Tank allo stadio, sfregio alla Croazia

Ifantasmi di quella guerra che infiammò i Balcani nel 1991, per spegnere le sue braci solo vent’anni dopo, sono tornati, sono di ferro e sono color verde militare. C’è di nuovo un carro armato per le strade di Belgrado. Biondi e sorridenti, i bambini serbi si divertono a salire sul blindato mentre l’obiettivo dei genitori scatta. Selfie dopo selfie, il T-55, posizionato giovedì notte davanti allo stadio Rajko Mitic, -noto ai più come Marakana -, è anche ovunque sulle pagine del web slavo.

Oggi ci sarà il fischio d’inizio della partita di Champions League contro gli svizzeri della Young Boys, ma per la Stella Rossa Belgrado c’è anche un’altra battaglia da vincere: mantenere il T-55 a ridosso degli spalti, come vogliono i Delije, tifoserie serbe unite sotto il nome di “coraggiosi”. La Croazia è arrabbiata. Quel blindato di produzione sovietica può essere uno dei migliaia che piallò le macerie della “Stalingrado croata”, Vukovar, la città che rimase sotto fuoco nemico per 87 giorni in nome dell’indipendenza per cui combatteva Zagabria. Le truppe della JNA, Armata popolare jugoslava, che rispondeva agli ordini di Belgrado, marciarono poi in un panorama gruviera di edifici crivellati. Dopo la distruzione, la pulizia etnica. È questo che ricorda oggi la Croazia sdegnata con i suoi titoli di giornale pieni di punti esclamativi osservando quel T-55 allo stadio.

Le Stelle rosse di Belgrado non brillano in cielo, vogliono spesso bruciare in terra tra lacrimogeni e bombe carta. Perché nei Balcani rosso sangue non è mai solo calcio. Su quel punto della mappa d’Europa dove lo sport ha sempre fatto eco al conflitto, risuonano i tamburi della battaglia delle tifoserie più violente d’Europa. Lungo le linee del campo da gioco i confini tra Belgrado e Zagabria già tremavano nel 1990, quando a causa dei disordini dei tifosi, la partita tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa serba non si giocò mai. Non per gli storici, ma per molti sopravvissuti, quella guerra in campo, iniziata quando Zvonimir Boban scalciò il petto di un agente di polizia invece della palla di cuoio, rimane un preludio del conflitto che avrebbe devastato lo Stato di Tito. Quelli erano gli anni delle bombe, questi son quelli senza comunque pace. Forse è un monumento della storia serba, forse è un oltraggio alla memoria dei morti. Di certo la questione è ormai molto oltre le linee bianche del campo verde e rotola come un pallone da una Capitale all’altra.

Quel T-55 è “patrimonio culturale del Paese” secondo il tabloid belgradese Blic, per il quotidiano Vecerny list di Zagabria è invece una “provocazione”. Non un’allusione al conflitto, né un vessillo. “Il Marakana ha un’altra attrazione” ha chiosato il club sportivo. Ha fischiato la fine della disputa il ministro dell’Interno serbo Nebojsa Stefanovic: “Il carro armato non contiene esplosivo, non ha nemmeno il motore”.

Quindi quel carro è solo il simbolo di un carro, non un’arma, la Yugoslavia non esiste più, la guerra è finita e tutto il resto è sport. Forse.

La sirena bionda e lo chef. “Per me contano i soldi”

Si presenta come “la pollastrella più sexy sulla strada” (the hottest street chic) e si vanta, non senza sarcasmo, d’avere studiato all’“Università della Vita” e d’avere frequentato la “Scuola dei pugni pesanti”. Angela Barini, 41 anni, è una prostituta di New York, arrestata per reati connessi alla morte dello chef italiano Andrea Zamperoni, 33 anni, che lavorava per Cipriani Dolci; con lei sono stati fermati due uomini, la cui identità non è stata rivelata.

Barini, che sui social è ‘Angelina Berlin’, è ora rinchiusa nel Metropolitan Detention Center di Brooklyn. La foto del suo profilo Facebook è da copertina di rivista per soli uomini. Il motto è una frase difficilmente traducibile, un inno al denaro: $$$ money talks bullsh*t walks $$$ (Solo il denaro conta, il resto sono cazzate). La sua pagina è molto povera d’informazioni personali e non risulta essere stata aggiornata da marzo.

Il giudice federale che segue l’indagine ha disposto che Barini resti in carcere senza la possibilità di rilascio su cauzione. La donna non è accusata di omicidio, ma di cospirazione per distribuzione e possesso per spaccio di una o più sostanze contenenti fentanyl, un potente analgesico oppioide sintetico. La prostituta, la cui nazionalità d’origine non è stata ancora accertata, ma che ‘batte’ nel Queens, uno dei cinque boroughs di New York, è comparsa in tribunale vestita con tuta e scarpe da ginnastica e non s’è dichiarata né colpevole né innocente. L’avvocato assegnatole d’ufficio, Mildred Whalen, non commenta la posizione della sua assistita che, secondo la stampa di New York, ha detto alla polizia d’essere una “lavoratrice sessuale” e ha ammesso d’avere dato a Zamperoni dell’ecstasy liquida dopo che lui l’aveva pagata per fare sesso. Risulta che Barini sia stata arrestata 25 volte per possesso di oggetti rubati, droghe e prostituzione. L’arresto più recente risale al 19 dicembre quando fu fermata per taccheggio. Gli investigatori stanno cercando il suo protettore, che le avrebbe impedito di chiamare aiuto dopo che lo chef era svenuto e aveva cominciato a sanguinare dalla bocca e dal naso senza riprendere conoscenza, e altre persone che occasionalmente derubavano i suoi clienti dopo che erano stati drogati. Zamperoni venne trovato morto in un ostello del Queens, vittima di una overdose letale. Barini ha raccontato che era stata pure discussa l’ipotesi di farne a pezzi il cadavere, rinvenuto il 21 agosto, tre giorni dopo il decesso avvolto in un lenzuolo e gettato dentro una pattumiera: la donna, completamente nuda, era ancora nella stanza, dove sono stati trovati anche un liquido rosa, tubicini di vetro, bottiglie di candeggina, una sega elettrica e una valigia vuota. Zampironi, capo chef di Cipriani Dolci a New York, il ristorante della Grand Central, era scomparso dal 17 agosto: l’allarme era scattato perché il cuoco, originario di Casal Pusterlengo, nel Lodigiano, non aveva telefonato, come faceva ogni settimana, a sua madre e non si era presentato al lavoro, dov’era sempre puntuale. Secondo i medici legali, che non hanno riscontrato sul corpo segni di violenza, il decesso risalirebbe al 18 agosto.

Barini avrebbe fornito overdose letali pure ad altri due uomini, durante appuntamenti in hotel d’infima categoria a New York: cocktail di droga e/o narcotici, compreso il fentanyl. Nonostante due decessi in una settimana, la donna, il suo protettore e la sua gang continuavano a drogare clienti e a derubarli quando non potevano più reagire. La prima morte risale al 4 luglio all’hotel East Elmhurst’s Airway Inn al La Guardia, nel Queens; la seconda è dell’11 luglio, in un altro hotel, il Crown Inn Motel a Woodside, sempre nel Queens. In entrambi i casi la prostituta è stata filmata dalle telecamere di sicurezza mentre entrava e usciva dalle stanze dei decessi. Zamperoni era al primo piano del Kamway Lodge, un ostello nel Queens a pochi isolati da casa sua. Dall’inizio dell’anno la polizia ci era andata ben 25 volte.

Spose, termine “vergine” via dai moduli delle nozze

Le donne, al momento di registrare il proprio matrimonio, non saranno più costrette a dichiarare la verginità (kumari). La svolta arriva grazie a una sentenza della Corte suprema: è stato stabilito che la parola “vergine” nei moduli sarà sostituita con la dicitura “non sposata”. Le altre due opzioni nel modulo – “vedova” e “divorziata” – rimarranno invariate. Kumari è usata per descrivere le donne non sposate, ma può anche significare “vergine”. Gli avvocati dei gruppi per i diritti delle donne, che hanno presentato il caso nel 2014, hanno sostenuto con successo che i moduli per il matrimonio fossero umilianti e che violassero la privacy delle donne. Domenica scorsa il tribunale ha detto che d’ora in poi dovrà essere usata la parola bengali obibahita: donna non sposata.

Le modifiche dovrebbero entrare in vigore tra pochi mesi, quando il verdetto della Corte verrà pubblicato ufficialmente. I gruppi per i diritti delle donne hanno accolto con favore il verdetto della Corte, che separatamente ha dichiarato che anche gli uomini d’ora in poi dovranno dichiarare il loro stato civile. Le leggi sul matrimonio del Bangladesh, a maggioranza musulmana, sono da tempo oggetto di critiche da parte dei gruppi per i diritti delle donne, che le giudicano restrittive e discriminatorie. Molte ragazze nel paese sono costrette a matrimoni combinati anche da bambine.

“Non solo narcos, i giornalisti li ammazza anche il governo”

“Quando uno guarda il profilo dei giornalisti assassinati in Messico, si rende conto che la maggior parte ha ricevuto prima minacce da parte di qualche autorità”. Anabel Hernández i rischi di raccontare la verità li ha corsi tutti.

Dodici giornalisti uccisi da gennaio. Il governo è cambiato, ma i casi aumentano.

A partire dal governo di Felipe Calderón, le cose sono andate peggiorando. Questi primi mesi del governo Andrés Manuel López Obrador ci dicono che stiamo superando la media di un giornalista ucciso al mese: un record. La situazione peggiora perché non esiste una politica da parte del governo di protezione dei giornalisti. Continua a fare i governi precedenti. I cronisti in Messico guadagnano salari miserabili e, quando una giornalista come me, chiede di accendere una copertura assicurativa, non le viene consentito, perché è molto probabile che la uccidano.

Quali sono i temi che rendono i giornalisti più esposti?

I governi accusano i cartelli della droga, ma la maggior parte dei giornalisti uccisi ha ricevuto prima minacce da parte di qualche autorità. Il tema più sensibile in Messico è la corruzione. Che si tratti di un piccolo municipio o dello Stato, è lì che la vita del giornalista diventa un bersaglio sensibile. E nel 99% dei casi gli assassini resteranno impuniti.

Quando le sono arrivate le prime minacce?

Io ho iniziato a fare questo mestiere a 22 anni, nel giornale Reforma a Ciudad de Mexico nel 1993. La situazione era già complicata allora. Mi occupavo di commercio di droga su piccola scala e lì arrivarono le prime minacce telefoniche. Poi sono arrivate quelle da parte del governo di Felipe Calderón e di Enrique Peña Nieto. Volevo dare voce alle persone e fare un giornalismo investigativo diverso. All’inizio mi sono occupata soprattutto di politica. Dopo che nel 2000 mio padre, che era un imprenditore, fu sequestrato e assassinato, la corruzione e il crimine organizzato sono diventati il centro delle mie inchieste. Il rischio che mi uccidessero mi è stato chiaro dal 2008 in poi, quando iniziai a indagare su un gruppo di poliziotti federali corrotti che lavoravano per Genaro García Luna, l’ex-segretario di sicurezza pubblica. Fu allora che Luna decise di farmi assassinare. La conferma è arrivata anche dagli Stati Uniti.

Il boss El Chapo, ora detenuto negli Usa, l’ha mai minacciata?

Non ho mai ricevuto minacce dai cartelli della droga. Sono state le autorità quelle che hanno provato ad assassinarmi. A dicembre del 2013 undici persone armate sono entrate a casa mia per uccidermi, ma io non c’ero. Nel 2014 ho ricevuto un contratto dall’università di Berkeley per fare delle inchieste. Sono rimasta lì due anni. Nel 2016 sono tornata. Ma ho ricevuto nuovamente attacchi diretti dopo la pubblicazione del libro La verdadera noche de Iguala. L’anno successivo sono andata via. Torno solo per le mie inchieste sotto scorta.

In questi giorni in Messico c’è stato l’incontro con il Comitato per la protezione dei giornalisti. Com’è andata?

È stato un evento importante ma al presidente Obrador la sicurezza dei giornalisti non interessa, come non interessava ai suoi predecessori. Non è diverso dagli altri da questo punto di vista. Era stato invitato, ma non ha mai risposto. Ha dato persino più potere all’esercito.

Negli ultimi giorni sono scese in piazza migliaia di donne contro la violenza di genere.

Dai primi anni ’90 la situazione in Messico è gravissima. I femminicidi sono aumentati soprattutto dal 2015. Il caso più emblematico di abusi da parte della polizia è quello di San Salvador Atenco del 2006, quando Felipe Pena Nieto era governatore dello Stato del Messico. Per porre fine a una manifestazione, i poliziotti abusarono delle donne. Sono rimasti tutti impuniti.

Rosso, Rosa, rosato e Mazinga

Il governo tra Pd e M5S non è ancora nato ma ha già scatenato l’estro e le fantasie, talvolta perverse, dei giornalisti politici. Come lo chiamiamo questo incrocio contronatura (almeno fino a ieri) tra grillini e democratici? La questione è soprattutto cromatica. C’è chi va dritto, facile facile: governo “rossogiallo” o “giallorosso” (a seconda della familiarità con la fede giallorossa), con o senza trattino. Poi c’è chi osserva con comprensibile perplessità gli attori in campo e non se la sente proprio di inserire lo storico colore della sinistra nel (probabile) Conte bis. E allora attenua il rosso, lo sfuma: il governo è “giallorosa” o “giallorosè”, come quel vino che andava di moda soprattutto negli anni 80. I più arditi, o ironici, si spingono fino a “gialloRosato” o “giallorosatellum”, in onore a quel deputato iper-renziano, ideatore del sistema elettorale attualmente in uso, che tra poco governerà insieme a quelli che lo insultavano per aver messo la firma sulla “nuova legge truffa”. E poi c’è chi punta sui due protagonisti della trattativa: se prima avevamo un Salvimaio, ora abbiamo uno Zingamaio. Il suono vagamente cacofonico, ma almeno la radice (Zinga) dà fastidio a Salvini. Altri ancora, infine, usano il più virile MaZinga, come il mega-robot che salvava il mondo in un vecchio cartone giapponese. La situazione, come si vede, è complessa.

Vengo anch’io! Adesso LeU, +Europa e Casini aspirano a una poltrona

“Alle condizioni attuali il nostro sostegno non è scontato”. Benedetto Della Vedova di +Europa è infastidito, per non dire livido. Perché nonostante il pressing sui due big Pd e M5S per essere parte della trattativa per la formazione del governo, il suo telefono e pure quello di Emma Bonino è rimasto muto. “La trattativa è partita a due ed è rimasta tale. A questo punto, quando ci diranno quali sono gli obiettivi del governo giallorosso vedremo che fare”. Ma di un eventuale ingresso nella rosa di governo o di sottogoverno è prematuro parlare. “Nessuno ce lo ha chiesto e quindi un tema che, a oggi non si pone”.

E LeU? Il telefono del capogruppo alla Camera Federico Fornaro è rovente da giorni. “Non siamo rimasti a mangiare pop corn: lavoriamo per smussare gli angoli tra Pd e 5 Stelle, ma non abbiamo parlato di poltrone per noi. Si tratta di un contributo per evitare che la trattativa fallisca”. Per il futuro (prossimo) si vedrà. Perché starà poi al premier far da conto e decidere di ministri e sottosegretari.

È un fatto che specie al Senato i voti di LeU servono come il pane. Ed è per merito loro che grillini e dem hanno iniziato a parlarsi sul serio dopo l’innesco della crisi da parte di Salvini: per dire, il giorno in cui a Palazzo Madama è passata la linea di portare in aula le comunicazioni di Giuseppe Conte anzichè la mozione di sfiducia al premier da parte del Carroccio, l’andirivieni negli uffici di Loredana De Petris dei capigruppo Andrea Marcucci e Stefano Patuanelli è stato continuo e alla fine decisivo.

La De Petris non lo fa pesare ma non la tocca piano: “Noi siamo persone serie e prima di andare al Colle avremmo voluto essere coinvolti ai tavoli di confronto di questa settimana sui programmi. E invece Pd e 5Stelle hanno dato l’impressione di parlare solo di poltrone”. Una di quelle più importanti, peraltro, potrebbe addirittura toccare a Piero Grasso. “Al momento siamo alle chiacchiere: Grasso Guardasigilli e Fassina all’Economia sono nomi a nostra insaputa”. Ma sarebbe un colpaccio.

Da Otranto dove è in vacanza, Pier Ferdinando Casini non si dà pena. “Dopo 35 anni di Parlamento ho esaurito ogni ansia da prestazione: non cerco interlocutori per entrare al governo. Insomma non sgomito e non telefono”. Ma non è peregrina l’idea che anche il Gruppo delle Autonomie di cui fa parte possa entrare al governo aggiudicandosi qualche casella. “Quando Pd e 5 Stelle avranno trovato un’intesa sul perimetro, il presidente del Consiglio farà il resto”. Il resto non sono proprio dettagli, perché l’incastro del sudoku governativo è il rompicapo più difficile che c’è. E pure le Autonomie vogliono essere della partita. “A Conte non conviene fare un governo troppo strabico, sbilanciato sulla sinistra estrema”. Ma avremo o no un Casini al governo? “Mi porrò il problema se me lo chiederanno. Mi permetto di dare un solo consiglio a Conte: stare attento a chi sceglie per il ministero dell’Interno: al primo sbarco di migranti Salvini farà fuoco e fiamme. Solo uno come Marco Minniti può reggere a quel tipo di propaganda”. Casini per la verità non pare pronto per stare in panchina. “Quello che sicuramente non vorrò più fare è il presidente della commissione Banche: per quel ruolo sarebbe perfetto Renato Brunetta”. Brunetta? “Magari questo governo avesse anche il sostegno di Forza Italia, invece di rassegnarsi a essere subalterna a Salvini”.

“I lacché della Lega per me possono anche accomodarsi fuori dal Forza Italia” tuona Andrea Causin, un senatore giovane cresciuto con il mito di Berlusconi. E che esclude un soccorso azzurro al governo Conte pur immaginando “che saremo al tavolo delle regole se si riformerà la legge elettorale”. Proprio come chiede Gianfranco Miccichè che chiosa così: “Serve una legge proporzionale che ci consenta di mandare al diavolo Salvini”.

In Forza Italia ad ogni modo, si dice che almeno una quindicina di parlamentari tra Camera e Senato siano pronti a farsi reclutare come fu per i responsabili di Razzi e Scilipoti nel 2010. Ma al momento l’unica cosa di cui si parla è che finita la crisi si dovranno fare i conti con chi ha voluto legarsi mani e piedi al capo della Lega. Perché ha tradito i 5 Stelle ma pure l’ex Cavaliere facendogli ingoiare il rospo dell’alleanza gialloverde per 14 mesi. E ora, l’ingrato, non ha neppure provato a rimediare i voti in Parlamento che sarebbero serviti per presentare a Mattarella una maggioranza alternativa a quella giallorossa. Davvero troppo pure per B.

Porti chiusi a un’altra nave. I ministri M5S col Viminale

Questione di prospettive e senso della realtà. Per Matteo Salvini rappresenta la “ritrovata compattezza nel governo”. Per i 101 naufraghi a bordo della nave tedesca Eleonore, della Ong Lifeline, rappresenta invece l’inizio dell’ennesima odissea nel Mediterraneo.

Il Viminale ieri ha firmato il divieto di ingresso nelle acque italiane per la Eleonore, incassando la firma dei ministri M5S Elisabetta Trenta (Difesa) e Danilo Toninelli (Trasporti). E così, nelle stesse ore in cui Pd e M5S trattano per formare un nuovo governo, Salvini esulta per il supporto dei suoi (quasi) ex alleati. Il tutto mentre si scopre che al largo delle coste libiche sono morte annegate tra le 20 e le 40 persone per l’ennesimo naufragio. Un barcone è infatti naufragato due notti fa al largo di Khums, a est di Tripoli. La Guardia costiera libica e alcuni pescatori sono riusciti a salvare 65 persone, 5 invece i cadaveri già recuperati e, tra questi, anche un bambino e una donna.

“Mentre contiamo decine di morti nel Mediterraneo”, ha dichiarato il parlamentare Pd Matteo Orfini, “Salvini chiude i porti a chi ha salvato 101 esseri umani e annuncia che anche Elisabetta Trenta, ministro della Difesa, ha sottoscritto la scelta, mentre Giuseppe Conte tace. Per me discontinuità significa prima di tutto smetterla con queste politiche disumane. Subito”.

Così la tragedia e i soccorsi tornano a diventare argomento di polemica politica. Resta il fatto che la Ong Lifeline, se dovesse rivolgersi al Tar, per chiedere la sospensione del divieto d’ingresso in acque italiane, avrebbe ottime possibilità di successo: è già accaduto due settimane fa per il ricorso presentato dalla Open Arms.

Sul fronte naufragi purtroppo, con le vittime di due notti fa, il numero degli annegamenti nel Mediterraneo nell’anno in corso è salito a circa 900. A raccogliere la loro richiesta di aiuto è stata la Ong Alarm Phone. Erano le 3.30 di due notti fa: “Abbiamo tentato di ottenere la posizione Gps – spiega Alarm Phone – ma i naufraghi erano nel panico e non sono riusciti a comunicarla. Urlavano e piangevano, dicendo che alcuni di loro erano già morti. Non abbiamo potuto fare altro che informare le autorità in Libia e in Italia”.

Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, definisce “inaccettabile” il naufragio: “Queste morti non possono essere considerate fatalità o danni collaterali. Deve essere ripristinato al più presto il sistema di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. Massimo supporto a ong impegnate a riempire il vuoto umanitario”. Oltre il governo italiano, anche Malta ha opposto un rifiuto radicale all’ingresso della Eleonore nelle sue acque territoriali. Se non bastasse, Malta ha anche rifiutato di fornire a naufraghi ed equipaggio acqua e cibo.

Umbria, Emilia e Calabria. Il Pd lancia l’amo Regionali

Il governo degli opposti è ancora un’ipotesi. Eppure parlamentari e dirigenti del Pd già telefonano, mandano sms, insomma si aggrappano ai Cinque Stelle: “Ora dobbiamo accordarci sulle Regionali, pensare a come fermare Salvini sui territori”. La politica non si ferma neppure un attimo, basta l’odore anche vago di urne e la possibilità di nuovi intrecci che magari potrebbero essere alleanze. Così ecco che già viene allo scoperto il deputato dem Walter Verini, commissario nell’Umbria dove si voterà a fine ottobre, dopo che la giunta dem è franata per i colpi dell’inchiesta giudiziaria sulla sanità locale: “Il dialogo con il M5S, a prescindere da quello che accade a Roma, è aperto”. Parla di accordi Verini, storico veltroniano, e lo fa scegliendo certe parole: “In Umbria non stiamo parlando di una trattativa tra partiti ma dell’incontro su un progetto civico-sociale avviato”. E l’aggettivo che vuole essere miccia è quello, civico.

Perché il Movimento che negava come lo sterco del demonio ogni ipotesi di alleanze, ma che ormai sta facendo saltare tutti i vecchi dogmi, ha aperto anche quella porta, con le nuove regole fatte votare sulla piattaforma web Rousseau lo scorso luglio. (Pochi) iscritti hanno detto sì “alla sperimentazione di alleanze con le liste civiche, solo in alcuni casi, su proposta del capo politico e comunque “da ratificare” con il voto online. Tradotto, Luigi Di Maio potrà scegliere dove e come fare accordi. Naturale quindi che il Pd ammicchi già a progetti civici, a liste magari senza simbolo di partito e con tanti esterni a diluirne la derivazione. Dopodiché c’è l’altro lato della politica, quello delle valutazioni.

Così non può stupire quanto sussurra una fonte di governo del Movimento: “Dovremo per forza porci il tema degli accordi a livello locale, ma come facciamo ad allearci con il Pd in Umbria e in Calabria con i guai giudiziari che ha avuto in quelle regioni?”. Obiezione comprensibile, visto che i dem umbri si sono ritrovati con il segretario regionale e un assessore arrestati e la governatrice Catiuscia Marini indagata. Mentre in Calabria, dove si voterà tra fine anno e l’inizio del 2020, il governatore del Pd Mario Oliverio è indagato per peculato, nell’ambito di un’inchiesta che il 5 agosto ha portato la Guardia di finanza di Catanzaro a sequestrargli oltre 90 mila euro. Non è proprio un viatico a rincorrersi, anche nel nome del no a Salvini. Però il tema c’è, tutto. Ed è un nodo che già preoccupa nell’Emilia Romagna dove si voterà a gennaio, una preda che la Lega già pregusta da mesi. Tanto che a inizio agosto ha già lanciato come candidata alla presidenza Lucia Borgonzoni, sottosegretaria bolognese alla Cultura.

Nel Pd dicono da settimane che una sconfitta elettorale nel fortino rosso potrebbe costare carissima al segretario Nicola Zingaretti. Prima che però si aprisse la partita dell’esecutivo giallorosso. Ma il rischio di schegge rovinose dalle urne resta, eccome. Per questo il governatore Stefano Bonaccini si è mosso da settimane, cercando di fiutare che aria tira nel Movimento. “Con il M5S il Pd ha molte meno differenze che con la Lega” gli hanno sentito dire. E poi i 5Stelle in Emilia hanno come figura apicale un veterano di peso nazionale come il bolognese Max Bugani. Il principale, dichiarato fautore dell’apertura alle liste civiche, e non può essere un dettaglio. Ma dalle parti della via Emilia è tutto un ribollire di umori e posizioni diverse.

Così la consigliera regionale del M5S Silvia Piccinini fa muro: “Sto sentendo in queste ore di un presunto patto di desistenza per le elezioni regionali, probabilmente proposto dal Pd. Mi sembra fuori da qualsiasi logica anche solo pensare di poter accettare una simile richiesta. E mi auguro non lo sarà”. Ma i confini della partita sono ancora più larghi, perché il sindaco di Parma è l’ex grillino Federico Pizzarotti, ormai lontano dal Movimento dopo anni di dissidenza passati a invocare democrazia interna e nuove regole. E pesa, Pizzarotti, con la sua lista Italia in Comune. Tanto che un mese e mezzo fa, Bonaccini ha pranzato con lui per gettare le basi di una coalizione di centrosinistra, con dentro la lista del sindaco e i Verdi. Logico chiedersi: il M5S potrebbe entrare in questa alleanza, e soprattutto Pizzarotti, nemico dei nemici di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, potrebbe mai accettare? “Molto difficile conoscendolo” dicono da Parma. Insomma, il gioco degli incastri appare arduo. Però mancano ancora mesi.

Sufficienti per provare quello che appare quasi impossibile, almeno in Emilia Romagna. Perché invece in un’altra regione dove si voterà nel 2020, la Liguria, la capogruppo del M5S Alice Salvatore, si è esposta qualche giorno fa sul Secolo XIX: “Se il dialogo con altre forze politiche è apertura sui temi e convergenza sugli obiettivi, si può fare, se è pura alleanza elettorale è poco serio”. E detto da Salvatore, vicinissima a Grillo, colpisce. Parecchio. Sullo sfondo i dubbi dell’europarlamentare Ignazio Corrao, già tra i referenti nazionali per gli Enti locali: “Non penso che alleanze di questo tipo tra noi e il Pd si possano fare, sui territori ci combattiamo da anni”. Nella voce un po’ di stanchezza, e poi un pensiero: “Poi, certo, se i dem facessero liste con persone perbene sarei contento, da cittadino”. E gli accordi sono comunque un’altra cosa.

“Un orrore”: Repubblica si allinea a destra

Un accordo “spregiudicato”, cucito tra gli “inaffidabili” – i 5 Stelle – e un partito – il Pd – che così rischia di “accelerare il suo tramonto politico”. Potrebbe essere Il Giornale o magari qualche altro quotidiano di destra, e invece è proprio Repubblica, storica testata di riferimento per la sinistra che in questi giorni, al grido di “No all’intesa 5 Stelle-Pd”, sembra appiattito su titoli, toni e linguaggi dei media berlusconiani o vicini a Salvini.

I giornali usciti ieri in edicola sono emblematici. Repubblica pubblica un editoriale dal titolo tranciante: “Un gioco politico spregiudicato”. Il riferimento, manco a dirlo, è al possibile accordo giallorosso, o meglio a “un’alleanza in cui è chiara la mancanza di passione civile”. Neanche a farlo apposta, concetto espresso pari pari sulle pagine del Giornale: “Intravedere una vera passione tra dem e 5 Stelle è una missione impossibile”. A proposito di alleanze innaturali, verrebbe da dire.

Ma proseguiamo con Rep: “L’unica ragione per cui nasce la bizzarra alleanza è bloccare Salvini, smussare l’arma elettorale che il leghista ha goffamente tentato di impugnare”. Ma non era forse Salvini il pericolo fascista dell’Italia? E Pd e 5 Stelle dovrebbero allora fare il gioco di cotanto novello Mussolini, che ha strappato con gli alleati proprio per andare alle urne? Non è dato sapersi. A ogni modo è certo che Repubblica non abbia perso l’antica smania di dare consigli non richiesti ai democratici, finora peraltro piuttosto sfortunati (qualcuno ricorda l’entusiasmo per l’adesione al governo Monti? O per la riforma costituzionale Renzi-Boschi?).

Se dunque oggi il quotidiano pronostica che i dem “si logorino nell’abbraccio con una forza illiberale come il M5S”, al Nazareno dovrebbero per lo meno tirare un sospiro di sollievo: forse l’intesa giallorossa è la strada giusta.

Per non dire dei 5 Stelle, già bollati ancor prima di chiudere l’accordo: “È la fine dell’età dell’innocenza” (un’altra volta? Non era finita la volta scorsa?), colpa anche di vertici di maggioranza “magari a tarda sera (di giorno vanno bene, dopo il tramonto è sguaiato, nda) a casa di qualche amico (i 5 Stelle si ritrovino al Nazareno, dannazione, nda)”. Il risultato è quindi “una strana partita nel quale il sistema politico si consuma”. Altro che esercizio della democrazia parlamentare. Votare, votare, votare, sennò il sistema politico si consuma.

Già assodata la sintonia col Giornale, ora Repubblica dovrà forse fare un passo in più per raggiungere alcuni picchi apocalittici già ampiamente varcati da Libero e La Verità. All’inizio della crisi di governo il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari era stato ancora sobrio: “Voto subito”. Robetta. C’è tanto da imparare. Per esempio dal Libero in edicola due giorni fa : “Zingaretti pappamolle, Renzi gli dice cosa fare e i 5 Stelle vogliono imporgli il programma”.

Ieri ecco poi la descrizione della fine del mondo, tipo Libro della Rivelazione: “La frittata è pronta. Un governo che ci porterà allo sfacelo: immigrazione senza limiti, tasse a iosa, obbedienza cieca all’Europa”. Commento di Renato Farina: “Hanno sequestrato l’Italia. Meta sicura è la nostra sventura”. Notevole, pure in un filone letterario che per onestà va attribuito, fin dagli albori dei giallorossi, a La Verità. Anche ieri Maurizio Belpietro ha confermato la linea: “Prende forma l’orrendo governo giallorosso, un Renzi bis per spartirsi le poltrone”. A Repubblica prendano nota.

Le famiglie dei Malavoglia al governo del loro scontento

Il governo dei Malavoglia ha il broncio di Andrea Orlando (forse scocciato dal ruolo di superfluo vice di Nicola Zingaretti e forse anche di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi) e indossa i bermuda di Luigi Di Maio in ostentata vacanza dalla crisi, su una spiaggia campana.

Il governo del loro scontento si agita nel M5S con i contrariati Alessandro Di Battista e Gianluigi Paragone e nel Pd con il nevrile Carlo Calenda (privo di cigno), che vivono l’alleanza tra movimento e partito con lo spirito di un funerale a ferragosto.

Che l’umore prevalente del negoziato giallorosso sia una sottile scocciatura condita da un robusto senso di allarme, si direbbe dall’andamento dubbioso, circospetto dei protagonisti di entrambi i colori, come se una forza primordiale della natura li avesse strappati ad alpeggi e ombrelloni per precipitarli nella calura romana e costringerli a fare qualcosa di cui non appaiono per nulla convinti. Forse, caso raro nella storia repubblicana, la nascita di un nuovo esecutivo, più che solleticare ambizioni e candidature, sembra alimentare ritrosie e perplessità, almeno nelle prime linee.

Il fatto è che, nel cratere creato dall’improvvisa deflagrazione del Salvini al mojito e dal successivo blitzkrieg di Matteo Renzi, si è appalesata una bizzarra creatura politica che qualcuno ha definito Frankenstein, ma che al momento è un Topo Gigio che non fa paura a nessuno. Non un horror, ma una commedia degli equivoci con una strepitosa performance del fratello di Montalbano che per due ben volte avrebbe rassicurato Salvini sulla decisione pidina di andare a elezioni, tutti insieme e senza indugio alcuno (ha raccontato Enrico Mentana citando “fonti dirette”). “Sei sicuro che Renzi non farà scherzi?”, insisteva il capitano sospettoso. “Fidati”, rispondeva l’altro. Applausi. Fatto sta che, come in tutti matrimoni di convenienza, ruggini e dissapori rischiano di rovinare la futura convivenza, alla luce degli insulti sanguinosi che 5Stelle e dem si sono scambiati fino all’altro giorno.

Ecco allora che l’unica spiegazione plausibile all’unione forzata (e forzosa) va ricercata non nel cortile di casa, ma in quell’altrove che vigila sui destini di un Paese considerato strategicamente molto più importante del livello della sua classe dirigente. Se si mettono insieme il forte sostegno manifestato a Giuseppe Conte dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen (eletta con i voti determinanti del M5S) con il caloroso tweet di Donald Trump a favore del premier uscente (e probabilmente rientrante), si comprende come certi distinguo che agitano il Nazareno e la Casaleggio, difficilmente impediranno la celebrazione delle strane, e interessate, nozze giallorosse. Quanto a Vladimir Putin, agli osservatori più attenti non è sfuggita la recente visita in Vaticano, con il colloquio definito “cordiale” tra Francesco e lo zar che sul tema dell’immigrazione non sembra voler dare sponda a certi furori leghisti. Tutto il resto è noia.