Il governo riparta dalla Costituzione

Il momento è serio: è il momento di essere seri. Non possiamo dire che c’è un pericolo fascista, e subito dopo annegare in quelle incomprensibili miserie di partito che hanno così tanto contribuito al discredito della politica e alla diffusa voglia del ritorno di un capo con “pieni poteri”. I limiti del Movimento 5 Stelle e del Partito democratico sono tanti, gravi ed evidenti. Ma se, per entrambi, può esistere il momento del riscatto: ebbene, è questo. Da cittadini, da donne e uomini fuori dalla politica dei partiti, ma profondamente preoccupati dell’interesse generale, proponiamo di partire dall’adozione di questi dieci punti fondamentali, interamente ispirati al progetto della Costituzione antifascista della Repubblica: e in particolare al suo cuore, l’articolo 3 che tutela le differenze (di genere, di cultura, di razza, di religione) e impegna tassativamente a rimuovere le disuguaglianze sostanziali. È del tutto evidente che ognuno di questi punti comporta un impegno pressante dell’Italia nella ricostruzione di una Unione europea che provi ad assomigliare a quella immaginata a Ventotene, e cioè in armonia e non in opposizione al progetto della nostra Costituzione.

1. Legge elettorale proporzionale pura: l’unica che faccia scattare tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Per mettere in sicurezza la Costituzione stessa: cioè la democrazia.

2. L’ambiente al primo posto: la decarbonizzazione per combattere il cambiamento climatico, l’impegno per una giustizia ambientale, locale e globale, come unica strada per la salvezza della Terra. Dunque, difesa dei beni pubblici, a partire dall’acqua e dalla città. Unica Grande Opera: messa in sicurezza di territorio e patrimonio culturale, nel più stretto rispetto delle regole, e attuata attraverso un piano straordinario di assunzione pubblica. Moratoria di tutte le grandi opere (Tav incluso), e consumo di suolo zero. Un piano per le aree interne e un piano per la mobilità che parta dai territori, dalle esigenze delle persone e dei pendolari. Piano pubblico di riconversione ecologica della produzione e del consumo incentrato sull’efficienza energetica e sul recupero dei materiali di scarto.

3. Lotta alle mafie e alla corruzione. Costruire una giustizia più efficiente investendo risorse, mezzi e personale necessari. Garantire l’autonomia della magistratura e la sua rappresentatività nell’organo di autogoverno.

4. Ricostruzione della progressività fiscale e imposte sulla ricchezza (imposta di successione e patrimoniale) e revisione costituzionalmente orientata della spesa pubblica, a partire dalla drastica riduzione della spesa militare. L’autonomia differenziata, che è di fatto la secessione delle regioni più ricche, va fermata: restituendo invece centralità alle politiche per il Mezzogiorno.

5. La libertà delle donne come metro di un’intera politica di governo: lotta senza quartiere alla violenza sulle donne; perseguire l’obiettivo della parità nella occupazione e salariale; congedo di paternità obbligatoria, asili nido pubblici e gratuiti, assistenza agli anziani e alle persone disabili, campagne per la condivisione dei compiti di cura, etc.

6. Lotta alla povertà: reddito di base vero (diretto a tutti coloro che percepiscono meno del 60% del reddito mediano del Paese, accompagnato da politiche attive del lavoro e interventi formativi volti alla promozione sociale e civile della persona), e attuazione del diritto all’abitare.

7. Parità di diritti per tutti i lavoratori e le lavoratrici (ovunque e comunque lavorino), a partire dal diritto soggettivo alla formazione per tutto l’arco della vita. Lotta alla precarietà, salario minimo e ripristino dell’articolo 18.

8. Progressivo rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale e programma di assunzioni di operatori e professionisti del Servizio sanitario nazionale, i cui standard devono essere omogenei e non differenziati per regione.

9. Abolizione del reato di immigrazione clandestina, abrogazione dei decreti Sicurezza e politica di accoglienza verso i migranti orientata sulla Costituzione e sull’assoluto rispetto dei diritti umani.

10. Restituire scuola e università alla missione costituzionale, negata dalla stratificazione di pessime riforme: formazione dei cittadini e sviluppo del pensiero critico.

Appello firmato da: Velio Abati, Angela Barbanente, Piero Bevilacqua, Anna Maria Bianchi, Ginevra Bompiani, Adrian Bravi, Carlo Cellamare, Luigi Ciotti, Francesca Danese, Vezio De Lucia, Gianni Dessì, Donatella Di Cesare, Paolo Favilli, Giulio Ferroni, Goffredo Fofi, Nadia Fusini, Luca Guadagnino, Maria Pia Guermandi, Francesca Koch , Ernesto Longobardi, Maria Pace Lupoli, Laura Marchetti, Franco Marcoaldi, Lorenzo Marsili, Alfio Mastropaolo, Ignazio Masulli, Tomaso Montanari, Rosanna Oliva, Francesco Pallante, Enzo Paolini, Pancho Pardi, Rita Paris, Valentina Pazè, Livio Pepino, Tonino Perna, Anna Petrignani, Antonio Prete, Mimmo Rafele, Andrea Ranieri, Lidia Ravera, Marco Revelli, Pino Salmè, Battista Sangineto, Loretta Santini, Giuseppe Saponaro, Enzo Scandurra, Beppe Sebaste, Toni Servillo, Paola Splendore, Corrado Stajano, Sarantis Thanapoulis, Alessandro Triulzi, Nicla Vassallo, Guido Viale, Vincenzo Vita.

Cairo, il salvatore a tempo perso

Funziona come Fonzie, il personaggio di Happy Days che non riusciva mai a chiedere scusa. Urbano Cairo da anni dà ricette, consiglia manovre, critica governi, commissiona sondaggi, eppure smentisce sempre: “No, non voglio entrare in politica”. Ieri però l’illustre presidente di Rcs ha fatto un passettino in avanti nella lenta discesa in campo, tanto che l’intervista concessa al Foglio è stata presentata come il suo manifesto politico. Anche stavolta dichiarazione di rito: “L’idea di candidarmi non mi sfiora”. Poi però ecco il Cairo show: “Grillini e leghisti ci hanno fatto perdere 15 mesi, l’economia è in stagnazione e in politica estera non abbiamo fatto un figurone”. Poi bordate su Quota 100 e Reddito di cittadinanza, e per finire il tocco di classe. Per dimostrare che lui sì, è vero, segue la politica, sarebbe l’uomo perfetto per risollevare il Paese come ha fatto con le sue aziende, trasforma in oro tutto quel che tocca, ma a tempo perso, con la mano sinistra, come hobby: “Sì, ho dato un’occhiata al bilancio dello Stato. Ho scoperto che i costi di beni e servizi ammontano a 180 miliardi l’anno. Un’enormità. Se riduci un po’, puoi fare una manovra super espansiva”. Che nonchalance. Ora che il manifesto c’è, non resta che aspettare in gloria Urbano il salvatore.

Brennero, l’ad italiano accusa gli austriaci: “Extra costi enormi”

È scontro tra l’amministratore italiano e quello austriaco di Bbt Se, Raffaele Zurlo e Konrad Bergmeister, per quanto riguarda la gestione degli appalti per la realizzazione del tunnel del Brennero. Ai microfoni della Rai di Bolzano, Zurlo ha contestato “200 milioni di euro di extra-costi ascrivibili al contratto Tufles-Pfons sul lato austriaco a fronte di un valore contrattuale di 377 milioni, ovvero +53%”. Zurlo ha ribadito “il rapporto di grande e proficua collaborazione per più di cinque anni, fino a quando Bergmeister ha ritenuto di procedere per proprio conto per poi pretendere che io rettificassi le sue decisioni, delle quali mi sono dovuto dissociare formalmente per non esserne corresponsabile”. L’ad italiano di Bbt Se ha ipotizzato “esecuzioni di varianti non autorizzate, esecuzioni di prestazioni mai sottoposte ad approvazione, prestazioni eseguite senza contratto, assunzioni di impegni di spesa non autorizzate secondo lo statuto della Bbt Se”. In questo modo sarebbe andato perso il cofinanziamento dell’Ue su 41 milioni di euro già spesi. “Mi auguro che siano i magistrati a verificare ogni eventuale sperpero di denaro pubblico, che io ho voluto arginare”, ha concluso Zurlo.

Almaviva, la corsa contro i licenziamenti

Il futuro per i 1.600 lavoratori dell’Almaviva Contact di Palermo resta appeso alla formazione del nuovo governo Pd-M5S con la flebile speranza che non ci siano grandi scossoni al ministero dello Sviluppo economico, così da convocare subito un tavolo con l’azienda ed evitare l’apertura della procedura di licenziamento collettivo promessa da Almaviva. Ma di tempo per la risoluzione della crisi non ne è rimasto molto: lo spettro della cacciata di metà dei dipendenti del sito palermitano si potrà evitare solo se entro la prima settimana di settembre si raggiungerà un accordo.

La tabella di marcia è segnata: il 30 novembre terminerà il Fondo d’integrazione salariale (Fis), vale a dire il sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa rinnovato a giugno. Quindi, per avviare la procedura di licenziamento, Almaviva inizierà a muoversi 75 giorni prima, vale a dire entro venerdì 7 settembre. Un iter che la società ha tutta l’intenzione di perseguire, proprio come ha fatto con la sede romana, chiusa nel 2016 lasciando a casa 1.660 persone. Mentre a Napoli si è evitato il peggio solo con un accordo capestro. “Aspettiamo una convocazione per i primi di settembre”, dice Riccardo Saccone della Slc Cgil che smentisce la data del 6 settembre circolata in queste ore. “Fino ad oggi in agenda c’è solo un incontro organizzato dal sottosegretario al Lavoro, il leghista Claudio Durigon, che però riguarda tutta la filiera delle telecomunicazioni. Evento destinato ad essere annullato.

Mentre il tavolo di fine luglio convocato al Mise, e disertato da Luigi Di Maio, si è concluso con un nulla di fatto: le parti sociali hanno puntato sugli ammortizzatori sociali, concessi generosamente nel corso degli anni. Ma Almaviva da mesi va sostenendo che non è più possibile continuare con la cassa integrazione, perché la crisi è sistemica. Peccato che la società stia intanto cavalcando la strada della delocalizzazione, soprattutto in Romania. Così, mentre l’emorragia di licenziati Almaviva continua, il suo fatturato cresce, la società si espande a livello internazionale e le gare milionarie vinte aumentano.

A Palermo Almaviva fa base da anni, con un polo importante per la gestione dei flussi di chiamate in entrata e in uscita dei call center. Il problema, secondo l’azienda, è lo scompenso tra questi volumi di traffico – ora ridotti in seguito a scelte strategiche dei committenti Tim e Wind-3 – e il numero di lavoratori ancora in attività. Così 1.600 lavoratori in esubero, salvo clamorosi colpi di scena che al momento non si intravedono, rischiano il licenziamento entro fine anno.

In queste ore soluzioni concrete per garantire il mantenimento dei livelli occupazionali non ce ne sono. Le parti sociali hanno più volte chiesto ad Almaviva di usare anche il fondo di integrazione salariale per evitare i licenziamenti. Si tratta di 20 milioni di euro stanziati per il 2019 dal decretone che ha introdotto anche il reddito di cittadinanza. C’è ancora capienza, ma la società non ha intenzione di allungare per altri mesi il contratto dei 1.600 lavoratori avviando subito la procedura di licenziamento.

Navigator ostaggio di De Luca “Pd e 5 Stelle ora lo fermino”

“Vorrei che la risoluzione della nostra vertenza diventasse uno dei punti dell’accordo di un eventuale governo Pd-Cinque Stelle. Siamo finiti ingiustamente in mezzo a uno scontro politico tra la Regione Campania a guida dem e il governo giallo-verde, il nuovo corso dovrebbe iniziare anche da qui”, dice Carlo Del Gaudio, 58 anni, navigator ‘diversamente giovane’ che si è rimesso in gioco partecipando, e superando, la selezione nazionale indetta da Anpal e ministero del Lavoro.

Da ieri, Del Gaudio è in sciopero della fame, con altri tre colleghi. A Napoli, di fronte all’ingresso laterale di palazzo Santa Lucia, si alza il livello della protesta dei 471 navigator campani ancora a spasso, mentre in altre regioni il percorso è iniziato e i primi stipendi sono stati erogati. Il governatore Pd della Campania, Vincenzo De Luca, si è rifiutato di firmare la convenzione con l’Anpal Servizi dopo che nelle scorse settimane, con i toni sobri che gli appartengono, ha definito l’intera operazione “una boiata di una imbecillità totale” e “una porcheria clientelare peggio dei forestali, che almeno loro gli incendi li spengono”. Così quattro navigator destinati ai Centri per l’impiego di Napoli e fermi ai box – oltre a Del Gaudio, Ilenia De Coro, Fabrizio Greco e il pugliese Giuseppe Bianco –, a nome dei 471 che dovrebbero lavorare con contratto a tempo determinato di 21 mesi a 1700 euro, stritolati dal paradosso di essere disoccupati che dovrebbero lavorare per trovare lavoro ad altri disoccupati, si alimenteranno solo con acqua e zucchero fino a buone nuove. Modello “Marco Pannella”.

Il più anziano del gruppetto, Del Gaudio, ha scritto una lettera al capo del Stato Sergio Mattarella: “Gli ricordiamo che se passa il principio che una legge nazionale può essere disapplicata da una Regione per il volere e gli interessi di un singolo governatore, il principio di unità nazionale viene messo fortemente in discussione”. Al Fatto spiega: “Il rifiuto di De Luca non è spiegabile con le logiche normali. Qui stiamo combattendo una battaglia per il lavoro, per il funzionamento del reddito di cittadinanza, una misura in cui credo. E se stanno discutendo di programmi del nuovo governo, il lavoro è la questione più seria”. Ilenia De Coro, 38 anni, un curriculum farcito di esperienze in formazione, ricerca lavoro e selezione del personale, aggiunge: “Siamo al centro di un braccio di ferro politico tra la Regione e il governo. Se fanno il governo M5Ss-Pd potrebbe cambiare qualcosa? Potrebbe essere positivo, non mi stupirei di niente, e mi auguro che la questione entri nel dibattito. Ma siamo fuori dal gioco politico, lottiamo per un diritto acquisito, sancito dalla Costituzione. Perché il no vale solo per noi in Campania”? Giuseppe Bianco, 34 anni, vive in provincia di Bari “ma ho partecipato alla selezione per Napoli perché c’erano il quadruplo dei posti. De Luca che si rifiuta di firmare è abbastanza anomalo. Non c’è coerenza con gli impegni presi nella conferenza Stato-Regioni, è lì che si è stabilito che la Campania aveva bisogno di 471 navigator”.

Alla base dei ragionamenti c’è la convinzione diffusa che l’ostruzionismo di De Luca sia una conseguenza dei rapporti conflittuali, ai limiti dell’ingiuria, con il vicepremier M5S Luigi Di Maio, titolare del dicastero del Lavoro, che sul Rdc e sui navigator ha puntato le fiches più consistenti della sua azione di governo. In questi anni De Luca e Di Maio (e i loro fedelissimi) se ne sono dette di tutti i colori: senza neanche quel garbo istituzionale doveroso per gli incarichi che ricoprono.

Ieri De Luca ha replicato. “La Regione non c’entra nulla. La vicenda è stata gestita da Anpal, a cui va rivolta ogni richiesta di soluzione del problema da loro creato”. Il governatore ha ripetuto e riassunto le ragioni della sua contrarietà: “In contraddizione con il decreto Dignità, si ripristinano ipotesi di contratto Co.co.co. che allargano le aree del precariato”. E rilancia: “Come Regione siamo impegnati a varare un concorso vero, per assumere 650 dipendenti nei Centri per l’impiego. Siamo impegnati a non alimentare serbatoi di precariato e a dare lavoro stabile, come quello previsto dal concorso del Piano per il lavoro (3 mila assunzioni, ndr), le cui prove partono il 2 settembre”. Uno dei quattro scioperanti, Fabrizio Greco, sintetizza: “Stiamo diventando merce per la prossima campagna elettorale, già iniziata sulla nostra pelle”. A meno che i segnali di pace Pd-M5S a Roma non si riverberino anche sui 471 navigator di Napoli.

Manovra, il “governo dei buoni” parte con l’aiutino Ue sul deficit

Ora che si profila il governo dei buoni, benedetto in alto Colle e in alta Europa, tutto è perdonato. Sui media, almeno, in attesa che lo faccia Bruxelles. L’aumento dell’Iva? Non è più un problema. Parola del ministro dell’Economia, Giovanni Tria: “Ci sono margini di manovra – ha spiegato al Corriere della Sera – Anche a leggi vigenti, senza altre misure, il deficit per il 2020 sarebbe sostanzialmente inferiore al 2,1 % del Pil previsto nel Documento di economia e finanza di aprile. Siamo molto sotto quel livello”. Il riferimento è a una stima vidimata a luglio dall’Ufficio parlamentare di bilancio: lasciando salire l’Iva fisseremmo il disavanzo all’1,7%, forse meno. Insomma, annullando l’aumento saremmo comunque sotto il 3%. E qui compare il concetto di “fortuna del subentrante”.

Il prossimo governo italiano – qualunque sia – si ritroverà in un’ottima posizione per contrattare con l’Ue il bilancio pubblico. La principale ragione è, apparentemente, un paradosso: l’Europa sta finendo in recessione, soprattutto la Germania, che vede fermarsi il suo manifatturiero e crollare gli indici di fiducia. Tradotto: Berlino, che vive di esportazioni, ha bisogno – viste le incertezze su mercati di peso come Usa, Cina e Gran Bretagna – che l’Europa continentale faccia la sua parte, comprando, per tenere in piedi il suo sistema produttivo e, dunque, il “consolidamento fiscale” (aka austerità) potrà essere abbandonata per qualche tempo.

Questa svolta politica ha già la copertura della Bce: falliti gli obiettivi di inflazione, con la recessione in arrivo e un sistema bancario vicino all’implosione, Francoforte ha già fatto sapere che è pronto il Quantitative easing 2 (l’annuncio è previsto il 12 settembre), mentre le aste di liquidità “gratis” per le banche sono già partite. Sono bastate le mezze parole di Mario Draghi e le indiscrezioni sulle agenzie amiche (Reuters) a mandare sotto zero il mercato dei titoli di Stato: i decennali italiani ieri pagavano interessi teorici dell’1,3%, vale a dire i livelli toccati – e solo per pochi mesi – nel pieno del Quantitative easing 1.

E allora, visto che Draghi tiene giù lo spread, si può tranquillamente trattare sul deficit. Torniamo a Tria: “Per me il deficit non è un tabù. È uno strumento di politica economica, e purtroppo l’Europa lo ha dimenticato. Però è uno strumento, non un fine”. Parole certo condivisibili, che vanno legate a quelle pronunciate venerdì al meeting dei ciellini a Rimini: “Sui conti l’Italia potrà muoversi con molta calma, anche perché si riapre il dibattito in Europa”. Si riapre sì, il dibattito, e per due motivi: uno riguarda tutti ed è la situazione appena descritta; l’altro è connesso con l’Italia e si chiama “governo dei buoni”.

Questo esecutivo, il cui programma di fondo è tenere Matteo Salvini lontano dal governo, inizia a nascere quando Giuseppe Conte, che ne è dunque l’ovvio candidato premier, normalizza il rapporto tra M5S ed establishment Ue prima avallando da Palazzo Chigi la candidatura dell’ex ministra tedesca Ursula von der Leyen a presidente della Commissione Ue e poi “convincendo” il gruppo grillino a Strasburgo a votarla (14 voti che risulteranno poi decisivi). L’inopinata crisi ferragostana innescata da Matteo Salvini è la miccia perfetta: adesso a Bruxelles guardano l’eventuale esecutivo giallo-rosé con occhi sognanti e a Conte riservano attestati di stima pubblici (vedi il recente G7).

Certo, la conversione a U di grillini e piddini potrà essere difficile da mandar giù per una certa quota dei rispettivi elettori, ma la scommessa è durare tre anni e il tempo sana molte cose. Paradossalmente, vista la svolta moderata del M5S, il primo atto – cioè la manovra – sarà la partita meno difficile da portare a casa. I punti su cui concentrarsi, e organizzare lo spin, ci sono già. Ce li riassume una fonte dem: il taglio del cuneo fiscale (su cui sono d’accordo entrambi), la lotta alle emissioni (in quota Greta), quella alla povertà e “qualcosa su scuola e ricerca”.

Il primo punto, però, è fissare il deficit: bloccando solo l’aumento dell’Iva si sta sotto al 3%. La teoria di Renzi, che ha dato il via alla trattativa giallo-rosé, è che l’anno prossimo il disavanzo vada portato al 2,9%, di fatto annullando così la necessità della mazzata sui consumi. Ieri, su Twitter, l’ha messa così: “L’Europa deve cambiare linea economica adesso (…) È tempo di investimenti, non di austerity”.

Il problema sarà trovare i soldi per il resto. Il cuneo fiscale – cioè quella parte di stipendio che se ne va in tasse e contributi (sia pagati dal lavoratore che dall’azienda) – può costare da 3 a 6 miliardi il primo anno a seconda delle ipotesi in cui si realizza: solo per le imprese, solo per i lavoratori o per entrambi (nulla vieta, ovviamente, che costi di più).

La lotta alle emissioni – ora che va di moda il contrasto al climate change – dovrebbe essere quel pezzo di manovra (investimenti pubblici o defiscalizzazioni per quelli privati) per cui si chiederà all’Ue l’esclusione dal Patto di Stabilità. Capitolo, peraltro, che ha già terrorizzato le imprese: Confindustria sta già chiamando i responsabili dei due gruppi per capire dove vogliono andare a parare.

L’ostacolo vero su questa via è un pezzo del mondo “democratico”, che non ha capito che persino a Berlino non ci chiedono (per ora) il pareggio di bilancio: le cattive abitudini, si sa, sono dure a morire.

Pizze, sardine, crostate e bollicine: quando la crisi si risolve a tavola

Ribaltone alle sardine, chez Umberto Bossi, annata 1994 per mandare a casa il primo governo Berlusconi.

Frolla di riforme costituzionali inzuccherate secondo l’antica ricetta della signora Maddalena Letta nell’anno di grazia 1997.

Governo Conte II in pizza bianca servito al riluttante Zingaretti per mantenere a Palazzo Chigi l’avvocato del popolo sponsorizzato dal Movimento 5 Stelle.

Se tra il Pd e i grillini sarà un matrimonio felice o tormentato lo dirà solo il futuro. È certo però che due incontri culinari saranno stati decisivi per il governo che verrà: il pranzo a base di pesce dei big 5 Stelle convocati da Beppe Grillo a Marina di Bibbona il 19 agosto. E la cena del 23 tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti a casa del sottosegretario alal Presidenza del consiglio, Vincenzo Spadafora. Anzi un aperitivo al secondo piano di un appartamento a due passi da Castel Sant’Angelo a Roma.

Niente a che vedere con le cene in salsa francese preparate fin nei minimi e maniacali dettagli, con cui Maria Angiolillo, incontrastata regina dei salotti romani, attovagliava i suoi ospiti: ovviamente il gotha del bel mondo, politici in testa. Impegnati anche in quei convivi a disegnare le sorti del Paese: nel 1995, per dire, nel villino arrampicato su Trinità dei Monti, Massimo D’Alema e Gianni Letta si misero al lavoro per scongiurare le elezioni anticipate con un governo di larghe intese presieduto da Antonio Maccanico davanti a una terrine de esturgeon fumé accompagnata da uno Chambertin Louis Latour.

E chi non ricorda il “patto della crostata” del 1997 a casa di Gianni e Maddalena Letta alla Camilluccia? Narrano le cronache che fu proprio una crostata a mettere d’accordo Silvio Berlusconi che temeva una legge draconiana sul conflitto di interesse e gli altri commensali, Franco Marini, Gianfranco Fini e Massimo D’Alema interessati a mandare avanti le riforme del sistema istituzionale. Che poi sfumarono.

Sempre nello stesso anno, ma a Testaccio a casa di Nicola Latorre s’incontrarono Massimo D’Alema e Antonio Di Pietro, poi candidato dall’Ulivo nel Mugello in Toscana, contro Giuliano Ferrara. Vicino di pianerottolo di Latorre ma pure di Enrico Letta che a casa sua al Cremlino, il palazzone affacciato su Piazza dell’Emporio, riceveva Mario Monti e il suo loden sobrio.

Niente a che vedere con le feste a casa Mastella a Ceppaloni: si narra che nel 2000 per i 25 anni di matrimonio di Clemente e Sandrina si ritrovarono attorno alla piscina a forma di cozza ospiti di un certo rango, da Walter Veltroni

a Ciriaco De Mita in giù. E pure il premier Giuliano Amato, che in partenza da Roma, secondo le cronache, aveva esclamato: “guarda cosa mi tocca fare per tenere in piedi la maggioranza”.

Amato poi ci aveva preso gusto, tanto che sei anni più tardi era stato invitato di nuovo per il matrimonio del figlio di Mastella. Che nel frattempo era diventato Guardasigilli decisivo per le sorti del governo di Romano Prodi: ovviamente presente pure lui a Ceppaloni insieme a tutti i suoi ministri o quasi.

Prodi è stato anche tra i protagonisti nel 1978 di un pranzo tra amici dai risvolti assai più drammatici: ricordate Gradoli, il caso Moro e la seduta spiritica a casa di Alberto Clò a Zappolino? E che dire, tanto per restare alla preistoria, dell’incontro del 1983 in un convento sulla via Appia Antica a Roma tra Ciriaco De Mita e Bettino Craxi in cui siglarono il “patto della staffetta” per avvicendarsi a Palazzo? Finì malissimo, ma poco male.

Nell’89 Craxi decise di cambiare registro politico e location: il Caf (il patto Craxi, Andreotti, Forlani) venne siglato a Milano sul camper che il leader socialista aveva adibito a suo ufficio mobile quando non riceveva all’hotel Raphael dietro Piazza Navona.

Iconiche pure le dimore ad Arcore e in Sardegna di Berlusconi ormai consegnate alla storia: chi l’avrebbe mai detto che una casa in semiperiferia gli sarebbe costato Palazzo Chigi? Fu nell’appartamento all’Eur di Umberto Bossi che si decise di staccare la spina al Berlusconi I grazie al “patto delle sardine” (l’unica cosa che il senatur aveva in casa) offerte a Rocco Buttiglione e a un riluttante D’Alema. Altro che i camerieri in guanti bianchi di Palazzo Giustiniani al servizio della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati che è riuscita ad attovagliare alla sua tavola, nelle famigerate serate per donne, persino qualche senatrice grillina. Un colpo da maestra.

Salvini ha fatto la crisi e ora i cocci sono suoi: “Tutti contro di me, lo fanno per le poltrone”

Da ieri sera Matteo Salvini è tornato di fatto un leader di opposizione. Ora è ufficiale: il ministro dell’Interno (dimissionario) è il protagonista del più spettacolare atto di autosabotaggio della storia politica recente. Si è tagliato le ali da solo e l’ha fatto nel momento del massimo consenso, mentre teleguidava un governo con meno del 20% dei parlamentari e volava da un comizio all’altro, da una spiaggia all’altra, da un sondaggio trionfale all’altro.

Era l’estate del grande consenso, è diventata l’estate degli scatoloni e dell’addio al Viminale. Ora Salvini può solo raccogliere i cocci del vaso che ha rotto.

Lo fa con una conferenza stampa rabbiosa, convocata al Senato alle otto di sera, un’ora prima dell’incontro definitivo tra Conte, Di Maio e Zingaretti.

“Quello che sta per nascere – esordisce Salvini – è un governo che ha come unico collante le poltrone”. In pochi minuti anticipa le parole dell’opposizione leghista per i prossimi mesi, forse anni: quello di Zingaretti e Di Maio è “un classico ribaltone all’italiana, un gioco di palazzo lontano dalla maggioranza silenziosa e laboriosa del popolo italiano”. Insinua un sospetto che aveva già agitato negli scorsi giorni: “Pare proprio che questa operazione fosse pronta da tempo, visto che il presidente del Consiglio resterà lo stesso, uno che passa con nonchalance da una settimana all’altra dalla Lega al Pd”.

Scandisce i termini che sarà costretto a usare contro questa nuova maggioranza: Bibbiano, Banca Etruria, Monte dei Paschi, Renzi, Boschi. E ancora: tradimento, inciucio, ribaltone, complotto, partito delle poltrone. Descrive il risultato dell’intesa M5S-Pd con un sacco di parole diverse. “Ora si capiscono tutti i ‘no’ delle ultime settimane”. Sostiene che la Lega abbia ottenuto il suo obiettivo: “Abbiamo smascherato il loro giochino”. Si dimentica soltanto un piccolo dettaglio: questa crisi l’ha iniziata lui.

Ricordiamolo ancora una volta: il 9 agosto il Carroccio annuncia a mezzo stampa una mozione di sfiducia contro Giuseppe Conte. Il pretesto della rottura è il voto dei Cinque Stelle in Parlamento sul Tav (peraltro dopo che lo stesso Conte aveva annunciato che la Torino-Lione si sarebbe fatta). Salvini è convinto di andare al voto subito, ma deve prendere atto molto presto che gli altri partiti glielo avrebbero impedito.

Così torna sui suoi passi con la leggerezza di un pachiderma alticcio. Nel giorno in cui Conte lo schiaffeggia pubblicamente in Senato, “il Capitano” fa ritirare la mozione di sfiducia contro di lui, proprio quando il premier è ormai a un passo dal Quirinale per le dimissioni.

Da quel momento inizia un incessante pressing sui Cinque Stelle, appena scaricati, per tornare insieme.

Ci ha provato fino alla fine. Ancora ieri mattina alcuni leghisti accreditavano un imminente incontro con Di Maio. Il ministro Gianmarco Centinaio – lo stesso che in Senato una settimana fa si metteva le mani in testa e si chiedeva “ma con chi cazzo abbiamo governato?” (i grillini, ndr) – dispensava ottimismo: “Di Maio premier? È un’ipotesi. Con i Cinque Stelle possiamo siglare un nuovo patto di legislatura”.

In serata, quando capisce che non c’è più nulla da fare, Salvini raduna i giornalisti al Senato e si rimette i vestiti che sembrava non gli entrassero più: quelli dell’opposizione. Sarà in Parlamento e probabilmente nelle piazze.

Che linguaggio parlerà la Lega non più di governo? Ascoltate Alessandra Locatelli, ministro della Famiglia per ben 47 giorni: “Speriamo che il popolo insorga”. E poi: “Ora c’è il rischio di insabbiamento per il caso Bibbiano”. Saranno tempi interessanti.

Zingaretti alla fine cede: ora il dubbio è se entrare o no

“No, il ministero dell’Interno non te lo possiamo dare. Tantomeno insieme alla casella di vicepremier. E no, il Commissario europeo spetta a noi”. Nicola Zingaretti, nel secondo incontro ufficiale di questa complicata trattativa con Luigi Di Maio, prova a mettere dei paletti. Dice di no al ministero della Giustizia per i Cinque Stelle (nelle sue intenzioni dovrebbe andare a Leu) e insiste soprattutto su tre ministeri di peso per il Pd (Economia, Esteri e Interni). E poi, c’è il suo stesso ruolo: non vuole fare il vicepremier insieme allo stesso Di Maio, anche per evitare l’effetto fotocopia rispetto al governo precedente. Non è detto che ci riuscirà: averlo dentro sarebbe una garanzia sia per il Colle, che per il Pd e il Movimento. Ma Zingaretti non vuole lasciare la Regione Lazio (cosa che si sentirebbe tenuto a fare, visto che è anche segretario Pd). Cederebbe dunque volentieri il posto al vice segretario Andrea Orlando (che ieri è stato fotografato mentre comprava un vestito), il quale è in corsa anche come Sottosegretario a Palazzo Chigi.

La sua leadership ne esce indebolita: all’inizio era fieramente contrario al governo, poi, quando si è convinto, ha posto un veto che è stato obbligato a togliere, dalle pressioni dentro e fuori dal Pd.

È sulle richieste di Di Maio che l’incontro delle 18 si interrompe dopo mezz’ora scarsa. Di Maio e Zingaretti si vedranno a Palazzo Chigi alle 21, insieme a Giuseppe Conte. “Questo confronto è partito. Siamo sulla strada giusta per costruire un accordo che parta dalle idee”. L’accordo è sostanzialmente fatto, anche se si lavora agli incastri (ovvero ai nomi per i ministeri). Non esattamente dettagli, dato il numero di interessi personali in campo. Quel che è chiaro è che il segretario dem ha ceduto: sono 48 ore che sta cercando le parole per dirlo. Ovvero, il modo per spiegare che il no assoluto a Giuseppe Conte a Palazzo Chigi nel nome della “discontinuità”, espresso subito dopo l’incontro con Di Maio venerdì sera a casa di Vincenzo Spadafora, è diventato un sì. Il segretario del Pd ha fatto marcia indietro, un pezzetto dopo l’altro, dopo aver passato giorni e giorni in riunione costante con il suo stato maggiore. Servono “elementi di discontinuità sia sui contenuti sia su una squadra da costruire”, ha detto ieri mattina. Poi, è andato al Nazareno, dove ha aspettato l’esito della riunione dei Cinque Stelle con Gianni Cuperlo, Andrea Orlando, Dario Franceschini, Paola De Micheli. Ore di tensione e di sospetti. Perché fino all’ultimo nel Pd hanno pensato che Di Maio volesse far saltare tutto.

Ma è da sabato che Zingaretti si è reso conto che sul no non avrebbe retto. Troppe pressioni, interne ed esterne. A vedere bene Conte a Palazzo Chigi è prima di tutto Sergio Mattarella. E poi, praticamente tutti i big del Pd. Come Dario Franceschini e Graziano Delrio che sono mesi che lavorano per arrivare a questo risultato. In origine, c’era il veto di Matteo Renzi, che però, avendo bisogno di evitare le elezioni e guadagnare tempo per fare il suo partito, ha schierato da subito se stesso e le sue truppe parlamentari (che sono ancora la maggioranza) prima sul sì all’accordo con i 5Stelle e poi sul sì a Conte. Un altro motivo per non fare un governo del quale non era convinto dall’inizio per Zingaretti: perché il terrore che l’ex premier faccia saltare il banco quando vuole accomuna molti. Poi, il segretario dem si è convinto: per farlo l’accordo, doveva intestarselo lui. Ci ha provato, ma il voltafaccia su Conte è un oggettivo indebolimento della sua leadership. In questi giorni, qualcuno ha persino evocato le sue dimissioni, in caso di Conte a Palazzo Chigi.

Ma le pressioni da parte praticamente di tutti i suoi in questi giorni sono state tantissime. E Zingaretti, più che una leadership in proprio, è l’espressione di svariati gruppi dirigenti interni al Pd: a un certo punto non poteva più opporsi. Fieramente contrario solo Paolo Gentiloni. Per i maligni anche per motivazioni personali: con il voto ora, avrebbe fatto il candidato premier. Ma potrebbe essere ricompensato con il posto di Commissario europeo o di ministro degli Esteri. In quota Zingaretti, Antonio Misiani e Paola De Micheli; in area renziana è già sicuro Ettore Rosato e poi potrebbe toccare a Andrea Marcucci e in subordine a Lorenzo Guerini, anche a garanzia dell’impegno dell’ex segretario, che in questi giorni con Zingaretti si è sentito più volte. Chi è stranamente silente da giorni è Carlo Calenda: è contrario all’accordo: dovrebbe annunciare giovedì la nascita del suo movimento con Emma Bonino.

Di Battista e Casaleggio, i falchi sconfitti dai realisti

Ci mettono tre ore a capire che la strada è segnata. E anche se metà di loro si “tura il naso”, anche se Davide Casaleggio si è portato i fogli che fotografano l’amaro sentiment della base, anche se Alessandro Di Battista si deve rimangiare metà dei comizi che ha fatto negli ultimi cinque anni, finisce con un sì. Perché Luigi Di Maio ha chiesto “massima condivisione”. Tradotto, non ha intenzione di lasciare il vertice sul Lungotevere senza che tutti si siano caricati sulle spalle una delle decisioni più difficili che il Movimento abbia mai affrontato.

Quando alle 18 meno qualche minuto convoca Nicola Zingaretti a Palazzo Chigi, il via libera dello stato maggiore Cinque Stelle è cosa fatta. Beppe Grillo aveva annunciato il suo arrivo, ma alla fine non si è visto: poco male, lui è stato il principale sostenitore dell’intesa con i democratici, nonché il main sponsor del ritorno di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, catapultato in fretta e furia nell’olimpo degli “elevati” a cui lo stesso Grillo sostiene di appartenere. Sulle stesse posizioni del garante ci sono Nicola Morra e Roberto Fico, a quanto pare gli unici davvero esasperati dall’esperienza con Matteo Salvini. Il resto è una nutrita pattuglia di realisti, convinti più per forza che per principio che sia la scelta giusta da fare.

Ci sono i ministri uscenti – gli unici due per i quali il leader M5S avrebbe chiesto garanzie – Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede. Perplessi ma alla fine consapevoli che “se cade il governo salta tutto quello che abbiamo fatto finora, sarebbe un errore clamoroso”. C’è il taglio dei parlamentari, arrivato all’ultimo voto, c’è il Reddito di cittadinanza che va messo in sicurezza, c’è la riforma della Giustizia. E poi – si ragiona al vertice – “comunque vale la pena provarci, perché le conseguenze dell’aumento dell’Iva sarebbero devastanti”.

Tocca ai due capigruppo, Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli, mettere sul tavolo la questione dei gruppi parlamentari: nessuno vuole il voto – né quelli al primo né tantomeno quelli al secondo mandato – e se a qualcuno venisse la malaugurata idea di riaprire la porta alla Lega, è certo che il Movimento perderebbe una buona fetta di eletti per strada. Non lo citano come un caso di scuola, no. Perché in collegamento telefonico c’è Alessandro Di Battista che sta provando ancora una volta a convincere i colleghi che tornare indietro si può. “Non possiamo consegnarci alle minoranze renziane – dice l’ex deputato – Ho paura che un accordo con il Pd tiri la volata alla Lega: a questo punto meglio ricostruire l’alleanza gialloverde, con Salvini fuori”. Un’ipotesi che ovviamente non ha appigli nella realtà.

Eppure Di Battista spera di far breccia in Luigi Di Maio, che tutti sanno essere tra i meno convinti dell’accordo con Zingaretti. Insiste sulle battaglie che sarà complicato affrontare insieme al Pd, come la revoca delle concessioni autostradali ai Benetton. E trova sponda in Davide Casaleggio, che a Roma ha portato i report sugli umori degli iscritti, la rassegna delle interazioni social delle ultime giornate. Dicono che è meglio fermarsi, gli elettori del Movimento. Ed è per questo che l’erede di Gianroberto impone il voto su Rousseau, a costo di derogare al regolamento secondo cui agli iscritti andrebbero concesse ventiquattr’ore di preavviso. Si voterà oggi – salvo ripensamenti dell’ultimo minuto – il pacchetto del nuovo governo, con la speranza che il nome di Conte metta a tacere i riottosi.

La linea Di Battista – lui che contro la riforma Renzi ha girato l’Italia in scooter e che si prepara a curare il primo libro per Fazi, argomento: Bibbiano – non passa. Anche Paola Taverna, che fino all’altroieri era tra le più convinte sostenitrici del ritorno al voto, alla fine in collegamento telefonico “si tura il naso” e dà il via libera.

Fuori il messaggio è chiaro. E anche uno come Manlio Di Stefano, che ancora venerdì durante un pranzo con Di Maio provava a convincerlo ad ascoltare le sirene della Lega, twitta il cambio di linea: “Salvini, un consiglio, dopo quello che hai combinato per arroganza e voglia di potere, devi solo stare zitto e vergognarti”.

Forse Di Stefano dovrebbe ascoltarne un altro, di consiglio. È quello che Gianluigi Paragone – pure lui tra i sostenitori del ritorno con Salvini – rivolge a Conte: “Gli manca un po’ di malizia: nel discorso dell’altro giorno alla Camera forse mi sarei coperto un po’ di più… In politica mai dire mai”.