Un remake da cani: non se ne può più dei live-action Disney

Mo basta pè carità. Dinnanzi a quel che sta combinando la Disney, torna buono il compianto Pino Daniele: non se ne può più di leoni parlanti, libri della giungla senzienti, cani in lip sync, tutti più veri del vero ossia più falsi del falso.

La Casa di Topolino sta facendo cassa con le versioni live-action o, quando gli attori e gli animali in carne e ossa sono latitanti, fotorealistiche dei propri leggendari classici d’animazione, ma se il box office esulta, altro, molto altro vien per nuocere: che rimane di quell’originaria, primigenia poesia per immagini e suoni nelle parafrasi, al più giudiziose e calligrafiche, correnti?

Si è partiti venticinque anni fa, con il Libro di Rudyard Kipling affidato alla curatela del regista Stephen Sommers, e ora siamo già a quota tredici rifacimenti, passando per un’altra Giungla nel 2016 e di lì in poi uno stillicidio di carta carbone: nello stesso anno il secondo calco di Alice in Woderland, la Bella e la Bestia nel 2017, Christopher Robin nel 2018, addirittura una scala reale quest’anno. Il brutto e pressoché fallimentare – 350 milioni di dollari d’incasso, 170 di budget di produzione – Dumbo di Tim Burton; un Aladdin con il genio Will Smith di cui non si sentiva la mancanza, e comunque capace di oltre un miliardo al botteghino a fronte di 183 milioni di budget; il munifico Re Leone, 14 milioni in questo primo e lungo weekend italiano, già oltre un miliardo e mezzo di dollari rastrellati globalmente, al cospetto di uno stanziamento ventilato di 250 milioni, e non è finita: il 17 ottobre arriverà Maleficent – Signora del male, mentre il 12 novembre sarà la volta – non in sala, ma in streaming sulla prossima piattaforma Disney +, che promette di inaugurare con 300 film e settemila episodi tv – di Lady and the Tramp, alias Lilli e il vagabondo.

Il vulnus principale di questa operazione commerciale, che tale è e nulla più, riguarda sopra tutto gli animali: se siete in vena erodiana, andate fuori dai cinema che proiettano Il Re Leone e svelate a piccini – e grandi – l’arcano, che Simba, Nala e Musafa non sono vere fiere, bensì ologrammi digitali in CGI. Nel caso versassero delle lacrime, rispeditele al mittente: non c’è spazio per il sentimento, in questi remake pedissequi, asfittici e menzogneri.

E il peggio, crediamo, è da venire: il facocero Pumbaa che scorreggia a più non posso e il suricato Timon restio a contenerlo strappano qualche risata, Lilli e il vagabondo – almeno a giudicare dal trailer – annichiliscono in un colpo solo cinofilia e cinefilia. Tessa Thompson per la cocker spaniel altoborghese, Justin Theroux per lo spinone randagio, il problema sono proprio le voci messe in bocca agli eponimi cagnetti: a vederli muovere le labbra come fonazione umana comanda, ti si stringe il cuore e girano le palle.

Ma il Wwf o qualsivoglia ente protezione animali non ha nulla da eccepire al riguardo? Roba da rivalutare le istanze anti-speciste, perché nel caso del remake live-action del quindicesimo classico Disney (1955) gli animali non sono iperrealistici sosia digitali, ma veri quattrozampe – per lo più cani di salvataggio – a quali la computer grafica (CGI) s’è “limitata” a far muovere le labbra. Per fortuna, il trailer non rivela la scena più iconica, Lilli e il vagabondo che trovano il primo bacio dai due capi di uno spaghetto, ma il verdetto pare ugualmente segnato: non si uccidono così anche i cagnini. Per tacere delle nostre emozioni.

 

Il mistero di Marinelli, fuoriclasse mai sentito

Ci sono domande che non avranno mai risposta: esiste Dio? per esempio; e poi – ovviamente – come fu possibile che Carlos Marinelli non fece mai carriera. A questo punto l’interrogativo è: Marinelli chi? Nessuno – o quasi – sa infatti chi sia. Ma c’è chi conserva un lieto ricordo di quell’argentino dai piedi fatati.

Corre la stagione 2002/ 2003. Andiamo allo stadio – il Delle Alpi di Torino, tra i più brutti della storia – con la certezza che la cosa più divertente della partita sarà la gara alla miglior battuta per sdrammatizzare lo spettacolo osceno a cui scegliamo, inspiegabilmente, di assistere. Il peggior Torino di sempre (o perlomeno quello della più umiliante delle tre retrocessioni del decennio 1996- 2005) perseguita i nostri fine settimana.

Il 9 febbraio 2003, a Roma, c’è Lazio-Torino, una partita (come tutte quelle contro le big a quei tempi) senza storia. E tale sembra fino a metà secondo tempo, con la Lazio avanti di un gol soltanto. Poi dalla panchina del Toro si alza un tipetto dinoccolato e magro dai capelli biondo ossigenati: “Ecco Maradona”, ridiamo noi di fronte alla tv. È infatti l’ultimo acquisto di un mercato invernale di impossibile riparazione: si chiama Carlos Marinelli, ha giocato nel Boca Juniors, ha il volto di Maradona tatuato sul braccio e viene dal Middlesbrough, dove una qualche leggenda nata chissà come narra che il mitico Paul “Gazza” Gascoigne abbia detto: “Vado al Riverside Stadium solo per veder giocare lui”. Ora possiamo vederlo anche noi e ai primi due palloni controllati male scattano le prime risate. Ma bastano pochi minuti e al sarcasmo subentrano ululati di gioia. Quel ragazzo accarezza il pallone come pochi: lo tiene incollato al piede, dribbla, lancia e crossa con una precisione assolutamente fuori luogo per le nostre abitudini. Al 71’ Marinelli pennella un sinistro sulla testa di Ferrante che batte Peruzzi. Quindi, a pochi secondi dal termine, galoppa verso la porta avversaria, tira e per poco non fa il secondo. Noi ci guardiamo increduli: “È fortissimo!”.

Passa una settimana ed eccoci di nuovo all’orrendo Delle Alpi. C’è il Modena dei miracoli, la “Longobarda” di mister De Biasi. Tanto per cambiare, sulla carta, è durissima. Mister Ulivieri, invece di mettere subito in campo quel folletto biondo, schiera l’uruguaiano Magallanes. Per fortuna nel secondo tempo entra Marinelli, ma al 58’ segna il Modena. Appena sette minuti dopo la palla è nei piedi di Carlos, a tre quarti campo in mezzo a un nugolo di maglie canarino: stop di sinistro, suola sinistra a rientrare e fuori uno. Sembra perdere l’equilibrio, poi in un fazzoletto di campo ecco la doppia suola sinistro-destro e fuori il secondo. Punta l’area con la palla incollata al piede, finta a colpi di anca e fuori il terzo; al limite dell’area doppio tocco destro-sinistro e assist perfetto (in mezzo ad altri due avversari) per capitan Vergassola. Insomma, gol. Noi ci abbracciamo increduli.

Dura poco. La settimana successiva a Torino arriva il Milan. Carlos è in campo dal primo minuto, ma dopo appena 120 secondi Inzaghi segna. Quindi, a fine primo tempo, nel giro di due minuti Seedorf chiude i conti con una doppietta. A quel punto esplode una violenta contestazione: finisce a fumogeni in campo e lacrimogeni in curva. Campo squalificato fino a fine stagione.

C’è però ancora il derby, ospita la Juve, dunque si può giocare al Delle Alpi. Partita senza storia, ma è pur sempre il derby. Di fronte a miseri 19.826 paganti, i granata vanno sotto dopo 5 minuti (autorete) e menano come fabbri (l’unica cosa che possono fare). Solo Carlos danza sul pallone, e quando con un doppio colpo tunnel-scavetto mette a sedere prima Montero e poi Davids noi ci guardiamo increduli. Dura poco: l’arbitro De Santis, che ha già espulso Tudor e Lucarelli dopo un accenno di rissa, caccia Marinelli per una banale mano sulla sua spalla. Toro in nove, poi in otto e partita strafinita. Eppure, a pochi minuti dalla fine, Fattori (un difensore) si trova a tu per tu con Buffon. Nemmeno lui ci crede, infatti si ferma. Poi capisce cosa sta accadendo: finta, Buffon a terra, ma non tira. Seconda finta, Buffon di nuovo a terra. Ma non tira. Terza finta, Buffon sempre per terra, tira. Ma il recupero di Davids manda la palla in angolo di un soffio. Azione interminabile che noi (dall’altra parte dello stadio) crediamo a gioco fermo. Invece no, si batte l’angolo, era azione buona. Dopo un minuto la Juve fa 2-0. Per fortuna quel campionato calvario finirà un mese e mezzo dopo. Toro in B e Marinelli passa in pochi mesi tra Middlesbrough, Boca Juniors e Racing club. Senza gloria.

Passano quasi due anni, nel 2004-05 il Toro punta forte al ritorno in A con una squadra finalmente degna, ma dopo una partenza a razzo, a gennaio è crisi. E allora, ecco il colpo che non ti aspetti. Torna Marinelli. Entusiasmo alle stelle. Dura poco. Colleziona 19 presenze (un gol su rigore) e qualche buona prestazione fino a che mister Zaccarelli (subentrato a fine stagione) lo mette ai margini. L’ultima immagine di Carlos è un’esultanza in canottiera a bordo campo la sera del vittorioso spareggio kafkiano contro il Perugia del 26 giugno 2005. Pensiamo di giocarci la Serie A, invece – con il fallimento che verrà – lo spareggio è per non retrocedere in C.

Nell’estate 2005, dopo il fallimento, Marinelli è tra i pochi a non abbandonare la nave, ma il suo procuratore gli ha fatto firmare un contratto con dei dilettanti argentini. Bisogna aspettare un altro gennaio.

Arriverà, ma dal nuovo Toro di Urbano Cairo nessuno richiama Marinelli, che – a quanto dice Wikipedia – giocherà ancora per 10 anni in giro per il mondo senza che nessuno ne senta più parlare. Sembra incredibile, ma forse solo a noi che lo abbiamo visto mettere a sedere Montero e Davids in un fazzoletto di campo.

Due morti sul lavoro a San Giuliano (Mi)e Rivolta d’Adda (Cr)

Due morti sul lavoro in Lombardia e una terza vittima a L’Aquila: un 32enne è morto schiacciato sotto la pedana in un cantiere. Uno dei due deceduti lombardi era un agricoltore di 62 anni a Rivolta d’Adda in provincia di Cremona, mentre la seconda vittima è un operaio di 39 anni che ha perso la vita a San Giuliano, alle porte di Milano, precipitando da dodici metri. L’uomo stava camminando in cima a un capannone nell’area industriale quando il tetto è crollato sotto i suoi piedi. Il 118 lo ha soccorso mentre era in arresto cardiaco a causa delle gravi lesioni alla testa, ma l’operaio è morto poco dopo i primi tentativi di rianimazione. Da quanto emerso dalle prime ricostruzioni sulla vicenda mortale di Rivolta d’Adda, l’incidente sarebbe stato causato dalla mancata regolare manutenzione del trattore. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, infatti, l’improvvisa rottura di un innesto idraulico del mezzo avrebbe provocato la fuoriuscita di olio bollente finito addosso all’agricoltore, provocandogli gravi e profonde lacerazioni sul torace. L’uomo è morto sul colpo.

“La soluzione esiste: fare come in Emilia”

Piero Genovesi, zoologo, è il responsabile dell’area di mitigazione danni e impatti della fauna per l’Istituto superiore di ricerca e conservazione ambientale (Ispra). Collabora con la Convenzione delle Nazioni Unite per la biodiversità ed è tra i massimi esperti di specie animali invasive, autore di libri e articoli scientifici citati in tutto il mondo.

Dottor Genovesi, l’abbattimento controllato è l’unica strada per arginare la proliferazione dei cinghiali?

Non l’unica, ma certamente è essenziale. E va messa in atto coinvolgendo i cacciatori, che sono parte fondamentale della soluzione al problema. Sono i cacciatori che dovrebbero aiutarci a mantenere l’equilibrio dell’ecosistema: sia durante la stagione di caccia “classica” in battuta, che però è molto invasiva, sia partecipando di più come volontari all’abbattimento selettivo programmato da Regioni. In questo modo seguono un corso e vengono formati a intervenire in modo mirato, trasformando la caccia in una politica di controllo della fauna. Poi c’è la prevenzione, che se ben applicata può portare risultati straordinari: in provincia di Reggio Emilia, ad esempio, grazie alle recinzioni elettrificate l’entità dei danni si è ridotta di 10 volte in 6 anni, dai 200 mila euro di richieste nel 2009 ai 20 mila nel 2015. Fino adesso molti agricoltori si limitano a chiedere che i cinghiali vengano abbattuti, ma non collaborano come dovrebbero.

I cacciatori, però, sono anche i responsabili delle immissioni abusive che hanno contribuito al problema.

È vero, ed è successo anche nelle aree alpine, dove la presenza del cinghiale non è naturale ma dovuta proprio alle immissioni abusive. Ma tutto sta nella crescita culturale e di responsabilità dei cacciatori che devono percepirsi come attori dell’ecosistema e non come suoi sfruttatori. Su questo in Italia abbiamo da fare molti passi avanti, perché il cacciatore “medio” ha un atteggiamento poco rispettoso dell’ecosistema e non accetta di seguire regole stringenti nella propria attività. Ciò non vuol dire che nel mondo della caccia italiana non ci siano componenti all’avanguardia, ma su questo terreno siamo ancora indietro rispetto ad altri Paesi.

Come intervenire invece nelle aree urbane?

L’elemento fondamentale è la gestione dei rifiuti che va migliorata in modo da non avere cumuli di immondizia per strada, che soprattutto nelle zone periferiche sono un richiamo formidabile per i cinghiali. Abbiamo città che ormai arrivano ai margini di ambienti naturali o seminaturali, con cui bisogna fare i conti. Su questo manca la sensibilità: i cinghiali, se si sentono disturbati o attaccati possono diventar molto pericolosi. A Roma, ad esempio, ho visto filmati di bambini che provocavano i cuccioli con la madre nei paraggi, un comportamento pericolosissimo. Per prevenire gli incidenti stradali, invece, è importante identificare i punti di passaggio, limitare la velocità, predisporre l’adeguata segnaletica, tenere puliti i bordi delle strade nei punti con molta vegetazione e, dove possibile, posizionare barriere che rendano impossibile agli animali entrare sulla carreggiata.

Il cinghiale avanza tra boschi, monnezza e (meno) doppiette

Non ce l’ha fatta Antonio Rocca, 47enne di Simeri Crichi, in Calabria, morto ieri dopo un mese di coma. A ucciderlo è stato un cinghiale che gli si è parato davanti mentre entrava, in moto, nel suo paesino. Dopo averlo sbalzato dal mezzo l’animale lo ha aggredito, causandogli profonde ferite al volto e all’addome. E si riapre il dibattito sull’emergenza ungulati. All’inizio del 2019 un branco sull’A1, tra Lodi e Casalpusterlengo, causò un incidente a catena in cui perse la vita un 28enne e rimasero ferite altre 10 persone, di cui cinque minorenni. Pochi giorni fa, il 13 agosto, nel Cuneese un uomo di 59 anni è finito in un fossato con l’auto per evitare l’impatto.

I danni alle coltivazioni si stimano ogni anno in centinaia di migliaia di euro e sono destinati ad aumentare in assenza di piani di contenimento.

Numeri incerti

L’ultimo censimento dei cinghiali in Italia risale al 2010 e lo ha realizzato l’Ispra, che dal 2008 ingloba l’ex Infs (Istituto nazionale della fauna selvatica). La popolazione, nove anni fa, era stimata in almeno 900 mila esemplari. Da allora, nonostante manchino numeri certi a livello nazionale, quelli forniti da Regioni e aree protette fanno ritenere che si sia superato ampiamente il milione. Tra i motivi, i tecnici dell’Ispra indicano soprattutto l’aumento della superficie dei boschi, che avanzano in tutta Europa per l’abbandono delle campagne e la fuga verso i centri urbani. Ma a giocare un ruolo importante è anche la crisi della caccia, meno attraente e più regolamentata di qualche decennio fa, quando i cacciatori erano il 3% della popolazione (1.701.853 licenze nel 1980 scese nel 2017 a 738.602, l’1,2%). Poi ci sono le “immissioni”, cioè le liberazioni di animali nati e allevati in cattività per rimpolpare – in una certa area – il numero di esemplari cacciabili: vietate per legge dal 2015, continuano abusivamente grazie agli accordi tra cacciatori e allevatori e alle difficoltà nei controlli. Infine, si registra una sensibile diminuzione dei predatori come orsi e lupi.

Perché tra le case

Il cinghiale, spiegano gli esperti, è una specie estremamente adattabile che tende a colonizzare ogni tipo di ambiente. La dieta è onnivora e molto varia, il che li porta ad avventurarsi alla ricerca di cibo non solo in campi e piantagioni ma anche nelle aree urbane, soprattutto dove ci sono rifiuti all’aria aperta. Tra le città più abituate a convivere con la presenza di cinghiali c’è Roma, circondata da aree verdi e soggetta a cicliche crisi dei rifiuti; ma anche Genova, che presenta interi quartieri a ridosso di aree boschive. Quando invadono campi coltivati, invece, oltre a fare incetta del raccolto devastano il terreno scavando e causando danni da migliaia di euro. In alcune zone i danni da cinghiale costituiscono oltre l’80% dei danni da fauna selvatica di cui gli agricoltori chiedono il risarcimento: nel 2018, in Calabria sono stati chiesti 230 mila euro di danni e gli incidenti stradali sono stati 23. Ma la situazione peggiore è in Abruzzo: in provincia de L’Aquila le richieste di danni nel 2017 hanno superato i 400mila euro, in provincia di Chieti hanno sfiorato i 900 mila.

Che fare? Le possibili soluzioni

La soluzione più efficace è l’abbattimento, immediato o dopo cattura, che può essere affidato ai cacciatori durante il naturale periodo d’attività (da ottobre a dicembre) oppure programmato da Regioni e aree protette anche al di fuori della stagione di caccia, con l’ausilio di cacciatori volontari appositamente formati che sopprimono gli animali per ridurne la quantità (abbattimento selettivo).

Prima che i cinghiali si possano abbattere la legge impone però che venga messa in atto un’opera di prevenzione attraverso il posizionamento di recinzioni elettrificate attorno ai raccolti o di barriere anti-invasione ai bordi di strade e autostrade. Nel territorio di Reggio Emilia, il caso più virtuoso in Italia, grazie alla prevenzione si è arrivati ad abbattere l’entità dei danni, dai 200 mila euro chiesti nel 2009 ai 20 mila del 2015. Gli animalisti, contrari a ogni politica di abbattimento, insistono perché si sperimentino tecniche di sterilizzazione di massa che al momento, però, ancora non esistono.

Uccide un coetaneo dopo una lite e confessa via social

Ha ucciso un amico a coltellate al termine di una rissa fuori da una discoteca. Poi ha confessato tutto con un post su Facebook e con una Instagram story poco prima di essere fermato dai carabinieri di Arona sull’autostrada A26. È successo alle 2 di ieri fuori dall’“Aeroplano”, locale fra Comignago e Borgo Ticino, in provincia di Novara. L’omicida si chiama Alberto Pastore, 23 anni, stessa età della vittima, Yoan Leonardi per il quale il personale del 118 non ha potuto fare nulla per salvarlo. “Eh ragazzi come ben sapete io ho fatto una cazzata e adesso sto pensando come suicidarmi, perché non potrò mai vivere con questa cosa che mi tormenterà – spiegava Pastore nel video pubblicato su Instagram, girato mentre stava guidando –. A me dispiace più che altro per Yoan, per Sara, per tutte le persone che mi conoscono”. Dietro il suo gesto c’è una disputa d’amore: “Adesso non so se Yoan ci sarà ancora, ma il mio obiettivo era quello di far vedere alla gente che per amore non bisogna mai intromettersi nelle faccende altrui, anzi è meglio pensare a se stessi, non intromettersi nelle relazioni altrui e farsi la propria vita, senza tenere nascosto al migliore amico”.

Nemmeno il signor Weah ha un cane

L’unica verdura che mangia mio figlio sono i pomodori. Non fa sconti, ogni mediazione è vana: quelli o niente. Siamo dovuti uscire a prenderli, l’altra sera. Come negli altri quartieri della Capitale, a Montesacro è ancora tutto chiuso per ferie, o quasi: all’unica cassa aperta del Tuodì di via Gargano c’è fila. Non ho fretta. Do un’occhiata al cellulare, a dire il vero, più d’una, poi alle persone in coda.

Due ragazzini cinesi che fanno scorta di dolciumi, un’anziana con l’inevitabile carrellino a stampa scozzese, una coppia sulla sessantina male in arnese che litiga a mezza bocca. E subito prima di me un quarantenne africano. È bello, alto, fiero ancorché dimesso.

Catalizza il mio interesse, e subito afferro perché: ricorda George Weah. Non l’appesantito presidente della Liberia di oggi, ma la furia elegante che con indosso la maglia del Milan l’8 settembre del 1996 si beve l’intera Hellas Verona e segna un gol indimenticato.

Ha jeans sdruciti, infradito malandate, nel taschino della camicia a maniche corte spunta un bicchiere di plastica. In mano stringe una bottiglietta di tè alla pesca. Davanti alla cassa, sono esposti i prodotti per gli animali: “Papà, la prendiamo per il cane?”. Mio figlio, tre anni, mi indica una latta grande di bocconcini con pollo, illuminata dalla fotografia di un golden retriever: “Alimento completo per cani”, 1.230 grammi. Problema, noi non abbiamo un cane.

È quasi il nostro turno, il sosia di Weah sta pagando. Dal taschino della camicia tira fuori le monetine, per lo più rosse. Deve meno di un euro e mezzo: alla bottiglietta di tè si sono aggiunti i bocconcini che hanno attirato l’attenzione di Giovanni. Quando capisco che cosa c’è che non va, che cosa mi sta raggelando, è troppo tardi, se n’è già uscito. Anche lui non ha un cane.

“Denunciano quasi soltanto gli stranieri”

“Per ridurre lo sfruttamento che, troppo spesso sfocia nella riduzione in schiavitù, è necessario che tutti i soggetti coinvolti raccontino alle forze dell’ordine quanto accade”. Così l’avvocato Claudio Petrone legale della Flai Cgil a Taranto, sintetizza il quadro della lotta al caporalato in una parte della Puglia.

Avvocato Petrone, la presenza dello Stato nei campi è arrivata?

La vicenda che ha coinvolto la povera Paola Clemente è servita ad aumentare l’attenzione su una problematica presente e che il sindacato della Flai Cgil denunciava da tempo. Purtroppo, come spesso accade, è stata necessaria la tragedia per far sì che l’opinione pubblica sapesse. Lo sfruttamento dei lavoratori è punito con pene severe dal codice penale e bisogna avere la forza di denunciare.

Chi sono coloro che non denunciano?

Può sembrare paradossale, ma il più delle volte chi trova coraggio di non cedere al ricatto occupazionale, sono in maggioranza cittadini stranieri. E, mi creda, non lo fanno per un tornaconto personale. Il più delle volte, infatti, il risarcimento dei danni subiti è di difficile ottenimento e certamente non immediato: i racconti di chi è sfruttato nei campi trova sempre riscontro nell’attività investigativa delle forze dell’ordine. Pensi che in una recente vicenda alcuni cittadini rumeni sono dovuti rientrare in Italia più volte e a loro spese, per poter testimoniare nel processo, ma lo hanno fatto per amore della giustizia.

Ma trovano davvero giustizia nelle aule dei tribunali?

Certamente e anche velocemente. Sono ormai anni che vengono effettuati numerosi arresti nella provincia di Taranto, soprattutto grazie alle competenze specifiche dei carabinieri del Nil e dei reparti territoriali. Alcuni processi sono in corso, ma in altre vicende gli imputati hanno subito scelto di patteggiare o sono stati condannati.

Eppure il fenomeno continua a essere imponente: cosa serve ancora?

Le ripeto: serve più forza per denunciare. I lavoratori, italiani e non, devono sapere di non essere soli, possono contare non solo sulle forze dell’ordine, ma anche sulle associazioni sindacali. La Flai Cgil fornisce consulenza legale, ma è presente con le sedi territoriali nei piccoli comuni e soprattutto nella campagne, proprio accanto ai lavoratori.

“Malpelo” e altre storie di ordinario caporalato

“Oltre 20 caporali arrestati e altrettanti denunciati a piede libero tra i quali tanti italiani. E poi centinaia di migliaia di euro in multe, attività agricole sospese, automezzi e immobili sequestrati. Sono i risultati del “piano d’azione” varato dalla Prefettura di Taranto e dalla Regione Puglia contro il fenomeno del caporalato nelle campagne di Taranto, la risposta dello Stato dopo la tragedia di Paola Clemente, la 49enne originaria della provincia ionica morta il 13 luglio 2015 mentre lavorava nei campi per due euro all’ora.

“Un traffico di braccia che nella crisi perdurante del sistema è sempre più presente e pressante” come hanno spiegato Paolo Peluso e Lucia La Penna della Flai Cgil che da sempre è in prima linea nella tutela dei diritti dei lavoratori che operano nelle campagne tra il capoluogo ionico e il materano. E proprio ieri, dinanzi alla Prefettura del capoluogo lucano, centinaia di manifestanti hanno chiesto un alloggio sicuro e più servizi per i lavoratori stranieri alloggiati nei capannoni della Felandina di Metaponto, un vero e proprio ghetto in cui, qualche settimana fa, ha perso la vita una donna a causa di un incendio. Nel tarantino, negli ultimi 12 mesi, grazie all’impegno dei Carabinieri, Polizia e guardia di finanza stanno arrivando i primi frutti. In particolare l’opera del e in particolare del “Nil”, il comando dell’Arma per la tutela del lavoro, sta portando alla luce storie incredibili di sfruttamento. Ad esempio quella di un ragazzino: lo chiameremo Malpelo, come il Rosso protagonista di una novella di Giovanni Verga. Anche lui come il personaggio nato dalla penna dello scrittore siciliano è ancora minorenne e ha già imparato cosa siano “il sudore e la fatica”. Non va a scuola, non usa il cellulare, non esce con gli amici. È tutto proibito dal suo padrone. Ed è qui che la realtà supera il romanzo: il suo padrone è suo padre e a differenza di Mastro Misciu non mostra affetto nei confronti del figlio. I carabinieri lo hanno salvato da quell’uomo che lo aveva ridotto in schiavitù.

L’uomo è finito in carcere con accuse pesantissime: “per aver esercitato nei confronti del figlio minore poteri corrispondenti al diritto di proprietà, costringendolo a prestazioni lavorative inumane”.

Il pubblico ministero Antonella De Luca le ha formalizzate dopo l’agghiacciante racconto che Malpelo ha reso quando è stato portato via dalla sua prigione. “Di solito – ha detto il giovane – la sera mangio da solo preparandomi da solo i pasti, mentre loro (il padre e la sua convivente, ndr) mangiano e vanno a coricarsi prima che io abbia finito di lavorare. Una volta ho risposto male a mio padre e mi ha colpito con un ferro alla gamba, un’altra volta mi ha tirato un cazzotto in faccia perché mi lamentavo del lavoro e poiché qualche giorno fa non avevo svolto un lavoro che mi aveva chiesto, ossia riparare un cancello, mi ha lanciato il barattolo della Nutella colpendomi al volto. Mio padre è sempre stato così, sin da bambino”.

Ha poi aggiunto: “Sono il suo schiavo, il suo miglior operaio”. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge addirittura di peggio. Quell’uomo lo ha picchiato “con i più disparati arnesi da lavoro” e, dopo averlo obbligato a lasciare la scuola, ha provato persino a investirlo con il trattore. Malpelo è salvo solo grazie alla sua prontezza di riflessi: quando il padre si è lanciato contro di lui “è riuscito a passare – come si legge negli atti d’indagine – nella parte centrale del mezzo evitando le ruote”.

Malpelo è tornato libero grazie a una sorella che non sapeva nemmeno di avere. Separata da lui alla nascita è stata adottata da una famiglia che vive lontano da lui. Lei lo ha trovato e quando ha scoperto le sue condizioni di vita ha denunciato tutto. Una sua storia che potrà dare nuovo impulso ai tanti invisibili costretti a lavorare per oltre 10 ore al giorno in cambio di una paga di 30 euro da cui i caporali sottraggono denaro per il trasporto per un alloggio fatiscente. Donne e uomini che non hanno il diritto di lamentarsi. Proprio come Malpelo.

Tangenti Lombardia, prime ammissioni di “Jurassik Park”

Trascorsi circa tre mesi dal maxi-blitz della Dda di Milano che il 7 maggio portò a 43 misure cautelari, tra cui gli arresti degli esponenti lombardi di Forza Italia, Fabio Altitonante e Pietro Tatarella, sono arrivate nei giorni scorsi le prime parziali ammissioni di Nino Caianiello, il presunto “burattinaio” di un vasto sistema di mazzette, appalti truccati, nomine pilotate e finanziamenti illeciti alla politica. In particolare, l’ex responsabile di FI a Varese e ritenuto il “ras” dei voti del partito di Silvio Berlusconi in quell’area, sentito dai pm il 6 agosto, ha confermato, da quanto si è saputo ieri, di aver incassato soldi e in particolare dall’ex segretario di FI a Gallarate (Varese) Alberto Bilardo, che ha già collaborato nelle indagini con centinaia di pagine di verbali, nell’ambito di una presunta vicenda corruttiva a Gallarate. A ogni modo, Caianiello non è mai riuscito a usare la parola “tangenti” e alle domande degli inquirenti, che si aspettavano ammissioni complete, l’ex esponente azzurro, che si era detto pronto a un cambio di linea rispetto alla chiusura iniziale, ha risposto: ”Scusate, ma non ce la faccio”.