Il nodo dei 2 “vice”, ma stavolta forse il premier fa da solo

E ora il primo nodo è il ruolo di Luigi Di Maio. Il capo dei Cinque Stelle ci sarà nel nuovo governo, ma è sulla sua pedina che balla la scacchiera di Pd e Movimento. Perché Di Maio vorrebbe tenersi il ruolo di vicepremier e prendersi il Viminale. Tanto, troppo per il Pd, che non vorrebbe ripetere la formula dei due vice del presidente del Consiglio, anche perché Nicola Zingaretti non vuole saperne di prendersi quel ruolo e, in generale, di entrare nel governo. Piuttosto, pretende il ministero dell’Interno per il Pd, perché lo sforzo di deglutire nel contempo Conte e lo stesso Di Maio a suo dire va risarcito. Tanto più che un bel pezzo del Pd per quel ruolo immagina un esterno di peso, il capo della Polizia Franco Gabrielli. E anche l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti è ancora in corsa. In questo quadro il leader del Movimento potrebbe ripiegare su un altro ruolo, con preferenza per la Difesa. Terza, e ultima scelta, il Lavoro. Ma sulla strada verso un nuovo governo ci sono altri nodi.

Perché i dem vogliono l’Economia (tra i nomi in ballo l’ex sottosegretario Tommaso Nannicini), dove invece i 5Stelle preferirebbero tenere Giovanni Tria. E ieri sera il Pd haprovato a rimettere in gioco anche la Giustizia, ministero che Di Maio vuole per Alfonso Bonafede, blindato assieme all’altro pretoriano Riccardo Fraccaro (che vorrebbe rimanere ai Rapporti con il Parlamento). Va deciso cosa fare dello Sviluppo, uno dei due ministeri di Di Maio: se ne parla per la vicesegretaria dem Paola De Micheli, mentre il suo omologo Andrea Orlando potrebbe sostituire Giorgetti come uomo macchina a Chigi. Per i Trasporti, invece, come sostituto di Toninelli è favorito un altro grillino, il capogruppo in Senato Stefano Patuanelli. Come ministri certi per il Pd è accreditato anche qualche renziano: Ettore Rosato, ad esempio, Lorenzo Guerini e persino il capogruppo in Senato Andrea Marcucci.

Infine, il commissario europeo. È un altro di ruolo di peso che il Pd esige in cambio del sì a Conte. E i due nomi in prima fila sono l’ex premier Paolo Gentiloni, contrario fino all’ultimo all’intesa con i 5Stelle, e l’eurodeputato Roberto Gualtieri, che Matteo Renzi aveva proposto addirittura per il Mef.

 

Rispettati i tempi del Colle. Oggi al via le consultazioni

La prudenza è obbligatoria, ma l’intesa di massima tra Movimento 5 Stelle e Pd per un nuovo governo va nella direzione e nei tempi indicati dal Quirinale. Dopo il primo giro di consultazioni, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva concesso qualche giorno ai partiti – proprio 5 Stelle e dem, a meno di un clamoroso riavvicinamento tra i gialloverdi – perché provassero a rendere più concreti quegli scenari di maggioranza ancora troppo vaghi. E ieri i segnali auspicati dal Colle sono arrivati, tanto che già domani sera Mattarella potrebbe conferire l’incarico per formare il nuovo esecutivo.

Ieri mattina il Quirinale aveva chiesto ai partiti di comunicare le loro indicazioni entro le ore 19, in modo da permettere al Colle di organizzare il calendario delle consultazioni. Non c’è stato bisogno di attendere tanto: già a metà pomeriggio, quando già sembrava esser caduto il veto democratico su Giuseppe Conte, il Colle ha diffuso l’agenda degli incontri con i partiti, spalmata – proprio come settimana scorsa – su due giorni.

Segno che sull’intesa di governo tra 5 Stelle e Pd stavano arrivando garanzie, confermate anche dal rientro in tutta fretta di Conte dal G7 di Biarritz, in Francia, da dove il premier è partito senza tenere la tradizionale conferenza stampa, in modo da preparare l’incontro in serata con Di Maio e Zingaretti a Palazzo Chigi.

D’altra parte nelle ultime ore Mattarella aveva chiarito che, in caso di evidente rottura nelle trattative tra 5 Stelle e democratici, avrebbe organizzato un calendario più compresso, concentrando in un solo giorno le consultazioni coi partiti. Un modo per accelerare i tempi, procedere con un governo di garanzia, sciogliere le Camere e andare a elezioni il prima possibile, così da votare entro l’autunno.

Non ce ne sarà bisogno. La crisi di governo dovrebbe così trovare una soluzione tra oggi e domani: Mattarella, dopo aver sentito il presidente emerito Giorgio Napolitano, incontrerà alle 16 la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e alle 17 il presidente della Camera Roberto Fico. Tra le 18:20 e le 18:40 di oggi saliranno invece al Colle i gruppi misti (da non sottovalutare, soprattutto a Palazzo Madama, il loro contributo numerico alla nuova maggioranza). Poi domani ecco i colloqui decisivi a partire dalle 10 (arriva il gruppo delle Autonomie) per chiudere alle sette della sera con la delegazione del Movimento 5 Stelle. Nel mezzo, Liberi e Uguali (10:30) e Fratelli d’Italia (11) al mattino, Partito democratico (16), Forza Italia (17) e Lega (18) nel pomeriggio.

A quel punto i giochi saranno fatti, almeno per quanto riguarda il premier. Sul resto – a partire dai nomi dei ministri – potrebbe volerci qualche ora in più, ma già nei giorni scorsi Mattarella aveva fatto sapere ai partiti che sarebbe stato disposto a concedere ulteriore tempo per completare la squadra, qualora le delegazioni avessero dimostrato di avere un’intesa di massima sulla formazione della maggioranza. Impegno mantenuto, non senza fatica, dai neo giallo-rossi.

Cade il tabù su Conte. Il governo è quasi fatto

Ha vinto l’inerzia della politica, hanno vinto le ragioni di tanti mondi e poteri diversi. Più forti dei dubbi di Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio, sposi obbligati con il mal di pancia celato dietro ai sorrisi da telecamere. Costretti a ignorare anni di insulti incrociati, sospetti che fanno rima con accuse, distanze che su certi temi sono siderali. Ma tutto questo ormai è già un’altra storia, è già un passato da rossori, perché il presente certifica che il governo tra Cinque Stelle e Pd si sta per fare con Giuseppe Conte ancora premier, Di Maio ancora dentro il governo e ministri di peso che dovranno andare ai dem.

La parziale compensazione per quella “discontinuità” che Zingaretti ha invocato per giorni e che ha non avuto, perché avrebbe voluto dire niente Conte a Palazzo Chigi: e invece no, tanti, tantissimi lo volevano ancora lì l’avvocato, come una garanzia per un governo che pareva eresia e di certo sarà un esperimento. Più che complicato anche a vederne i vagiti, perché per tutta la sera Pd e 5Stelle si accusano a vicenda di voracità, di chiedere poltrone su poltrone.

Iniziano a farlo già dalle sei e qualcosa della sera, dopo che Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sono incontrati nella pancia di Palazzo Chigi. È lì, nell’ufficio del vicepremier, che i due danno il via alla trattativa, quella vera. Zingaretti fa cadere il veto su Conte, ma in cambio chiede ministeri decisivi come l’Economia, l’Interno e gli Esteri. Di Maio invece vorrebbe lasciare il Tesoro a Tria e soprattutto pretende per sè il Viminale. E pure dentro i 5 Stelle in diversi alzano i sopraccigli: “Ma proprio al posto di Matteo Salvini vuole andare, ma non vede i rischi?”.

La sintesi è che bisogna discuterne tanto e allora il capo del M5S rilancia: “Dei nomi bisogna parlarne anche con Conte, visto che sarà lui il presidente del Consiglio”. Dopo 25 minuti di abboccamento finisce così, con il rinvio della trattativa decisiva alle 21, quando il premier dimissionario sarà tornato dal G7 a Biarritz. Ma prima era già successo quello che serviva a preparare il terreno per il vero tavolo. Con Zingaretti che, in mattinata, prova con parole pubbliche: “Si deve provare ad andare avanti, sto lavorando a una soluzione seria, ma dobbiamo ascoltarci (tradotto: vederci, ndr)”. Dopo, e soprattutto, il segretario dem telefona a Conte, ancora in Francia per il G7. Pochi minuti di colloquio in cui il segretario dem ribadisce la richiesta che è il suo mantra: “Presidente, voglio un governo di svolta, con discontinuità”. Non gli dice direttamente che il no al suo nome è saltato, ma il segnale è chiarissimo. Ma Zingaretti chiama anche per sondare il premier. Teme i sommovimenti dentro il Movimento, ha paura che le sirene della Lega siano ancora un problema concreto. Ne parla, di nuovo, con i big riuniti al Nazareno in attesa della svolta. Perché i dem aspettano il vertice dei 5Stelle, previsto nel pomeriggio. E ascoltano i sussurri che arrivano dall’altro fronte. “Luigi sta soffrendo molto, questo accordo gli pesa”, raccontano due big del Movimento. Il vicepremier, bermuda e camicia, si palesa sotto casa con la fidanzata per andare a pranzo immortalato dai fotografi. E mentre passeggia sotto i flash il Carroccio gli fa arrivare ancora offerte tramite intermediari vari: “Ti diamo la presidenza del Consiglio e sui temi ci metteremo d’accordo”.

Alle 15 Di Maio riunisce tutto il gotha del Movimento per prendere la decisione definitiva. Sa che ormai il sì a Conte c’è, le varie anime e cariche del Pd gli hanno dato ampie rassicurazioni. Però in silenzio spera che nella riunione più d’uno protesti, chiedendo una via per ricucire con la Lega. Ma dentro la casa sul Lungotevere del suo strettissimo collaboratore Pietro Dettori gli rispondono con l’evidenza dei numeri. Non si può tornare con il Carroccio, i gruppi parlamentari esploderebbero.

Protesta solo Alessandro Di Battista. Non può bastare. Così Di Maio sale su un taxi e se ne va a Chigi per incontrare Zingaretti.

Ma è l’antipasto per l’incontro chiave, quello con Conte. Il governatore del Lazio gli ritelefona alle 19, appena il premier atterra a Ciampino di ritorno da Biarritz. “Il nodo sulla premiership non è ancora sciolto, sarà solo un incontro tra due delegazioni”, dissimula nel frattempo il Pd. Come a dire che l’accordo su Conte premier ancora non c’è, perché bisogna prima chiarire tutta la mappa del governo giallo-rosso. Così, poco dopo le 21, inizia il vertice a quattro con Di Maio, Conte, Zingaretti e il vicesegretario dem Andrea Orlando. E si va avanti per ore, a discutere di nomi ed equilibri. Per costruire quello che pareva impossibile.

Rousseau ragionava

Pare incredibile. Ma, salvo sorprese, la crisi più pazza del mondo sta per concludersi all’insegna del buonsenso. Che purtroppo era mancato un anno fa, quando i 5Stelle proposero il contratto al Pd e, all’ultimo miglio, Renzi lo stracciò. Il fatto che ora Renzi sia stato il primo sponsor del patto giallo-rosa e che tutto il partito si sia convinto nel giro di una settimana aumenta il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato in questi 14 mesi, che hanno regalato a Salvini una vetrina insperata per gonfiarsi come un tacchino nella sua resistibilissima ascesa. Non era scontato che M5S e Pd trovassero uno straccio di linguaggio comune in così poco tempo, visto che dal 4 marzo 2018 il fossato fra loro si era vieppiù allargato. Ma alla fine, complice la paura di votare nella data e nelle condizioni imposte dalla Lega, la ragione e il realismo hanno prevalso. Di Maio è stato abile (e generoso, come Fico) a giocarsi l’unico asso in mano, cioè Conte, che compatta il M5S, garantisce i militanti in una svolta così ardua, allarga la platea degli elettori e accompagna il movimento all’esame di maturità. Zingaretti è stato onesto (e pure lui generoso) a ritirare l’assurdo veto su Conte, che nessuno (nemmeno tra i suoi) avrebbe capito, per salvare per un altro po’ l’unità del Pd. Ora si spera che i ministri siano all’altezza. E magari che si intraveda un programma, che è – insieme al tasso di litigiosità – il vero banco di prova di un governo che potrebbe rimettere a cuccia Salvini, ma anche resuscitarlo.

Ora i 5Stelle temono il voto degli iscritti su Rousseau (allora forse non è truccato). Ma sarebbe stupefacente se fosse negativo: Rousseau, quello vero, ragionava. Cos’è il Pd lo sappiamo tutti, ma pure cos’è la Lega. Anche un anno fa, nel voto sul contratto con Salvini, si parlò di “rivolta sul web”. E il programma del Pd – per quanto vago e cangiante – è meno distante da quello grillino di quello leghista. Chi ha il maldipancia va capito, ma deve sapere che il Conte 2 o 2.0 in salsa giallo-rosa è la peggiore soluzione eccettuate tutte le altre. Che sarebbero solo due. 1) Il voto subito, cioè un governo Salvini-Meloni-B. che cancellerebbe le leggi-bandiera del M5S. Anche se il M5S passasse dal 17 al 24%, il Rosatellum regalerebbe il cappotto alla destra, al Nord e nei collegi del Sud. E per il proporzionale puro ci vuole un governo, e un governo che lo voglia. 2) Il ritorno con la Lega, oltre a spaccare i grillini che Di Maio ha riunito sotto le ali di Conte, segnerebbe il loro divorzio dal premier per ora e per sempre; e li esporrebbe all’ennesima fregatura da quel campione di slealtà che è Salvini. Il Cazzaro Verde è come lo scorpione: non è cattivo, è proprio fatto così.

Alyona, il simbolo della ribellione canta a tempo di rap

Una bambina che tutti a scuola prendevano in giro per il suo peso. Una ragazza che sognava Kiev in un villaggio dell’Ucraina centrale. Una studente di psicologia. Poi una cassiera. Poi ancora un’insegnante d’asilo. Alyona è stata tutto questo prima di diventare un fenomeno mondiale della musica trap, conquistare migliaia di fan, collezionare sold out ai concerti oltre confine e finire col suo sorriso, florido e inesauribile, sulle pagine di Vogue America e New York Times. Adesso la rapper slava ha aggiunto da qualche mese alla lista delle sue transitorie identità precedenti quella di rivelazione della scena musicale del suo Paese.

Tra trap e hip hop. Tra molti libri, dischi, murales alle pareti e un gatto solo, palazzi grigi fuori dalla finestra, nella casa alla periferia di Kiev dove ora abita con i suoi amici, si presenta come “una ragazza di provincia” che non è cambiata per la subitanea popolarità: “Tutti mi hanno sempre guardato perché ero la più grassa, quella che si vestiva e si comportava in maniera meno adeguata. Ma non dipendo dai commenti altrui”.

La 27enne che aveva meno probabilità di farcela alla fine ha trionfato e web e media all’unisono non hanno potuto fare a meno di dichiararla la zarina della musica dell’est. “La guerra ci ha svegliato”. Se le viene chiesto del conflitto in atto in Donbas dal 2014 ripete spesso la parola rasvitie, sviluppo e pocholenie, generazione: la sua, che sta lentamente ma progressivamente abbandonando il modello di comportamento sovietico inculcato sin dall’infanzia dai genitori. “Sono felice di vivere proprio qui e proprio ora, un passo dopo l’altro le cose stanno cambiando”.

L’Ucraina sarà pure in ginocchio ma è come Alyona: sveglia e felicemente irrequieta. Tra le scie di sangue e rovine che la guerra ha lasciato dietro di sé c’è qualcosa che scintilla: il risveglio culturale dei giovani che, dalla rivoluzione di Maidan, hanno cominciato come lei a comporre nell’idioma natio, l’ucraino, abbandonando la lingua di Mosca. “Quando sono venuta nella Capitale tutti parlavano russo e io scrivevo in russo le canzoni proprio come fanno tutti, ma poi ho capito che dentro di me l’arte parlava ucraino”.

Machismo a Kiev è tradizione, politica e modo di vivere. Senza nemmeno volerlo, perché dice di non essere femminista, è diventata il simbolo della lotta e della ribellione delle donne, riuscendo a rompere, in parallelo, il tabù dello stereotipo femminile nel mondo rap. “In Ucraina prima di tutto devi essere una madre, una sposa, cucinare per tuo marito e rassettare la casa”. Rybky vuol dire pesci ed è il titolo della sua prima canzone, “dedicata a tutte quelle ragazze usate o descritte come oggetti”. Un inno a sé stessi e insieme un semplice manifesto. “In ucraino o russo spesso, per descrivere o offendere una ragazza, si usa il termine shkura, che vuol dire pelliccia. I pesci non ne hanno e nemmeno io. Il senso della metafora nella canzone è questo: non potete offenderci, potete insultarci finché volete, le vostre parole si infrangeranno contro il vetro dell’acquario”.

Guerra sui social all’ex tronista che si lamenta della Sardegna

Vacanze in Sardegna da dimenticare per Lorenzo Riccardi, ex tronista di “Uomini e donne” travolto dalle polemiche dopo aver espresso giudizi poco lusinghieri sul suo soggiorno a San Teodoro, meta gettonatissima della costa ovest dell’isola dove il pupillo di Maria de Filippi aveva deciso di trascorrere alcuni giorni al mare. Il 22enne influencer, aveva manifestato il suo disappunto sui social, descrivendo quelli che a suo dire erano stati i problemi del soggiorno sintetizzati in un lapidario: “Vacanze di m…” . Non pago, aveva suggerito ai suoi followers “di non andare in vacanza Sardegna”. Il consiglio però non è piaciuto ai più e la rete gli si è rivoltata contro, sommergendolo di rimproveri e di commenti inviperiti, non solo da parte di sardi. “Abbiamo scoperto che la Sardegna è un problema unico”, aveva esordito Riccardi nelle sue stories di Instagram, generalizzando forse un po’ troppo. E via con l’elenco: “Problema colazione, cornetti finiti alle 8 di mattina. Problema parcheggio.

La Sardegna non è attrezzata di parcheggi, non c’è parcheggio neanche a pagarlo. Problema ombrelloni, in Sardegna non esistono. Problema sdraio”. E poi l’ultimo, quello che ha scatenato l’ironia dei social: “Problema mare: ghiacciato. Sembra di buttarsi nell’oceano, ci manca solo la nave Titanic con la vecchia che tiene la collanina e siamo a posto”.

“La prossima volta accendo lo scaldabagno così l’acqua è calda”, ha commentato qualcuno, mentre qualcun altro ha scritto: “Sono andata in vacanza in Sardegna ed è una terra meravigliosa. Forse questi vip dovrebbero essere un po’ ridimensionati”. Anche dal mondo della politica è arrivata una risposta disarmante per Riccardi: “Quest’oggi a Santa Teresa di Gallura, dovete sapere che alla spiaggia la Rena Bianca non ci sono più disponibili, dalle ore 9 del mattino, lettini, ombrelloni e neppure tronisti che vorrebbero il posto riservato”, scrive su Facebook il consigliere regionale di Campo Progressista Gianfranco Satta.

“Noi abbiamo occupato lo spazio che ci consente di godere di ciò che altri possono solo desiderare”. Non sono mancate nemmeno le parodie video: “Altro che niente cornetti alle 8. Te lo dico io com’è andata”, scherza un comico sassarese su Facebook. “Chi la sera non fa tardi e non arriva in spiaggia a mezzogiorno, i cornetti li trova e pure le sdraio. A pagamento, s’intende”. Non è mancata anche qualche voce a favore, come quella della “collega” di Riccardi, Valeria Bigella, sarda ex protagonista di Temptation Island: “ Non mi sono sentita offesa perché in parte Lorenzo è stato frainteso. Amo la mia terra ma parecchie volte non biasimo chi si lamenta, purtroppo è vero che alcuni servizi non sono sufficienti”

Alla fine comunque, il giovane influencer sommerso dalle critiche si è trovato costretto a fare marcia indietro, precisando il suo pensiero ancora su Instagram: “Forse non è stato chiaro, la Sardegna è un posto stupendo. Se ho fatto la storia per i parcheggi era perché magari qualcuno in alto legge e risolve i problemi. Sull’acqua scherzavo, non prendete sempre tutto alla lettera”.

Voglio anche io il colpo di c. come Cindy

Nelle carriere di alcuni personaggi o ci sono delle grandi bugie o c’è una grande fortuna, ma una fortuna diabolica, mostruosa, invidiabile! Cindy Crawford è stata scoperta per caso da un fotografo che la notò appena sedicenne, mentre d’estate lavorava cimando le pannocchie di mais, da allora iniziò la sua carriera di modella nel mondo. Curiosa questa scoperta no? I fotografi di moda solitamente frequentano altri ambienti, ma forse lui era l’unico fotografo al mondo appassionato di semina e spannocchiamenti. Dove sarà stato questo posto così fortunato? Sicuramente in prossimità degli Studios della Paramount, perché se pulisci le pannocchie in provincia di Foggia, nessuno viene a farti foto. Se io dovessi andare a pulire le pannocchie, ci passerei tutta la vita, un’esistenza intera a cimare senza alcun risultato. Ci sono invece le persone favorite dalla sorte, quelle delle famose sliding doors, che escono da scuola e subito c’è lì pronto un regista prestigioso, che le nota e le scrittura. Will Smith era solo un aspirante musicista senza successo, il suo colpo di fortuna è stato una sera perdersi per strada e chiedere un’informazione. Chi era il passante? Solo il vicepresidente della Warner Brothers in persona, che lo ha trasformato in un divo. A me avrebbero rubato l’orologio. Ma quelli che invidio di più, sono gli accompagnatori ai provini. L’amico del cuore che, per farti una cortesia e sostenerti, viene con te all’audizione e inspiegabilmente viene notato e scritturato lui al posto tuo. Ed è così che è iniziata la sfavillante carriera di Johnny Depp. Questa è ciò che si chiama: la fortuna con la “C” maiuscola! Io sono uscita per anni da scuola, ho anche ripetuto un anno, ci fosse mai stato un regista a notarmi. Mai. Un giorno o l’altro prendo una pannocchia e me la do in testa.

 

Se Dio parla agli uomini con la voce degli scrittori

Gli esseri umani non hanno un rapporto facile con la voce di Dio e la sua parola. Tra le tre grandi religioni monoteistiche, solo in una (nella Bibbia ebraica) si riportano parole che appaiono come citazione diretta di Dio e della sua voce. La religione cristiana accetta con cautela il passaggio di testimonianza dei “fratelli maggiori ebrei” ma lo affida subito all’autorità interpretativa del Papa, dei vescovi, della Chiesa, che ne diventano l’unico filtro, reso più stretto e rigido dallo strumento del dogma. Gli islamici affidano tutta la conversazione con Dio al suo Pofeta, cui tocca di dire e di garantire. È diventato perciò inevitabile, almeno nella parte giudaico-cristiana del monoteismo, che l’arte (letteratura, arti visive, il cinema) sentano il richiamo di quella voce grande e mancante e la rappresentino (con i colori più belli o più cupi) o con narrazioni di speranza o di tragedia, che oscillano tra tentativi di invenzione, di realismo e di narrazioni del già narrato.

Lo spunto di questa nota è offerto da un romanzo sorprendente appena uscito in Francia, Soif (sete) di Amelie Nothomb, (Albin Michel editore). Sorprendente, ho detto, perchè in questo straordinario racconto Dio (Gesù) racconta ad alta voce la sua passione, con una lievissima trasposizione del racconto: non è Gesù, figlio di Dio, che si sente abbandonato dal Padre, ma un essere umano abbandonato mentre sta soffrendo. Tutto il resto è scrupolosamente ripreso dai Vangeli, e il cambiamento si rivela di una portata narrativa, ma anche poetica, ma anche religiosa grandissima. Fatale (come è accaduto in molte recensioni o preannunci del libro di Michel in Europa) ricordare alcuni grandi scrittori (Saramago, Coetzee, Carrere) che avevano in tanti modi cercato o seguito le tracce della voce di Dio o della sua figura come padre, come figlio, come protagonista della sua infanzia. Mi è dispiaciuto che si sia disperso il ricordo di un importante scrittore italiano, Franco Ferrucci (a lungo professore alla New York University e poi a Rutgers) autore, per Fazi Editore, del “ Mondo creato”, il cui primo titolo (deciso da Umberto Eco, subito dopo la prima lettura) era “Il diario di Dio”.

Nel libro di Ferrucci Dio annota, ricorda, racconta i pezzi, i momenti, le ragioni della sua creazione. E, come accade essendo Dio, non le racconta a qualcuno in particolare. Ma, come un artista, rivede e ripensa la sua opera, la critica, la ama, la rifiuta, la condivide. Dedica qualche pensiero a possibili variazioni che non sono avvenute e si rende conto che non avverranno mai più. La grande trovata di Ferrucci è stata la voce di Dio, privo di autocompiacimento e di orgoglio di inventore, ma anche conscio di avere “creato dal nulla tutte le cose”. Penso che leggeremo in tanti, in versione originale o appena tradotto, Soif di Amelie Nothomb (in Italia pubblicato da Voland). Ma vorrei molto che Fazi ripubblicasse, magari con il titolo di Eco, “Il mondo creato” di Ferrucci.

Persona o simbolo? Lo zampino del diavolo tra papa bianco e nero

Il Diavolo che la sa lunga già sa di essere in vantaggio. Mette in conto che la maggioranza dei lettori, scorso questo pezzo – se mai sarà letto per intero – dirà: “Sciocchezze”. E saranno solo in pochi, ma da contare sulle dita di una sola mano, quelli che reciteranno un “Diocenescampi”. Il fatto è che padre Arturo Sosa Abascal, il preposito generale della Compagnia di Gesù – l’autorità dei gesuiti, il “Papa Nero” e dunque “capo” anche dell’attuale pontefice – intervistato sul settimanale cattolico Tempi, a una precisa domanda di Rodolfo Casadei alza la palla al Demonio. “Padre Sosa, il diavolo esiste”? La risposta del gesuita è sottilmente affine, anzi, complice a quel che Satana, dal tempo della Creazione, nel percorso dell’Eternità, s’adopera di attuare nel Tempo e nell’Esserci dell’umanità: “La suprema astuzia del Diavolo è quella di far credere di non esistere”.

Il sacerdote, acclamato come una star al Meeting di Comunione e Liberazione, sottilmente – e, conseguentemente complice – così risponde: “Nel linguaggio di Sant’Ignazio è lo spirito cattivo che ti porta a fare le cose che vanno contro lo spirito di Dio; esiste come il male personificato in diverse strutture ma non nelle persone, perché non è una persona, è una maniera di attuare il male”.

Chissà quali siano queste “diverse strutture” che personifichino l’Avversario, Jan Fleming avrebbe indicato a 007 la Spectre ma è evidente il capovolgimento teologico nell’esplicitarsi di un concetto: “Non è una persona”. E poi ancora: “Riconosciamo Dio come buono, interamente buono; i simboli sono parte della realtà, e il diavolo esiste come realtà simbolica, non come realtà personale”. Ancora peggio, dunque: “Esiste come realtà simbolica”. Il Diavolo, che pure è “legione”, è persona. Questo articolo sta prendendo forma da Agira, un paese di antica origine – città natale di Diodoro Siculo, consacrata a Eracle – dove ebbe a far strame l’Idra. È qui che l’eroe col mantello leonino compie ben due delle sue fatiche: lo scavo del lago (oggi è una villa comunale) e l’uccisione, decapitandolo di tutte le sue teste, del mostro capace di avvelenare chiunque solo con il suo respiro.

È una città, Agira, assillo del Diavolo perché ovunque qui c’è un segno della sua disfatta e della sua impazienza in attesa della rivincita qualora da “persona” riesca a svaporare in “simbolo”. Risalendo la ripida via Roma si scorge – custodita in un’edicola – la grande pietra con cui San Filippo, noto oggi alle cronache per via delle miracolose sudorazioni (degradate dalla Chiesa, manco a dirlo, a “simboli”), ebbe a fronteggiarlo. San Filippo d’Agira, uno stilita arrivato apposta dal deserto d’Africa per liberare la città dal Diavolo, giunto come a dare il cambio a Ercole, tiene a bada il Maligno – come quello, a suo tempo, l’Idra – legandolo con un solo capello in una grotta per buggerarlo.

Il Diavolo, che pure è “tentazione”, è persona presente. Lo stesso Pontefice, che pure è Francesco Bergoglio – e che pure è gesuita – in Gaudete et exsultate, è stato chiaro: “Il Maligno indica un essere personale che ci tormenta; non pensiamo che sia un mito, una figura o un’idea; tale inganno ci porta ad abbassare la guardia”.

Il Papa in bianco ha già detto l’opposto di quanto ha poi dichiarato il “Papa nero” e il Diavolo, si sa, è dia-bolus, è colui che divide e ha messo in conto quanti, tra chi è arrivato a questo ultimo rigo, lo sta ingiuriando prendendolo a pietrate e quanti – la maggioranza – ha già sbuffato: “Sciocchezze”.

Claudio, “missionario” in Messico contro il crimine organizzato

Uno spirito inquieto? Un missionario laico? Un combattente di tutte le buone cause? Magro, non alto, una barba sottile e ben curata, quattro lingue imparate girando per il mondo, una passione smisurata per quello che fa, Claudio La Camera l’avevo conosciuto anni fa a Reggio Calabria, poi l’avevo incontrato fugacemente a Berlino, e l’ho ritrovato ora a Città del Messico. Dove lavora per le Nazioni Unite, più precisamente per l’Unodc, l’agenzia con sede a Vienna deputata a combattere la droga e il crimine organizzato.

Qui in Messico, una volta di più, costruisce progetti sul campo, dove lo spingono lo spirito di battaglia e una certa idiosincrasia per la teoria inoperosa e la vita d’ufficio. Un accordo tra il ministero della Giustizia messicano e quello italiano per trasferire oltre oceano le nostre pratiche di reinserimento dei detenuti. Piani “integrali” di lotta alle estorsioni. Una strategia di sostegno alla causa immensa delle madri dei desaparecidos. La raccolta di testimonianze dirette e l’appoggio di progetti sociali nelle zone del diavolo, la Ciudad Juarez capitale mondiale del femminicidio, o lo stato di Guerrero, oggi in assoluto il più pericoloso dei 32 della federazione messicana (“in un paio di casi ho rischiato molto”, ammette). Vi sembra molto? Troppo? Poco, rispetto a ciò che questo spirito avventuroso e combattivo ha fatto nella sua vita. Che non è mai stata sedentaria, fedele al principio che è “meglio essere poveri e vedere il mondo”.

Il suo giro Claudio lo iniziò a 17 anni, quando prese ad andare nei mesi estivi da Reggio Calabria in Francia a raccoglier frutta per mantenersi agli studi. Il salto di qualità giunse invece dopo la laurea a Catania in filosofia del diritto (“feci la tesi sulle leggi non scritte in “Antigone”). Partì per il Brasile con un prete del Don Orione conosciuto a Roma, José Carlos dos Santos, perché “nella vita ho sempre fatto le mie scelte seguendo le persone, non l’ambizione o il denaro”. Lì gli venne affidato il compito di costruire un Cottolengo vicino a Fortaleza. Ci riuscì grazie a un ricco italiano, barcamenandosi con successo tra amministratori analfabeti e latifondisti d’assalto. Poi una nuova missione in Brasile con i francescani, reparto cappuccini dell’Umbria. Totale, dieci anni di Amazzonia.

A quel punto incominciò una girandola di mete lontane: l’Australia, un progetto di antropologia teatrale, e l’Africa. Un anno in Costa d’Avorio, ancora con religiosi. “Ricordo un incarico di fiducia. Attraversare territori infiniti tra Costa d’Avorio e Togo per portare a Koroghò una busta con denaro a un gruppo di suore rimaste isolate. Quando arrivai le trovai sedute in tondo a parlare, in frigorifero non avevano nulla da mangiare”. Poi il ritorno in Italia. Naturalmente zone di frontiera. Ristrutturare la casa di Peppino Impastato a Cinisi, la catalogazione del materiale trovato tra quelle mura (con carteggi mai prima usciti), riaprire al pubblico la reggia confiscata a don Tano Badalamenti. “Misero musica ad alto volume sul marciapiede per boicottare l’evento.

In quel clima feci una scelta di metodo: andare al sodo, realizzare cose buone, senza farmi impelagare nelle piccole rivalità delle associazioni antimafia, e avere come solo riferimento le istituzioni e il bisogno di memoria”. La memoria, appunto. Come con la creazione dell’allora “Museo della ‘ndrangheta” (oggi Osservatorio) a Reggio Calabria. La costruzione di un nuovo pezzo di società civile e una incredibile vicenda giudiziaria contro di lui inabissatasi nel nulla, ma che lo ha segnato molto.

Poi la Germania, il lavoro in fondazioni impegnate nella prevenzione del razzismo. Fino alle Nazioni Unite. A Vienna e dal 2017 in Messico, con la scelta di dedicarsi ai luoghi di frontiera con gli Usa, quelli in cui si fa oggi, e non solo simbolicamente, la storia del mondo. Le ricerche nel Guerrero. Sognando di trasformare il modello italiano di lotta alla criminalità in un esempio per l’America Latina, nella giustizia come nella scuola. Uno così lo fai raccontare per ore e ore, talmente grande è il mondo che si porta dentro. Finché il discorso cade sulla sua Calabria. E gli scappa la frase terribile di Corrado Alvaro: “ad andar via da questa terra ce l’hanno insegnato i nostri padri”. L’occhio si perde, la voce anche, mentre sussurra “quella terra infelice”. Sentirlo dire in Messico da chi si misura con le tragedie del mondo, vi assicuro che mette una malinconia senza confini.