Mai distrarsi! Cattiverie sessiste in una triste giornata di fine agosto

Oggi è una giornata di fine agosto e come alla fine di ogni estate accolgo settembre piena di buoni propositi e con un velo di malinconia. Quella malinconia che non sai bene da dove provenga, ma che rende le persone così fragili e belle. Vulnerabili.

Decido di prendermi la giornata per me, prenoto il parrucchiere ed esco di casa, per esorcizzare piacevolmente una mattina in cui mi guardo allo specchio e mi vedo meno bella. Settembre alle porte è il mio capodanno, il mese dei bilanci e dei progetti, mi piace camminare lentamente in una città non più deserta ma non ancora caotica. In questo quadro descritto fin troppo nel dettaglio, vibra il telefono. È il fratello di una mia amica, visto cinque volte in vita mia. Un bacio a stampo dato goliardicamente in una occasione, uno di quelli che ogni tanto ti scrivono e a cui ogni tanto rispondi, senza darci troppo peso. Mi chiede cosa è significato quel bacio per me e io gli rispondo amichevolmente che sono concentrata su altre cose e che al momento non voglio una frequentazione con lui nè una uscita, con tutta la sincerità possibile.

Comincia a darmi della facile, della ragazza da storiella. Dice frasi come “io scopo solo con le troie, credevo fossi diversa” o “sei una che bacia chi vuole, scopa chi vuole e poi restiamo amici”. Io mantengo la calma. Provo a spiegargli che nel 2019 io non giudico troia la donna che vive il sesso come vuole e che nel mio caso- non essendoci stato assolutamente NULLA- non è lecito neanche sentirsi illuso. Provo a spiegargli che le offese sessiste sono GRAVI. Conclude dicendomi: “Non mi sento rifiutato perché non sei miss mondo”, “Ma chi pensi di essere Miss culo 2019?” e “Ti sei montata la testa e non hai proprio le qualità per farlo”. Elementare Watson! Gli rispondo, a tono, che anche una donna brutta può scegliere con chi uscire.

Non è la prima né sarà l’ultima volta che mi trovo a rapportarmi ad un uomo del genere, ma io oggi – per un semi-sconosciuto- sento la gola che brucia e le lacrime agli occhi. E rabbia verso me stessa per essermi fatta rovinare la piega da uno così. La spiegazione? Noi donne, nel 2019, dobbiamo ancora combattere con discorsi retrogradi e sessisti di “uomini” (non tutti ovviamente) che ci danno della troia se li rifiutiamo o del cesso se non sanno argomentare. Nonostante sia ovvio che la pochezza di questi discorsi sia direttamente proporzionale alla pochezza dei soggetti, ci sarà sempre un giorno, un’ora, un minuto, in cui ci troveranno particolarmente stanche e fragili. E rischiamo di crederci, alle stronzate che dicono. Oggi ero un po’ debole e questo idiota mi ha ricordato che non me lo posso permettere, non ci si può distrarre un attimo dalla lotta all’ignoranza e al sessismo. E in fondo, rispetto a stamattina, mi vedo una gran gnocca.

Paola

 

La categoria di quelli che da rifiutati si evolvono in rifiuti umani è sempre vasta e piena di sorprese, non c’è che dire.

 

“Un’estate diversa: lasciato solo dagli amici che crescono”

Cara Selvaggia, arrivato a 36 anni mi consideravo già da tempo un adulto. Ho un lavoro a tempo indeterminato da un bel po’, giusto qualche mese fa ho acceso il mio primo mutuo per finalmente sopraggiunta tranquillità economica, ho una discreta automobile in leasing. Ho sempre lavorato sodo e, quando arriva l’estate, mi godo finalmente le belle giornate con gli amici. Un weekend al lago, uno al mare, due giorni di rafting al mese non ce li toglie proprio nessuno. E poi la settimana in Grecia, quella è d’obbligo, con aperitivo-cena-discoteca-ritorno rovinoso eccetera. Ma quella che ho appena descritto, in realtà, era la mia estate tipo fino all’anno scorso. Giampi si è sposato a settembre e il rafting è troppo pericoloso per sua moglie. Andrea, anche lui, ha avuto un figlio dall’Alessandra e ora i weekend al mare se li fanno giustamente da soli con il bebè. Edo era già sparito da un po’, dice che in discoteca a Desenzano hanno tutte 15 anni in meno (almeno) e a offrire dei drink a una che ha appena finito il liceo si sente un po’ uno sfigato. In Grecia, ovviamente, non ci viene più nessuno. E in questa prima estate di vita di città, senza l’amore che non ho, senza la famiglia che non ho mai pensato di volere, con la prospettiva di scambiare una settimana di sole e bevute nelle Cicladi con un viaggio di quelli che non conosci nessuno e speri di far gruppo, ho capito che forse adulto non lo sono. Forse gli adulti sono gli altri, Giampi, Andrea e Edo che hanno messo la testa a posto, che hanno la vita che va allo stesso ritmo della loro età biologica, che hanno capito che i vent’anni non durano vent’anni, e forse nemmeno dieci. Forse avrei dovuto disinstallare Tinder un paio d’anni fa, smetterla con il mojito tutte le sere almeno tre, forse con Serena che mi faceva davvero sentire felice non avrei dovuto troncare per paura di impegnarmi, che forse è la scusa per chi ha paura di organizzare qualcosa di leggermente più seriale del calcetto una volta a settimana al martedì sera. Ma ti giuro che io, fino a quando non sono spariti tutti, stavo davvero bene. Ero felice della mia vita, era la migliore che potessi immaginare. Ora che l’aperitivo me lo faccio in casa con le patatine in busta e un ottimo vino che non posso condividere con nessuno, non sono più felice. Ho riposto la mia felicità nelle mani degli altri, sbagliando? O invece sono solo un cazzone?

Marco

 

Deve essere l’estate di quelli che dopo l’ennesimo mojito in spiaggia si ritrovano abbandonati da tutti e realizzano di essere dei gran cazzoni.

 

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Quel maestro di Riace che non può abbracciare il figlio Mimmo

Caro Signor Roberto, poche parole per augurarle tutto il bene del mondo. So bene che per Lei questi sono giorni tristissimi, il suo fragile corpo di novantenne sta combattendo una dura battaglia per strappare altri giorni alla vita. Lei è stato maestro elementare, ha aiutato intere generazioni a crescere. Bambini diventati adulti che si sono affermati, altri che hanno lasciato gli aspri monti della Calabria per cercare pane, lavoro e dignità in mille altrove. Molti si sono ricordati di Lei e dei suoi insegnamenti, tutti la chiamavano “professore” quando la incontravano per le strade di Riace, come si faceva con i maestri di scuola e di vita di un tempo. Col suo lavoro Lei ha onorato l’Italia, l’ha aiutata a crescere e a diventare un Paese moderno, per tutto questo, nessuno Le ha mai conferito riconoscimenti o medaglie. Anzi, con Lei, lo Stato si è mostrato patrigno, un nemico crudele e ingiusto. Dei suoi tre figli, solo due hanno la libertà di starle accanto in questi giorni di dolore. Uno, Mimmo, il figlio più fragile, non può farlo. Mimmo, o Mimì, battezzato Domenico, è stato il sindaco di Riace, il combattente che aprì un paesino morente al resto del mondo parlando e praticando umanità e solidarietà tra i popoli. È sotto processo, schiacciato da 15 capi di imputazione gravissimi. Da 300 giorni vive da esiliato perché norme e cavilli lo incatenano e gli impediscono di entrare a Riace, bussare alla porta di casa e darLe, finalmente, un abbraccio. Per Suo figlio lo Stato non ha alcuna comprensione, per lui e per tutti i poveri “la legalità e la giustizia” sono “un mostruoso meccanismo ostile”, come disse anni fa Piero Calamandrei. Suo figlio, il testardo Mimmo, non chiede pietà, ma giustizia. Caro Roberto Lucano, non sono nessuno, ma credo fermamente che lo Stato debba chiederLe umilmente scusa. L’Italia buona è con suo figlio Mimmo e con la Sua famiglia, l’Italia del potere e della malvagità no. Tanti auguri caro Maestro.

L’ultimo saluto a Gimondi con quel “tollino” nella tasca

Da piccolo giocavo coi tappetti a corona che noi milanesi chiamiamo tollini. Mia madre non voleva che andassi a giocare in strada. Così, mi arrangiavo nel corridoio di casa. Incollavo le immagini dei ciclisti e preparavo il percorso delle tappe, disegnandole col gessetto sul pavimento, ogni giorno, in contemporanea col Giro d’Italia. Per tirare, calibravo il “biscotto”, opponendo l’indice (o il medio) al pollice. Miravo sdraiandomi pancia a terra, l’occhio in linea col tappino. Poi “schiccheravo” il dito. Al via, una ventina di tappetti; trascrivevo i nomi dei corridori sul quaderno, segnavo i tiri effettuati, creavo la classifica.

Perché, Enrico, te lo racconto? E’ che martedì scorso sono stato alla chiesa parrocchiale di Paladina, poco fuori Bergamo, per il funerale di Felice Gimondi. In tasca, tenevo un vecchio tollino con lui a braccia alzate e la maglia “mondiale” (1973) della Bianchi. Giampaolo Dossena, esperto di giochi e onomaturgo, inventore cioè di parole, coniò il termine ciclotappo per il gioco dei tappetti: “È un’autentica espressione della cultura popolare”. La passione del ciclismo, diceva, tracimava in una gara senza tempo: potevi far correre Coppi e Bartali, Bottecchia e Binda…

Al funerale Leslie Abbadini, ex corista di Davide Van De Sfroos, ha intonato la struggente ed enigmatica “Hallelujah” di Leonard Cohen. Forse malinconia e spiritualità della canzone avvolgevano pensieri e memoria di quando Felice andava in fuga, e gli sembrava di pedalare sulle impervie strade dell’anima e della vita, con la paura di non farcela. In un’intervista, Cohen mi disse che fu la sua composizione più sofferta. Che non finiva mai di rielaborarla: “La perfezione è un traguardo impossibile”. Eppure ci provava. Come Felice, nonostante Merckx il Cannibale. Le note di Cohen, il tappetto in tasca…Ero pronto a giocare “come una volta”. E battere col tollino Gimondi l’ingordo Cannibale.

La rivoluzione di papa Celestino V: il perdono per poveri e diseredati

Chissà se gli odiatori di professione, che invocano la Madonna a sproposito e baciano il rosario persino nelle aule parlamentari, sanno che questi sono i giorni clou di una delle più importanti manifestazioni religiose del nostro Paese. Tra oggi e domani, infatti, entra nel vivo all’Aquila la Perdonanza Celestiniana, a 725 anni dalla storica Bolla pontificia che concedeva anche ai poveri e ai diseredati l’indulgenza plenaria di solito esclusiva per i ricchi che potevano acquistarla.

Una vera rivoluzione in quel 29 agosto del 1294 e il papa della svolta fu appunto Celestino V, di cui ci si ricorda solo per la clamorosa rinuncia al soglio pontificio “al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta”. E invece, il papa eternato da Dante tra gli ignavi dell’Inferno, perché “fece per viltade il gran rifiuto”, pur regnando per soli quattro mesi istituì il primo Giubileo della storia con la Bolla del Perdono.

Lo fece, questo “dono rivoluzionario”, nello stesso giorno della sua incoronazione a pontefice nella Basilica di Collemaggio all’Aquila. Le cronache storiche raccontano che quel 29 agosto 1294, festività del martirio di san Giovanni Battista (o Decollato), c’erano 200mila persone, oltre a re e nobili. Celestino V si chiamava Pietro Angeleri ed era considerato già in vita un santo per la sua vocazione da eremita, in una grotta sul monte Morrone, sopra Sulmona. Eletto all’età di 85 anni dal conclave riunito a Perugia (dopo due anni di sede vacante), Pietro da Morrone arrivò dalla sua grotta a Collemaggio (la Basilica venne costruita nel 1288 proprio per volontà dell’eremita) sul dorso di un asino ed era scortato dal suo grande elettore Carlo II d’Angiò re di Napoli.

Aprendo il programma religioso della Perdonanza (ci sono anche mostre, concerti e altri appuntamenti), padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, ha spiegato che quella di papa Francesco è una “cultura della misericordia basata sulla riscoperta dell’incontro con gli altri”. Insomma, l’atto del perdonare, nel concetto di misericordia, implica “pazienza, comprensione e tenerezza”.

In casa Viola “club e confraternita”

Il club e la confraternita. Il datore di lavoro e i compagni di merende. Nel magico mondo del calciomercato, per i cosiddetti “operatori” lavorare e fare bisboccia, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, è diventata prassi quotidiana: specie quando alla proprietà di un club si affaccia un personaggio nuovo come oggi a Firenze Rocco Commisso, il 70enne imprenditore italiano naturalizzato statunitense, dal 6 giugno nuovo boss del club viola. È a Daniele Pradè, 52enne d.s. romano, che Commisso decide di affidarsi facendolo rientrare da Udine dove Pradè si è distinto soprattutto per l’acquisto del figlio di Matteo Renzi, Francesco, autore di una non indimenticabile stagione nella Primavera bianconera. Pradè a Firenze è bene introdotto e benedetto dall’alto. Commisso gli affida le chiavi del mercato e Pradè dà subito il via al gioco del momento, “Il club e la confraternita”: come lavorare per il tuo club facendo bisboccia con i compagni di merende e vivendo tutti felici e contenti.

Pronti-via, Pradè bussa alla porta di Carnevali, ras del Sassuolo, e acquista alla sua bottega prima lo spagnolo Pol Lirola, 22enne esterno difensivo, per 15 milioni, e poi Kevin Prince Boateng, 32enne centrocampista, cui assicura un lusinghiero biennale: solo un antipasto dell’affare-Berardi, 25enne attaccante, che i due amiconi stanno concertando dopo aver alzato l’asticella del prezzo a 30 milioni. Ma Pradè non è amico solo di Carnevali: lo è di Sabatini (Bologna), da cui preleva il cileno Pulgar per 10 milioni; e lo è anche del procuratore Lucci, da cui ottiene il croato Badelj in attesa del colpo vero, quello di Suso, talentuoso spagnolo in forza al Milan. E siccome c’è Federico Chiesa che smania dalla voglia di andare alla Juve (e la Juve che smania dalla voglia di averlo), col rischio di moti di piazza tipo Baggio 1990, ecco servito ai tifosi lo zuccherino Ribery: campione vero ma 36enne, uno che gioca nell’identico ruolo e con le stesse caratteristiche di Chiesa, per capirci.

Il club e la confraternita: è il nuovo gioco che impazza tra gli operatori di mercato, e chisseneimporta se la confraternita – come quella di Pastorello che in quanto agente di Conte porta all’Inter il proprio assistito Lukaku con l’aggiunta di Lazaro – diventa a volte più importante del club. Il 25 giugno approda alla Roma Gianluca Petrachi, 50enne dirigente ex braccio destro di Cairo al Torino. Petrachi tiene, lui pure, una confraternita niente male, e prim’ancora di vedere il Colosseo apre all’arrivo del costosissimo bomber juventino Higuain (“Sarà il nuovo Batistuta”, assicura), preleva dalla Juve Spinazzola per 29,5 milioni barattandolo con Pellegrini e tratta, sempre con la Real Casa, l’acquisto di Rugani per 30 milioni più due giovani Primavera di cui uno, Alessio Riccardi, 18 anni, bravo al punto d’aver strappato un ingaggio di 250 mila euro già aumentato a 500 mila. E sì, avete capito bene, Petrachi è il d.g. della Roma, non della Juventus. Dimenticavamo: l’estate scorsa ci fu un operatore di mercato che consigliò a lungo la Roma, allora nelle mani di Monchi, di mettere sotto contratto a zero lire (era a scadenza di contratto) il portiere dell’Espanyol Pau Lopez. La Roma non lo fece; Pau Lopez firmò un quinquennale col Betis. A distanza di un anno, Petrachi lo ha portato a Roma al costo di 23,5 milioni. Quando si dice cogli l’attimo…

Nessuno mi può regolare: capitalismo contro politica

Le reazioni spropositate a un evento minore indicano i mali nascosti del capitalismo americano e dunque occidentale. Pochi giorni fa la Business Roundtable, un’organizzazione che riunisce i principali amministratori delegati americani, ha aggiornato il proprio documento sugli “scopi di un’azienda”. In sintesi: la missione non è soltanto creare valore per gli azionisti (shareholder), ma anche per tutti coloro le cui vite sono influenzate dall’azienda, i clienti, u dipendenti, i fornitori, le comunità locali che ospitano le fabbriche e subiscono l’inquinamento (gli “stakeholder”). Una mossa di marketing, una svolta etica o una esibizione di protervia?

IlWall Street Journal ha ripubblicato un estratto del famoso articolo di Milton Friedman uscito nel 1970 sul New York Times Magazine: “La responsabilità sociale dell’impresa è aumentare i suoi profitti”. Il premio Nobel di Chicago argomentava allora che l’ad di una società, soprattutto se quotata e con azionariato diffuso, deve tutelare i piccoli soci che lo hanno nominato e quindi “ha la responsabilità di condurre i suoi affari d’accordo con i loro desideri, che di solito sono di fare quanti più soldi possibile rispettando le regole base della comunità”. Fare profitti, insomma, non è soltanto lecito ma è un dovere morale, “greed is good”, l’avidità è buona, come diceva Gordon Gekko nel film Wall Street.

Ci sono due modi per fare gli interessi degli azionisti: distribuire dividendi e far aumentare il valore delle azioni in Borsa. Il secondo è più facile, meno tassato e gli stipendi degli amministratori delegati sono legati al prezzo delle azioni. Dunque è quello che ha prevalso. Col risultato, però, di incentivare i manager a pensare soltanto ai risultati di breve periodo senza preoccuparsi delle conseguenze a lungo termine, dall’inquinamento alle crisi finanziarie generate dall’eccesso di rischi.

Quando i risultati scarseggiano o monta la rabbia popolare perché molti subiscono le conseguenze negative dei profitti di pochi, le grandi multinazionali provano a confondere il pubblico sui loro scopi. C’è stata la stagione della responsabilità sociale d’impresa (con bilanci paralleli a quelli veri che indicano l’impatto sulla società, e di solito è tutto positivo), poi gli impegni per ridurre l’impronta climatica o per migliorare le condizioni di lavoro in Paesi dove erano state aperte fabbriche proprio per sfruttare l’assenza di regole e i bassi salari. Adesso la Business Roundtable ripesca il concetto, non nuovissimo, di stakeholder al posto del vecchio shareholder.

Perché ora? Come nota la stampa conservatrice, sembra un modo dei grandi amministratori delegati, tipo Jamie Dimon di Jp Morgan, di mettersi al riparo da una campagna elettorale che a sinistra, con Bernie Sanders ma ancor più con la pericolosa avversaria di Wall Street Elizabeth Warren, mette in discussione le fondamenta del capitalismo americano. Il comunicato sulla nuova “missione” delle imprese è dunque una (fragile) barriera contro i candidati Democratici che vogliono smantellare i grandi gruppi a colpi di antitrust o distruggere interi settori di business come quello dei prestiti agli studenti.

Ma se il comunicato della Business Roundtable ha suscitato tante reazioni è perché tocca anche altri due punti delicati. Il primo riguarda il rapporto tra azionisti e management: in società quotate a proprietà diffusa, non ci sono azionisti di controllo forti (come accade di solito in Italia) che dicono agli amministratori delegati cosa fare. Anzi, capita spesso che questi potentissimi top manager prendano il sopravvento e impongano strategie dettate dall’obiettivo di massimizzare il proprio mandato e le proprie stock option, non gli interessi dei soci. “Impegnandosi a raggiungere obiettivi più ampi del solo profitto, i manager si svincolano da quel poco di accountability che rimaneva”, ha scritto sul Washington Post l’economista Luigi Zingales. Di fronte alle proteste degli azionisti per la cattiva gestione, l’ad potrà ora replicare che non ha fallito, ha solo perseguito obiettivi più nobili che l’utile di bilancio. In Italia per decenni banchieri e industriali hanno bruciato miliardi dei soci per operazioni “di sistema”, cioè in perdita ma con una rilevanza politica.

Milton Friedman avvertiva che nel momento in cui gli amministratori delegati si mettono a pontificare sulle finalità sociali dell’impresa, a limitare la loro libertà d’azione “non sarà la coscienza collettiva, per quanto sviluppata, ma il pugno di ferro dei burocrati del governo”. Su questo pare essersi sbagliato: i manager della Business Roundtable e in particolare quelli delle società digitali come Google, Facebook e Amazon vogliono usare il proprio “pugno di ferro” sui governi. Il senso del comunicato sulla “missione” dell’impresa è anche, e forse soprattutto, che il capitalismo americano ritiene di potersi regolare da solo e non ha bisogno di accordi internazionali sul clima, di agenzie che proteggano i dati degli utenti on line o i diritti dei consumatori. Manager “illuminati” come Jeff Bezos o Mark Zuckerberberg sanno decidere cosa è meglio per noi senza bisogno della politica. Un approccio che soltanto alcuni candidati Democratici osano contestare ma che va benissimo a Donald Trump. Per questo anche i manager che si dichiarano più progressisti tifano per una riconferma del presidente nel 2020. Ma non osano dirlo.

“Microplastica, ricerca sugli effetti nocivi”

Le microplastiche sono ovunque. In ogni ambiente che frequentiamo. Nell’aria. Anche nell’acqua che beviamo: dal rubinetto, dalla sorgente o dalla bottiglia. Le microplastiche sono anche dentro di noi. Stefano Aliani, ricercatore del Cnr Ismar, ci aiuta a fare chiarezza: “Sicuramente non sono un killer istantaneo ma nel lungo periodo non sappiamo gli effetti che possono produrre nei nostri organi”. Per questo è importante rilanciare l’appello dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che nel rapporto Microplastics in drinking water chiede studi urgenti sulle conseguenze di queste sostanze sul nostro organismo. Le microplastiche provengono dal deterioramento di oggetti e tessuti sintetici. I pericoli potenziali sono associati al loro accumulo e alla loro tossicità. “L’Oms ha ragione – sottolinea l’esperto -. Come è possibile che non si sappia ancora nulla sugli eventuali danni all’uomo? Numerose ricerche hanno dimostrato che le microplastiche sono in grado di assorbire gli agenti inquinanti ed è noto che alcuni polimeri contengono addittivi nocivi”. Una ragione in più per abbandonare la plastica, per salvare il pianeta e noi stessi.

Guerra dei dazi e politica monetaria. Gli investitori con il fiato sospeso

Da molti mesi ormai i mercati finanziari danzano al suono di due musiche che si alternano (non troppo armoniosamente) sul palcoscenico geopolitico. Imperiosi ritmi marziali scanditi da rulli di tamburi che accompagnano la guerra dei dazi e minuetti sugli stimoli di politica monetaria strimpellati dai banchieri centrali. La settimana scorsa le esecuzioni si sono sovrapposte, generando una cacofonia stridente che ha scosso i nervi già a fior di pelle degli investitori.

Dall’idilliaca cornice di Jackson Hole in Wyoming dove si riuniscono in un laico Sinodo i pesi massimi delle autorità monetarie mondiali, i mercati agognavano lumi sulle prossime melodie della Federal Reserve americana, come gli assetati nel Sahara agognano un’oasi. Ma alle labbra riarse Powell ha concesso solo poche gocce. Secondo lo spartito che esegue da mesi, ha reiterato che la Fed agirà adeguatamente per sostenere l’espansione dell’economia, ma senza offrire ragguagli su entità e tempi di eventuali tagli di tassi. Inoltre Powell ha sottolineato che la Fed ha quasi raggiunto i due obiettivi di politica monetaria: piena occupazione e inflazione al 2%. Quindi drastiche inversioni di rotta non sono al momento giustificabili. Infine, ha confessato la sua impotenza di fronte agli effetti delle guerre commerciali dichiarando che in materia mancano manuali a cui ispirarsi.

Peraltro, i dubbi sull’efficacia della politica monetaria si estendono. Ad esempio Larry Summers accademico uber-keynesiano ed ex segretario al Tesoro americano ha scritto: “Ciò che in precedenza era considerato assiomatico, nei fatti risulta falso: le banche centrali non sempre possono fissare il tasso di inflazione attraverso la politica monetaria”. In pratica “il Re è nudo” gridato nel bel mezzo del Ballo di Gala tra i monti del Wyoming.

La studiata prudenza di Powell ha avuto l’effetto del vetriolo sulla cute di Trump, il quale nel giro di un’ora lo ha bollato via Twitter come “nemico”. Interrotto bruscamente il placido minuetto, Trump si è poi messo a percuotere forsennatamente i tamburi. La Cina aveva predisposto misure ritorsive su beni importati dagli Usa con un valore di 75 miliardi di dollari. Trump, sempre via Twitter, ha annunciato con tono sprezzante che i dazi su 250 miliardi di importazioni cinesi saliranno al 30% dal 25% e su altri 300 miliardi al 15% dal 10%. Ma l’escalation più inquietante e inaspettata riguarda l’ingiunzione alle società americane operanti in Cina di chiudere i battenti e trovare “un’alternativa”. Che si tratti di velleitarismo puro o del primo concreto passo verso la deglobalizzazione e la separazione delle catene del valore mondiale lo si appurerà nei mesi a venire. Nel dubbio gli investitori, già delusi dall’opacità di Powell, hanno mandato al tappeto azioni, obbligazioni, dollaro e petrolio.

Buoni pasto sempre più rifiutati per la guerra a colpi di ribasso

Nella guerra dei buoni pasto, alla fine vincono sempre gli stessi. E non è detto che sia sempre una cosa positiva. Almeno questo vale per il mercato dei ticket restaurant (che sostituiscono la mensa aziendale) dove, a spartirsi una torta da 3 miliardi di euro, tra pochissimi controlli, sono un paio di giganti stranieri e uno sparuto grappolo di aziende italiane che, almeno secondo i pubblici esercizi rappresentati dalla Fipe, sarebbero proprio i “cattivi”. Quelli che anno dopo anno continuano a proporre delle condizioni capestro che gli consentono di aumentare il giro d’affari obbligando, così, bar e ristoranti a sottostare a sconti sul valore del ticket sempre meno sostenibili per gli esercenti. In altre parole – spiega la Fipe che rappresenta 80mila esercenti sui 300mila in tutta Italia – pochissimi gruppi si contendono i contratti migliori, quelli da milioni di clienti, battendosi fino all’ultimo con il maggior sconto al committente. Tanto poi possono rifarsi sugli esercenti, “ormai esasperati dalle commissioni passate dal 10% di due anni fa all’attuale 15”, sottolinea la Fipe.

Non solo. I tempi di incasso sono lunghi. I titolari di locali, supermercati e ristoranti devono aspettare un mese per raccogliere un numero significativo di tagliandi, per poi spedirli al centro raccolta, fatturandoli. Ed attendere non meno di tre mesi per il pagamento di quanto incassato, che per alcuni buoni va ben oltre i tempi previsti. Con una conseguenza diretta: negozi e pubblici esercizi hanno deciso di non accettano più i buoni pasto, così come denuncia la Fipe che è tornata a farsi sentire forte in questi giorni, con la pubblicazione del nuovo bando Consip (la centrale acquisti della Pa) da 1,25 miliardi di euro, Iva esclusa, per l’aggiudicazione dei buoni pasto per 900mila dipendenti del pubblico impiego (compresi i poliziotti) per il 2020. Si tratta di 15 lotti che coprono tutte e 20 le Regioni italiane, con Lombardia (125 milioni di euro), Lazio (256 milioni) e Campania (188 milioni) a farla da padrone. “Chi vince i lotti regionali fa il colpo – spiega un esperto del settore – perché le amministrazioni centrali sono obbligate a utilizzare i suoi buoni pasto, mentre gli enti locali possono scegliere se aderire, e di solito lo fanno perché nessuno offre di meglio: si diventa monopolisti, con un potere enorme”.

È dall’estate del 2015, grazie alla legge di Stabilità, è stato ritoccato verso l’alto il tetto di esenzione (l’ultima modifica risale al 1998) con i buoni pasto concessi a dipendenti e collaboratori portati da 5,29 a 7 euro, ma soltanto per i ticket elettronici. “Ancora una volta il criterio di aggiudicazione è l’offerta economicamente più vantaggiosa. E, visto che l’ultimo bando, quello relativo all’anno in corso, è stato assegnato con uno sconto tra il 20 e il 21%, possiamo già anticipare che – spiega il vicepresidente di Fipe Aldo Cursano – questo meccanismo del massimo ribasso metterà a serio rischio la tenuta del sistema che non può reggere più, perché alla fine questi sconti sono scaricati sull’ultimo anello della catena, cioè i pubblici esercizi”. Insomma – tuona Cursano – “se si continueranno a imporre sconti insostenibili, siamo pronti a non riconoscere il valore dei buoni”.

È dal 2012 che i bandi vengono assegnati in base all’offerta economica più vantaggiosa, anche se Consip spiega che “la nuova gara è stata progettata nel pieno rispetto delle indicazioni previste dal Codice degli appalti” e che “la suddivisione in un ampio numero di lotti, coerentemente con le indicazioni del Garante per la Concorrenza e il Mercato, amplierà la partecipazione” delle società. Ma quali sono questi gruppi? In un mercato dominato dai francesi (Accor, Sodexo, etc..) fino allo scorso anno è spiccato Qui! Group di Gregorio Fogliani che è riuscito in poco tempo a conquistare quasi tutti i colossi pubblici, dalle Ferrovie a Poste, passando per Eni, Enel, Bankitalia, Corte dei Conti, ministeri vari e la stessa Consip.

Fino al crac dell’estate 2018. La sentenza di fallimento del tribunale di Genova, risalente allo scorso settembre, ha rilevato debiti da parte di Qui! Group per 326 milioni di euro. Debiti che hanno messo a rischio anche decine di aziende satellite che vivevano intorno al gruppo, alcune in questi mesi hanno già chiuso portando al licenziamento di centinaia di dipendenti oltre alla vendita di immobili. Fogliani, che il mese scorso è stato arrestato nell’ambito del fallimento Qui! Group, nel 2016 si era aggiudicato per 388 milioni di euro i due lotti principali (su 7) del bando Consip da un miliardo di euro per la fornitura dei buoni pasto in 5 Regioni con un’offerta inferiore del quasi 20 per cento.

“Parlamento inglese chiuso per 5 settimane per evitare rinvii”

Persino la chiusura di Westminster per cinque settimane avrebbe considerato il premier britannico Boris Johnson per scongiurare il rischio di un rinvio della Brexit, fissata per il 31 ottobre, scadenza ultima fin qui concordata per le trattative con l’Ue. A rivelarlo è il L’Observer: Johnson avrebbe chiesto al procuratore generale, Geoffrey Cox, se il Parlamento britannico possa essere chiuso per 5 settimane a partire dal 9 settembre, proprio per impedire ai parlamentari di forzare un ulteriore rinvio. Ieri Johnson ha incontrato il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk a margine del G7 a Biarritz.