, è l’ultimo capitolo del libro dei sogni in computer grafica che, dal capoluogo a Messina, fanno brillare gli occhi dei siciliani.

Sullo Stretto, il sindaco Cateno De Luca fino allo scorso anno considerava superato il Ponte puntando tutto sul Tram volante, un sistema di binari aerei con 13 fermate tra il centro storico di Messina e l’Aeroporto di Reggio Calabria, “per un totale di 30 chilometri collegabili in 15 minuti”, proposto, con tanto di progetti in computer grafica, da un’azienda bielorussa. E se l’entusiasmo si è raffreddato dopo che il Corriere della Sera lo ha bollato come un “progetto truffa”, mai realizzato, il titolo di “città rendering” resta saldamente in pugno al capoluogo siciliano, fin dai tempi del sindaco Cammarata.

Per dimenticare traffico e immondizia, la Palermo del futuro vive d’immaginazione nei disegni a 3D di ponti avveniristici, tunnel spaziali, porti sospesi in mare, treni a levitazione magnetica e acquari giganti. Come quello previsto (e annunciato) nel 2014 dal sindaco Orlando alla Bandita, lungo la costa Sud, 14 milioni di litri divisi in sei vasche: sponsor Confindustria, progetto affidato all’architetto Ettore Piras, “padre” dell’acquario di Genova. Previsti 800 mila turisti e centinaia di posti di lavoro, costo 50 milioni di euro, briciole in confronto ai 5 miliardi necessari, su quello stesso tratto di costa, per il faraonico porto “sospeso in mare” promosso lo scorso anno dall’Eurispes, guidato dall’ex ministro delle Politiche agricole di Berlusconi, Saverio Romano.

Il rendering lo presenta come il più grande hub d’Europa (16 milioni di container l’anno e 416 mila posti di lavoro) con un occhio al turismo: una piattaforma collegata alla costa crea una baia larga 300 metri e lunga tre chilometri destinata agli sport acquatici e in grado di ospitare 200 imbarcazioni da diporto. Peccato che il Comune, che continua a insistere sull’acquario, l’ha bocciata: “È irrealizzabile – ha detto Giusto Catania, assessore con delega al piano regolatore – perché incompatibile con la pianificazione urbana”.

Sembrò compatibile, invece, la funivia che dalla Fiera del Mediterraneo sale verso la cima del Monte Pellegrino: Palermo l’attende da quasi 130 anni, da quando fu progettata nel 1891, poco prima dell’Esposizione nazionale. A riesumare l’idea, vestendola di computer grafica, fu il consigliere comunale di Forza Italia, Angelo Figuccia, nel 2015: “In sei mesi raccoglieremo centomila firme” giurò, finalizzate alla ricerca di finanziatori. Il disegno della funivia finì in una mappa allegata al comunicato del Comune che annunciava lo schema del nuovo piano regolatore, ma a oggi, del progetto e delle firme, si sono perse le tracce.

Restano i rendering presentati anche dalla Regione, come quello del centro direzionale degli uffici, una sorta di brutta copia del Word Trade Center, tre torri (due basse, una più alta) progettate attorno a una piramide uguale a quella del Louvre per un totale di quasi 100 mila metri quadri, pensati per ospitare 4.250 impiegati, supermarket, scuole elementari e medie per i figli, più tre piani sotto terra, un parcheggio per 1.500 auto, bar, ristoranti e banca. Costo oltre 280 milioni di euro, che il governatore Musumeci vuole ricavare da un mutuo pagato con i risparmi sugli affitti, calcolati in circa 28 milioni di euro, e per questo lo ha inserito nel collegato alla Finanziaria presentato nel luglio scorso.

“Il centro direzionale parte male e temiamo che finisca peggio – ha chiosato il deputato Pd Anthony Barbagallo – la maggioranza non riesce a trovare un accordo neppure sull’ubicazione esatta del sito, scomparsa nella versione dell’articolo approvata”.

Chi non ha dubbi, infine, è la deputata grillina Stefania Campo, che ai siciliani propone il tragitto ferroviario Palermo-Ragusa, oggi coperto in 8 ore, in meno di 20 minuti: “Non è fantascienza, ma una tecnologia che parla siciliano ma non è mai stata applicata”, ha scritto in una interrogazione al governo Musumeci, rivelando che il progetto Hyperloop, il tubo-galleria depressurizzato dentro cui corrono fino a 1.200 km/h treni a levitazione magnetica in realtà fu sperimentato nel 1973 in Sicilia, nell’aeroporto militare di Trapani Milo: “Poteva trasportare fino a 20 persone e raggiungere i 400km/h”.

A saperlo prima, Trenitalia avrebbe risparmiato quest’estate la chiusura del tratto Gioiosa Marea-Patti, per lavori di manutenzione dal 10 luglio all’8 settembre, costringendo i viaggiatori a scendere dagli Intercity per proseguire il viaggio con gli autobus.

Note giallorosé su I Mercati, Mario D. e Donald T.

Eniente. Sono tornati. Come chi? Ma gli animisti finanziari, quelli che, dicendosi democratici (e magari #antifa), venerano il dio detto “I Mercati” e guardano l’andare e venire dello spread sui titoli di Stato come un tempo i loro antenati le interiora degli animali: guardano, guardano e alla fine ne traggono auspici per il futuro. Ora, i rendimenti sui Btp calano da fine maggio-inizio giugno: un animista finanziario (non #antifa) avrebbe potuto dire che “I Mercati” era felice per la vittoria di Salvini alle Europee. Siccome, però, gli interessi sui Btp hanno continuato a scendere anche ora (ma “I Mercati” non odia l’incertezza?) si dice invece che quell’imperscrutabile divinità è felice per l’estromissione di Salvini dal governo e l’arrivo dei buoni. E vabbè, se non lo fanno gli animisti ci pensiamo noi a mandare tanti saluti a Mario Draghi, alle sue mezze parole sul prossimo Quantitative easing (ci si vede il 12 settembre), alla discrezionalità con cui la sua Bce, reinvestendo la liquidità di quello vecchio, interviene su “I Mercati” per coprire (oggi) o scoprire (maggio 2018) le operazioni politiche a seconda che siano o meno di suo gradimento. Un saluto anche per “l’anti-sistema” Donald Trump, che benedice “Giuseppi Conte” come un Donald Tusk qualunque e si augura la sua permanenza a Palazzo Chigi coi democratici: l’establishment si è chiuso, viva i giallorosé. Non si sa se è una buona notizia, però una cosa va detta: Mattè, t’hanno rimasto solo…

Sì alla Costituzione (da attuare), no al male minore

Ieri, su queste pagine, è stato pubblicato un bellissimo appello, che abbiamo preso molto sul serio anche perché firmato da alcuni amici – su tutti Tomaso Montanari e Francesco Pallante – che sono stati compagni di strada nella battaglia in difesa della Costituzione dal tentativo di sfregio per mano di Renzi. Il manifesto per il nuovo governo giallo-rosa (non diciamo giallo-rosso, non certo per non disturbare gli amici romanisti, ma perché di rosso al Pd è rimasta al massimo la vergogna) contiene spunti programmatici estremamente condivisibili. I dieci punti sono ispirati all’articolo 3 della Carta che tutela la persona e la sua dignità (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale) e garantisce l’eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di condizioni personali e sociali, razza, lingua religione e sesso (come volle in particolare Teresa Noce) e che al secondo comma impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (grazie a Teresa Mattei che, in accordo con altre costituenti, propose l’inserimento della locuzione ‘di fatto’).

Già solo il primo punto ci fa battere il cuore: “Legge elettorale proporzionale pura, perché è l’unica che faccia scattare tutte le garanzie previste dalla Costituzione”. Sottoscritto con dodici sottolineature (specie in caso di taglio dei parlamentari). Difesa dell’ambiente, dei beni pubblici, a partire dall’acqua e dalla città: “Unica Grande Opera la messa in sicurezza di territorio e patrimonio culturale”. Garantire l’autonomia della magistratura: mai come oggi è un imperativo, viste le minacce ripetute della vecchia (Berlusconi) e nuova (Salvini) destra; ricostruire la progressività fiscale; superare la precarietà, adottare il salario minimo e ripristinare l’articolo 18; rifinanziare il Fondo sanitario; abolire il reato di immigrazione clandestina, con abrogazione dei decreti Sicurezza; restituire scuola e università alla missione costituzionale. E poi ancora: centralità della donna come metro di un’intera politica di governo e lotta alla povertà.

Onestamente: è, sarebbe, un ottimo programma, e forse purtroppo anche un libro dei sogni (ci si domanda perché il Pd che con tanta fatica ha abolito l’articolo 18, dopo i vari tentativi di governi sulla carta più di destra, dovrebbe ora ripristinarlo). Sottolineando i limiti (contarli sarebbe stato troppo lungo) di M5S e Pd, l’appello spiega: “Non possiamo dire che c’è un pericolo fascista, e subito dopo annegare in quelle incomprensibili miserie di partito che hanno così tanto contribuito al discredito della politica e alla diffusa voglia del ritorno di un capo con pieni poteri”. Dunque il male minore. Ma il male minore è un concetto molto sfuggente e parecchio relativo. Una volta il babau era Berlusconi, adesso è Salvini. La falla nel ragionamento – estremamente regressivo – è che, avallando il tanto meglio tanto peggio, i partiti continueranno ad avere (la parabola del Pd è esemplare) la scusa per non essere migliori. Perché ogni male è il minore di un altro che ci si prefigura peggiore: e si può continuare all’infinito, non toccando mai davvero il fondo. Le urne sono uno spauracchio per molti: nemmeno noi vogliamo un ritorno delle destre (né vecchie né nuove, né liberali né d’ordine). Però il voto è una soluzione di cui una democrazia non può mai – mai – avere paura.

Le capriole dei giornali di destra

La formazione del governo 5 Stelle-Pd, che mi si consenta, pardon mi si permetta, io avevo previsto (“Il Pd ammetta l’errore: vada al governo col M5S”, Il Fatto, 9.8.19) prima ancora che Matteo Salvini desse la spallata decisiva, con un autentico autodafé, al proprio esecutivo in cui svolazzava libero e felice da mane a sera, ha fatto letteralmente impazzire i giornali che sarebbe offensivo per la destra, che è o almeno è stata una cosa seria, definire di destra.

Lasciamo perdere l’aggettivazione normalmente sobria di questi giornali (“L’orrendo governo giallorosso”, La Verità; “Un esecutivo di stolti”, Feltri, Libero; “Non c’è pace fra i cretinetti”, sempre Feltri) e concentriamoci solo su alcune delle acrobatiche capriole, da veri saltimbanchi, cui sono stati costretti. Scrive Feltri che il nuovo esecutivo “bacerà le pantofole ai fessi dell’Europa”. Ma come, i 5Stelle non erano stati accusati di antieuropeismo e di voler addirittura uscire dall’euro, tanto che Paolo Savona, indicato da Luigi Di Maio come ministro dell’Economia, fu costretto a rimettere il mandato?

“Nasce il governo più impopolare della storia”, Franco Bechis sul Tempo. Ma come, l’attuale presidente designato, succeduto a se stesso, non era nei sondaggi il più popolare dei politici italiani, più dello stesso popolarissimo Salvini?

“Il governo più a sinistra della storia della Repubblica”, scrive Sallusti aggiungendo con accezione negativa che “non il popolo ma il Parlamento è sovrano”. Ma come, in queste settimane non hanno insistito tutti, ma proprio tutti, sulla “centralità” del Parlamento? Che poi in linea generale questa affermazione sia vera e cioè che nelle democrazie parlamentari il popolo non conti nulla (io l’ho scritto in Sudditi. Manifesto contro la Democrazia) vale però per questo governo come per quello precedente come per tutti i governi che si sono succeduti dalla nascita della Repubblica. È troppo comodo, troppo facile, accorgersene quando si viene sconfitti e prendere il sistema per buono quando si è vincenti. “Perdenti al governo”, Il Giornale. Per la verità i “perdenti al governo” erano quelli di prima, perché ci era andata la Lega che aveva il 17 per cento contro il 18,7 del Pd. Ora al governo ci sono i due partiti usciti vincenti dalle ultime elezioni, i 5Stelle con il 32,7 per cento e il Pd appunto con il 18,7 per cento. Che cosa c’è di strano, che cosa c’è di scandaloso, sempre ragionando in termini democratici, se i due primi partiti si mettono insieme per governare? In Germania si sono fatte grosse koalition tra l’Spd socialista e il partito centrista di Angela Merkel senza che nessuno ululasse all’“inciucio”.

Matteo Salvini, come già prima Renzi, si è fatto ubriacare dalla vittoria nelle elezioni europee, ma purtroppo per lui, per i suoi seguaci, per i suoi sgomenti sostenitori mediatici, in Italia, allo stato, valgono le elezioni politiche italiane.

L’“orrendo governo”, mi spiace per i “perdenti”, durerà sino alla conclusione della legislatura. Sarebbe davvero pazzesco che 5Stelle e Pd ripetessero la disastrosa mossa di Salvini sfasciando il nuovo governo in qualche momento del suo percorso perché ciò significherebbe la loro fine politica, come ha segnato quella, almeno per il momento, di Salvini. Errare è umano, perseverare è diabolico.

Un complottista piccolo piccolo

Ricordate Alberto Sordi in Un borghese piccolo piccolo, quando supera la “prova della morte” per iscriversi alla Massoneria bevendo l’amaro Montenegro? Ecco, l’altra sera Salvini, in conferenza stampa dal Senato (si vede che hanno chiuso gli stabilimenti balneari), pareva proprio il modesto impiegato della fu gloriosa commedia all’italiana che incarna (e cagiona) il trapasso nel dramma nazionale, il piccolo uomo che si infila in qualcosa di molto più grande di lui senza poter tornare indietro e rivelandosi poi con qualche caratterizzante dettaglio ridicolo.

È difficile resistere al fascino del dettaglio da peracottaro dentro una dichiarazione alla nazione annunciata in pompa magna e poi rivelatasi un guazzabuglio di frasi sconnesse, passivo-aggressività, sindrome del complotto e pure del bunker (sempre, però, in chiave inconsapevolmente parodistica: una specie di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini interpretato da Renato Pozzetto). Cercate il video sulla sua pagina Facebook, tra le cubiste che sculettano sull’inno di Mameli, le foto della bambina che gli è figlia sovraesposta senza cautela, cocomeri, tunisini scippatori, nigeriani spacciatori, tramonti sul cupolone e frasette romantiche: difficile dimenticare che l’uomo che esordisce in diretta rivendicando “Dignità, onore, coerenza” è lo stesso che due giorni prima di sbroccare, con l’annuncio della sfiducia a Conte, aveva incassato la fiducia sul suo decreto cosiddetto Sicurezza bis (quanto alla dignità, considerando che l’ultima conferenza stampa è stata fatta in bermuda dall’area aperitivi del Papeete Beach, si sono fatti passi da gigante).

È difficile, si diceva, sottrarsi all’ipnosi delle singole frasi, anche perché, deo gratias, dopo appena 20 giorni, mentre poco lontano si sta formando un nuovo governo, si apprendono per la prima volta i famosi “no” con cui il M5S avrebbe esasperato Salvini tanto da indurlo a rompere, e sarebbero i no su “giustizia, autonomia” e un generico “riforme”. Difficile non scrivere una satira (Giovenale: “Difficile est satira non scribere”) sui due capigruppo, di Camera e Senato, ritti ai suoi lati come due chierichetti, che fanno sì con la testa come a dare ad intendere che Salvini la sa lunga, che c’è tutta una strategia sua che sta seguendo, tutta una sua missione di salvatore della Patria insidiata da africani, sostituzione etnica, Renzi, Boschi, banche… bah.

“È un classico ribaltone all’italiana”, dice l’arcitaliano che ha ribaltato tutto; “non stiamo facendo appelli alle piazze”, aggiunge lodevolmente, non fosse che otto giorni fa aveva detto: “Tenete il telefono acceso. Perché se ci sarà da scendere in piazza per salvare l’Italia, la libertà e la democrazia ci saremo”. “È un tradimento della volontà popolare”, insiste, ben diversa da quella che ha assegnato a lui il 17% degli unici volti validi in democrazia per comporre i Parlamenti e dunque i governi, a meno che Salvini non consideri validi i like e i cuoricini sui social, mai così numerosi come a luglio.

“Abbiamo smascherato un giochino che qualcuno covava da tempo”, e qui siamo in presenza di un’inversione spazio-temporale, visto che semmai il giochino tra M5S e Pd è posteriore alla sua mattana, dunque è un buco nero logico o hysteron proteron, tipo il “Moriamo e lanciamoci in mezzo alle armi” dell’Eneide. Chi ha fregato chi, in questa storia? Che Renzi stia “cercando di rientrare dalla finestra”, ha ragione Salvini, è fin troppo evidente (del resto quello Renzi fa, da tre anni a questa parte). Ma mentre Salvini “governava” dalla sagra del lampredotto, Renzi era in giro a fare conferenze (pare pagate: incredibile quanto masochismo vi sia al mondo), e adesso, più che fare un governo (da cui si tiene fuori), pare volerlo capitalizzare, per avere il tempo di costruirsi la sua creaturina e perdere in proprio e non più in franchising.

Ma allargando lo zoom sul messaggio alla Nazione, pieno di “onore” e altri paroloni di scimmiottata fascità, pare evidente come Salvini sia stato toccato dal demone spietato che ha bruciato tutti i perdenti. Uno che dopo aver infranto tutto il frangibile, giocando con le Istituzioni come a Candy Crush, tenta prima una riunione con il fantasma di Berlusconi per rifare il centrodestra (tradotto: annettersi un 6% di voti), poi torna da Di Maio mendicando una riedizione del governo appena abbattuto, poi grida al complotto (precedente, dunque ontologicamente impossibile) di una conventio ad excludendum successiva, è ormai un eroe caduto dal suo piedistallo (che per lui è la consolle da dj, vabbè).

Si ravvisarono del resto segni del declino durante la sfiducia in Senato, quando concluse berlusconianamente (ma anche renzianamente), “Amor vincit omnia”, traducendolo “l’amore vince sempre”, e non “tutto”; nel quale tutto, ricorda Virgilio, è ricompresa la cupidigia, la sete di potere, l’ambizione e non solo il senno.

Mail box

 

Cambiare la legge elettorale per poter scegliere i candidati

Nel Paese di Pirandello, è accaduto quello che prima o poi doveva capitare. Abbiamo un Parlamento di “nominati” dai segretari dei partiti e non eletti dal popolo. Infatti l’art. 56 della Costituzione Italiana recita: “La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto”. Ora, diretto, in italiano, significa “senza mediazioni”, cioè è il cittadino che deve scegliere il nome del parlamentare (e non il partito) che vuole mandare alle Camere. Invece, dalla prima (sciagurata) legge “Mattarella” in poi, quella che faceva eleggere il 25% dei parlamentari con le famose liste bloccate, si è dato un colpo alla democrazia senza ritorno, che nel tempo ci ha portato ad avere il Sig. Renzi, che, nominatosi i suoi parlamentari, essi ora rispondono a lui, e non ai cittadini, ininfluenti “votanti”.

Il risultato patologico e plastico di tutto ciò è che ci ritroviamo un segretario del Pd che non controlla i “suoi” eletti, in quanto nominati da Renzi, e che siamo nell’assurda situazione di non poter essere a favore dello scioglimento delle Camere, in quanto il male peggiore sarebbe Salvini & C. Permettendo al senatore di Rignano di “ricattare” il suo partito e tutti i cittadini.

Se alla Corte costituzionale, a suo tempo, ci fossero stati “uomini” meno distratti e più lungimiranti, avrebbero già tacciato e cassato d’incostituzionalità una norma che era sfregio del voto dei cittadini.

Prima ancora di qualsiasi altra norma, si deve fare la legge elettorale in senso proprio. Dare il potere ai cittadini di scegliersi la persona che ritengono meritevole della loro fiducia, e solo a loro deve rendere conto, e non al feudatario di turno.

Massimo Piccolo

 

Cari amici del Pd, ora dovrete tapparvi il naso?

Il particolare momento politico ritengo meriti da parte degli organi di stampa equidistanza e obiettività, anche accettando e dando spazio alle “voci contro”. Questo è stato il mio messaggio ad alcuni amici e conoscenti: “Al ‘focolaio’ degli elettori del Pd (già Pci) situato a Milano centro, solo per manifestarVi la mia comprensione per i sentimenti di scoramento e disperazione che vi attanagliano. Dopo che per mesi avete lanciato strali al M5S tacciandoli di populismo, sovranismo, incompetenza, malafede etc, si palesa un possibile governo M5S-Pd.

Mi rendo conto come possa essere difficile, senza preavviso, per voi spiegare non solo la situazione, ma anche e soprattutto a chi darete il vostro voto nella prossima tornata elettorale.

Vedrete che un “Renzi o Toti qualsiasi” fonderà un nuovo partito “progressista”. Io resto convinto che un governo il cui unico vero e dichiarato collante sia la “paura di perdere il seggio” sia una iattura per la democrazia e combustibile per una “guerra tra bande” se e quando si andrà a votare.

Paolo Troiano

 

Ma Obama come fa adesso a essere tanto ricco?

È notizia recente che Barak Obama intende comprarsi una supervilla da 15 milioni di dollari a Marta’s Vineyard, l’isola americana dei Vip. Ora poiché mi risulta che il presidente della repubblica in America guadagna 200.000 dollari l’anno e Obama ha vinto il premio Nobel (anticipato) per la pace che frutta circa un milione di euro, il tutto per 8 anni di presidenza, fa un totale di all’incirca 2 milioni e mezzo di dollari, e anche ammettendo che per 8 anni abbia vissuto gratis alla Casa Bianca, e che dopo le dimissioni abbia fatto qualche conferenza, pagata in genere 100.000 dollari l’una, dovrebbe averne fatte almeno 130 solo per arrivare a quella cifra, però con tasse e spese di mantenimento della famiglia escluse. Poiché non risulta fosse milionario come Trump prima della elezione, come fa ad avere oggi così tanti soldi?

Enrico Costantini

 

Io, Berlusconi e l’operazione verità su “L’Avanti!”

La prudenza dell’azionista Vivendi – titolare di una consistente quota di azioni Mediaset – non è affatto peregrina. L’azionista francese, oggetto di un esposto presentato alla Consob dalla stessa azienda radiotelevisiva, non è interessato a screditare l’operazione di fusione transnazionale che sarà celebrata il 4 settembre prossimo, bensì a far chiarezza sul diritto reale di Silvio Berlusconi alle concessioni che gli resero possibile la nascita del suo impero delle comunicazioni. Se è vero – come è vero – che dal 1998 egli è stato editore e proprietario di fatto del quotidiano L’Avanti! il suo diritto è nella sostanza inficiato dalla legge. Ho fatto presenti, a più riprese, gli elementi che mi inducono a questa considerazione che rivendico con forza. È una sorta di “operazione verità”, che condurrò innanzi ai magistrati che vorranno ascoltarmi e che ho provveduto ad illustrare ai vertici della stessa Vivendi con una articolata e documentata memoria. Nella mia personale indagine sui fatti, ho raccolto testimonianze che a me sembrano ineccepibili, e chissà che questa determinazione non mi renda giustizia anche rispetto al giudizio della pubblica opinione.

Le aggressioni personali ricevute da Silvio Berlusconi non mi vedono, certo, assetato di vendetta, ma sicuramente determinato a combattere una battaglia che vada nella stessa direzione delle norme sul conflitto di interessi che il Parlamento tarda ad approvare.

Sergio De Gregorio

L’Inter non è più pazza. Archiviato pure l’inno. Basta emozioni, ci vuole disciplina

Ammetto perché ne sono convinto: l’inno dell’Inter non era e non è uno dei migliori al mondo. Con un enorme però: era entrato nelle nostre vite, nelle nostre teste e nei nostri cuori. Eppure ora non va bene, archiviato, neanche spedito in pensione. Proprio addio. Perché? Non sono un nostalgico a prescindere, ma questo desiderio di archiviare ogni sentimento lo considero assolutamente dannoso, e anti-calcio: il pallone è in parte basato su sentimenti e dogma, mentre qui vogliono portare la razionalità che, per carità, in alcuni contesti va pure bene. Non sempre.
Luca D’Antonio

 

La citazione non è delle più eleganti e ce ne scusiamo, ma il commento che ci sorge spontaneo, a proposito della soppressione dell’inno “Pazza Inter” decisa dal club e messa in pratica lunedì sera in occasione di Inter-Lecce 4-0, è quello che Paolo Villaggio rese celebre ne “Il secondo tragico Fantozzi” quando, chiamato a giudicare il film “La corazzata Potemkin”, il rag. Fantozzi la definì per l’appunto “una cagata pazzesca” ricevendone in cambio una standing ovation impreziosita da 92 minuti di applausi e da un diretto al volto del sadico professore Guidobaldo Maria Riccardelli, responsabile della sevizia, spedito al tappeto. “Pazza Inter”, copyright Rosita Celentano, era (è) un bellissimo inno di calcio: fresco, allegro, coinvolgente, lontano dalle trite retoriche di peana consimili, un inno in cui il concetto di vittoria è appena accennato perché, appunto, l’Inter si ama a prescindere, per come Dio l’ha fatta, per le emozioni che da sempre regala, nel bene come nel male. “Amala! Pazza Inter amala! È una gioia infinita, che dura una vita, pazza Inter amala! Vivila! Questa storia vivila. Può durare una vita o una sola partita, pazza Inter amala!”.

L’inno più bello, orecchiabile ed educativo del calcio, l’inno che dal 2003 accompagna le partite dell’Inter e che ha scandito i giorni del trionfale e indimenticabile triplete 2010, è stato silenziato. Motivo: ad Antonio Conte, cresciuto alla scuola juventina dove il motto è “Vincere è la sola cosa che conta”, non piace. A lui non interessa una squadra pazza, interessa una squadra vincente. L’aveva detto in conferenza stampa, il giorno della presentazione, ed era sembrato un sinistro presagio. Invece era qualcosa di più. Era un cambio di dna, la nascita dell’Jnter. Se permettete, una cagata pazzesca.
Paolo Ziliani

Amazzonia, Bolsonaro rifiuta i fondi: crisi con Parigi

Per Le Monde “è la peggiore crisi diplomatica tra Francia e Brasile dal ritorno della democrazia a Brasilia alla fine degli anni 80”. Ieri l’ultimo episodio. Jair Bolsonaro (nella foto) ha prima rifiutato i 20 milioni di dollari di aiuti promessi dal G7 per far fronte agli incendi che devastano la foresta amazzonica. Poi ci ha ripensato e posto una condizione: “Prima di accettare qualcosa dalla Francia, Emmanuel Macron deve ritirare gli insulti”. Il presidente brasiliano si riferisce al fatto che il collega francese lo ha accusato di aver “mentito” sugli impegni presi in materia ambientale. L’attacco è stato duro: “Macron è già molto occupato a casa e nelle sue colonie”, ha scritto Onyx Lorenzoni, capo di gabinetto di Bolsonaro. Poi il riferimento a Notre-Dame: “Non riesce nemmeno a evitare un incendio prevedibile in una chiesa, che lezione vuole darci?”. Invece è dal Brasile che, con l’hashtag DesculpaBrigitte, arrivano alla Francia centinaia di messaggi di sostegno a Brigitte Macron, che era stata insultata da Bolsonaro in un twitt sessista. Lo scrittore Paolo Coelho ha a sua volta postato un video messaggio in cui chiede scusa agli “amici francesi” per “l’isteria di Bolsonaro”. Stando ai sondaggi, il 53% dei brasiliani respinge la politica del loro presidente. Al quale invece Donald Trump ha dato il suo sostegno: “Sta facendo tanto contro gli incendi”, ha scritto il presidente Usa su Twitter.