Più di 1,7 milioni di persone hanno sfidato l’autorità di Pechino domenica 18 agosto a Hong Kong e nuove manifestazioni sono state organizzate da allora su appello del Fronte civile per i diritti umani. La metà dei manifestanti appartiene alla classe media, il 41% alle classi popolari. “E non siamo più tutti dei ventenni”, dice un manifestante, pensionato. Fin dove dovrà spingersi la disobbedienza civile per piegare le autorità? L’imponente movimento di protesta che scuote Hong Kong, e che inizialmente sembrava moderato, sta prendendo una piega sempre più radicale. A Hong Kong cresce l’esasperazione sociale e politica, ma anche il livello di politicizzazione della società. Col passare degli anni, più Pechino accresce la sua ingerenza e meno Hong Kong accetta l’idea di doversi sottomettere al governo centrale. Studenti, ovviamente, ma anche giovani attivi, pensionati, avvocati, impiegati della finanza, ferrotranvieri, personale medico ospedaliero, e finanche dirigenti, commercianti, imprenditori: l’elenco delle categorie socio-professionali che hanno aderito al movimento contro Pechino si fa sempre più lungo. Dalle aree popolari di Tuen Mun o Shatin ai quartieri ricchi dell’isola di Hong Kong, tutte le zone del territorio, 1.100 chilometri quadrati, sono coinvolte in questa contestazione intergenerazionale innescata da un disegno di legge per autorizzare le estradizioni verso la Cina.
Nonostante le minacce di Pechino, oltre 1,7 milioni di persone, quasi un quarto della popolazione, hanno contestato l’autorità della Cina domenica 18 agosto e da allora sono ancora tornati nelle strade rispondendo all’appello del Fronte civile per i diritti umani. Altre forme di sciopero si stanno preparando. Mentre ieri di nuovo scontri con la polizia.
Il capo dell’esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, ha sin dall’inizio accusato i giovani, in prima linea nella protesta, di fomentare la rivolta e di destabilizzare l’economia di Hong Kong. “È falso. La maggior parte dei manifestanti sono pacifici e moderati”, ha risposto un pensionato che abbiamo incontrato durante il gigantesco corteo di domenica 18. “Carrie Lam è arrogante e continua a ripetere falsità. È anche per questo che le persone continuano a mobilitarsi. E non siamo più tutti dei ventenni”, ha spiegato l’ex postino. La contestazione in corso “non è un semplice movimento studentesco. La crisi è molto più profonda. E anche se a volte disapprovo i metodi dei manifestanti e se alcuni hanno superato i limiti, continuerò a sostenere la lotta”. Tre giovani, sulla trentina, che hanno comiciato a interessarsi di politica solo da qualche mese, hanno tenuto lo stesso tipo di discorso. Li abbiamo incontrati durante le recenti manifestazioni: “Il governo rifiuta ostinatamente di rispondere alle nostre richieste – osservano – (inclusi il ritiro del testo sulle estradizioni, un’indagine indipendente sulle violenze della polizia e l’applicazione del suffragio universale, ndr), e questo spiega la radicalizzazione del movimento e dei metodi”. Spiega anche perché la partecipazione è in crescita. Uno studio pubblicato a metà agosto dai ricercatori di quattro università locali ha permesso di stilare il profilo dei partecipanti alle ultime dodici manifestazioni, raduni di massa e cortei. La fascia di età tra i 20 e i 29 anni è la più rappresentata (49%). Il 19% ha poi tra i 30 e i 39 anni, l’11% ha meno di 20 anni e il 16% ne ha più di 40. Sin dalla primavera, una parte della popolazione di Hong Kong si era sollevata contro la legge sulle estradizioni considerata una minaccia per i valori fondamentali e gli interessi economici della regione semi-autonoma. Accettare che delle persone siano consegnate alla giustizia cinese, opaca e corrotta, avrebbe inferto un duro colpo all’indipendenza della giustizia di Hong Kong e, sul piano economico, avrebbe minato l’immagine di Hong Hong di fronte agli investitori di tutto il mondo.
Mentre le autorità rifiutano di scendere a compromessi, il movimento si è evoluto, nei metodi, nelle richieste, nella partecipazione. Secondo lo stesso studio, pubblicato a metà agosto, il 50% dei manifestanti appartiene alla classe media e il 41% alle classi popolari. A fine luglio, più di 600 dipendenti del settore pubblico (che in genere percepiscono stipendi più elevati dei dipendenti del privato) sono usciti dal loro silenzio e hanno firmato una petizione per denunciare la gestione della crisi da parte del governo e soprattutto della polizia. In 40.000 (su un totale di quasi 180.000 funzionari) hanno manifestato il 2 agosto, nonostante l’obbligo di riservatezza a cui sono tenuti e il rischio di sanzioni. Degli insegnanti prevedono di disertare le lezioni a settembre in nome della loro “responsabilità a educare e a proteggere le giovani generazioni”. Inoltre, fatto molto raro, gli avvocati hanno organizzato due marce silenziose per denunciare l’uso della giustizia a fini politici e per l’indipendenza del sistema giudiziario, garantito dal principio “un paese, due sistemi”. Gli avvocati citano in particolare il caso di uno studente arrestato perché “in possesso illegale di un’arma”, mentre si trattava solo di una penna laser.
Se il movimento di contestazione popolare dovesse trascinarsi ancora a lungo, potrebbe comunque minare la stabilità finanziaria di Hong Kong, vera e propria finestra sull’economia mondiale per la Cina e piazza di investimento privilegiata per gli oligarchi cinesi. Pechino ha quindi alzato la voce e ha minacciato di boicottare le aziende che appoggiano la contestazione, come ha fatto per esempio con la compagnia aerea di Hong Kong, Cathay Pacific. Cathay ha irritato i nazionalisti cinesi dopo che alcuni dei suoi 27.000 impiegati avevano partecipato alle manifestazioni pro democrazia o espresso il loro sostegno al movimento. Risultato: due piloti sono stati licenziati e il ceo Rupert Hogg ha dovuto dare le dimissioni. Come spiegare che, malgrado i rischi incorsi, delle categorie socioprofessionali tradizionalmente moderate e apolitiche si uniscono alla protesta? “La causa immediata della rabbia delle persone è la violenza della polizia”, afferma Benson Wong, politologo indipendente di Hong Kong. Il 21 luglio ha segnato una svolta in questo senso e ha accentuato le divisioni all’interno della società. Quel giorno, un centinaio di uomini armati di bastoni hanno picchiato i manifestanti a Yuen Long, nel nord dei Nuovi Territori, vicino al confine con la Cina. La polizia non è intervenuta, segno per molti della collusione tra forze dell’ordine e mafie locali. “La polizia ora tratta i manifestanti come “scarafaggi”. “Ci disumanizza, spara ormai a distanza ravvicinata”, denuncia una donna che è scesa in piazza insieme al figlio. Cosa successa anche ieri: la polizia ha puntato le pistole contro attivisti e giornalisti, sparando anche alcuni colpi di avvertimento in alto. E ha schierato per la prima volta i cannoni ad acqua.
Altri residenti e commercianti locali si preoccupano per i gas lacrimogeni lanciati nelle zone turistiche, nei centri commerciali e nelle zone residenziali. “I metodi della polizia di Hong Kong assomigliano ormai a quelli della polizia cinese e questo è insopportabile. Qui non siamo in Cina”, osserva ancora la donna. Le autorità inoltre, col pretesto dell’ordine pubblico e della sicurezza, hanno più volte rifiutato di autorizzare delle manifestazioni, con la conseguenza di accrescere le tensioni e di spingere migliaia di persone, inclusi pensionati e famiglie, a partecipare a raduni illegali per difendere il diritto di manifestare e per mostrare il proprio attaccamento ai diritti costituzionali. E questo malgrado il rischio di incorrere in procedure giudiziarie. “Siamo al punto di dover protestare per difendere i diritti umani, le nostre libertà fondamentali”, ha osservato a Causeway Bay la signora Wong, 36 anni, insegnante di pianoforte. “Molte persone credono che i disordini non siano dovuti ai manifestanti ma alla polizia. E se in passato la violenza era condannata sempre e comunque, ora, in molti a Hong Kong credono che essa sia necessaria per proteggerli e per spingere il governo a cedere alle loro richieste”, afferma Benson Wong. Secondo il politologo, “molte persone che non partecipano al movimento, lo condividono e in alcuni casi lo raggiungono”. Ecco perché il governo locale cerca in tutti i modi di influenzare l’opinione pubblica per schierarla contro il movimento di protesta. Si promette maggiore integrazione alla Cina, soprattutto attraverso l’immensa area della Grande Baia, che dovrebbe spingersi da Hong Kong a Macao e fino a Canton e generare milioni di posti di lavoro e enormi profitti. Sussidi per asili nido, sgravi fiscali sui salari, agevolazioni sulle bollette dell’elettricità e altri incentivi sono stati annunciati dal ministro delle Finanze di Hong Kong per ammorbidire gli anziani, i giovani e i più svantaggiati.
Affitti più bassi e altri incentivi finanziari sono stati promessi anche alle piccole e medie imprese, che rappresentano quasi la metà dei posti di lavoro e che stanno iniziando a soffrire per la crisi, compresi i settori della distribuzione, della ristorazione e del turismo. “A Hong Kong, la ridistribuzione delle ricchezze riguarda solo alcune categorie sociali – aggiunge Wong – La politica che prevale è: creare divisione per poter dominare. A Macao invece – l’altra regione amministrativa speciale della Cina – le autorità locali distribuiscono sussidi a tutti i cittadini, residenti, permanenti o no”. Ognuno riceve l’equivalente di 10.000 pataca all’anno (pari a 1.100 euro) di incentivi pubblici. Probabilmente tutto questo non basterà a attenuare l’esasperazione della popolazione di Hong Kong. Nel 2014, con il relativo fallimento della Rivoluzione degli Ombrelli, molti avevano abbandonato l’idea di tornare a protestare, per timore di incorrere nell’ira delle autorità cinesi. L’attuale protesta ha dato loro nuova speranza, dimostrando che una mobilitazione popolare poteva far cedere Pechino.
(traduzione Luana De Micco)