Mo basta pè carità. Dinnanzi a quel che sta combinando la Disney, torna buono il compianto Pino Daniele: non se ne può più di leoni parlanti, libri della giungla senzienti, cani in lip sync, tutti più veri del vero ossia più falsi del falso.
La Casa di Topolino sta facendo cassa con le versioni live-action o, quando gli attori e gli animali in carne e ossa sono latitanti, fotorealistiche dei propri leggendari classici d’animazione, ma se il box office esulta, altro, molto altro vien per nuocere: che rimane di quell’originaria, primigenia poesia per immagini e suoni nelle parafrasi, al più giudiziose e calligrafiche, correnti?
Si è partiti venticinque anni fa, con il Libro di Rudyard Kipling affidato alla curatela del regista Stephen Sommers, e ora siamo già a quota tredici rifacimenti, passando per un’altra Giungla nel 2016 e di lì in poi uno stillicidio di carta carbone: nello stesso anno il secondo calco di Alice in Woderland, la Bella e la Bestia nel 2017, Christopher Robin nel 2018, addirittura una scala reale quest’anno. Il brutto e pressoché fallimentare – 350 milioni di dollari d’incasso, 170 di budget di produzione – Dumbo di Tim Burton; un Aladdin con il genio Will Smith di cui non si sentiva la mancanza, e comunque capace di oltre un miliardo al botteghino a fronte di 183 milioni di budget; il munifico Re Leone, 14 milioni in questo primo e lungo weekend italiano, già oltre un miliardo e mezzo di dollari rastrellati globalmente, al cospetto di uno stanziamento ventilato di 250 milioni, e non è finita: il 17 ottobre arriverà Maleficent – Signora del male, mentre il 12 novembre sarà la volta – non in sala, ma in streaming sulla prossima piattaforma Disney +, che promette di inaugurare con 300 film e settemila episodi tv – di Lady and the Tramp, alias Lilli e il vagabondo.
Il vulnus principale di questa operazione commerciale, che tale è e nulla più, riguarda sopra tutto gli animali: se siete in vena erodiana, andate fuori dai cinema che proiettano Il Re Leone e svelate a piccini – e grandi – l’arcano, che Simba, Nala e Musafa non sono vere fiere, bensì ologrammi digitali in CGI. Nel caso versassero delle lacrime, rispeditele al mittente: non c’è spazio per il sentimento, in questi remake pedissequi, asfittici e menzogneri.
E il peggio, crediamo, è da venire: il facocero Pumbaa che scorreggia a più non posso e il suricato Timon restio a contenerlo strappano qualche risata, Lilli e il vagabondo – almeno a giudicare dal trailer – annichiliscono in un colpo solo cinofilia e cinefilia. Tessa Thompson per la cocker spaniel altoborghese, Justin Theroux per lo spinone randagio, il problema sono proprio le voci messe in bocca agli eponimi cagnetti: a vederli muovere le labbra come fonazione umana comanda, ti si stringe il cuore e girano le palle.
Ma il Wwf o qualsivoglia ente protezione animali non ha nulla da eccepire al riguardo? Roba da rivalutare le istanze anti-speciste, perché nel caso del remake live-action del quindicesimo classico Disney (1955) gli animali non sono iperrealistici sosia digitali, ma veri quattrozampe – per lo più cani di salvataggio – a quali la computer grafica (CGI) s’è “limitata” a far muovere le labbra. Per fortuna, il trailer non rivela la scena più iconica, Lilli e il vagabondo che trovano il primo bacio dai due capi di uno spaghetto, ma il verdetto pare ugualmente segnato: non si uccidono così anche i cagnini. Per tacere delle nostre emozioni.