Fico “responsabile” declina l’invito dem Ma resta in partita

Si è fatto da parte: proprio lui, il grillino più rosso che c’è, ergo sulla carta l’uomo perfetto per la sintesi. Ma tra teoria e pratica spesso in politica corre un oceano. Così ieri Roberto Fico, il nome che il Pd aveva rilanciato per Palazzo Chigi per stanare Luigi Di Maio, ha detto no, grazie. “Fico ricopre l’incarico di presidente della Camera e intende responsabilmente dare continuità al suo ruolo” ha fatto sapere tramite fonti della presidenza, come a distanziarsi anche fisicamente dal gioco. Però nei discorsi riservati di queste ore fa notare che il passo indietro non è stato fatto su richiesta di qualcuno, cioè del Movimento, o ancora meglio di Di Maio. Fico, è il ragionamento del presidente con i suoi, vuole agevolare il risolversi della crisi, aiutare a sbrigliare la matassa. Assieme al fondatore Beppe Grillo è stato il principale fautore nel M5S della trattativa con i dem. E spera che il treno arrivi a destinazione. Ma dietro il suo scostarsi non c’è nessuna imposizione, e nessun timore.

Tradotto, il presidente della Camera non avrebbe avuto paura di sottoporsi a una votazione sulla piattaforma web Rousseau, come sussurrava più di qualcuno nel Movimento, convinto che “Roberto non reggerebbe, solo Conte può”. Ma Fico è di diverso parere. Non teme, raccontano, l’ordalia a cui i Cinque Stelle potrebbero sottoporre l’intesa con il Pd, compreso il nome del prossimo presidente del Consiglio. Anche se il tempo è pochissimo e al Quirinale, ad occhio, potrebbero mal tollerare un passaggio comunque rischioso a leggere gli umori degli iscritti grillini sul web, in netta maggioranza contrari all’abbraccio con il Pd. Circostanza che Fico conosce. Come sa che nell’apertura dei dem sul suo nome non c’è solo tattica.

A tanti del Pd, a cominciare dal cerchio più ristretto che circonda il segretario Nicola Zingaretti (uno su tutti, il demiurgo del Pd romano Goffredo Bettini) il veterano dei 5Stelle andrebbe benissimo, consapevoli che sarebbe una scelta con cui rendere meno amara alla base dem l’accordo. Ma non ci sono le condizioni, almeno per adesso. Perché Di Maio deve insistere su Conte, l’unico nome condiviso da tutto il Movimento. Mentre Fico sarebbe un dito nell’occhio per il capo politico, che dal presidente della Camera è lontanissimo per mille motivi. E un problema anche per molti dei generali del M5S. Così ora la partita si gioca ancora attorno al premier dimissionario, attorno a quel Conte che anche Fico vorrebbe rivedere a Palazzo Chigi, e con cui ha un ottimo rapporto. E per riuscirci bisogna anche passare da lui, dal presidente della Camera, e infatti Di Maio lo sente con regolarità. Perché “l’ortodosso” tiene i fili con tanti maggiorenti dem, lavora per smussare i tanti spigoli di una trattativa che per molti versi è un corpo a corpo. Insomma dentro la partita c’è anche Fico, da facilitatore, che dalla sua poltrona da Montecitorio ha una visuale larga. Però lo stallo permane. E chissà per quanto dominerà la palude.

Così da qui a qualche giorno sulla ruota per Palazzo Chigi potrebbero (ri)apparire anche quelli che non vorrebbero starci. Compreso, e forse prima di tutti, il Fico che si è tirato indietro. Anche perché fino a ieri sera Di Maio non pareva avere carte coperte, come qualche tecnico “alla Conte” che dal Pd zingarettiano hanno chiesto più volte, senza esito. Difficile leggere nel futuro, anche a brevissimo termine. Però nero su bianco c’è una precisazione diffusa ieri pomeriggio dal Movimento: “Il M5S smentisce ogni ricostruzione attribuita a fonti parlamentari, e come già ribadito in più occasioni il M5S si esprime solo con i suoi canali ufficiali”.

Parole per smentire imprecisate fonti parlamentari che davano per chiusa l’ipotesi di Fico premier.

Una forma di rispetto per il presidente della Camera, certo. Ma anche una cautela. Necessaria, in un quadro così frammentato. Dove Fico oggi cerca di ricomporre anche ciò che pare innaturale unire. Poi tra qualche giorno si vedrà.

 

Zingaretti insiste, Di Maio alza il tiro. Oggi il giro di boa

I due leader di mondi diversi in fondo l’accordo non lo vorrebbero, potendo si sarebbero presi il voto anticipato (Nicola Zingaretti) o magari addirittura la Lega (Luigi Di Maio). Forse però non possono più tornare indietro. “Il treno è andato troppo avanti per fermarsi, lentamente arriverà dove deve arrivare” riassume un veterano del Pd. In sintesi, il segretario dem e il capo politico dei Cinque Stelle questo governo devono davvero cercare di farlo. Magari partendo proprio da Giuseppe Conte, su cui il veto di Zingaretti rimane, ma di domenica sera pare più fragile, perché tante voci di dentro del Pd e parecchie voci da fuori ripetono senza fermarsi che non bisogna formalizzarsi, meglio inghiottire il premier dimissionario a Palazzo Chigi e passare all’incasso sui ministeri, a partire dal Viminale.

Però è ancora maledettamente difficile questa guerra fredda, perché il Movimento forza i toni e le parole: troppo, per i pontieri delle rispettive parti. Quasi urla il Di Maio che non vuole sentire ragioni, anche perché altri nomi non ne ha. “La soluzione è Conte, e solo lui” tambureggia per tutta la domenica il Movimento. E lo stesso capo politico ripete il concetto a Zingaretti in una telefonata mattutina, l’unico contatto tra i due vertici.

Ma per il segretario del Pd, vecchia scuola comunista, non si può recedere da quella “richiesta di discontinuità” che predica da giorni, cioè dal veto su Conte. Per questo nel pomeriggio appare in maniche di camicia al Nazareno, la sede del Pd dove i dem tengono tavoli un po’ surreali sui temi, e tiene il punto: “L’Italia non capirebbe un rimpastone, noi pensiamo che in un governo di svolta la discontinuità deve esser garantita anche da un cambio di persone”. Però, aggiunge il segretario, “noi faremo di tutto per trovare una soluzione positiva, che si troverà in un confronto reciproco, senza ultimatum”. Ce l’ha con il Movimento che ripete Conte o morte, che gioca sempre di aut aut. Ma in controluce fa capire che serve tempo. Poi magari si potrà fare. Dall’altra parte dovrebbero cogliere il messaggio, ragionano i dem. Invece un nanosecondo dopo il M5S già spara: “L’Italia non può aspettare il Pd, è assurdo”. Una gamba tesa che non ci voleva, a leggere la reazioni. E che rende tutto più difficile, nella domenica in cui i renziani tornano a spingere pubblicamente per il sì a Conte. Tanto che Dario Franceschini, quello che parla pochissimo perché conta davvero, chiede pubblicamente a tutti i dem di fare i bravi: “Fino alla fine della crisi parli solo il segretario Zingaretti”. È più di un suggerimento, dal big che il veto a Conte lo sta corrodendo da giorni, con consigli, segnali, suggerimenti. E il segretario ovviamente ha preso nota. Sa che per l’accordo, e per il presidente del Consiglio che fu gialloverde, si sono mossi in parecchi. Ambasciate, per esempio, e l’eterno potere, la Chiesa. “Conte ha entrature in Vaticano che forse nessuno del Pd ha” sussurra un altro dem. Però Zingaretti e i suoi non vogliono prove di forza dal Movimento. Si irrigidiscono, e anche per questo si trincerano dietro la linea ufficiale: “Non cediamo sul premier, anche se ci stanno offrendo di tutto”. Dal fronte M5S negano: “Figurarsi, al limite potremmo nominare un commissario europeo condiviso”.

E si irritano per un’agenzia che narra di Di Maio che a Zingaretti avrebbe offerto “quasi” un monocolore Pd in cambio del sì a Conte. “Non si fanno scambi o giochini” giurano. Però sanno bene che ai democratici bisognerà dare ministeri di peso, come quello dell’Interno, a cui pure il capo politico puntava per sè. “Ma Luigi può prendere anche gli Esteri” ragiona un maggiorente del Movimento. Certo, dal M5S assicurano che, per carità, “non abbiamo mai parlato di ministri”. Ma i segnali dicono che i 5Stelle sicuri della riconferma sono solo Di Maio e i suoi due pretoriani, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede. Mentre sul fronte Pd si ragiona su varie opzioni. Con l’attuale capo della Polizia Franco Gabrielli che rimane un nome per il Viminale. E con l’ex governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, in ottimi rapporti con la sindaca 5Stelle di Torino Chiara Appendino, che è dato tra i papabili.

Ma siamo già troppo oltre, perché ci sono ancora mille passi da fare. “Di Maio è troppo sfuggente” si lamentano dal Pd. Cioè sfugge a un nuovo incontro, che ieri Zingaretti è tornato a chiedergli. “Fino alle consultazioni di domani dovrebbero vedersi solo le delegazioni” insistono dal M5S. Di Maio vuole continuare a giocarsela a distanza, puntando sul pressing delle varie anime del Pd su Zingaretti e sullo scorrere delle lancette. Ma il segretario dem risponde invocando tavoli anche “con la sinistra”, ossia con Leu (e Federico Fornaro risponde: “Il governo di svolta è possibile”). Oggi però si dovranno trovare se non tutte molte delle risposte. Tradotto, potrebbe essere un lunedì decisivo.

Con il Pd che si riunirà per un vertice che dovrebbe chiarire la linea, cioè dare la risposta definitiva su Conte. E dopo sono previste le 48 ore delle consultazioni. Ma in mezzo ci sono tante botole possibili. Per esempio, il Pd potrebbe rilanciare chiedendo Di Maio fuori dall’esecutivo in cambio del sì a Conte. “Impossibile” dicono i 5Stelle. Ma non è detto. Come non è affatto dato capire cosa farà Di Maio in caso di no al premier. La bomba che potrebbe fare saltare davvero tutto.

Ascoltate Salvini

Qualcuno ha notizie di Salvini? Comunque finisca questa strana e impervia trattativa fra M5S e Pd, un risultato l’ha già ottenuto, purtroppo temiamo provvisorio: liberarci dell’onniprensenza ossessiva del Cazzaro Verde, che da un anno e più occupava prime pagine, titoli di telegiornale, dibattiti da talk, conversazioni in famiglia e tra amici prima, durante e dopo i pasti. Non si parlava che di lui, o per osannarlo o per attaccarlo, come se fosse l’ombelico del mondo, manco facesse capoluogo di provincia. Anche chi lo detestava finiva per fare il suo gioco, prendendolo terribilmente sul serio (“il nuovo Mussolini” o “il ministro della malavita”, cioè il nuovo Giolitti: figuriamoci), scambiandolo o spacciandolo per il padrone d’Italia, il vero presidente del Consiglio, l’autore di tutte le leggi e i decreti, l’uomo forte che si era “mangiato i 5Stelle” non solo sui media (grazie ai media), ma anche nel governo (dove, a parte tre inutili norme sull’illegittima difesa e sulla presunta sicurezza, non ha combinato un bel niente). Occupava tutti gli spazi, le menti, i pensieri, le energie altrui, come solo B. e per un po’ Renzi erano riusciti a fare.

Poi – pare trascorso un secolo, ma è stato solo 18 giorni fa – ha avuto la bella pensata di rovesciare il governo Conte in pieno agosto, all’indomani della fiducia sul Sicurezza-bis e della vittoria parlamentare sul Tav (grazie ai voti determinanti del Pd). Da allora si attende, anche da parte dei suoi fan superstiti, che spieghi quali sarebbero i fantomatici “no” che avrebbe ricevuto dai 5Stelle per buttar giù il governo in quel modo e in quel momento. Invano. Tant’è che oggi è ridotto alla mendicità ai piedi di Di Maio per rimettere insieme i (suoi) cocci e farfuglia di “no che sono diventati sì” senza precisare dire quali, chi, cosa, de che. La scena del premier di Conte che in Senato, davanti a milioni di italiani attoniti, lo brutalizza soavemente dall’alto verso il basso spiegandogli come vanno il mondo e la democrazia sarà difficile da dimenticare presto. Sono bastati quei 50 minuti per trasformare la sua immagine di vincente in quella di perdente. E i sondaggi ne hanno subito risentito: lo zoccolo duro leghista resta con lui, ma i saltatori sul carro del vincitore sopraggiunti alle Europee e dopo stanno tornando indietro: vedi mai che quello sia il carro del perdente e ne arrivino di più appetitosi. Potrebbe essere il caso della maggioranza giallo-rosa, casomai oggi l’incontro decisivo fra Di Maio e Zingaretti partorisse qualcosa di serio. Cioè un governo Conte 2, anzi 2.0, l’unico con qualche chance di successo e durata nella situazione data.

Ieri Roberto Fico ha bissato il beau geste di Luigi Di Maio, cioè ha sacrificato se stesso per Conte e respinto le incaute lusinghe del Pd (una pura e inutile provocazione: senza offesa per Fico, sarebbe come se Di Maio intimasse a Zinga di cedere il posto a Renzi). Dunque il quadro è chiaro: i 5Stelle hanno indicato Conte perchè lo ritengono l’unico premier possibile, e non perchè volessero “bruciarlo”, come sperava qualche pidino abituato a fare così e incredulo per l’esistenza di politici con una parola sola. La “discontinuità” si potrà ottenere sui ministri e sui programmi, ma senza fanatismi: altrimenti, a furia di reclamarla, finirà per riguardare tutte le magagne degli ultimi vent’anni (i governi con B., il Jobs Act, la Buona Scuola, la controriforma costituzionale…) e non si troverà più nessuno per fare il governo. Se nel Pd tutti credono davvero in questa nuova maggioranza, e se davvero privilegiano i programmi anzichè i personalismi e le meschine gelosie, l’impressione è che la trattativa sia andata troppo avanti per essere interrotta dall’impuntatura su un nome. Tra l’altro popolarissimo e degnissimo.

Con tempi così ristretti, idee così confuse e condizioni di partenza così sfavorevoli, l’unica bussola per orientarsi dovrebbe essere il desaparecido Salvini. Al quale bisognerebbe dare ascolto, per poi fare l’esatto contrario. Tutto ciò che vuole lui va assolutamente evitato. E cosa vuole Salvini? Lo ripete continuamente. 1) Rifare il governo col M5S: dunque i 5Stelle diano retta a Conte e se lo levino dalla testa. 2) Impedire in ogni modo un governo M5S-Pd e, se nascesse, sperare che sia una rissa continua: quindi M5S e Pd evitino di accontentarlo. 3) Far dimenticare l’umiliazione di Palazzo Madama facendo sparire per sempre Conte, l’unico leader su piazza che da mesi lo supera nei sondaggi: ergo il Pd cerchi di deluderlo, accettando Conte premier. Altrimenti Zingaretti dovrà spiegare ai suoi elettori perchè ha mandato a monte una trattativa così avanzata per la sua assurda guerra al nemico pubblico numero 1 di Salvini. E sarà difficile trovare le parole.

“Era ‘il più brutto di Roma’ e voleva essere risarcito dalla vita. E dal cinema”

“Delle Piane era brutto, anzi, il più brutto: come Dalla”. Per Pupi Avati ha già parlato il suo cinema, che da Una gita scolastica a Regalo di Natale ha fatto di un caratterista di alterno successo un protagonista da premiare, sicché il cordoglio per la perdita di un sodale può conservare le asperità della verità: “Apparentemente difficili da imparentarsi, le vicende di Carlo e Lucio sono invece analoghe: avevano un enorme senso di colpa per la propria fisicità”.

Avati, si spieghi.

Non essendo esteticamente omologati, tra virgolette “normali”, si sentivano vastamente deprezzati, ineluttabilmente disprezzati.

Delle Piane trovò il primo set a soli dodici anni: la trasposizione di Cuore, anno 1948, con Vittorio De Sica e María Mercader.

Il regista Duilio Coletti batteva la Capitale alla ricerca di un bambino brutto per incarnare Garoffi, non lo trovava ed era disperato: “Più brutto, più brutto!”. Finché non gli misero davanti Carlo, prontamente ribattezzato “il più brutto di Roma”. Non credo un simile primato potesse esaltare un bambino, ma tant’è: come Dalla, lo scherzo della natura, lo sgorbio Carlo Delle Piane si mise ad aspettare il risarcimento della vita.

Così fu?

Be’, partecipò attivamente alla nascita di un cinema italiano straordinario, quello dei Totò, dei Fabrizi e dei Sordi. Poi, ne trovò un altro, infinitamente meno straordinario, in cui gli apparecchiavano particine da freak. Nondimeno, i suoi occhi strabuzzati riuscivano a salvare scene di film irrecuperabili.

Poi arrivò Avati: non Pupi, ma Antonio.

Ero un autore sessantottino, almeno mi sforzavo di esserlo, sicché lo squadravo con la supponenza e la diffidenza di chi guarda un cinema minore, financo imbarazzante, con cui non ha nulla da spartire. Mio fratello insistette, lo incontrava al Filmstudio, condivideva la passione per i film d’autore e Billie Holiday, e pretendeva: “Ha dentro di sé un altro mondo, che non corrisponde a quello di Pecorino”, come lo bollavano a Roma.

Sicché nel 1977 ebbe una parte in Tutti defunti… tranne i morti.

Antonio me lo fece trovare vestito e truccato da ispettore stile Marlowe, io risi e cedetti. Scoprii che Carlo aveva molto di sé da dire, e che davvero voleva essere risarcito dalla vita: sono quelli in cui mi riconosco di più, quanti hanno subito ingiustizie dolorose.

Che attore era Delle Piane?

Uno dei tre, e solo tre, a cui non avevo bisogno di dire niente per ritrovarmi con qualcosa di più di quanto mi aspettassi: era capace di intuire, immedesimarsi e appropriarsi di un ruolo in modo totalizzante. Gli sarò sempre riconoscente, sebbene le nostre strade a un certo punto si fossero separate: un grande equivoco, Carlo pensò di poter camminare da solo, di ambire esclusivamente a ruoli da protagonista assoluto, cosa che non ero più in grado di offrirgli. Si illuse di poterli trovare altrove, ma salvo l’Ermanno Olmi di Ticket, il cinema italiano non gli ha offerto niente.

Ingrati?

Io chiamai persino Fellini, pregandolo di coinvolgere Carlo, ma Federico non acconsentì: “È troppo tuo”, e forse aveva ragione. Non sono riuscito a trasmettere la stima per Delle Piane, per la sua intrinseca bellezza ai miei colleghi. Cinque o sei mesi fa all’Auditorium di Roma – era già ammalato, in carrozzina – gli hanno fatto la festa per i settant’anni di carriera: c’era un sacco di gente, ma del cinema nessuno, a parte io e Antonio. Ho un dubbio…

Che dubbio, Avati?

L’amarezza dei suoi ultimi tempi… Non so se Carlo si sia voluto ammalare, ma temo di sì.

Carlo, attore malinconico e “incapace di vincere”

Centodieci film in settant’anni senza compromessi. Altro che “caratterista” o solamente “indimenticabile maschera” come alcuni hanno definito Carlo Delle Piane, grande uomo e attore grande, che a 83 anni lascia questo per un altro mondo che – posto esista – potrebbe dimostrargli maggiore stima e gratitudine di quanto non abbia qui ricevuto.

Lungo una carriera superlativa ha recitato per e con i migliori interpreti del nostro cinema (Eduardo De Filippo, Vittorio De Sica, Totò, Fabrizi, Sordi, Gassman, Steno, Monicelli, Corbucci e naturalmente Pupi Avati) e questo, forse, aveva abituato troppo bene l’attore nato nel cuore di Roma, a Campo de’ Fiori, nel febbraio del 1936, tanto da fargli dichiarare: “Non mi arrivano copioni interessanti. Vogliono solo sfruttare il mio nome, per questo lascio perdere”. Parole forti quelle che aveva confidato in un’intervista uscita sul Fatto nel 2017 a firma di Alessandro Ferrucci e Fabrizio Corallo, quando era tornato a recitare dopo una prolungata assenza anche a causa di un problema di salute. E questa assenza lo affliggeva ancor più delle malattie, perché Delle Piane amava il cinema, anzi proprio il set, alla follia. Era “la mia terapia”, diceva, “davanti alla macchina da presa non sentivo più dolori, alcun fastidio, solo il piacere del set: è la mia medicina”.

Su questi set, iniziati quasi per caso a soli 12 anni quando Vittorio De Sica e Duilio Coletti lo selezionarono in un provino per Cuore, aveva incontrato i giganti del tempo, a partire da Totò (“un uomo riservato, un gran signore, con un punto di riservatezza che gli pervadeva il cuore”) e il suo “unico amico nel mondo del cinema” Aldo Fabrizi, entrambi conosciuti nel 1951 in Guardie e ladri. È stato lui stesso ad ammettere che la vicinanza fraterna (“dal lavoro alle vacanze, per il suo stomaco ho cambiato la macchina…”) con Fabrizi gli ha condizionato l’atteggiamento professionale, e forse anche il carattere, “era uno che non accettava mai compromessi, era schietto, uno scomodo”. Ma la prima scuola di vita di Carlo è stato il padre, un piccolo grande sarto, “fantasioso, per mantenerci accettava qualunque lavoro, pure il più misero”, così che il figlio ha imparato ad accettare di buon grado “gli scarti” dei belloni del cinema con cui usciva negli anni 50 che conquistavano tutte le donne, senza esclusione. E poi è arrivato “Albertone” Sordi, cinque film con lui, fra cui Un americano a Roma nel 1954 in cui ha vestito i panni dell’indimenticabile “Cicalone”, “con Sordi avevo un rapporto tranquillo, direi divertente”.

La svolta però arrivò solo nel 1973, dopo un incidente che lo portò in coma da cui comunque si riprese benissimo, con l’incontro maiuscolo, quello che gli cambiò vita e carriera, ovvero con Pupi Avati. Quattordici film con lui, fra cui Regalo di Natale nel 1986 con il ruolo principe – l’avvocato Santelia – che lo consegnò fra gli dei dell’olimpo con tanto di Coppa Volpi a Venezia. E a quel ruolo si è affezionato Delle Piane, aderendovi anima e corpo con frasi che sembravano partirgli dal profondo dell’anima, da amabile perdente quale era percepito: “Non ne sono capace io, di vincere”. Con quella faccia un po’ così, gli occhi piegati all’ingiù in posa di gentile malinconia e un naso più unico che raro (dovuto a una pallonata in faccia quando aveva 10 anni mentre giocava), l’avvocato Santelia lo ritrova nel 2017 grazie al film Chi salverà le rose di Cesare Furesi, spin-off del Regalo di Avati.

Orgogliosamente autodidatta, si era formato in un cineclub dove divorava di tutto e aveva eletto a proprio modello Buster Keaton, guarda caso il genio della maschera che faceva ridere senza mai un sorriso. Avrebbe forse potuto superare i confini nazionali e della propria ritrosia, il buon Carlo, ma la “tecnicità” di certe performance richieste all’estero – ad esempio da Annaud per Il nome della rosa – non facevano per lui, “ho bisogno di avvertire un rapporto libero con il personaggio, per questo rifiutai rinunciando a tanti soldi”. Così era, e con questa coerente dignità è giusto ricordarlo.

La Versilia: la mia Mecca

Il tono e lo stile sono esattamente alla Renzo Arbore, con la sua leggera “erre” arrotata, la voce squillante, allegra, di chi ha basato parte dell’esistenza su un concetto caro anche a Luciano Salce, quando sosteneva che “l’ironia è una cosa seria”; la sostanza, all’inizio, è meno leggera e più figlia di una quotidianità parlamentare variopinta: “Questa mattina (sono le dieci) non ho ancora trovato il Fatto: la situazione politica è preoccupante”. Molto. “Davvero. E Salvini è uno che non ha niente a che fare con gli artisti (Ci pensa). Comunque, veniamo a noi: felicissimo di suonare alla Festa del Fatto con l’Orchestra Italiana (venerdì 30 agosto alla Versiliana), e poi per me, nei primi anni Cinquanta, la Versilia era Hollywood”.

Suoni e luci.

Già a quel tempo mi occupavo di musica, e l’estate con la famiglia andavamo a Riccione, definita allora la “Perla verde dell’Adriatico”; così noi terroni ci trovavamo davanti a una realtà totalmente estranea e affascinante, composta da musica moderna, macchinoni americani, quelli sterminati, neon…

Ma…

Finalmente nel 1954 i miei mi portano in Versilia e lì trovo la realizzazione sonora e visiva delle mie fantasie musicali: scopro la meraviglia dei night club.

Luoghi da copertine patinate.

Al Caprice di Viareggio si esibiva il mio mito: Peter van Wood, che negli anni successivi è diventato più celebre come astrologo nella trasmissioni di Fabio Fazio, ma al tempo era un numero uno assoluto per come suonava la chitarra elettrica.

Uno dei primi.

Era uno strumento raro, quasi esotico perché giudicato pericoloso.

Da chi?

Giravano presunte storie di musicisti morti fulminati (sorride). A quel tempo suonava anche Armandino Zingone, altro virtuoso dell’elettrica: alla fine dello spettacolo, verso mezzanotte, invitava sul palco i suoi otto figli e sfilavano in ordine di altezza.

Però Van Wood…

Lo ricordo mentre suonava Butta la chiave Gelsomina ed era adorato dalle signore presenti, tutte rappresentanti dell’alta borghesia, come la famiglia Agnelli, perché allora solo i benestanti potevano permettersi certe serate (E qui Arbore scova nella memoria un file con all’interno una lunghissima sfilza di “eroi” dell’epoca). Un altro capostipite era Bruno Quirinetta, poi Fred Buscaglione, Don Marino Barreto e Renato Carosone.

Lei entrava nei night?

All’inizio la sera mi piazzavo fuori dai locali, ascoltavo i suoni che provenivano da dentro, mi limitavo ad assaporare briciole di atmosfera, ciò che non potevo vedere lo compensavo con l’immaginazione; mentre il pomeriggio i ragazzi avevano accesso. Sì, la Versilia era la mia Mecca.

Una fissazione.

Mio padre preoccupatissimo, incolpava la musica degli sporadici insuccessi scolastici. Ah, sempre l’estate del 1954 è stata percorsa dallo scandalo sentimentale tra Antonella Lualdi e Franco Interlenghi, amore fuorilegge, e loro pubblici concubini.

Altro che divorzio.

L’Italia di allora si basava sulle apparenze, sul fare senza dire, e quel rapporto è stato ossessionato dai riflettori. Lei bellissima. E vicino ai due, in Versilia, c’era il grande Sergio Bernardini.

Colui che ha creato “La Bussola”.

E quell’estate andava in giro ad annunciare i suoi prossimi propositi, senza paura né scaramanzie, urlava: “Tutti questi locali sono finiti, il prossimo anno apro il mio, La Bussola, e li faccio fallire”.

Insomma, già ambiente molto borghese.

Be’, c’è un personaggio interpretato da Albero Sordi, che individuava nella Fiat 600 l’apice della scalata sociale, e a quel tempo la Versilia era invasa dalle 600, guidate da medici, avvocati, ingegneri; lo diceva anche Renato Carosone. Ribadisco: era il paese dei balocchi, ogni tanto ne parlo con Gigi (Proietti), e i cantanti da night oramai sono pochissimi.

Chi?

Oltre a me e Gigi? Anche Peppino Di Capri, Fred Bongusto, Andrea Mingardi e Fausto Leali.

Lei e Proietti.

Suonavamo con il contrabbasso finto.

Come, finto?

Andavamo a casaccio, non eravamo in grado, ma per ottenere una paga era necessario suonare più strumenti e possedere un repertorio musicale infinito. Mio padre anche in questo caso disperato.

Sempre per la scuola?

No, per l’ingombro del contrabbasso; quando l’ho portato a casa è sbottato: “O tu o lui”.

Spiegava del repertorio infinito.

Dovevamo conoscere un numero imprecisato di brani, perché il vero cantante da night è pronto a esaudire ogni richiesta del pubblico, così uno doveva studiare, preparare, memorizzare e sperare nella bontà d’animo dei presenti.

Da qui la sua preparazione.

Anche. Ma la musica italiana è straordinaria, la più ricca e varia al mondo, ed è una follia politica non averla valorizzata in questi decenni.

Le hanno mai proposto la direzione di Sanremo?

Più di una volta, e non ci penso proprio.

Perché?

Non è per me, la mia musica è differente, è più rhythm and blues, più statunitense, non sarei in grado; un anno, e per scherzo, all’ennesimo invito, ho risposto: “Niente direzione, però porto un brano”. Hanno accettato. E mi sono presentato con Il clarinetto (1986).

Eppure ha creato “L’Orchestra italiana”.

Nata perché nessun napoletano aveva mai pensato di raccogliere la sua tradizione, e doveva durare appena due anni, al contrario siamo al 28esimo.

Esibiti ovunque.

Abbiamo girato il mondo, dal Sudamerica a Miami; dal Madison di New York fino alla Piazza Rossa di Mosca.

Adriano Aragozzini, allora vostro manager, racconta che siete stati i primi ad accedere nel cuore politico della Russia.

Verissimo, una serata epica, complicata da organizzare: era crollato il Partito comunista, quindi mancavano i punti di riferimento, non sapevamo con chi discutere, e per questo siamo stati costretti ad allungare qualche mazzetta in dollari.

Dolore.

Non solo, eravamo tallonati dai servizi segreti, non potevamo muoverci liberamente neanche di un centimetro (Ride). Ho cantato Il Clarinetto tradotto in cirillico. Ah, in Russia ci sono stato anche con Franco Battiato e Milva.

Dalla Carlucci alla Laurito, fino a Frassica, tutti le riconoscono la capacità di estrarre il meglio dalle persone.

Anche qui devo ringraziare il jazz che mi ha insegnato l’arte dell’improvvisazione: in 14 anni di trasmissione con Gianni (Boncompagni), non abbiamo mai scritto una scaletta. Lui perché sfaticato.

Boncompagni non era sfaticato per gli scherzi.

Con lui era pura goliardia in stile Amici miei: magari chiamavamo le persone e gli comunicavamo: “Presentati alle sei del mattino in questo posto e vinci un’automobile”. La gente ci cascava. Negli ultimi anni Gianni andava intorno a San Pietro vestito da prete, poi entrava nei negozi religiosi per scegliere i crocifissi. Su Bonco sto preparando uno speciale che andrà in onda a ottobre sulla Rai, dal titolo Non è la Bbc.

Goliardia, diceva.

L’errore degli italiani è stato quello di derubricarla a stupidità umana, mentre spesso era espressione di un umorismo raffinatissimo; anni fa Umberto Eco mi ha consegnato una laurea in “goliardia” all’università di Bologna ed è uno degli attestati dei quali vado maggiormente fiero.

Per una sua goliardata si è offeso, e molto, Al Bano.

Con Roberto D’Agostino ci ha definito “due simpatici figli di puttana” dopo aver perso una causa per diffamazione.

Per cosa?

Anni fa abbiamo pubblicato un libro di gossip, 100 mila copie vendute e diventato oggetto introvabile. Lì, tra le varie voci, ci siamo dedicati alla sua storia con Romina (Power). E lei si è offesa dei nostri toni ironici.

Estate 1969: l’Italia inizia a cantare “Acqua azzurra, acqua chiara”.

Brano presentato per la prima volta a Speciale per voi, il primo talk show della televisione italiana. Quel giorno Lucio (Battisti) doveva cantare altro.

Cioè?

Arrivò insieme a Mogol con 10 ragazze per me, avevano la necessità di vendere dischi. L’ascolto, e gli manifesto un dubbio: “È bella, ma ricorda troppo Cuore matto”. Così puntai sul lato B. E Lucio era convinto di non saper cantare.

Non gli piaceva la sua voce.

Sosteneva di cantare peggio di Mogol, e Giulio aveva realmente una brutta voce.

Anche Mogol parla bene di lei.

Non esageriamo: la verità è che mi vedono ottantenne, quindi si inerpicano in complimenti perché non mi giudicano offensivo.

Errore.

Enorme, quindi voglio rassicurare tutti: lo sono ancora, offensivo. E per la Versiliana ho in mente alcune sorprese… (non svelate. Da vero professionista dei night club).

Twitter: @A_Ferrucci

Tusk: “Se il governo Bolsonaro consente la distruzione salta accordo Ue-Mercosur”

L’Esercito brasiliano ha iniziato il dispiegamento di uomini e mezzi in Amazzonia per contrastare gli incendi. Sul campo ci saranno 44.000 soldati a cui saranno affiancati aerei militari; sono i numeri forniti dai ministri della Difesa e dell’Ambiente che così intendono contrastare i roghi in Amazzonia. Sembra difficile che questo nuovo slancio del governo Bolsonaro possa realmente convincere che il presidente ha a cuore l’Amazzonia. E le conseguenze arrivano anche dal G7 in Francia dove il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha definito “poco probabile” una ratifica dell’accordo commerciale concluso fra l’Unione europea e il Mercosur se l’Amazzonia continuerà a bruciare: “Certamente – ha detto Tusk in apertura del vertice G7 a Biarritz – sosteniamo l’accordo Ue-Mercosur, ma è difficile immaginare un processo di ratifica fin quando il governo brasiliano consentirà la distruzione” dell’Amazzonia. Analogo avvertimento era stato lanciato dal presidente francese, Emmanuel Macron, polemizzando con l’omologo brasiliano. Altro monito per Bolsonaro parte dalla Conferenza episcopale brasiliana: “È urgente che i governi dei Paesi amazzonici, specialmente il Brasile, prendano misure serie per salvare una regione chiave per il pianeta, l’Amazzonia. Non è il tempo per deliri e débâcle nei giudizi e nei discorsi”.

Arresto show per Karoui, magnate della tv

A un mese dalla morte del presidente icona della Primavera tunisina, Beji Caid Essebsi, la Tunisia si appresta a compiere, con tutti i sussulti delle democrazie acerbe, un delicato slalom elettorale: prima le presidenziali del 15 settembre, poi le politiche del 6 ottobre. L’arresto di uno dei favoriti alla successione di Essebsi, Nabil Karoui, discusso imprenditore televisivo, in odore di corruzione, oltre che di conflitto d’interessi, potrebbe essere un incidente di percorso oppure rivelarsi un segnale d’affidabilità del sistema giudiziario. Essebsi, primo presidente eletto della Tunisia post-rivoluzionaria, è deceduto a 92 anni il 25 luglio, festa della Repubblica. Il presidente del Parlamento, Mohammed Ennaceur, ne ha assunto l’interim e, poiché la Costituzione prevede che la reggenza provvisoria non superi 90 giorni, ha anticipato le presidenziali, previste il 17 novembre, al 15 settembre, ferme restando le politiche al 6 ottobre.

Karoui è fondatore di Nessma Tv, una delle principali emittenti private del Paese. Del suo arresto, ha dato notizia il suo stesso partito, Qalb Tounes (‘Al cuore della Tunisia’): le auto della polizia hanno bloccato l’imprenditore che viaggiava sull’autostrada Beja-Tunisi. “Un’azione fascista e non democratica”, è il commento del partito, che denuncia le pratiche di cui Karoui sarebbe vittima da quando i sondaggi lo danno in testa alle intenzioni di voto.

Karoui era stato accusato agli inizi di luglio di riciclaggio di denaro e di frode fiscale. Anche suo fratello Ghazi è stato colpito da un mandato di arresto, ma sarebbe in fuga, forse in Algeria. Dopo l’arresto Karoui è stato condotto nel carcere di Mornaguia. Contro di lui e suo fratello, l’autorità giudiziaria ha pure disposto il divieto di espatrio e il sequestro dei beni. Il 23 luglio, Karoui era stato ascoltato dai magistrati inquirenti per otto ore.

L’arresto di Karoui segue la decisione dell’Autorità indipendente per la comunicazione audiovisiva (Haica) di escludere perché “faziosi” tre media, tra cui Nessma tv, dalla copertura della campagna. Ma l’arresto non impedisce a Karoui di restare candidato: “Il suo nome resta sulla scheda”, ha detto Nabil Baffoun, presidente dell’Isie, l’organo governativo incaricato di supervisionare le elezioni. Karoui era stato molto attivo durante la campagna che nel 2014 portò alla guida del Paese Essebsi. Dopo, s’è però allontanato dal partito al governo Nidaa Tounes e ha creato la sua formazione, di cui è il presidente.

L’indagine che coinvolge i fratelli Karoui è nata dalla denuncia lo scorso marzo dell’Ong ‘I Watch’, affiliata a Transparency International, specializzata nella lotta alla corruzione, contro il gruppo dell’imprenditore e politico, di cui Mediaset possiederebbe ancora un quarto. Il contenzioso tra l’Ong e i Karoui va avanti da tempo: già nel 2016, I Watch intentò un’azione legale contro Nessma Tv per diffamazione e frode fiscale.

La “lobby del bue” in Amazzonia non fa prigionieri

“Grillagem” è un vocabolo molto diffuso nello slang. Lo si usa per esprime il concetto di “frode fondiaria”. I grilli, un tempo, venivano utilizzati per mangiucchiare gli atti notarili falsi con cui ci si intestava la proprietà di un terreno. Il documento veniva lasciato per qualche giorno nel cassetto assieme agli insetti e assumeva così le sembianze di un certificato datato, da poter esibire in caso di rivalsa da parte dei reali proprietari. Nell’Amazzonia brasiliana, che va a fuoco da settimane, il “grillagem 3.0” va tanto di moda. In assenza di un catasto, col lasciapassare che il governo Bolsonaro ha concesso alla “Lobby del bue”, ovvero imprenditori agricoli e allevatori, tra i suoi maggiori sostenitori assieme ai lobbisti delle armi e agli ultracattolici, l’acquisizione delle terre amazzoniche è stata molto più semplice.

L’andazzo era già evidente prima, tant’è che dal 2000 al 2017 le aree agricole nelle regioni amazzoniche sono cresciute del 41%. Ora che il Frente parlamentar da agropecuaria può contare su 200 parlamentari, la strada è spianata. Via i divieti per l’uso di pesticidi. Via i dazi sull’importazione di macchine agricole. Via il Fondo nazionale dell’Indio (Funai) dal ministero della Giustizia, meglio assegnarlo a quello dell’Agricoltura che ora si occupa di demarcare i territori dei popoli originari a favore di quell’1% di latifondisti che possiede il 45% dei terreni coltivabili.

L’agrobusinnes in Brasile produce più del 20% del Pil nazionale, frutta 1,2 bilioni di real l’anno e impiega oltre 30 milioni di persone. Gli analisti prevedono il miglior raccolto della storia dopo il 2017, di oltre 230 milioni di tonnellate di prodotti. Trasformare un solo ettaro di foresta amazzonica in terreno da allevamento rende ogni anno 148 dollari. Destinarlo all’estrazione di legname da esportare, 1.000 dollari. Il paradosso è che ne varrebbe 6.820 se fosse rispettata e mietuta solo per la raccolta di frutta, lattice e legname: ma questo alla lobby del bue non interessa. A dirlo è la ricerca degli scienziati B. Wuyts, A. R. Champneys e J. I. House, pubblicata sulla rivista Nature. Il Brasile si classifica al primo posto a livello mondiale per l’esportazione di carne bovina e avicola, soia, canna da zucchero, etanolo, caffè e arance. I grandi produttori di soia, cotone e canna da zucchero sono riuniti nell’Associazione dell’agrobusiness (Abag). Il mercato è in attivo di 87 miliardi di dollari, ma le pressioni internazionali per via degli incendi stanno facendo tremare anche loro. Temono un boicottaggio europeo dei prodotti brasiliani. Lo ha ammesso qualche giorno fa il presidente di Abag, Marcello Brito. “Al Brasile costerà caro recuperare la fiducia di alcuni mercati”, ha dichiarato al quotidiano nazionale Valor, sottolineando che gli imprenditori agricoli hanno già “abbastanza terra” e non hanno bisogno di quella amazzonica. Nessun problema, quindi, con i 300 popoli originari che vivono nella foresta. Secondo i dati di Survival International , 690 territori indigeni si trovano in Amazzonia. Sono circa 900 mila persone. Il popolo più numeroso è costituito dai Guaraní (51mila).

Gli Yanomami, invece, sono quelli con il territorio più vasto (9,4 milioni di ettari). Più di 5.000 km quadrati di foresta sono andati a fuoco. Solo ad Altamira, nello stato del Pará, gli incendi sono aumentati del 743%. Per il giornale Novo Progresso, la “giornata del fuoco” è stata programmata per il 10 agosto, per dimostrare a Bolsonaro – stando alle dichiarazioni di uno degli imprenditori agricoli – che “vogliono lavorare e che l’unico modo per farlo è col fuoco”. Così lungo la BR-163, l’autostrada amazzonica che stanno ampliando, si sono moltiplicati i roghi. Da maggio a luglio gli indici di disboscamento sono schizzati. Più del 60% delle terre deforestate è stato destinato al pascolo. Il 6,5%, negli stati del Mato Grosso e del Pará, invece, è servito ai superintensivi di soia e mais. Lo ha reso noto Claudio Almeida, coordinatore del programma Amazzonia dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe). L’agrobusiness non è l’unica minaccia per l’Amazzonia: c’è l’industria mineraria e i megaprogetti, come quello idroelettrico del Trombetas River.

Nuovi scontri, il governo ora si affida ai lampioni-spia

L’ultima iniziativa del governo ha fatto saltare i nervi a chi già protesta da dodici fine settimana a Hong Kong: si tratta di lampioni tecnologici in grado di registrare ogni movimento nelle strade. Così a Hong Kong ieri si è replicato lo scenario di botte, lacrimogeni e inseguimenti, un film che si ripete ogni volta che i cortei scendono in strada per chiedere il ritiro della proposta di legge sull’estradizione – che permetterebbe a Pechino di portare via persone arrestate e invise al governo – e le dimissioni della governatrice Carrie Lam. Ieri c’era un motivo di contestazione in più: il tema della marcia era la denuncia del ricorso da parte del governo a lampioni dotati di sensori, telecamere a circuito chiuso e altri sistemi di sorveglianza. Il governo ha affermato che i lampioni raccoglieranno solo dati sulla qualità dell’aria, sul traffico e sul meteo, ma chi partecipa alla contestazione ritiene che sia solo un altro mezzo per identificare gli oppositori. La tensione è salita e la polizia ha caricato, i dimostranti si sono schierati dietro a barricate costruite di fronte al commissariato di Ngau Tau Kok. Lanciando i lacrimogeni gli agenti hanno spinto mezzo chilometro più indietro il corteo. Molti slogan sono stati indirizzati contro la polizia, accusata di corruzione.
La buona notizia è il rilascio del dipendente del consolato britannico, Simon Cheng, che era stato accusato di favoreggiamento della prostituzione, una versione dei fatti che viene rifiutata da più parti: la polizia di Shenzhen con un breve comunicato sui social media afferma che il rilascio è avvenuto entro i tempi previsti dalla legge e che i diritti del detenuto sono stati rispettati. Nei giorni scorsi la autorità britanniche avevano espresso preoccupazione per il fatto che il funzionario dell’ufficio per il commercio e gli investimenti fosse scomparso durante una suo viaggio d’affari in Cina. Non si avevano sue notizie dall’8 agosto.