Ifantasmi di quella guerra che infiammò i Balcani nel 1991, per spegnere le sue braci solo vent’anni dopo, sono tornati, sono di ferro e sono color verde militare. C’è di nuovo un carro armato per le strade di Belgrado. Biondi e sorridenti, i bambini serbi si divertono a salire sul blindato mentre l’obiettivo dei genitori scatta. Selfie dopo selfie, il T-55, posizionato giovedì notte davanti allo stadio Rajko Mitic, -noto ai più come Marakana -, è anche ovunque sulle pagine del web slavo.
Oggi ci sarà il fischio d’inizio della partita di Champions League contro gli svizzeri della Young Boys, ma per la Stella Rossa Belgrado c’è anche un’altra battaglia da vincere: mantenere il T-55 a ridosso degli spalti, come vogliono i Delije, tifoserie serbe unite sotto il nome di “coraggiosi”. La Croazia è arrabbiata. Quel blindato di produzione sovietica può essere uno dei migliaia che piallò le macerie della “Stalingrado croata”, Vukovar, la città che rimase sotto fuoco nemico per 87 giorni in nome dell’indipendenza per cui combatteva Zagabria. Le truppe della JNA, Armata popolare jugoslava, che rispondeva agli ordini di Belgrado, marciarono poi in un panorama gruviera di edifici crivellati. Dopo la distruzione, la pulizia etnica. È questo che ricorda oggi la Croazia sdegnata con i suoi titoli di giornale pieni di punti esclamativi osservando quel T-55 allo stadio.
Le Stelle rosse di Belgrado non brillano in cielo, vogliono spesso bruciare in terra tra lacrimogeni e bombe carta. Perché nei Balcani rosso sangue non è mai solo calcio. Su quel punto della mappa d’Europa dove lo sport ha sempre fatto eco al conflitto, risuonano i tamburi della battaglia delle tifoserie più violente d’Europa. Lungo le linee del campo da gioco i confini tra Belgrado e Zagabria già tremavano nel 1990, quando a causa dei disordini dei tifosi, la partita tra la Dinamo Zagabria e la Stella Rossa serba non si giocò mai. Non per gli storici, ma per molti sopravvissuti, quella guerra in campo, iniziata quando Zvonimir Boban scalciò il petto di un agente di polizia invece della palla di cuoio, rimane un preludio del conflitto che avrebbe devastato lo Stato di Tito. Quelli erano gli anni delle bombe, questi son quelli senza comunque pace. Forse è un monumento della storia serba, forse è un oltraggio alla memoria dei morti. Di certo la questione è ormai molto oltre le linee bianche del campo verde e rotola come un pallone da una Capitale all’altra.
Quel T-55 è “patrimonio culturale del Paese” secondo il tabloid belgradese Blic, per il quotidiano Vecerny list di Zagabria è invece una “provocazione”. Non un’allusione al conflitto, né un vessillo. “Il Marakana ha un’altra attrazione” ha chiosato il club sportivo. Ha fischiato la fine della disputa il ministro dell’Interno serbo Nebojsa Stefanovic: “Il carro armato non contiene esplosivo, non ha nemmeno il motore”.
Quindi quel carro è solo il simbolo di un carro, non un’arma, la Yugoslavia non esiste più, la guerra è finita e tutto il resto è sport. Forse.