Hong Kong, ecco chi sono i “soldati” che sfidano Pechino

Più di 1,7 milioni di persone hanno sfidato l’autorità di Pechino domenica 18 agosto a Hong Kong e nuove manifestazioni sono state organizzate da allora su appello del Fronte civile per i diritti umani. La metà dei manifestanti appartiene alla classe media, il 41% alle classi popolari. “E non siamo più tutti dei ventenni”, dice un manifestante, pensionato. Fin dove dovrà spingersi la disobbedienza civile per piegare le autorità? L’imponente movimento di protesta che scuote Hong Kong, e che inizialmente sembrava moderato, sta prendendo una piega sempre più radicale. A Hong Kong cresce l’esasperazione sociale e politica, ma anche il livello di politicizzazione della società. Col passare degli anni, più Pechino accresce la sua ingerenza e meno Hong Kong accetta l’idea di doversi sottomettere al governo centrale. Studenti, ovviamente, ma anche giovani attivi, pensionati, avvocati, impiegati della finanza, ferrotranvieri, personale medico ospedaliero, e finanche dirigenti, commercianti, imprenditori: l’elenco delle categorie socio-professionali che hanno aderito al movimento contro Pechino si fa sempre più lungo. Dalle aree popolari di Tuen Mun o Shatin ai quartieri ricchi dell’isola di Hong Kong, tutte le zone del territorio, 1.100 chilometri quadrati, sono coinvolte in questa contestazione intergenerazionale innescata da un disegno di legge per autorizzare le estradizioni verso la Cina.

Nonostante le minacce di Pechino, oltre 1,7 milioni di persone, quasi un quarto della popolazione, hanno contestato l’autorità della Cina domenica 18 agosto e da allora sono ancora tornati nelle strade rispondendo all’appello del Fronte civile per i diritti umani. Altre forme di sciopero si stanno preparando. Mentre ieri di nuovo scontri con la polizia.

Il capo dell’esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, ha sin dall’inizio accusato i giovani, in prima linea nella protesta, di fomentare la rivolta e di destabilizzare l’economia di Hong Kong. “È falso. La maggior parte dei manifestanti sono pacifici e moderati”, ha risposto un pensionato che abbiamo incontrato durante il gigantesco corteo di domenica 18. “Carrie Lam è arrogante e continua a ripetere falsità. È anche per questo che le persone continuano a mobilitarsi. E non siamo più tutti dei ventenni”, ha spiegato l’ex postino. La contestazione in corso “non è un semplice movimento studentesco. La crisi è molto più profonda. E anche se a volte disapprovo i metodi dei manifestanti e se alcuni hanno superato i limiti, continuerò a sostenere la lotta”. Tre giovani, sulla trentina, che hanno comiciato a interessarsi di politica solo da qualche mese, hanno tenuto lo stesso tipo di discorso. Li abbiamo incontrati durante le recenti manifestazioni: “Il governo rifiuta ostinatamente di rispondere alle nostre richieste – osservano – (inclusi il ritiro del testo sulle estradizioni, un’indagine indipendente sulle violenze della polizia e l’applicazione del suffragio universale, ndr), e questo spiega la radicalizzazione del movimento e dei metodi”. Spiega anche perché la partecipazione è in crescita. Uno studio pubblicato a metà agosto dai ricercatori di quattro università locali ha permesso di stilare il profilo dei partecipanti alle ultime dodici manifestazioni, raduni di massa e cortei. La fascia di età tra i 20 e i 29 anni è la più rappresentata (49%). Il 19% ha poi tra i 30 e i 39 anni, l’11% ha meno di 20 anni e il 16% ne ha più di 40. Sin dalla primavera, una parte della popolazione di Hong Kong si era sollevata contro la legge sulle estradizioni considerata una minaccia per i valori fondamentali e gli interessi economici della regione semi-autonoma. Accettare che delle persone siano consegnate alla giustizia cinese, opaca e corrotta, avrebbe inferto un duro colpo all’indipendenza della giustizia di Hong Kong e, sul piano economico, avrebbe minato l’immagine di Hong Hong di fronte agli investitori di tutto il mondo.

Mentre le autorità rifiutano di scendere a compromessi, il movimento si è evoluto, nei metodi, nelle richieste, nella partecipazione. Secondo lo stesso studio, pubblicato a metà agosto, il 50% dei manifestanti appartiene alla classe media e il 41% alle classi popolari. A fine luglio, più di 600 dipendenti del settore pubblico (che in genere percepiscono stipendi più elevati dei dipendenti del privato) sono usciti dal loro silenzio e hanno firmato una petizione per denunciare la gestione della crisi da parte del governo e soprattutto della polizia. In 40.000 (su un totale di quasi 180.000 funzionari) hanno manifestato il 2 agosto, nonostante l’obbligo di riservatezza a cui sono tenuti e il rischio di sanzioni. Degli insegnanti prevedono di disertare le lezioni a settembre in nome della loro “responsabilità a educare e a proteggere le giovani generazioni”. Inoltre, fatto molto raro, gli avvocati hanno organizzato due marce silenziose per denunciare l’uso della giustizia a fini politici e per l’indipendenza del sistema giudiziario, garantito dal principio “un paese, due sistemi”. Gli avvocati citano in particolare il caso di uno studente arrestato perché “in possesso illegale di un’arma”, mentre si trattava solo di una penna laser.

Se il movimento di contestazione popolare dovesse trascinarsi ancora a lungo, potrebbe comunque minare la stabilità finanziaria di Hong Kong, vera e propria finestra sull’economia mondiale per la Cina e piazza di investimento privilegiata per gli oligarchi cinesi. Pechino ha quindi alzato la voce e ha minacciato di boicottare le aziende che appoggiano la contestazione, come ha fatto per esempio con la compagnia aerea di Hong Kong, Cathay Pacific. Cathay ha irritato i nazionalisti cinesi dopo che alcuni dei suoi 27.000 impiegati avevano partecipato alle manifestazioni pro democrazia o espresso il loro sostegno al movimento. Risultato: due piloti sono stati licenziati e il ceo Rupert Hogg ha dovuto dare le dimissioni. Come spiegare che, malgrado i rischi incorsi, delle categorie socioprofessionali tradizionalmente moderate e apolitiche si uniscono alla protesta? “La causa immediata della rabbia delle persone è la violenza della polizia”, ​​afferma Benson Wong, politologo indipendente di Hong Kong. Il 21 luglio ha segnato una svolta in questo senso e ha accentuato le divisioni all’interno della società. Quel giorno, un centinaio di uomini armati di bastoni hanno picchiato i manifestanti a Yuen Long, nel nord dei Nuovi Territori, vicino al confine con la Cina. La polizia non è intervenuta, segno per molti della collusione tra forze dell’ordine e mafie locali. “La polizia ora tratta i manifestanti come “scarafaggi”. “Ci disumanizza, spara ormai a distanza ravvicinata”, denuncia una donna che è scesa in piazza insieme al figlio. Cosa successa anche ieri: la polizia ha puntato le pistole contro attivisti e giornalisti, sparando anche alcuni colpi di avvertimento in alto. E ha schierato per la prima volta i cannoni ad acqua.

Altri residenti e commercianti locali si preoccupano per i gas lacrimogeni lanciati nelle zone turistiche, nei centri commerciali e nelle zone residenziali. “I metodi della polizia di Hong Kong assomigliano ormai a quelli della polizia cinese e questo è insopportabile. Qui non siamo in Cina”, osserva ancora la donna. Le autorità inoltre, col pretesto dell’ordine pubblico e della sicurezza, hanno più volte rifiutato di autorizzare delle manifestazioni, con la conseguenza di accrescere le tensioni e di spingere migliaia di persone, inclusi pensionati e famiglie, a partecipare a raduni illegali per difendere il diritto di manifestare e per mostrare il proprio attaccamento ai diritti costituzionali. E questo malgrado il rischio di incorrere in procedure giudiziarie. “Siamo al punto di dover protestare per difendere i diritti umani, le nostre libertà fondamentali”, ha osservato a Causeway Bay la signora Wong, 36 anni, insegnante di pianoforte. “Molte persone credono che i disordini non siano dovuti ai manifestanti ma alla polizia. E se in passato la violenza era condannata sempre e comunque, ora, in molti a Hong Kong credono che essa sia necessaria per proteggerli e per spingere il governo a cedere alle loro richieste”, afferma Benson Wong. Secondo il politologo, “molte persone che non partecipano al movimento, lo condividono e in alcuni casi lo raggiungono”. Ecco perché il governo locale cerca in tutti i modi di influenzare l’opinione pubblica per schierarla contro il movimento di protesta. Si promette maggiore integrazione alla Cina, soprattutto attraverso l’immensa area della Grande Baia, che dovrebbe spingersi da Hong Kong a Macao e fino a Canton e generare milioni di posti di lavoro e enormi profitti. Sussidi per asili nido, sgravi fiscali sui salari, agevolazioni sulle bollette dell’elettricità e altri incentivi sono stati annunciati dal ministro delle Finanze di Hong Kong per ammorbidire gli anziani, i giovani e i più svantaggiati.

Affitti più bassi e altri incentivi finanziari sono stati promessi anche alle piccole e medie imprese, che rappresentano quasi la metà dei posti di lavoro e che stanno iniziando a soffrire per la crisi, compresi i settori della distribuzione, della ristorazione e del turismo. “A Hong Kong, la ridistribuzione delle ricchezze riguarda solo alcune categorie sociali – aggiunge Wong – La politica che prevale è: creare divisione per poter dominare. A Macao invece – l’altra regione amministrativa speciale della Cina – le autorità locali distribuiscono sussidi a tutti i cittadini, residenti, permanenti o no”. Ognuno riceve l’equivalente di 10.000 pataca all’anno (pari a 1.100 euro) di incentivi pubblici. Probabilmente tutto questo non basterà a attenuare l’esasperazione della popolazione di Hong Kong. Nel 2014, con il relativo fallimento della Rivoluzione degli Ombrelli, molti avevano abbandonato l’idea di tornare a protestare, per timore di incorrere nell’ira delle autorità cinesi. L’attuale protesta ha dato loro nuova speranza, dimostrando che una mobilitazione popolare poteva far cedere Pechino.

(traduzione Luana De Micco)

Scontro tra aereo ed elicottero: tra le 7 vittime un pilota italiano

Sette morti nello scontro in volo tra un elicottero e un piccolo aereo a Maiorca, in Spagna, tra cui anche un italiano, Cedric Leoni, pilota dell’elicottero dove viaggiava anche una famiglia tedesca, una coppia e due figli minori. Le altre due vittime sono spagnoli che viaggiavano sull’ultraleggero. Il pilota italiano lascia la moglie e un figlio residenti in Germania. Il governo delle Isole Baleari spagnole riferisce che l’incidente è avvenuto alle 13.35. Secondo quanto riportato da El Pais, l’italiano guidava un elicottero Bell 216 decollato dall’aerodromo Son Bonet. L’aereo era un ultraleggero partito da Binissalem con i due spagnoli a bordo.

Basta “Leonardomania” tra leggende e fake news

Un verso di Friedrich Hölderlin caro a Martin Heidegger dice che “là dove cresce il pericolo, / cresce anche ciò che salva”. Non ci sono parole migliori per accostarsi a questo benedetto anno leonardiano, che ricorda che l’artista più famoso della storia occidentale morì il 5 maggio del 1519.

Mai come oggi, infatti, Leonardo è pericoloso. E mai come oggi Leonardo può salvarci.

Nel 2011 un programma satirico della Rai (Niente di personale, condotto da Paola Cortellesi) ha dedicato una deliziosa miniserie (I misteri di Leonardo) alla parodia della ‘leonardomania’: Leonardo e le profezie dei Maya, Leonardo e le scie chimiche… Quando la satira televisiva si occupa di qualcosa, significa che il fenomeno è abbastanza esteso da risultare riconoscibile alla maggioranza degli spettatori: Leonardo da Vinci è oggi un divo universale. Ma lo è in un modo che avrebbe con ogni verosimiglianza destato il suo sconcerto. Una tappa fondamentale in questo processo involutivo è stato il Codice da Vinci, il best seller (2003) dello scrittore americano Dan Brown. Presentato all’inizio come un romanzo basato su ricerche storiche originali, è in verità un abile montaggio di vecchie leggende metropolitane: dal rapporto di Leonardo con il Santo Graal (il mitico calice in cui Gesù avrebbe bevuto durante l’Ultima cena) alla pretesa relazione tra Gesù e Maria Maddalena. Il tutto, intrecciato ad una trama da thriller televisivo di cassetta, ha avuto uno straordinario successo, ed è riuscito a spostare (nell’immaginario di milioni di persone) la figura di Leonardo dalla storia e dalla storia dell’arte all’ambito della leggenda.

Oggi non si contano le attribuzioni folli a Leonardo pittore: si passa da sofisticate operazioni commerciali intorno a quadri dubbi, e spesso molto guasti, che riescono a raggiungere quotazioni milionarie fino a croste di provincia che conquistano qualche minuto di celebrità su giornali locali prima di precipitare nuovamente nel buio. Un altro filone fortunatissimo è quello della ricerca di iscrizioni, forme, figure le più bizzarre e impensabili nei quadri celeberrimi dell’artista: alla ricerca di un letterale ‘codice da Vinci’. In genere i risultati di queste mirabolanti ‘scoperte’ riguardano i rapporti di Leonardo col potere (i Templari sono tra i protagonisti preferiti) e col sesso (in tutte le combinazioni possibili: uno strepitoso kamasutra leonardiano). Si moltiplicano i musei con più o meno attendibili ricostruzioni di macchine leonardesche e le proiezioni immersive accompagnate da testi surreali. La ricerca delle ossa della Gioconda e quella, renzianissima, della Battaglia di Anghiari (la grande e sfortunata pittura murale di Palazzo Vecchio a Firenze, che sappiamo essere invece andata interamente perduta) sono solo gli episodi più noti di questa nuova stagione.

Nel discorso pubblico italiano, Leonardo sta diventando insomma una colossale fake news, che può essere combattuta solo con dosi massicce di scetticismo storico, e soprattutto di diffusione della conoscenza.

È esattamente quello che speriamo succeda quest’anno: l’augurio è che possiamo riprenderci Leonardo. Il Leonardo storico, e il vostro personalissimo Leonardo.

Scegliete un’opera: una sola. Che sia il grande Cenacolo di Milano, inesauribile teatro di interiorità umana, la visionaria Adorazione dei Magi degli Uffizi o lo struggente San Girolamo dei Musei Vaticani, o uno dei suoi tanti disegni esposti. Documentatevi su quell’opera: liberandovi di ogni marketing, di ogni retorica, di ogni luogo comune. Andate alle fonti. Le vite di Vasari, le voci dei vari dizionari Treccani e tutte le altre risorse credibili che si trovano gratuitamente sulla rete, per esempio. E poi andate a vedere l’opera che avete scelto: senza curarvi di tutti gli altri meravigliosi quadri che la circondano. Come si va in biblioteca per cercare e leggere un solo libro, così si può – si deve – andare in un museo per ‘guardarsi negli occhi’ con una singola ‘persona’. Ogni opera d’arte è infatti un individuo irriducibile, e d’altra parte nessuno come Leonardo è riuscito ad infondere nei suoi volti una vera, irripetibile, vita personale. Fragile ed eterna come ogni persona viva.

Leonardo ha scritto che “il cimento delle cose dovrebbe lasciar dare la sentenzia alla esperienzia”: cioè che l’unica via per conoscere veramente è il contatto diretto con le cose. E ha scritto anche che “chi disputa allegando l’autorità, non adopra l’ingegno ma piuttosto la memoria”: avere ingegno (la parola da cui viene ‘genio’) significa non fidarsi, ma usare il pensiero critico. Che è la chiave di ogni vera cultura, è la strada per diventare davvero cittadini sovrani. Dunque, se oggi avvicinarsi a Leonardo può essere pericoloso, conoscere Leonardo può salvarci: vaccinarci da tutte le superstizioni e le false notizie che si affollano sulle nostre teste.

Nell’eclissi del vero Leonardo anche noi storici dell’arte abbiamo una grande responsabilità: se non altro per non aver fatto conoscere la gioia, l’intensità, l’emozione di un vero contatto con questa straordinaria figura di artista e pensatore, oltre che con le sue altissime opere che, per fortuna, la Toscana e l’Italia conservano ancora. Dunque, godiamoci Leonardo: quello vero.

Si riparte: a fine settembre protesta globale per il clima

Settembre, andiamo, è tempo di lottare. Dopo un’estate di disastri ambientali – dallo scioglimento accelerato dei ghiacciai agli incendi in Siberia fino all’Amazzonia in fiamme – gli attivisti ambientali si preparano a dare battaglia, sostenendo e facendo pressione sui paesi che prenderanno parte al summit Onu sul clima del 23 settembre, a cui parteciperà anche Greta Thunberg (arrivata via mare e diretta, successivamente, alla Conferenza Onu sul clima Cop25 dal 2 al 13 dicembre a Santiago del Cile). Dal 21 al 27 settembre è stata dichiarata, dal movimento dei #FridaysforFuture globale, la global strike week, una settimana di iniziative e di eventi in tutte le città del mondo contro i cambiamenti climatici e per la giustizia climatica, “perché”, spiega Andrea Torti, attivista dei Fridays For Future Milano, “la sostenibilità non è solamente un aspetto economico e ambientale, ma anche sociale”. Il culmine della protesta è rappresentato da venerdì 27 luglio, giorno del terzo sciopero globale per il clima in tutte le piazze del mondo, mentre il 21 settembre presso la sede delle Nazioni Unite a New York si terrà il vertice giovanile sul clima. Il movimento dei Fridays For Future ha invitato anche il mondo sindacale a unirsi allo sciopero: “Le due lotte, quella per un pianeta vivibile e quella per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, sono inscindibili”, spiegano.

Ma non è tutto. È appena partita sui social network la campagna contro il cambiamento climatico Greenbandmovement, che culminerà sempre il 27 settembre, ideata da un gruppo di giovani ambientalisti italiani ed europei. L’invito è quello di legarsi sul corpo una fascia di stoffa o qualcosa di colore verde e portarlo con sé. “Questo segno tangibile di ribellione perenne ha come scopo quello di creare un gruppo insurrezionista a livello internazionale che indossando il panno si sente appartenente a un movimento comune”, spiega Luca Boccoli, 21 anni, uno degli ideatori. “Il panno inoltre sarà un segno di riconoscimento anche in strada e dunque potrà avvicinare nella lotta persone che vivono nella stessa città. Immaginiamo per un attimo cosa significherebbe vedere migliaia di persone nella stessa città che indossano un panno verde sul proprio corpo, nei caffè, per le strade, al supermercato. L’impatto sarebbe enorme, la nostra mente sempre focalizzata sulla lotta climatica”. L’invito, ovviamente, è anche quello di pubblicare sui social network immagini di sé con il simbolo, accompagnato dagli hashtag #greenbandmovement, #greenbandtounite, #globalstrike27september e #greeongoingbattle. Non restano con le mani in mano neanche gli Extinction Rebellion, uno dei gruppi ambientalisti di disobbedienza civile per il clima più radicali, verso il quale ha manifestato interesse anche un gruppo di investitori americani. Dal 7 al 19 ottobre si terrà a Londra l’International Rebellion, per pianificare nuove iniziative di protesta globali. E c’è, infine, chi protesta da solo. Come l’esploratore Alex Bellini, in navigazione verso la Great Pacific Garbage Patch, la grande isola di plastica al centro del Pacifico. “Serve una presa di coscienza collettiva”, ha detto. Perché la cruda verità “è che siamo tutti sulla stessa barca e non esiste un pianeta B”.

Pesticidi nell’acqua per milioni di italiani

Dai nostri rubinetti, nella frutta e nella verdura che mangiamo, forza trainante nella produzione sia industriale sia agricola. L’acqua dolce, quella ricavata dalle falde e dalle acque superficiali, ha un ruolo fondamentale nella nostra vita e pertanto deve rispettare determinati standard igienici e qualitativi. In Italia, molto spesso, questo non accade. Dall’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) arrivano dati inquietanti: il bacino demografico dipendente dalle acque del Po, circa 20 milioni di persone, attinge da falde contaminate da pesticidi. Dello stesso parere è anche l’Agenzia europea dell’ambiente, che evidenzia un’elevata percentuale delle acque di falda non in buone condizioni, mentre Greenpeace individua tra le principali minacce le grandi quantità di pesticidi, nitrati, fertilizzanti e antibiotici provenienti dagli allevamenti intensivi. Come se non bastasse, 350 mila persone delle province venete, stanno vivendo una vera contaminazione da Pfas, o acidi perfluoroacrilici, dopo che quest’ultimo ha inquinato in profondità la seconda falda più grande d’Europa. L’acqua che esce dai rubinetti viene dalle falde e dai fiumi italiani. per la potabile vengono effettuati ulteriori controlli e applicati filtri, anche se in passato più volte è accaduto che sulle tavole di milioni di cittadini è arrivata acqua contaminata.

C’è poi il dossier di Viterbo, ben noto alla Commissione europea tornata a bacchettare l’Italia a inizio 2019 in quanto sono stati “disattesi gli obblighi imposti dal diritto Ue sulla qualità delle acque destinate al consumo umano”. Sono circa 100 mila gli ignari abitanti dei comuni limitrofi che hanno bevuto per anni acqua con arsenico e fluoruri, in alcuni casi, come nel comune di Farnese, con valori due volte superiori ai limiti di legge. Cambiando regione, ai piedi del Gran Sasso due gli elementi potenzialmente inquinanti: i laboratori sotterranei dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e la galleria autostradali da oltre 10 km, minacciano l’acquifero che rifornisce circa 700mila persone tra L’Aquila, Pescara e Teramo con composti chimici di varia natura.

Secondo il rapporto European Waters, un terzo delle falde acquifere in Italia è in pessime condizioni: solo il 58% di quelle sotterranee sono in buono stato, contro la media Ue del 74%, di cui il 34% è considerato “povero”, ovvero bisognoso di interventi per migliorarne la struttura chimica. Fra tutte il caso più grave è l’acqua del Po. L’arteria principale del Paese vanta un reticolo idrico, per concentrazione di popolazione e cluster industriali, tra i più capienti d’Italia, ma non per questo tra i più sicuri. “Quando i pesticidi giungono in falda, il processo di deterioramento si annulla, facendo sì che la contaminazione difficilmente possa essere rimossa”, spiega Pietro Paris, responsabile della Sezione Sostanze Pericolose dell’Ispra. “Dal bacino del Po si riforniscono circa 20 milioni di persone: vivendo, alimentandosi e facendo uso agricolo e industriale dell’acqua sotterranea”. Il risultato pertanto è di facile lettura: “Abbiamo riscontrato valori altamente sopra i limiti, sia nel fiume sia nelle riserve del sottosuolo. Prendiamo il caso dell’atrazina, vietata in Italia dal 1992: la concentrazione di questo erbicida è contenuta in superficie, mentre i dati riguardanti la falda evidenziano un tasso superiore di ben quattro volte rispetto ai limiti di legge”. Quindi il moto naturale del corso d’acqua ne limita effetti e durata, mentre l’immobilismo e la tenuta stagna della falda conserva le proprietà dei pesticidi da almeno 15 anni.

Tre dei principali gestori di rete idriche, il Gruppo Hera, Acquevenete e Acque Veronesi, assicurano che la qualità delle acque pubbliche viene accuratamente controllata, con particolare attenzione per i Pfas. Dai vertici politici delle regioni in cui il fiume trova cittadinanza, invece, è silenzio assoluto. Quello che emerge, in sostanza, dai molti enti coinvolti, è una conoscenza a singhiozzo, non particolarmente approfondita sulla presenza di pesticidi in falda. “Nonostante i report dell’Ispra, siamo arrivati al punto che in molte regioni ci sono stati casi dove è stata distribuita a centinaia di migliaia di persone acqua rivelatasi poi contaminata da sostanze che in realtà non venivano nemmeno cercate”, commenta Augusto De Sanctis, attivista Forum H2O. “I dati sui pesticidi sono solo la punta dell’iceberg di una situazione di vasta compromissione. Molte molecole nelle acque di falda non vengono neanche cercate: con il risultato di falde che presentano livelli di compromissione milioni di volte oltre i limiti di legge. Perché non si interviene? Semplice, i vincoli ferrei bloccherebbero le fabbriche, lo spargere dei pesticidi e la realizzazione di cave”. Quindi, spiega l’ambientalista, a volte è meglio non sapere.

I meccanismi di azione dei pesticidi recentemente sono stati tradotti in effetti sanitari, aprendo un vaso di Pandora. “Del problema del Po, bisogna valutare quanti pesticidi vengono poi realmente analizzati e bloccati prima dell’uscita dai rubinetti. È chiaro che molti pesticidi, in forza di unioni in cocktail chimici, non possono essere individuati e di conseguenza rimossi – afferma Patrizia Gentilini, medico oncologo ed ematologo, nonché rappresentante Isde (Associaazione medici per l’ambiente) – La situazione è drammatica, considerando la letteratura scientifica che riguarda l’esposizione cronica ai pesticidi: assorbendoli dall’acqua, dagli alimenti e dal contatto, siamo giunti oggi a parlare di esposoma, ovvero il fenomeno per cui entriamo in contatto con questi elementi sin dalla nascita. L’esposizione indebolisce i meccanismi di riparazione automatici dei danni al Dna, il che significa più vulnerabilità alle malattie tumorali, a quelle neurologiche, degenerative e, per i bambini, il rischio triplicato di autismo”.

Poco lontano, l’impatto nella Pianura Padana, nelle province di Cremona, Mantova e Brescia, assume toni allarmanti. Negli allevamenti intensivi (la zona ospita oltre la metà dei suini italiani), l’uso degli antibiotici si ripercuote in tre modi sui cittadini: attraverso le feci degli animali con le quali vengono concimati i terreni coltivati, tramite la carne macellata e per via idrica. Quindi l’inquinamento delle acque o del suolo con antimicotici e antibiotici fa sì che nell’ambiente prenda vita una proliferazione di batteri resistenti ai farmaci. L’antibioticoresistenza è una delle principali minacce per la salute pubblica e le acque provenienti da una roggia e da due canali irrigui in questa zona della pianura sono i maggiori sospettati. “Il risultato delle provette notifica un livello più alto della media europea per la presenza di farmaci veterinari”, spiega Federica Ferrario, responsabile Progetti speciali di Greenpeace Italia. “Sono stati rilevati 12 farmaci veterinari: nel campione della Roggia Savarona ci sono 11 farmaci”.

Spostandoci di poco verso est, nel bacino di Verona, Vicenza e Padova, troviamo uno dei disastri più longevi della storia d’Italia. Tutto ha inizio nel 2006, quando il progetto europeo “Perforce” avvia un’indagine per stabilire la presenza di perfluorati nelle acque e nei sedimenti dei maggiori fiumi europei. Il Po presenta livelli più elevati del normale, così che, solo nel 2011, anche il ministero dell’Ambiente decide di intervenire per valutare il rischio associato ai Pfas. L’inquinamento si rivela più grave del previsto e ad oggi il maggiore indiziato risulta essere l’azienda chimica Miteni Spa di Trissino: la Procura di Vicenza ha chiesto il rinvio a giudizio per 9 manager, con le accuse di avvelenamento delle acque e disastro innominato. Per l’accusa, l’azienda che si occupa di concia delle pelli, avrebbe versato mille tonnellate di Pfas in 10 anni. Un caso grave: tre le province coinvolte, 350mila persone contaminate destinate a diventare 800mila, oltre 80 Comuni interessati, 700 km quadrati di territorio compromesso, 95mila cittadini sottoposti a biomonitoraggio di cui 6 su 10 vengono inviati a fare visite specialistiche. “I Pfas si legano al recettore per il testosterone, riducendone di oltre il 40% l’attività indotta e pertanto il potenziale di fertilità”, dice Carlo Foresta, professore di Endocrinologia presso l’Università di Padova ed esperto di Pfas. “L’elevata presenza di Pfas all’interno della circolazione fetale in donne in gravidanza potrebbe determinare anomalie nello sviluppo del feto. Queste sostanze chimiche intaccano lo sviluppo antropometrico nell’uomo, modificandone gli equilibri e la crescita degli arti”. La sostanza, assimilata nel sangue, può inoltre rimanere in circolo per 10 anni, provocando forme di diabete e alcuni tipi di cancro.

Cambiando location, la storia si trasforma; o meglio, sparisce. “La situazione al Sud è complicata. Il problema di fondo è una conoscenza tutt’ora inadeguata: la Calabria, per esempio, non ci ha mai inviato un dato sul monitoraggio dei pesticidi, quindi è impossibile per noi sapere lo stato di contaminazione della regione”, commenta Paris. Anche se, buttando un occhio ai 18 siti di interesse nazionale a rischio nel Meridione, la situazione non sembra poi molto diversa.

G7, colpo a sorpresa di Macron: arriva il ministro iraniano

Colpo a sorpresa di Emmanuel Macron, proprio quando il G7 sembrava finire senza risultati: nel pomeriggio è atterrato a Biarritz un Airbus A321 Iraniano, sbarcando a sorpresa Mohammad Javad Zarif, ministro degli Esteri di Teheran, reduce da un tour nelle capitali europee. Colpo riuscito, dopo una mattinata che proprio sul tema del nucleare iraniano aveva avuto il suo momento più difficile con l’annuncio del conferimento a Macron di un mandato a trattare con Teheran da parte dei paesi del G7, seguito dalla smentita di Donald Trump: “Io non ho mai affrontato l’argomento”. Fonti europee avevano precisato che sull’Iran non si era andati avanti: “C’è solo accordo sul fatto che Teheran non debba avere armi nucleari e sul bisogno di evitare un’escalation”.

Alta tensione anche sui dazi: “Quello che ha fatto la Cina è vergognoso, mi rammarico di non aver aumentato ancora di più le tariffe”, ha detto Trump, tra voci contrarie. “La guerra dei dazi può rendere tutti meno competitivi”, ha lanciato l’allarme Giuseppe Conte. A segnare il passo anche il negoziato sull’ipotetico rientro della Russia nel G7: i sette grandi ritengono che sia “troppo presto” per riportare Putin nel gruppo.

Greta, Jovanotti e Recalcati: la squadra dei sogni di Renzi

Il Fatto è in grado di rivelare la composizione del governo di discontinuità che Renzi ha in mente come alternativa a quello Pd-M5S a cui voterà la fiducia lavorando sin dal primo giorno per farlo cadere. Mentre Zingaretti viene spinto ad accettare ogni condizione posta da Di Maio, Renzi costituirà il suo governo ombra, lavorerà alla scissione e alla creazione di un suo partito, nell’attesa che si compia la beata speranza di presentare a Mattarella la squadra sottostante.

Premier: Raffaele Cantone O chiunque altro accetti di rovinarsi definitivamente la reputazione.

Interno Il ministero verrà soppresso perché gli africani verranno aiutati a casa loro. L’ordine pubblico sarà garantito da cittadini volontari addestrati dal capo di Technogym. Le province, già abolite da Delrio, e i comuni, dove il Pd perde da anni, saranno sostituiti da Signorie con a capo famiglie abbienti originarie del territorio toscano.

Esteri Si incaricherà personalmente Matteo Renzi, essendo poliglotta, di intrattenere rapporti diplomatici disintermediati con cancellerie europee, Emirati Arabi, Usa, Russia, Cina e Corea del Nord. La sede sarà nella Silicon Valley. Elon Musk lavorerà alla fabbricazione di colonie italo-americane su Marte.

Economia e sviluppo economico: Carlo Calenda Si tratta di un regolamento di conti a somma zero reciproca inversa: se Calenda non ottiene il ministero, sommergerà Renzi di tweet brutti brutti brutti; se lo ottiene, Renzi avrà qualcuno a cui dare la colpa.

Ministero agli hashtag: Alessia Morani Il ministero si occuperà di coniare ogni giorno nuove parole d’ordine precedute da cancelletto per controllare il sentiment della rete e vigilerà che i trend topic ricalchino le variazioni d’umore e di tattica del Capo. Nei primi 100 giorni (anche del governo Zingaretti-Di Maio), lavorerà all’epurazione dell’hashtag #senzadime, che diventerà #purchésiaconme per non creare spiacevoli contraddizioni.

Ambiente: una ragazzina somigliante a Greta Thunberg Il ministero realizzerà il Green Act risalente al 2014 che Renzi non è riuscito ad avviare essendo stato al governo solo tre anni. Punti cardine: più trivellazioni in mare; più cantieri sbloccati; più Tav attraverso ogni montagna d’Italia; sotto il Gran Sasso, via l’Istituto di fisica nucleare: al suo posto, il diretto l’Aquila-Teramo (ora bisogna passare per Sulmona).

Istruzione, Ricerca e Università: Maria Elena Boschi La riforma simbolo del nuovo corso si chiamerà La bona scuola. A chi oserà contestare le misure del ministero, la Boschi indirizzerà un selfie con cui ribadirà che le sue sono 90-60-90.

Giustizia: Luca Lotti È l’unico che aveva in rubrica tutti i numeri per verificare la disponibilità dei magistrati a entrare nel nuovo Csm. Riformerà la prescrizione: scatterà per chiunque si chiami Tiziano o Luca.

Salute: Beatrice Lorenzin Ha fatto così bene che sarebbe un peccato perderla. Oppure Marianna Madia, perché serve una donna.

Salute mentale pubblica: Massimo Recalcati Lo scopo del ministero sarà sanare la popolazione italiana facendola somigliare psicologicamente e eticamente al Telemaco-figlio-giusto Renzi, già definito “sciamanico” da Recalcati (Repubblica, 17/7/2017). Quindi: cinismo, opportunismo, egolatria, mitomania e sfrontatezza verranno incoraggiati a scapito di prudenza, indecisione, tendenza a dire No, timidezza, serietà, sincerità. Verranno organizzati corsi obbligatori di pilates lacaniano e su Rai3 andrà in onda una striscia quotidiana di Lessico amoroso condotto dal ministro (Titolo prima puntata: “Heidegger e Renzi: analogie e differenze”). Chi rifiuta di sottoporsi al trattamento Recalcati verrà mandato al confino e tatuato con frasi pregnanti come “Ogni figlio è il figlio giusto in quanto sforzo di poesia” e “Ogni libro ha un suo modo di camminare”.

Lavoro: Davide Serra Ancora segreti i punti del nuovo piano per l’occupazione renziano. Si sa solo che si chiamerà Jobs Act e che prevede la soppressione del diritto di sciopero e di alcuni diritti accessori dei lavoratori (pausa pranzo, straordinari, ferie, malattia) per far ripartire l’Italia.

Ministero di riconciliazione nazionale: interim Matteo Renzi A ogni ricorrenza o celebrazione antifascista, Renzi si recherà con la famiglia nei siti delle foibe e posterà la foto su Instagram con la didascalia “Il Passato serve al Futuro. Avanti!”.

Ministero ai Sì: Jovanotti e Oscar Farinetti Darà avvio a ogni tipo di lavoro, cantiere, scavo, costruzione, sblocco, iniziativa, modifica costituzionale. Verranno sbloccate tutte le imprese di enti pubblici e privati che ne abbiano fatto richiesta mail all’indirizzo bellezza@governo.it, anche in zone precedentemente tutelate dalle Soprintendenze (istituto obsoleto che verrà soppresso). Esempi: se qualcuno vuole fare un concerto in un sito Unesco (le palafitte alpine, l’Etna in eruzione, Pompei), potrà farlo, senza che qualche cacadubbi intralci l’emozione; se qualcuno è convinto che sotto la volta della Cappella Sistina si celi un disegno preparatorio molto più bello di quello poi realizzato da Michelangelo, potrà, sotto la supervisione di esperti in scoperte sensazionali come inediti leonardeschi o ossa del Caravaggio, far trapanare il ciclo di affreschi finché non lo avrà trovato. Se non lo trova, si richiudono i buchi con una mano di stucco e amen.

Nel sondaggio post-crisi Salvini perde 5 punti

Nei giorni in cui ancora faceva il bello e il cattivo tempo dal bagnasciuga di Rimini, il ministro dell’Interno si era assai risentito del fatto che la stampa avesse osato tirare in mezzo il suo primogenito, beccato a fare un giro sulla moto d’acqua della polizia di Stato. Ma Matteo Salvini è sempre stato assai prodigo di immagini e citazioni sui suoi figli. E ieri, in una giornata in cui la Lega è rimasta insolitamente in silenzio, si è di nuovo giocato la carta “famiglia” per rivolgersi al suo pubblico social, postando una foto di lui insieme alla piccola di casa.

Non dev’essere stato un risveglio particolarmente sereno, quello del leader del Carroccio. Perché il Sole 24 Ore ha pubblicato ieri un sondaggio in cui il calo della Lega segna numeri impressionanti: 5 punti percentuali persi in un mese, praticamente quello in cui Salvini si è reso protagonista della crisi che ha portato alle dimissioni del premier Giuseppe Conte. Se il 30 luglio, il Carroccio sfiorava il 39 per cento dei consensi, oggi si ferma al 33,7. Un dato opposto a quello di Cinque Stelle e Pd, impegnati in queste ore nella trattativa per la formazione di una nuova maggioranza: il Pd guadagna uno 0,7 in più, passando dal 23,3 al 24; il Movimento cresce dal 14,8 al 16,6 per cento. Sale di un punto anche Fratelli d’Italia (dal 7,4 all’8,3), Forza Italia rimane stabile al 6,6.

Ma il calo è anche personale: secondo il sondaggio del Sole, per il 58 per cento degli elettori la credibilità di Matteo Salvini dopo la rottura con i 5 Stelle è diminuita e solo per il 23 per cento è aumentata o, nel 19 per cento dei casi, rimasta uguale. Per il 54 per cento degli elettori la Lega è il partito che si è “comportata peggio” in questa crisi di governo.

Il dato complessivo dice che soltanto 4 italiani su 10 vogliono andare a votare subito. Il 62% degli elettori Pd vuole l’accordo con il M5S, mentre si ferma al 43 per cento la percentuale di elettori grillini favorevole al governo giallorosso.

Certo, l’incognita è ancora aperta. E ovviamente Salvini tifa per un’accelerazione della crisi che porti alle elezioni in autunno. “In questo caso tutto quello che è stato scritto sugli errori del leader della Lega andrebbe completamente rivisto”, nota il politologo Roberto D’Alimonte commentando le rilevazioni di Winpoll. Salvini “diventerebbe di colpo un genio della politica. Voleva le elezioni e le ha avute, dopo aver fatto credere a tutti di avere fatto una frittata. E sarebbero elezioni che vincerebbe meglio di quanto sarebbe successo se Pd e M5S non avessero cercato invano un accordo. Gli elettori -avverte – sono mobili”.

Se oggi non c’è rottura Pd-M5S, via alle consultazioni “normali”

Oggi il presidente della Repubblcia renderà noto il calendario delle consultazioni. Il secondo giro, dopo i primi colloqui senza esito della settimana scorsa, che Sergio Mattarella considera decisivo per la risoluzione della crisi, in un senso o nell’altro. L’“innesco” c’è stato, l’interlocuzione tra i Cinque Stelle e il Pd si è avviata e dal Colle assistono al dibattito di queste ore senza notare segnali di rottura preoccupanti. Tutto dipende da quello che accadrà oggi: se la trattativa in corso tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti dovesse proseguire sulla stessa lunghezza d’onda delle ultime ore, Mattarella non ha motivo di accelerare i tempi: senza una “conclamata” rottura, da ambo i fronti, convocherà i partiti con la tempistica tradizionale. Una giornata per i “piccoli”, un’altra per i “grandi”. Si tratta di una precisazione resa necessaria da alcune indiscrezioni che erano circolate sabato: l’ipotesi, cioè, che il Capo dello Stato tenesse le consultazioni con i partiti in un’unica giornata. Un segnale che sarebbe stato interpretato come una fretta dovuta all’indisponibilità del presidente a perdere tempo su un accordo che non c’è. Invece, a quanto si apprende, se la giornata di oggi proseguirà senza strappi evidenti, Mattarella concederà tutto il tempo necessario alla discussione, ferma restando la scadenza di mercoledì, in cui la trattativa dovrà essere conclusa.

Il nome, come noto, è la questione più controversa, visto che il Movimento pone la permanenza a palazzo Chigi di Giuseppe Conte come una condizione irrinunciabile. Ma se una maggioranza dovesse compattarsi, il Quirinale potrà poi probabilmente permettere agli interlocutori di aprire nuovi tavoli per fissare i dettagli dell’accordo.

Ieri il presidente si è momentaneamente allontanato da Roma per celebrare il 75esimo anniversario dall’eccidio nazista di Vinca a Fivizzano, in provincia di Massa Carrara. Lì ha tenuto il suo discorso ricordando che “la nostra democrazia e i nostri valori di libertà si fondano proprio a partire dal sangue versato da innocenti e dal conseguente commosso grido dei padri fondatori dell’Europa: mai più guerre, mai più lutti”. Un ammonimento che per il Capo dello Stato deve continuare a rimanere un guida della democrazie perché “la storia ci insegna che, di fronte alla barbarie, interi secoli di civiltà possono essere annientati in un istante”.

Conte II e Andreotti III: le analogie con il 1976

Dalla destra alla sinistra, come capo del governo, nominato anche per garantire gli equilibri internazionali. Sembra il profilo di Giuseppe Conte, premier uscente, e lo è certamente. Ma non riguarda solo lui. La storia repubblicana offre varie analogie, non paragoni superficiali, tra i politici che si sono seduti sulla poltrona di presidente del Consiglio a Palazzo Chigi guidando nel tempo coalizioni diversissime tra di loro. E il profilo di cui sopra appartiene allora anche ad alcuni leader democristiani del passato. Primo fra tutti Giulio Andreotti.

Si chiama logica del proporzionale in una democrazia parlamentare. Storditi dal ventennio breve del bipolarismo ci si è dimenticati che l’Italia del 4 marzo 2018 ha restituito al Paese uno schema modello Prima Repubblica. E in un quadro del genere le coalizioni si formano ufficialmente sulla base delle consultazioni del capo dello Stato. Il nome del premier viene indicato dal partito di maggioranza relativa, in questo caso il Movimento 5 Stelle. Ecco perché la decisione pentastellata sul nome di Conte per un esecutivo con il Pd rimanda soprattutto alle analogie con il 1976, l’anno dei due vincitori, Dc e Pci, e della solidarietà nazionale alias compromesso storico.

Proprio ieri una testimonianza autorevole è giunta da Pierluigi Castagnetti, ex parlamentare del Pd legato da una lunga amicizia al capo dello Stato Sergio Mattarella. Castagnetti ha fatto un tweet intitolato “La lezione di Berlinguer”. Scrive: “Nel 1976 Berlinguer (che avrebbe preferito Moro) accettò Andreotti, perché riteneva che sono i programmi e non le persone il terreno e lo strumento della discontinuità”.

Il governo Andreotti III nacque a poco più di un mese dalle elezioni del 20 giugno del 1976. I due protagonisti del compromesso storico erano Aldo Moro per la Dc ed Enrico Berlinguer per il Pci. Il segretario comunista avrebbe voluto Moro a capo del monocolore Dc che in Parlamento avrebbe contato sull’astensione o non sfiducia del Pci. Un evento storico, dopo la traumatica fine dei governi di unità nazionale del Dopoguerra su diktat degli Stati Uniti. Ma fu lo stesso Moro – lo statista dc fu in corsa per la presidenza di Montecitorio dove invece andò Pietro Ingrao – a indicare il nome di Giulio Andreotti.

Per due motivi. Il Divo Giulio era l’unico che in quella fase poteva garantire tutte le feroci correnti della Balena Bianca (altra analogia con la fase odierna) ma soprattutto doveva funzionare come garante per gli americani, visti i suoi rapporti internazionali.

In sintesi, fu questa la genesi che portò Andreotti, uomo della destra dc, conservatore e gestionista, a capo di quel monocolore che andò in crisi due anni, nel tragico marzo del 1978, il mese del rapimento di Moro. Quel governo era l’Andreotti III e veniva dopo l’Andreotti II del giugno 1972, quattro anni prima. L’Andreotti II (non bis, come molti si ostinano a chiamare un nuovo eventuale governo Conte) è passato alla storia come un governo di centro-destra, col trattino, ché la Dc si alleò con il Pli di Malagodi. Non solo: i morotei, contrari all’accordo, si rifiutarono di indicare ministri per l’esecutivo.

La storia repubblicana presenta altri esponenti di rilievo della Dc chiamati a pilotare fasi politiche di segno diverso. In un anno, dal 1947 al 1948, Alcide De Gasperi passò dai governi con il Pci di Palmiro Togliatti (che era ministro della Giustizia) all’anticomunismo viscerale delle elezioni del 18 aprile. Fino a metà del 1947, ci fu un De Gasperi III sostenuto da Dc, Pci e Psi. Da maggio di quell’anno subentrò il De Gasperi IV, un quadripartito formato da Dc, Pli, Psli e Pri. Si aprì il cosiddetto centrismo, in cui si forgiarono i due campioni delle aperture a sinistra: Amintore Fanfani, che riportò il Psi al governo, e lo stesso Moro.