E alla fine arriva Donald: il Conte 2 piace ai potenti

L’inopinata mossa ferragostana di Matteo Salvini, e ci si riferisce alla crisi di governo, ha avuto se non altro il merito di fare chiarezza sul campo da gioco: l’intero establishment mondiale s’è mosso per benedire il governo grillo-pidino sotto la guida di Giuseppe Conte. Buon ultimo ieri è arrivato l’endorsement di Donald Trump, teoricamente un “filo-Salvini”, anche per via della scelta del premier di firmare il memorandum sulla Via della Seta con la Cina: il presidente degli Stati Uniti aveva già fatto arrivare a Conte un messaggio privato di sostegno dopo l’annuncio della sfiducia, ma ieri ha saltato il fosso. Ovviamente su Twitter: “Inizia ad andare bene per Giuseppi (poi corretto, ndr) Conte, il molto rispettato presidente del Consiglio italiano. Ha rappresentato con forza l’Italia al G7. Ama il suo Paese e lavora bene con gli Usa. Un uomo di talento che spero resterà primo ministro”.

Ovviamente Conte gongola, ma l’appoggio pubblico di Trump (e la citazione del premier italiano, insieme alla Merkel, addirittura in un tweet di Bill Gates) testimonia che l’avvocato – già del popolo – che guidava il “governo del cambiamento” ora farà un giro di giostra a Palazzo Chigi in quello della restaurazione nel senso delle élite euro-americane. In questo contesto è quasi scontato che la Bce di Mario Draghi e i grandi investitori nazionali e esteri “coprano” l’operazione mandando il rendimento dei Btp italiani decennali ai minimi da sempre (1,13% l’interesse alla chiusura di ieri).

L’inquilino della Casa Bianca, pur inatteso, arriva comunque buon ultimo nel corteo di quanti, dalle capitali estere, si sono spesi – e assai più rispetto a un tweet – per la nascita del governo M5S-Pd con Giuseppe Conte alla guida. Gentili pressioni sul riottoso segretario democratico, Nicola Zingaretti, ad esempio, sarebbero arrivate persino dai socialdemocratici tedeschi, partner di governo di Angela Merkel, a nome di Berlino. Quanto al ruolo di Emmanuel Macron, il peggior nemico dell’Italia gialloverde (ma anche di altri colori), basti dire dei rapporti che intrattiene col mondo renziano, al punto che Sandro Gozi è finito nelle sue liste per le Europee e, oggi, nel suo governo. Passando al lato partitico delle pressioni, anche Frans Timmermans – ultimo spitzenkandidat dei socialisti europei – s’è fatto sentire col presidente della Regione Lazio per convincerlo a dare il via libera ad ogni costo al governo coi grillini.

A dirlo un anno fa sarebbe sembrata una barzelletta, ma è il presidente del Consiglio il centro di questo lavorio (geo)politico. Conte, d’altra parte, ha lavorato bene nel costruirsi il profilo necessario al prossimo (eventuale) esecutivo: i suoi ottimi rapporti col Vaticano – e in particolare col segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin – sono antichi, noti e in queste settimane si sono rafforzati (anche da Oltretevere si sono spesi sui cattolici dem). Scontati pure i legami professionali e d’amicizia – attraverso il suo “maestro” Guido Alpa – con quel crocevia di relazioni col potere italiano che sono i grandi amministrativisti (Cassese e i suoi allievi, ad esempio, tra cui i figli di Napolitano e Mattarella, senza dimenticare Andrea Zoppini e il suo rinomato studio).

Quel che Conte ha aggiunto in questi 14 mesi a Palazzo Chigi sono i rapporti internazionali. Trump, certo, ma soprattutto i leader europei, che – indisponibile o incapace Luigi Di Maio – lo hanno “adottato” in chiave anti-Salvini. La sua definitiva santificazione brussellese è avvenuta tra giugno e luglio: prima, come premier, ha dato il via libera al risiko di poltrone Ue seguito alle elezioni del 26 maggio (Ursula von der Leyen alla Commissione e Christine Lagarde alla Bce); poi a inizio luglio ha pure convinto il gruppo M5S – senza molta fatica, va detto – a votare a favore della ex ministra tedesca come successore di Jean Claude Juncker (14 voti poi rivelatisi decisivi per il via libera).

Infine, Conte – insieme a Giovanni Tria – è stato il garante di una linea (quasi) rigorista sui conti pubblici e decisamente autolesionista sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) cara al duo Macron-Merkel, che l’Italia non sta bloccando nonostante lo imponga al governo un voto del Parlamento e dei contenuti palesemente provocatori (lì dentro ci siamo 60 miliardi italiani, ma se dovessimo aver bisogno di aiuto non potremmo in futuro accedere a quei fondi, se non con pesanti “condizionalità”). Sono benemerenze che l’establishment Ue tende a remunerare con la giusta dose di gratitudine.

Franceschini vs. Orlando. È sfida per il vicepremier

Andrea Orlando o Dario Franceschini vicepremier? Nella serata di ieri, pareva aver vinto il secondo. Che si sarebbe persino guadagnato la delega ai Rapporti con il Parlamento, perché “serve uno che riesca bene a guidare i processi”.

Per il vicesegretario del Pd, invece, si lavora al ministero dell’Interno. E poco importa che Marco Minniti, che quel posto lo sognava da quando l’ha lasciato, sia praticamente sparito dai radar. Troppi nemici, a partire dai renziani, troppe perplessità su una competizione a distanza con Matteo Salvini.

La battaglia si sposta dentro al Nazareno, dove lo stato maggiore del Pd si riunisce in pianta stabile da giorni. Ai tempi di Matteo Renzi la chiamavano war room, con Nicola Zingaretti si definisce “cabina di regia”. E se durante i primi giorni della crisi, il conclave democratico lavorava per elaborare la strategia per affrontare la trattativa con i Cinque Stelle, ora questa è immediatamente diventata interna.

Ieri con il segretario c’erano il presidente del partito Paolo Gentiloni, i due vicesegretari, Orlando e Paola De Micheli, i capigruppo Andrea Marcucci e Graziano Delrio e le due vicepresidenti dell’assemblea Debora Serracchiani e Anna Ascani.

Ma in questi giorni passano continuamente tutti. Franceschini non aveva nessuna intenzione di farsi da parte. D’altra parte per il governo con i Cinque Stelle ci sta lavorando praticamente dal 5 marzo del 2018.

Zingaretti avrebbe preferito Orlando (non a caso ieri nel tavolo con i Cinque Stelle sul programma nella delegazione è apparso Andrea Martella, da sempre fedelissimo del Guardasigilli). “Zingaretti riuscirà a accontentare entrambi”, raccontano nel partito. Meno se stesso, verrebbe da dire: nel governo, il segretario avrebbe voluto profili nuovi, gente non troppo compromessa con le gestioni precedenti. Non andrà a finire così: in troppi dentro al partito vedono l’operazione in corso come la possibilità di tornare al governo. Fino a qualche settimana fa, un miraggio. Però, la leadership di Zingaretti si fonda proprio sulla mediazione. E ieri nel partito definivano una vittoria il tramonto di Luigi Di Maio e il filo diretto stabilito con Giuseppe Conte.

Per tornare al Nazareno, si tengono alla larga Matteo Renzi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi. A rappresentarli tutti c’è Marcucci, che negli scorsi giorni faceva la spola tra la scuola di politica dell’ex premier, a Lucca e il Quirinale. Renzi, però, non perde il filo: in questi giorni ha mantenuto il contatto con Zingaretti, assicurando lealtà e sostegno (“Nicola stai sereno”, non l’ha ancora detto, ma per i più è solo questione di tempo) e soprattutto ieri ha fatto intervenire Francesco Bonifazi. “Sono uno serio e responsabile. Credo al Governo Istituzionale. E mi va bene anche Conte. Ma se devo accettare Di Maio al Viminale, per me si può andare a votare subito”. ha twittato, tanto per ribadire che i renziani stanno sul carro del vincente.

La contesa tra Orlando e Franceschini copre quasi tutto il resto. E però, a ben guardare, di battaglie intestine ce ne sono pure altre. A partire da quella per il ministero alle Pari Opportunità. In corsa ci sono Lorenza Bonaccorsi, pupilla di Paolo Gentiloni, rimasta fuori dal Parlamento, Tommaso Cerno, entrato in quota Renzi e trea i primi a porgere la mano ai Cinque Stelle e pure Monica Cirinnà, che può vantare la battaglia per le unioni civili ai tempi di Renzi.

Mistero aleggia pure su un’altra figura: Gentiloni. Finito nel mirino di Renzi come quello che ha cercato di far saltare l’accordo, per lui si è parlato della guida della Farnesina (al momento improbabile) o di Bruxelles. Ma sul suo ruolo, pare che la decisione finale spetti a Sergio Mattarella. E Carlo Calenda prepara l’uscita: non parteciperà alla direzione Pd di oggi, come ha annunciato all’Ansa.

Di Maio ora è nel mirino. Anche Grillo si tira fuori

È il giorno degli attestati di fede. Un’infilata di dichiarazioni non richieste per precisare agli osservatori meno attenti che “il capo” è lui. Ancora lui. Non proprio un 27 d’agosto beneaugurante per Luigi Di Maio: perché, come noto, se c’è bisogno di specificarlo, un motivo ci sarà. E infatti un motivo c’è, ha pure un nome e un cognome e si prepara a rifare il presidente del Consiglio. È quel Giuseppe Conte venuto dal nulla che adesso si sta prendendo tutto. Mentre lui, il ragazzo di Pomigliano che un anno fa il 32 per cento degli italiani aveva scelto, adesso si ritrova a fare lo sparring partner nella trattativa con il Partito democratico. Da giorni lui picchia e Conte alza le braccia al cielo. Al punto che ieri il premier dimissionario per sbloccare il dialogo con i dem ha dovuto precisare per conto dell’altro che “non ha mai chiesto il ministero dell’Interno”.

Siamo a questo punto, dopo giorni di confronto in cui a Di Maio è toccato per la seconda volta cedere il passo all’avvocato. Solo che il 4 marzo 2018, quando tirò fuori la carta Conte per siglare il contratto gialloverde, era saldamente a cavallo del Movimento. Adesso invece perfino gli strateghi di Rousseau sanno che l’unico modo per convincere gli iscritti a dare il via libera alla nuova maggioranza è nasconderla dietro il volto del presidente momentaneamente più amato dagli italiani.

Non sarà nemmeno oggi, il voto: di concerto con il Quirinale, si è ritenuto che non fosse il caso di affidarsi al Web durante le consultazioni, con il rischio che il verdetto della base grillina sconfessasse in diretta le decisioni del capo dello Stato. Meglio, quindi, aspettare il fine settimana, quando l’incarico sarà formalizzato e tutta l’intesa definita. Ma non è solo la popolarità di Conte a remare contro la leadership di Di Maio. Perché ci sono le sue ambizioni, maliziosamente riassunte dalla veterana Roberta Lombardi: “Sono sicura che il nostro capo politico non antepone se stesso al Paese. Non sarebbe da 5 Stelle”. E c’è Alessandro Di Battista, fresco di sconfitta al tavolo che ha dato l’ok al dialogo con il Pd, che “insiste” e “pretende” perché è una “persona che negli anni ha dato anima e corpo al Movimento”. Ieri è tornato a dettare le condizioni ai giallorossi, con una lista di priorità per lui imprescindibili e che invece “non ha sentito pronunciare a nessuno del Pd”: la revoca della concessione autostradale ai Benetton, la riforma dello Sport anti-Malagò, una legge sul conflitto di interessi. L’ennesimo intervento a gamba tesa nella trattativa che non è stato gradito a Palazzo Chigi, dove sanno bene che fino a due giorni fa Di Maio era pronto a dare retta all’ex deputato e perfino a sedersi di nuovo a discutere con la Lega. “Di Maio va lasciato lavorare, poi ovviamente ognuno è libero di parlare – ha detto ieri il vicecapogruppo alla Camera Francesco Silvestri – Ma il capo politico è Di Maio, c’è piena fiducia in lui”.

Sono gli attestati non richiesti di cui si diceva prima, gli stessi che hanno dovuto plasticamente dimostrare i capigruppo di Montecitorio e palazzo Madama: assenti all’assemblea dei parlamentari convocata per ieri sera perchè impegnati a riferire a Luigi Di Maio – “il nostro capo politico è lui” – l’esito della riunione con gli esponenti dem. E chissà se li sta ascoltando, Beppe Grillo, che ieri ha scritto un post contro “l’unico, intrecciato, multivariato dominio dell’avidità” che evidentemente gli suscita la visione della trattativa da vicino. Quasi impossibile, ieri, trovare qualcuno in grado di dare un’interpretazione autentica delle parole del fondatore. Scrive della missione che Dio gli ha assegnato, quella dei “vaffanculi” e dello “sbraitare”, e che lui ha portato a termine: adesso può ritirarsi, ragiona, e lasciare “che il mondo torni alle sue piccole diplomatiche faccende” e “ognuno alla sua mediocrità: a giocarci come il pongo, come un bimbo sulla spiaggia che stermina piccoli animaletti innocenti”. Lui se ne va, qui resta Di Maio.

L’incarico sarà presto, ma il premier chiede tempo per il governo

Il secondo giro di consultazioni è iniziato e sarà quello buono. Nel senso che oggi pomeriggio al Quirinale il capo dello Stato si aspetta dalle delegazioni di M5S e Pd la presenza di un “quadro programmatico comune”. È il fatidico “perimetro” che Sergio Mattarella desiderava già la settimana scorsa, al primo giro di colloqui al Colle. Poi, ovviamente, ci dovrebbe essere il nome del prescelto come presidente del Consiglio. E su questo, a meno di clamorose sorprese della notte, ormai non ci sono più dubbi. Le due forze faranno lo stesso nome: quello di Giuseppe Conte, premier uscente già Avvocato del Popolo.

Soddisfatte allora le due condizioni chieste dal presidente della Repubblica, l’incarico per Conte potrebbe arrivare già stasera oppure domani mattina. Dipende dal tempo che Mattarella si ritaglierà per un’eventuale pausa di riflessione e soprattutto dalla “chiarezza” di democratici e pentastellati sull’accordo per un Conte due.

La novità della giornata di ieri al Colle non riguarda le varie personalità o delegazioni salite per parlare con il capo dello Stato. Ieri infatti Mattarella ha sentito telefonicamente proprio Conte. Il premier dimissionario è pur sempre in carica per gli affari correnti e tra Quirinale e Palazzo Chigi c’è un continuo filo diretto in queste ore. Trapela così che Conte avrebbe chiesto al presidente di avere “tempo” per la formazione della lista dei ministri e per la stesura del programma. Sono troppi i “nodi ancora da sciogliere”.

Certo, c’è la questione dei nomi dei ministri ma il Quirinale vuole un accordo “programmatico” netto. Una sorta di contratto (guai però a chiamarlo così dopo il governo gialloverde) alla tedesca, come suggerito alcuni giorni fa da Romano Prodi, padre nobile del Pd, col modello “Ursula” (Von der Leyen, la presidente della Commissione votata da Pd, M5S e Forza Italia). Ossia: “Un governo duraturo costruito su un progetto con obiettivi e impegni finanziari precisi”. E da questo punto di vista è ancora tutto da scrivere tra Pd e M5S il testo dei contenuti dell’accordo. Ma la vera questione che il premier incaricato dovrà risolvere è legata a Luigi Di Maio. I sette giorni, al massimo dieci, che il Colle concederà a Conte dovranno completare la “mutazione genetica” in atto nei pentastellati.

Già una settimana fa, nel primo giro di consultazioni, il capo dello Stato aveva verificato di persona il “rallentamento” imposto dal capo politico del M5S. Mattarella voleva una dichiarazione netta e pubblica sul “perimetro” tra dem e grillini, ma Di Maio glissò costringendo il Quirinale a fissare un secondo giro completo di colloqui. Il sospetto, mai sopito, è che il vicepremier avesse ancora una speranza di resuscitare la maggioranza gialloverde. Adesso, dopo il fine settimana, quel sospetto è quasi svanito. O meglio: Di Maio si è trovato sempre più solo all’interno del Movimento e ciò gli ha impedito la retromarcia sulla Lega. A pesare non solo il niet di Conte ma anche il ritorno di Beppe Grillo, che ieri sul suo blog ha scritto di “bimbi sulla spiaggia” che giocano con la propria mediocrità, come con il pongo. Per molti un riferimento a Di Maio.

Segnali, questi, che non passano inosservati nelle valutazioni “politiche” di queste ore al Colle. In ogni caso, sarà Conte a dover sciogliere il nodo che investe il destino politico del capo pentastellato. Giunti a questo punto, a Mattarella interessa che il governo si faccia con un’evidente maggioranza parlamentare. Che poi ci sia un solo vicepremier, toccherà all’Avvocato decidere. Quello che è certo è che un’eventuale “riduzione” a semplice ministro Di Maio avrebbe un significato politico inequivocabile. Del resto non tutti i leader sono buoni per ogni stagione. Il governo gialloverde ha forgiato un figura forte, Conte appunto, mentre Di Maio ne è uscito parecchio ammaccato.

Le evoluzioni interne del M5S sono il cuore di questa crisi: è un dato oggettivo anche per il Quirinale. Potrebbe essere un caso di scuola nella prassi delle consultazioni: in caso di capovolgimento della situazione su quali basi Di Maio giustificherebbe una retromarcia a favore della Lega? Avrebbe con sé il sostegno dei gruppi parlamentari? Difficile rispondere. Ecco perché oggi pomeriggio le opzioni sono solo due: incarico a Conte oppure a una “personalità istituzionale” per un governo di garanzia che porti il Paese alle elezioni anticipate.

Per ritornare a Conte. Ieri il premier uscente avrebbe assicurato al Colle che non ci sarà alcun voto sulla piattaforma Rousseau nelle ore dell’incarico ufficiale. Sarebbe imbarazzante che la scelta di Mattarella arrivasse contemporaneamente alla consultazione online dei militanti grillini. Un clamoroso errore di grammatica costituzionale mai verificatosi. Dopo sì, ma non durante o nello stesso giorno. Su questo l’impegno di Conte è stato preciso. Un tema, quello del voto online e della democrazia diretta, affrontato anche dal presidente della Camera Roberto Fico nel suo colloquio. Fico avrebbe ribadito “l’importanza” di questo strumento nella vita del Movimento ma anche lui lo preferirebbe dopo l’incarico, nei sette o dieci giorni che prepareranno questo governo a cambiare i grillini.

“Vicepremier o niente”. Le condizioni di Di Maio a Conte e Zingaretti

La via verso il governo che va fatto per forza adesso è una partita a due. Con un terzo che sbatte i pugni e tiene il punto perché terzo non vuole essere e soprattutto diventare. Però le mosse nella partita tra Pd e Cinque Stelle ora le muovono innanzitutto loro, Giuseppe Conte, il premier dimissionario che a Palazzo Chigi vuole e deve restare, e Nicola Zingaretti, il segretario del Pd che l’esecutivo giallorosso non lo avrebbe mai fatto e che adesso comunque non vuole entrarci.

Poi c’è Luigi Di Maio, il vicepremier che ripete di voler rimanere tale per non essere tagliato fuori dai giochi e lo ha già detto in tutti i modi nella prima riunione vera, in quelle oltre quattro ore a Palazzo Chigi tra lunedì e martedì. Così Conte sta provando a (ri)mediare. “Il presidente ritiene che avere due vice agevolerebbe il suo essere figura terza tra i due partiti” spiegano con sillabe caute dalla presidenza del Consiglio. Insomma, meglio ripetere la formula già usata dal governo gialloverde. Ma per Zingaretti non si può fare, non si può cedere. A suo dire il Movimento ha già indicato il premier, l’avvocato che rivendica la sua terzietà ma che è pur sempre stato “scovato” dal M5S. E poi proprio Di Maio resterà comunque nel governo, forse come ministro della Difesa.

Se non sarà “discontinuità”, la parola che il segretario ripete da giorni, almeno deve essere incetta di posti di peso per i dem. Quindi un solo vicepremier, del Pd (Dario Franceschini) e ministri dem di peso all’Economia, agli Esteri e all’Interno. Questo chiede Zingaretti lunedì notte a Chigi: da dirigente che viene dal Pci si muove secondo i suoi codici. “Presidente, le ho portato le nostre rose per i vari incarichi” spiega a Conte, e il segretario porge al premier alcuni fogli con tre nomi per ruolo. Di Maio invece non ha pezzi di carta ma due obiettivi in testa, quello del vicepremier e il Viminale, ruolo che non chiede in via diretta nel vertice notturno ma che ha invocato a margine del tavolo. Ma la strada è in salita. Conte interviene due o tre volte, tenta di smussare gli angoli, ma dopo l’una aggiorna la seduta al giorno dopo, con una promessa: “Tutti rimarrete soddisfatti, lo garantisco, gestirò io tutto”. L’avvocato si pone nei panni della figura apicale. Non abbastanza però, per il Pd. Il clima è pesante. Tanto che la nuova riunione fissata per le 11 di ieri salta, sotto il peso dei reciproci veti. E anche della guerra di comunicazione: se dal Pd raccontano che Di Maio vuole tutto e ha chiesto tutto (il Viminale) e il problema è lui, dai Cinque Stelle sostengono che dal Nazareno non hanno ancora ufficializzato la scelta di Giuseppe Conte. La direzione dem, prevista ieri pomeriggio, viene riaggiornata a stamattina: nessuno è veramente convinto che l’accordo salterà, ma nessuno sa come ci si arriverà. “Un bel pasticcio”, dicono da più parti nei Democratici.

Alle 10 e 30 di ieri, arriva la prima telefonata tra il segretario del Pd e l’avvocato: cioè parte il filo diretto tra i due. E dai dem partono le richieste esplicite a Conte: “Prenditi tu la responsabilità della trattativa, togli dal tavolo Di Maio”. Ma anche nel gruppo parlamentare del M5S c’è nervosismo: “L’accordo va fatto, e Luigi lo deve capire”. Un segnale deve arrivare entro le 16, quando i big dem si riuniranno al Nazareno. Lo dice apertamente il capogruppo alla Camera Graziano Delrio: “Non è naufragato nulla, è inspiegabile l’annullamento della riunione di oggi da parte del M5s”. Attorno alle 14, Delrio cammina per una Montecitorio semi-vuota. E ripete il concetto: “Serve che Conte prenda l’iniziativa, e in fretta”. E d’altronde, “sul premier non c’è nessun veto, noi continuiamo a lavorare sui temi e attendiamo un segnale dall’altra parte”. Ma l’altra parte, cioè Di Maio, è nervosa. Dai vertici lo dicono sottovoce ma dritto: “Ci aspettavamo che Conte si dimostrasse un po’ più vicino al Movimento”. Partono telefonate incrociate tra i rispettivi staff. E da Palazzo Chigi fanno la precisazione che il vicepremier pretendeva: “In presenza di Conte non è mai stata avanzata la richiesta del Viminale per Di Maio”. È la tregua, e dal M5s mandano segnali di pace: “Bene la chiarezza fatta dalla presidenza del Consiglio, al contempo accogliamo positivamente le parole di apertura di alcuni esponenti del Pd sul ruolo di Conte: sì a un dialogo su programmi e su temi”. Pare la nota che potrebbe sbloccare quasi tutto. Ma il nodo principale rimane, Di Maio vuole restare vicepremier. E non sente ragioni. Zingaretti e Conte si sentono ancora, con il segretario dem che chiede al premier di risolvere la grana. Mentre il Pd lo ripete sulle agenzie: “Di Maio vuole ancora quel ruolo”.

E nei 5Stelle la prendono male. I capigruppo delle rispettive parti s’incontrano ugualmente alla Camera. Al termine i 5Stelle Patuanelli e D’Uva parlano di “buon clima”. Ma dai vertici del Movimento raccontano una verità diversa. E accusano: “I dem hanno manifestato riserve sul blocco degli inceneritori e delle trivellazioni. Hanno presentato un documento senza riferimenti alla revoca delle concessioni autostradali, alla riforma della giustizia e al conflitto d’interesse. Eppure hanno avuto 20 anni per fare certe riforme”. Ma non finisce qui, assicurano: “Anche sul taglio dei parlamentari sono stati morbidi, ma va fatto entro settembre”. È un segnare la distanza, mentre i capigruppo a 5Stelle precisano: “Andiamo a riferire al nostro capo politico, si parla con lui”. Cioè con Di Maio. E non con qualcun altro. Magari Conte, il premier che dovrebbe fare un governo.

Salsa Aurora

Noi, che siamo gente semplice, ci orientiamo con quattro bussole molto collaudate, che non ci hanno mai tradito. La prima è B.: se non vuole una cosa, è quella giusta. La seconda è Repubblica: se indica una strada, è quella sbagliata. La terza è Salvini: se chiede qualcosa, va evitato; se lo teme, va fatto. La quarta è Giuliano Ferrara: se sposa un governo, disastro assicurato (infatti, dagli anni 70, li ha sposati tutti, tranne il Prodi-1 e il Conte-1). Ora, sul Conte-2 giallo-rosa, la situazione è la seguente. B. e i suoi house organ lo temono come la peste bubbonica, perché “di estrema sinistra, pauperista e giustizialista”: quindi ottimo. Repubblica spara a palle incatenate, con titoli da Padania (“Voto subito, ma c’è chi dice no”), da Giornale (“Crisi di un governo mai nato”) e da Libero (“Fumata nera, futuro grigio”) e manda in tv volti imbronciati che non fecero una piega sui patti scellerati tra Pd e B., ma il putribondo Conte non lo digeriscono proprio: quindi il Conte-2 ha ottime chance. Il Pd, a furia di dar retta agli amorevoli consigli di Repubblica sull’appoggio a Monti, la rielezione di Napolitano, i governi con B. & Verdini, il Sì al Referenzum e il No al dialogo col M5S, s’è dissanguato: ora, smettendo di seguirli, potrebbe persino riaversi. Salvini si sbraccia per rimettersi con Di Maio o votare, ergo va deluso; e fa di tutto per evitare il governo giallo-rosa, che quindi diventa priorità assoluta.

Poi purtroppo c’è Ferrara: estenuato da ben 14 mesi all’opposizione dopo 50 anni al governo, stravede per il Conte-2. Ma non si può avere tutto dalla vita. E le altre tre bussole parlano chiarissimo. E non si esclude l’eterogenesi dei fini. Persino B. e Salvini, nel 2016, salvarono la Costituzione a loro insaputa col No al Referenzum. E persino Renzi, nella crisi più pazza del mondo, s’è reso utile senza volerlo svegliando un Pd già rassegnato al voto e al trionfo salvinista. Naturalmente può darsi che il Conte-2 abbia vita anche più breve del Conte-1, che M5S e Pd passino il tempo a litigare, che la salsa aurora giallo-rosa improvvisata nei pochi giorni concessi dal Colle impazzisca al primo intoppo, che la cura emolliente di Conte non appiani le enormi differenze e diffidenze fra Di Maio e Zinga, che presto Renzi prenda le sue truppe e butti giù tutto (anche se sarà difficile che le truppe lo seguano nell’harakiri). Il rischio di resuscitare Salvini sarà sempre in agguato. Ma è, appunto, un rischio. La certezza è che basta il primo vagito del Conte-2 perché Salvini non conti più nulla e non se lo fili più nessuno. E, come diceva Bossi di B. ai tempi d’oro, “se lui piange, state allegri: vuol dire che non ha ancora trovato la chiave della cassaforte”.

Omero ha un trojan nel pc e Proust posta i suoi ricordi

Un classico, sostiene Mark Twain, “è qualcosa che tutti vorrebbero aver letto ma che nessuno vuole leggere”: meglio sfogliare un libro con le figure. Detto fatto, Clichy licenzia un curioso saggio sulla letteratura da guardare prima ancora che studiare: Social Classici. 50 capolavori letterari ripensati al tempo degli smartphone, scritto da Fabio Veneri e in libreria dal 3 settembre.

Semplice, non semplicistico, il libro si offre ai palati più acerbi, ma anche agli sguardi più raffinati grazie alle eleganti immagini di Victor Cavazzoni: la cernita va dall’antichità ai primi del Novecento, da Omero a Musil, dai romanzi al teatro, alla poesia e perfino alla filosofia, rappresentata dall’Apologia di Socrate, un “thriller legale che ha tenuto col fiato sospeso i lettori di tutta l’Attica”. Ogni opera è dissezionata in cinque punti: un riassunto ironico della misura di un tweet; la “community”, ovvero i personaggi principali; “il commento dei follower”; le “geolocalizzazioni”, i luoghi; “l’hacker”, cioè un commento fulminante, spassosissimo.

Guerre e disastri. In principio è l’ira, quella di Achille: quando non si arrabbia, piange; è fatto così. Quell’altro, invece, Ulisse è passato alla storia per una battuta ai piedi del cavallo: “E se già questa vi pare un’odissea aspettate di vedere quel che mi succederà poi”. È una fake news: nell’Iliade il cavallo non compare mai. Tutta colpa del “trojan nel computer di Omero”. Nel sequel latino, l’Eneide, spicca una signora, Didone, amante infelice del protagonista: “Fondare una nuova patria. Poteva trovare una scusa più originale”. Mai fidarsi dei troiani. Altro giro, altro flirt: “La guerra. Poi una grande love story. Nuovamente la guerra. Un’altra grande love story. Infine, Napoleone viene sconfitto”. Tolstoj, però, è più dettagliato: la sua Guerra e pace non dura meno di 1.500 pagine.

Tipi da neurologo. Il capostipite dei nevrotici è Edipo Re, ma della sua cattiva fama è responsabile soprattutto Freud. Anche Tiresia ci ha messo del suo: “Se parlo, questa volta viene fuori un casino”. Infatti parla: troppo tardi e in modo sibillino. Non tragico, ma tragicomico, è invece il picaro Don Chisciotte, “un amante di storie medievali che si crede cavaliere errante. Sbaglia epoca di 800 anni. Viaggia per la Mancia e vive straordinarie avventure”. Psicotico conclamato è il Cappellaio Matto di Alice nel Paese delle Meraviglie, un posto in cui “il tè è buono da impazzire” e “il primo spoiler non si scorda mai”. Non sta tanto bene neppure “quel fannullone di Samsa”, tutto casa, lavoro e grigiume: per ammazzare la noia “ne ha escogitata un’altra delle sue. Pur di non lavorare, s’è trasformato in uno scarafaggio”. Che Metamorfosi! Chiudono la serie psichiatrica Pirandello, che si è beccato una “denuncia per abbandono di Sei personaggi”, e L’uomo senza qualità, vissuto in tempi infausti in cui “ancora non era tutto self-marketing”.

Pazzi d’amore. La più celebre crisi di nervi seguita ad amore pernicioso è quella di Romeo e Giulietta, due “fuori come un balcone”. A Notre-Dame de Paris va in scena una liaison poliamorosa: “Tre uomini desiderano la bella Esmeralda. Il buono non è buono. Il brutto è mostruoso. Il cattivo è diabolico. Naturalmente è una tragedia”. Infine c’è quel sentimentale di Proust, che nella Recherche “ha condiviso un ricordo con te. Visualizzalo ora”.

Mostri e altri parenti. Dicono i lillipuziani di quello sciroccato di Gulliver: “Mangia come 1728 di noi. Ma gli vogliamo bene lo stesso”, mentre le Piccole donne sono invecchiate malissimo: “Piccole nonne. È una saga senza fine”. Pinocchio “prima diventa un burattino, poi un essere umano. In mezzo, molte bugie”. Dracula invece vive in un posto “particolarmente indicato per un turismo mordi e fuggi. Quanto servirebbe un po’ di relax. Ma non è facile trovare una bara aperta a quest’ora”. Famiglia complicata è anche quella dei Ramsay, che continua a rimandare la Gita al faro, tanto che il povero James frigna: “Quando mio padre fa così, ho un flusso di coscienza”. Anime inquiete, anche se Anime morte, sono quelle di Gogol’, qui prevedibilmente accostato a Google (già l’aveva fatto Berlusconi). In breve: “Un uomo si inventa uno strano business. Comprare contadini morti che sono creduti vivi. Qualcuno a un certo punto comincia a insospettirsi”.

Stomaci forti. A Ventimila leghe sotto i mari sorprese non mancano, benché l’equipaggio del Nautilus si lamenti: “In quanto a ospitalità potremmo andare a scuola dai cannibali”. Diversamente spericolato è Tom Sawyer, “uno che guarda un cantiere mentre gli altri lavorano”. Ma le avventure più belle, in fondo, capitano solo ai pirati perché “chi trova un nemico trova un tesoro”. Bastava cercarlo sull’Isola del tesoro.

Un uomo libero: Scirea. Trent’anni dopo lo schianto

E così sono trenta. Trent’anni da quando Gaetano Scirea, signor libero e libero signore, ci lasciò. Era il 3 settembre 1989, una domenica. Successe su una strada polacca, in uno schianto. Aveva 36 anni, era il vice di Dino Zoff. Lui, Gai, a spiare per la seconda volta (proprio così: per la seconda volta, maledizione) il Górnik Zabrze, la squadra dei minatori che la Juventus avrebbe poi affrontato ed eliminato, agevolmente, dalla Coppa Uefa; la Juventus a Verona, per la seconda di campionato, 4-1 rotondo e spensierato con doppietta di Totò Schillaci.

I compagni lo seppero all’uscita dell’autostrada, dal casellante. Il Paese, dalla voce di Sandro Ciotti alla Domenica sportiva. Millenovecentottantanove: gli studenti e i carri armati di Piazza Tienanmen, la caduta del Muro di Berlino, la scomparsa di Leonardo Sciascia e Samuel Beckett, la fucilazione di Nicolae Ceausescu in una Romania non più prona.

Gaetano Scirea ha avuto, da morto, tutto quello che avrebbe meritato da vivo, ma non gli demmo, o gli demmo poco, per quel pudore (suo) che rallentava la frenesia (nostra). I titoli li forniva ai datori di lavoro, non ai giornali. Ci manca, ci manca tanto, perché tutto, in Italia, è cambiato, persino il ruolo che occupava: non si scrive più “libero”, si dice “centrale”. Ai suoi tempi non c’era Internet, non c’erano i social: la sua timidezza era una Bastiglia che solo Mariella conquistò per dargli Riccardo, che nella Juventus odierna governa il settore dei match analyst.

Se il papà di Felice Gimondi era camionista, il papà di Gaetano lavorava alla Pirelli. Le origini operaie ne hanno forgiato il carattere, schivo e leale. Scirea nacque il 25 maggio 1953 a Cernusco sul Naviglio, cintura milanese, una comunità con un debole per i battitori liberi, da Roberto Tricella, suo erede alla Juventus, a Roberto Galbiati, sponda Toro. Giampiero Boniperti lo prelevò dall’Atalanta, Titta Rota, Ilario Castagner e Giulio Corsini erano stati i suoi primi istruttori. Gai giocava a centrocampo, fu Heriberto Herrera – quello del movimiento, il domatore di Omar Sivori – ad arretrarlo, a impostarlo da ultimo baluardo, o meglio ancora: da regista difensivo.

Venne arruolato per sostituire Billy Salvadore, e ci volle un infortunio, a Luciano Spinosi, per spianargli la strada. Allenatore, Carlo Parola; e, subito dopo, Giovanni Trapattoni. Scirea libero, Francesco Morini detto Morgan stopper e via via tutti gli altri, da Beppe Furino a baron Causio a Roberto Bettega. Alla Juventus dal 1974 al 1988, ha vinto 7 scudetti, 2 Coppe Italia, 1 Coppa dei Campioni (quella, tragica, dell’Heysel: in qualità di capitano, lesse il drammatico messaggio ai tifosi, “Giochiamo per voi”), 1 Coppa delle Coppe, 1 Coppa Uefa. 1 Supercoppa d’Europa, 1 Intercontinentale. E con la Nazionale di Enzo Bearzot disputò tre Mondiali, laureandosi campione nel 1982.

Scirea è sempre stato Scirea, in campo e fuori, mai espulso, eppure comandava le barricate, mai un gesto che non fosse normale, quasi noioso. Aveva quel naso a prua che gli indicava la rotta, si sganciava spesso, segnò due gol in un derby rovesciato da 0-2 a 4-2, non snobbava i taccuini: semplicemente, non era così ruffiano, così “figliodi”, da intortarli. La riservatezza, a volte, arma il coraggio.

La società gli ha intitolato una curva dello Stadium, non proprio a sua immagine e somiglianza visti i gusti e le amicizie degli inquilini. Portava a casa tifosi sconosciuti, “sai, Mariella, hanno fatto tanti chilometri per vederci”, e a Firenze, un pomeriggio di risse, invitò i belligeranti a piantarla, “Non vi vergognate? Pensate alle vostre mogli, ai vostri figli”.

Era fatto così. E dal momento che militava nella Juventus sembrava ancora più alieno, più lontano dai cliché che ci piace distribuire. Solo un pezzo di cronaca, e di carta, lo rese più orgoglioso della carriera, il diploma di maestro che aveva promesso a papà Stefano e mamma Giuditta. Lo conseguì nel 1987, all’Istituto magistrale Regina Margherita di Torino. Studiava in salotto, studiava in ritiro, Mariella lo interrogava su Ugo Foscolo e Giovanni Pascoli, come ha raccontato Fabrizio Prisco nel libro Campioni per sempre. E poi lo scritto: scelse la traccia di Norberto Bobbio su cosa significhi “cultura”. E poi il compito di matematica: una tortura. Quindi gli orali, italiano e scienze naturali: si salvi chi può. Si salvò. Vinse.

Come al Bernabeu di Madrid, la sera dell’11 luglio 1982. Andate a rivedervi la trama che annunziò il secondo gol. Altro che manifesto di calcio vecchio, decrepito. Ripassiamola insieme: pressing difensivo di Paolorossi su Paul Breitner, palla a Scirea, a Bruno Conti, di nuovo a Pablito, ancora a Gai. Siamo nell’area tedesca. Tacco (ripeto: tacco, non tocco) di Scirea a Beppe Bergomi, da Bergomi a Scirea, a Marco Tardelli, controllo un po’ così, drop mancino, gol. L’urlo ci fece prigionieri. E per un attimo, “quello”, dimenticammo la bellezza di tutti gli altri.

Dal Messico, nel 1986, Scirea si improvvisò persino giornalista per I Siciliani, valoroso foglio antimafia di Claudio Fava. Era una finestra sul mondo, Gaetano, non solo un lucchetto.

Giacarta, come Atlantide, sta affondando velocemente. Ma nessuno si chiede perché

Per via di quelle compenetrazioni tra cronaca e arte, se i Matia Bazar dell’iniziale formazione (per capirci, quella con l’inarrivabile Antonella Ruggiero, dopo solo il nulla!) dovessero scrivere oggi (e non dunque nel 1986) il brano Ti sento, rimerebbero così: “Ti sento/ Giacarta isola persa/ Amanti soltanto accennati”.

Questa è la notizia: come la leggendaria Atlantide (originariamente nel testo della canzone), Giacarta sta affondando. E a un ritmo compreso tra i 10 e i 30 centimetri all’anno (che non è poco). Secondo le ultime rilevazioni, il 40% dell’area urbana della megalopoli – che ospita quasi 10 milioni di abitanti per una superficie di poco più di 661 chilometri quadrati – è già 4 metri sotto il livello del mare.

Adesso, mentre il capo dello Stato Joko Widodo ha chiesto infatti l’autorizzazione di spostare la capitale del paese dall’isola di Giava a quella di Kalimantan, inizia la corsa ai rimedi. Come fermare questa rovina? Recentemente hanno approvato uno schema per la costruzione di isole artificiali nella baia di Giacarta che fungerebbero da cuscinetto, inoltre è stata ipotizzata una grande diga costiera, un muro dunque, alta trenta metri a protezione (per il costo di 40 miliardi di dollari), ma i muri – lo insegna la Storia – non risolvono mai nulla.

Nessuno, però, si chiede perché sta succedendo. Certo, si tratta di una zona sismica, e dunque instabile, ma decadi di sfruttamento incontrollato delle riserve idriche del sottosuolo, innalzamento del livello del mare e crisi climatica non hanno aiutato e lasciano davvero poco tempo che, cantano sempre i Matia Bazar ne Le frontiere, “scivola il tempo passa da un vetro/ scivola scivola scivola”.

Bulgakov e il “mio” ucraino: “Chi lo capisce?”

Apre il mio passaporto, mi guarda. Poi lo riapre, cerca i timbri, mi guarda. Continua a sfogliarlo. Il ragazzo alla frontiera, all’areoporto di Kiev, non sorride. Lo sguardo è indecifrabile e pure un po’ triste. “Che ho fatto di male?”, mi chiedo. E poi: “Chi me l’ha fatto fare di venire qui in vacanza?”. Non succede niente, quindi si può proseguire. Libero degrado in libero movimento, dove tutto è possibile: è la prima immagine della Capitale ucraina, tra le cupole azzurre e dorate della Cattedrale di Sant’Andrea, una specie di Madonna bionda che appare all’improvviso in un mega-murales e sullo sfondo una grande ruota panoramica che non ti aspetteresti mai di trovare nel centro storico di una città. Poi, con il passare delle ore, il degrado mi sembra sempre di meno e le possibilità sempre di più. Metti una mattina nella casa di Bulgakov, ad Andreevsky descent. Siamo in tre: io, una guida ucraina che parla solo la sua lingua e un turista turco, che mastica l’inglese. Lei è entusiasta: ci conduce da una stanza all’altra mostrando scrittoi, camere da letto, fotografie. Arriva pure a invitarci a suonare un pianoforte. Poi ci indica una vetrina. Dice (in ucraino): “Qui ci sono le edizioni del Maestro e Margherita in tutte le lingue”, Ci guarda. Il mio compagno d’avventura turco pare perso. Allora (in ucraino) mi dice: “Puoi tradurre in inglese quello che sto dicendo?”. E io, non senza sentirmi galvanizzata dalla comprensione di una lingua di cui non so una parola, lo faccio. Non era poi così difficile: indicava i libri, bastava un po’ d’intuito. Epperò, mai sprecare una sensazione magica. Quando torno, sullo scoglio di un’isola, lo leggo Il Maestro e Margherita. Rapimento magico tra simboli e allegorie a tratti cupissimi, a tratti variopinti. “Mi è piaciuto tantissimo, ma non ho capito niente”, è la mia sintesi finale, vagamente iperbolica. Potenza di Kiev.