Il “Centro E”, l’arma segreta di Putin contro gli oppositori

Per le strade affollate di bandiere e striscioni di protesta loro di solito passeggiano in borghese. Non hanno l’obbligo della divisa nemmeno in ufficio. Con gli obiettivi di una telecamera ad alta definizione, camuffati da manifestanti o da passanti, ai cortei tallonano e tracciano chiunque ritengano necessario. Quando si avvicinano alle pattuglie, gli basta puntare l’indice e scatta l’arresto.

Sono gli uomini dell’ ‘Ufficio principale per contrastare l’estremismo del Ministero degli Interni della Federazione’: almeno questa è la lunga dicitura sulla targa dei loro uffici a Mosca. Tutti però ormai li conoscono come i membri del “Centro E”. Una lettera sola e minacciosa, che sta per “estremismo”, una parola che la Russia sta usando per definire ogni dissenso e ribellione al Cremlino. Una polizia politica, secondo alcuni giornalisti di Mosca, qualcosa che assomiglia all’Ochrana, servizi di sicurezza zaristi. Gli uomini di “Zentr E” erano al lavoro ieri, come ogni sabato nella Capitale. Se è nuova la generazione in corteo, è vecchio l’apparato per sorvegliarla, di cui però si sa ben poco.

Solo che “funziona al contrario di tutti gli altri dipartimenti del Ministero dell’Interno russo: non partono dal crimine per risalire all’individuo, ma trovano l’individuo e poi il crimine, e se quell’individuo non commetterà qualcosa, è facile cadere nelle provocazioni” ha detto Vladimir Vorontsov, che del Centro ha fatto parte. In pericolo è chiunque sia anche minimamente attivo in politica, e anti governo in Russia. Gli estremismi, in diversi reparti, li perseguono tutti: quelli di matrice religiosa o nazionalista, ma ultimamente le forze sono concentrate sugli eventi di massa. La storia del dipartimento è una perestroika, ricostruzione al contrario. Rifondato con il decreto 1316 del presidente Putin nel settembre 2008 per rispondere alle “sfide del tempo” , il Centro è sorto dalle ceneri dell’ex Ubop, direttorato contro il crimine organizzato, ai cui membri si deve il repulistidelle strade russe nei “banditi e selvaggi” anni ’90.

“Ma se non riuscivano ad incastrare un criminale piazzavano prove e torturavano durante gli interrogatori – dice lo specialista del think thank Open Russia, Grigory Tumanov – dopo un po’ era difficile distinguerli dai criminali su cui indagavano”. Il Centro E è rinato, dotato di computer e pistola. E i suoi uomini in una notte sola sono passati da un ufficio all’altro, rimanendo gli stessi, con “le stesse regole d’ingaggio, ma con nuovi bersagli: gli oppositori politici”. Sorvegliano da remoto gli attivisti, a volte li avvicinano ai cortei, creano provocazioni o li minacciano. Infine li fanno arrestare. Gli uomini del Centro E assomigliano alla versione tecnologica del ministero dell’Amore del romanzo 1984: vivono per neutralizzare il dissenso. Clonano pagine, istigano commenti o rendono pubblici video o dati dei manifestanti su internet. Poi leggono e scrivono post. Monitorano social network, creano account falsi, sono dei troll che però poi si alzano da sedia e tastiera e non rimangono nell’ombra. Il loro è un lavoro d’impostura che pochi specialisti delle forze dell’ordine, qualificati nel risolvere estorsioni, rapimenti, attacchi terroristici, erano disposti veramente a fare prima che Putin parlasse dell’importanza della tutela dell’ordine e sicurezza nel Paese, parole che sono apparse come carta bianca, luce verde al Centro E, ormai presente in ogni grande città russa per tracciare in tutti i centri abitati gli oppositori più significativi.

Usati finora solo nei punti remoti del Paese, nel Caucaso del Nord come in Crimea, ora si aggirano sempre più numerosi nei cortei della Capitale. Se Mosca ne parla è perché sono finiti dall’altro lato dello schermo che di solito impugnano. Filmati dai manifestanti stessi che filmavano, mente il capo dell’opposizione Navalny usciva di prigione, sono finiti sul web, prigionieri del loro stesso regno.

Jeff, dai “bassi” a Trump: la malattia al potere

Jeffrey Epstein? Pensate a un gemello maligno del Grande Gatsby. Stessa vocazione per fare soldi, stessi trascorsi oscuri. Anche stessa impenetrabile solitudine, a dispetto delle formidabili frequentazioni sociali, nell’America esclusiva degli ultraricconi. Con in più un tragico cono d’ombra, che è riduttivo chiamare “vizietto”. Qualcosa che avrebbe fatto rabbrividire anche a un libertino come F.S. Fitzgerald: una vocazione da stupratore seriale inveterato, ai danni di ragazze spesso minorenni, individuate negli strati subalterni delle metropoli che frequentava, l’area di Miami e i borough di New York City.

La storia di Epstein ruota attorno a questa breve lista di fattori: le origini modeste a Brooklyn, figlio di un impiegato del dipartimento Parchi. Studi condotti alla meno peggio, niente laurea, eppure un posto da professore di Matematica alla Dalton, uno degli istituti privati dell’élite newyorchese. Qui affiora l’istinto predatorio di Epstein, il suo intuito nel cogliere le occasioni: nel ’75 si trova a insegnare al figlio di Ace Greenberg, il numero uno di Bear Stearns, una delle principali banche d’investimento americane. Nel giro di pochi mesi lascia la scuola ed entra nell’azienda dove, nel giro di cinque anni, si produce in un’escalation straordinaria, che lui stesso interrompe nell’81 per mettersi in proprio, fondando la J. Epstein & C. e mettendo a frutto il portafogli di relazioni che nel frattempo s’è procurato. La regola della ditta è di accettare solo clienti con un patrimonio superiore al miliardo di dollari e di trattarli con la più assoluta riservatezza.

Non a caso resta tuttora misterioso l’elenco di coloro che si affidano a Epstein per incrementare i loro tesori, fatto salvo il suo più sfegatato ammiratore, Les Wexner, colosso dell’abbigliamento coi marchi The Limited e Victoria’s Secret. Epstein sa fare il suo lavoro, procura profitti ai clienti e accresce in modo esponenziale la propria reputazione tra le mille luci dello yuppismo newyorchese. Corre voce che gli stessi Rockefeller s’interessino al suo talento nel far girare i soldi e nasce per Jeffrey una bella amicizia col giovane Donald Trump, un altro che come lui ha il tocco e la disinvoltura per moltiplicare i capitali e intuire i colpi migliori. Spostata per motivi fiscali la base operativa a St. Thomas, nelle Isole Vergini, Epstein si produce in una serie d’investimenti immobiliari che fanno colpo anche nelle sfere più esclusive d’America. Compra l’appartamento più costoso di New York (valutazione: 56 milioni di dollari), diventa il cittadino più in vista di Palm Beach, in Florida, alle Isole Vergini acquista un’intera isola. Eppure nessuno scopre mai l’effettivo importo del suo patrimonio perché, con una regia maniacale che, inquadrata ora, trasmette l’immagine di una personalità contorta e impenetrabile, sempre sul filo sottile che separa, o congiunge, la socialità e la psicosi. Eternamente in polo e jeans, a dispetto d’ogni etichetta, Epstein diviene un protagonista fisso del jet set della Grande Mela, onnipresente laddove i tycoon e i detentori del potere si danno convegno per celebrarsi. Scapolo impenitente, notevole seduttore, con amici selezionatissimi – i Clinton, mezza Hollywood, le top model, principi del foro come Alan Dershovitz e Kenneth Starr, perfino teste coronate come il principe Andrea – Epstein padroneggia sapientemente la valvola di sicurezza del capitale Usa chiamata “filantropia” e s’imbarca in imprese di notevole effetto mediatico, come le spedizioni a bordo del suo aereo privato, ospiti Bill Clinton o Kevin Spacey, nelle Capitali dell’Africa piagate dall’Aids. Della sua debolezza, intanto, si mormora da tempo e lui stesso si lascia andare a confidenze su una sessualità incontenibile, su deliri eugenetici e sulla legittimità degli amplessi con le adolescenti, secondo gli illuminati esempi della Grecia antica.

Resta inspiegabile l’ostinazione con cui Epstein continui a percorrere la sua strada di perdizione, a dispetto delle nuvole che s’addensano su di lui. Quando le denunce cominciano a fioccare, le ragazze cominciano a parlare e i detective bussano alla sua porta, Epstein accetta la sfida. A spingerlo dev’essere la grandeur incoraggiata dal successo, la sfrontatezza di professare l’invulnerabilità, l’arroganza di stressare quel principio secondo il quale in America esistono molte Giustizie, ciascuna misurata sulla capienza economica degli imputati. Ma come un treno in corsa alimentato dal vizio, dall’onnipotenza, o forse da una disperazione non più revisionabile, continua ad alimentare il suo vizio, con la complicità di un ambiente-testuggine, la cui corazza è il privilegio. Quando però decolla un’altra indagine, sospinta dal deflagrare dell’affare-Weinstein e dal movimento #MeToo, Epstein sprofonda, a dispetto delle amicizie influenti. Travolto dallo scandalo, dai sequestri, dal fango, dallo spettacolo delle schiene che si voltano disconoscendolo, lui taglia corto, impiccandosi. E sprofonda in quel mistero dell’identità e dell’etica da cui era emerso, con una forza di volontà troppo a lungo scambiata per genio, quand’altro non era che l’espressione di un brutto caso clinico.

L’harem di minori, il “Lolita Express” e la pipì reale: una saga feroce

L’8 agosto, due giorni prima di suicidarsi, Jeffrey Epstein convoca al Metropolitan Correctional Center di New York, lo stesso che ha ospitato il padrino John Gotti ed El Chapo, il notaio e firma il testamento, un documento standard di 21 pagine, indicando come unico erede il fratello Mark. Il patrimonio del miliardario accusato di abusi sessuali e di pedofilia vale 577 milioni di dollari. Poco meno del dieci per cento è in contanti (56 milioni), 194 sono in hedge fund e private equity; 112 le azioni ordinarie possedute; 14 i rendimenti fissi. Poi, auto di lusso, come la Bentley nera sulla quale Epstein scarrozzava vip e modelle da offrire agli amici; due aerei, uno è il Boeing 747 chiamato “Lolita Express”; un elicottero nero; banche, vaste proprietà immobiliari: la townhouse di nove piani a Manhattan, il ranch Zorro nel New Mexico, un lussuoso appartamento al 16esimo arrondissement di Parigi. Più due isole private: la Little e la Great Saint James, nell’arcipelago delle Virgin Islands.

Il paradosso del lessico geografico riporta lo scandalo Epstein all’origine: una tragica pastorale americana in cui miti, gossip e sogni di un Paese dove i ricchi si sentono al di sopra della legge si alternano vorticosamente. Dove generosi filantropi si dedicano a turpi vizi. Dove i lati indicibili di Hollywood e Wall Street convergono assieme a molti protagonisti della vita politica, finanziaria e mediatica americana (ma anche britannica e francese). Una storia in cui ci si fa beffe degli ideali americani. A cominciare dal patriottismo. Quando Epstein acquista nel 1988 i 72 acri dell’isoletta di Little St. James, pagandola 7,95 milioni di dollari, si preoccupa subito di piazzare due enormi bandiere Usa. Dopo, la fortifica. Circonda la proprietà di altissime palme. Costruisce una vasta residenza in pietra con pareti color della sabbia. Prepara dépendance per la servitù. Edifica una struttura quadrata destinata alle feste con pareti acustiche e un grande pianoforte a coda Steinway&Sons. Copre tutto con una cupola d’oro che vola via nel 2017, strappata dalla furia di un uragano. Ai dipendenti sottopone contratti assai generosi ma con una clausola: il divieto permanente di riferire ciò che vedono o che ascoltano nell’isola. Trasformata in una sorta di base della Spectre del sesso, con tanto di guardie armate che scoraggiano i curiosi. Racconta la sudafricana Cathy Alexander, che ha gestito l’isola col marito Miles dal 1999 al 2007: “Capii subito che aria tirava. Il primo giorno di lavoro vidi Epstein circondato da cinque ragazze. Una era sicuramente minorenne. Aveva una lettera di consenso dei genitori, mi dissero che era sotto la tutela di un’agenzia di modelle”. In queste sordide storie, il sesso – si dice – segue potere e soldi. Il predatore di ragazzine aveva potere, amici potenti e tanti quattrini accumulati grazie al fiuto finanziario. Ora, gli amici potenti si sono dileguati. Restano i soldi. Le vittime dei raid sessuali reclamano giustizia. E i risarcimenti. Cinque si sono già rivolte alla Procura distrettuale di Manhattan. Venerdì scorso si è aperto il filone giudiziario francese. Inchiesta per “stupro” e “aggressioni sessuali, soprattutto nei confronti di minorenni” annunciata dal procuratore Remy Heitz di Parigi, “indagheremo in Francia e all’estero”.

Il fatto è che le indagini più complesse non riguardano gli abusi e lo sfruttamento delle ragazzine, ma la morte di Epstein. L’Fbi ha aperto un’inchiesta. Il 10 agosto lo trovano impiccato con un lenzuolo della branda. Sotto il naso dei due agenti di custodia che dovevano controllarlo ogni mezzora. Nel rapporto, scrivono di averlo fatto. Invece hanno mentito. Scoperti, ritrattano. Confessano di essersi addormentati per tre ore. Giusto quando Epstein si sarebbe ucciso: non aveva fatto testamento due giorni prima, segno dunque che aveva pensato al suicidio?

In realtà, è una morte davvero opportuna. Proprio nel momento in cui Epstein aveva deciso di rivelare i nomi dei suoi compari di festini. Muoia Sansone con tutti i filistei. Che lo avevano scaricato. Pensare che Donald Trump e Tom Barrack, con lui, amavano definirsi i “tre moschettieri”… Un fuggi fuggi. Bill Clinton, 27 volte ospite del “Lolita Express”, negava decisamente di essere stato ospite nell’Isola del Peccato. L’aereo? Passaggi di lavoro offerti dall’amico. E che dire del principe Andrew, terzogenito della regina Elisabetta, suo prediletto ma anche nota pecora nera di Buckingham Palace? Assiduo dei party di Jeffrey. E di Little St. James: una volta ci arriva accompagnato da una bionda alta, sui 30 anni, “con grosse tette” (testimonianza degli Alexander) che diceva d’essere un chirurgo del cervello: “Un giorno lo vediamo rientrare tutto allegro”. Dice che l’amica aveva pestato un riccio e che lui, come rimedio, le aveva pisciato sui piedi: “Il membro reale ha fatto il suo dovere! È stato molto divertente e poco impegnativo…”. Oggi Andrew ostenta indignazione, nonostante video e testimonianze. Lo scandalo scuote Londra.

Fa un gran comodo, oggettivamente, che Epstein taccia per sempre: i primi a dubitare del suicidio di Epstein sono i suoi legali. Il testamento? Semplice precauzione. Per impedire sequestri e dispersione del patrimonio. Sospetti rafforzati da quel che Epstein aveva detto un anno fa, al giornalista James Stewart (New York Times): “Sapesse quanto materiale scottante ho su molti potenti…”.

Infine, Ghislaine Maxwell, 57 anni, figlia del magnate australiano Rupert. Detta “Queen Bee”, l’ape regina. Fidanzata e complice di Epstein per quasi vent’anni. Procacciatrice di ragazzine e giovani modelle, secondo le accuse. Sparita nel nulla. Forse è stata uccisa, dissero. Riappare il 12 agosto, appena due giorni dopo la morte di Jeffrey. Snidata da un fotoreporter del New York Post, in un fast food di Los Angeles. È lei che si è fatta scovare? Sembra una messinscena. Per dimostrare la distanza dal mondo che frequentava prima, ostenta un look scialbo, senza trucco, occhiali da vista. Mangia un hamburger, sventola un libro. Sui segreti della Cia. Il messaggio è plateale. La pastorale diventa thriller.

Caro Mattarella, un buon esecutivo ha bisogno di tempo

Cinque giorni per risolvere una crisi che molti hanno definito “di sistema” sono davvero pochi! Perché tanta fretta presidente? In una democrazia parlamentare prima di arrivare allo scioglimento delle Camere occorre sondare le possibilità di ricompattare la maggioranza uscente o di costruirne una nuova. E occorre farlo in modo realistico. Come è sempre accaduto, non solo nel nostro Paese. La formazione del governo gialloverde ora defunto ha richiesto oltre due mesi di trattative (si è votato il 4 marzo 2018 e il governo si è insediato solo il 1° giugno successivo). Era inevitabile, ché le forze politiche uscivano da una campagna elettorale in cui si erano scontrate con grande durezza. Ed è così in tutta Europa: basti ricordare i casi della Germania, dove il varo dell’attuale governo Merkel ha richiesto un confronto di oltre cinque mesi, o della Spagna, dove il tentativo (probabilmente infruttuoso) di formare un nuovo esecutivo si protrae dal 28 aprile.

Saggiamente Lei, nella primavera dello scorso anno, ha dato alle forze politiche il tempo necessario per confrontarsi e per individuare le possibilità di formare un governo in grado di durare. Perché oggi il suo atteggiamento è – almeno all’apparenza – mutato in modo così netto?

Il quadro politico non è così diverso da quello del marzo del 2018.

Il governo gialloverde è naufragato, dopo 14 mesi di navigazione tempestosa durante i quali è apparso a tutti, più che un organismo unitario, un insieme di feudi incomunicanti. Ed è naufragato con un seguito di polemiche e recriminazioni che hanno avuto una plastica rappresentazione, in Senato, nella “requisitoria” del presidente del Consiglio contro il vicepremier Salvini (precipitato in una crisi di identità tanto evidente da sfociare nella goffa incertezza finanche sul luogo da cui svolgere l’intervento in risposta). La ricomposizione di quella alleanza (che io non auspico, ma che qualcuno sollecita e per cui Lei ha lasciato una porta aperta o, quantomeno, uno spiraglio) non può certo avvenire senza un approfondito confronto sulle ragioni della crisi e sui modi per superarla (nonché sui possibili interpreti di una nuova stagione).

Ciò vale – ancor più – per l’ipotesi di una nuova maggioranza, che unisca forze (il M5S, il Pd e Leu) fino a ieri in disaccordo su (quasi) tutte le questioni fondamentali e divise da polemiche senza esclusione di colpi. Un cambiamento di alleanze è una delle eventualità possibili in un sistema proporzionale (pur imperfetto come il nostro). La democrazia parlamentare è l’opposto di un sistema statico, di una camera di registrazione di forze e di rapporti immutabili e ha in sé molte risorse, come la nostra storia nazionale insegna. Epperò, se si vogliono evitare ammucchiate litigiose e incomprensibili, ci vuole tempo. Oggi non ci sono, all’evidenza, le condizioni per una maggioranza stabile e coesa ma – stando alle dichiarazioni delle forze interessate – ci sono la volontà e i presupposti per provare a costruirla, auspicabilmente con uno sforzo di fantasia che coinvolga, in un governo politico (come Lei giustamente chiede), risorse della società e dell’associativismo disponibili – se si lavorerà seriamente – a contribuire al ripristino, dopo che si è toccato il fondo (o quasi), di una accettabile agibilità democratica.

Perché tarpare sul nascere questo percorso? Non si tratta di aspettare mesi, ma qualche settimana di lavoro oggi inciderebbe sulla situazione economica e sull’azione internazionale del Paese (da Lei ricordate come spauracchio nel Suo messaggio) assai meno che una campagna elettorale, verosimilmente assai aspra, in autunno.

La porta per la salvezza è stretta perché riservata ai poveri e agli ultimi

Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Disse loro: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: ‘Signore, aprici!’. Ma egli vi risponderà: ‘Non so di dove siete’. Allora comincerete a dire: ‘Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze’. Ma egli vi dichiarerà: ‘Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!’. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel Regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel Regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” (Luca 13,22-30).

Come ben sappiamo, il Vangelo di Luca ci presenta Gesù in cammino dalla Galilea verso Gerusalemme, luogo in cui si realizzeranno le profezie dell’Antico Testamento, si compirà la Promessa della Pasqua definitiva e vera. Per questo evangelista non sono così importanti i luoghi che Gesù attraversa, quanto la direzione del cammino, l’obiettivo finale verso il quale siamo chiamati a tendere insieme a Lui, dietro al Suo passo, da cui il discepolato cristiano. Durante questo lungo cammino Gesù parla, annuncia il Regno, insegna, compie miracoli, discute con i suoi avversari, rivela come la buona notizia umanizzi l’uomo.

Per strada Egli viene interrogato sul numero di coloro che si salvano: la preoccupazione numerica da sempre attanaglia il cuore umano, i capi, i potenti, coloro che ci tengono ai sondaggi, alle statistiche! Pensiamo, infatti, alle pagine dell’Esodo o alla vicenda di Davide, alla continua necessità di censire il popolo per valutare la propria potenza e forza rispetto alle altre nazioni. Da parte di Gesù non una parola sulla conta!

Egli porta il discorso sul come della salvezza, ricorrendo all’efficace immagine della porta stretta che evoca impegno, fatiche, difficoltà, sconfitte, passaggio. La porta è stretta perché nella logica evangelica, corrisponde all’ingresso al Regno dei Cieli, accessibile solo a coloro che sono i piccoli di Yahweh. È piccola perché adatta ai poveri, agli ultimi, ai diseredati, a quelli che appartengono alle categorie di uomini descritti nelle Beatitudini. Tuttavia, la porta stretta è a misura d’uomo!

Gesù scardina la nostra contabilità religiosa-morale e immette nella nostra mentalità un nuovo modo di pensare la salvezza: non più basato sui meriti delle nostre conquiste personali, ma sulla gioiosa adesione e profonda alla volontà di Dio, necessaria per lasciarsi salvare integralmente. La fede non coincide con l’apparato religioso. Essa è vera quando ci lasciamo fare sulla misura di Dio, non quando facciamo Dio a nostra misura.

Ci suona terribile il giudizio di Dio: non so di dove siete! Non basta, né si tratta di aver praticato a modo proprio, né è sufficiente l’appartenenza a una certa sequela, anche cristiana: riti, simboli, dogmi. Compiere gesti per Dio non è sufficiente se non comprendono il bene per tutti gli uomini. Gesù propone la porta del servizio umile e generoso a partire dall’accoglienza del Vangelo nella propria vita: non basta l’esteriorità del fare o il ricorso alle nostre credenziali. Alla fine, in maniera straordinaria e imprevedibile, verranno uomini da ogni dove e gli ultimi saranno tanti e primi. Questa è la conta di Gesù salvatore.

Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

La lenta caduta di Matteo Salvini

Rassegniamoci. Per ora non sappiamo perché Salvini, con un groppo in gola e invocando il nome dei figli, la sera dell’8 agosto, a Sabaudia, ha sbaraccato la giostra più bella del mondo. A ogni giro, impunemente, poteva dare uno schiaffo e lanciare un’accusa, subito divulgata, a un suo nemico. Non aveva mai avuto e non avrà mai tanto potere, neppure se, in un disgraziato futuro, dovesse diventare premier. È stato il potere assoluto di una figura nuova, fuori dalla legge, dalla storia, dalla Costituzione.

Ha portato e vantato il titolo di ministro dell’Interno, che nella vita vera certi poteri li ha e altri non li ha, per esercitare, nel silenzio di tutti, un potere assoluto sull’Italia, Forze Armate, Forze dell’ordine, Capitanerie di porto, guardacoste, tutti i ministri del governo di cui era solo un ministro, e una prudente attenzione di molti giudici, quando hanno constatato che, secondo il Parlamento italiano, Salvini non era né indagabile né processabile. Spiace dover dire che questi 445 giorni di un governo che sta lentamente cadendo, andranno archiviati come Governo Salvini, visto che al momento di decidere su eventuali responsabilità penali dell’iper-ministro, tutto il governo, compreso il sottosegretario all’Agricoltura, ha dichiarato ai giudici di avere agito insieme e di concerto e di non poter riconoscere responsabilità di Salvini distinte dalle responsabilità dell’intero governo. Mentre siamo col fiato sospeso, in attesa di sapere quali saranno le conseguenze del groppo di angoscia che ha stretto alla gola il ministro dei ministri una notte di agosto, possiamo però domandarci: se veramente si stacca, che cosa lascia all’Italia che ha liberamente dominato per un anno e mezzo, fra cadaveri in mare e sondaggi crescenti “sul territorio”?

L’elenco che segue è parziale, come sono parziali (l’avrete notato) gli elenchi che ogni tanto qualcuno cerca di compilare su insulti ed espressioni solitamente estranee alla politica. Ma non dimentichiamo che il ministro dei ministri, pur avendo svolto una intensa vita di partito e anche un po’ di vacanza, con i mezzi del suo ministero, che gli consentivano, fra l’ammirazione generale, anche cinque selfie-comizi al giorno, in poche ore al Nord e al Sud, con tappe intermedie e un accorrere di folla, ha lasciato ai sudditi (molti ansiosi di toccarlo) anche alcuni oggetti detti “leggi” che toccherà rimuovere se torneranno a governare persone normali.

Merita un particolare riferimento la legge che autorizza a sparare a chiunque e comunque, se varca i confini di una proprietà, perché “la difesa è sempre legale”, principio che ha ispirato l’intero West americano al tempo in cui non c’era ancora uno Stato (Go west, young man) e poi l’intero Sud di quel Paese prima che Bob Kennedy fermasse il governatore Wallace inviando le truppe federali a proteggere il primo studente nero che rischiava la vita entrando nella locale università.

Poi viene lo sgombero, o almeno io me lo ricordo come una iniziativa molto cara al ministro dei ministri, ogni volta che CasaPound (gruppo politico ben sistemato in un buon palazzo occupato) gli indicava un edificio in cui vivevano da 15 o 20 anni, con ordine e senza problemi, decine di famiglie con bambini, in modo da procedere allo sgombero, senza preavviso nel cuore della notte, terrorizzando i bambini e umiliando schieramenti da film cileno di forze dell’ordine mentre devono confrontarsi con bambini che cercano di salvare i loro libri. Direte che a volte si trattava di rom. È vero. L’odio per i rom della Lega è perfettamente in linea con le storie che, nel dopoguerra tedesco, si sono raccontate e insegnate nelle scuole di quel Paese.

Il ministro dei ministri, con lo straripante potere di cui ha goduto e che si è esteso a molte parti della vita pubblica italiana, ci lascia l’incredibile episodio del sindaco di Riace, realizzato attraverso un intervento giudiziario di cui nessuno, a cominciare dal Consiglio Superiore della Magistratura, ha voluto sapere modalità e ragioni. Il ministro, che non si può processare per sequestro effettivamente avvenuto di persona, su nave militare italiana, ha potuto ottenere l’arresto del sindaco Lucano, regolarmente eletto, a carico del quale esiste solo l’accusa (che non è un reato) di accoglienza di profughi. Anche questo fatto resterà in eredità all’Italia del dopo Salvini ministro dei ministri. Intanto c’è (e continua) la chiusura dei porti, un evento crudele, inutile e incancellabile che fissa il volto crudele di un’Italia che il mondo non conosceva. Resta una vergogna per chi poteva opporsi e non si è opposto.

Mail box

 

Le frontiere sono una finzione, l’Amazzonia appartiene a tutti

Gli incendi che stanno devastando l’Amazzonia, oltre a metterci di fronte a che grado di criminale efferatezza può arrivare la sete di profitto, ci dimostra quanto siano assurde le teorie “sovraniste”. Il “polmone del mondo”, anche se ubicato quasi interamente in territorio brasiliano, è un patrimonio indispensabile a tutti, il Pianeta è uno e uno solo, le frontiere le abbiamo inventate noi, ma sono una finzione che, in natura, non contano niente. Sarebbe ora di finirla con i tromboni del “padroni a casa nostra”. Casa Nostra è casa di tutti, uomini, animali e piante, e tutti dovremmo contribuire a salvaguardare nostra Madre (Natura), prima che sia troppo tardi.

Mauro Chiostri

 

Basta con le parole pompose: i politici parlino chiaramente

Siamo di nuovo alle prese con un’ennesima crisi. Una delle cose che mi sconcerta di più è il linguaggio usato dai politici. In questi giorni si parla di “discontinuità”. Posto che quello che questa parola significhi lo si capisce a stento (nel senso che la sua contestualizzazione è vetusta o quanto meno aleatoria), sarebbe ora che i politici abbandonassero un certo linguaggio, col quale vorrebbero pomposamente dimostrare la propria superiorità politica, indicando nuove presunte formule governative. È ora che i nostri politici si diano una svegliata e si rivolgano a chi può fare buone cose per il Paese, anche se è Conte.

Paride Antoniazzi

 

Cos’è cambiato dal ’68 a oggi? Mancano i giganti e le idee

Diceva Giorgio Gaber: “Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”. Parlava di trionfo del pensiero critico e di ideali forti. Da ex sessantottino deluso, mi sono sorbito il tentativo fallimentare della Democrazia proletaria, mi sono ritrovato, dopo l’omicidio Moro, nella fase dell’edonismo reaganiano e dei giovani rampanti, e poi il trionfo della politica senza ideali, senza pensiero critico, senza visione né progetto, specie dopo la scomparsa di Berlinguer. Altro che “mangiare un’idea”, prima bisognerebbe averla! In questo scenario, mi è sembrato di riconoscere nel linguaggio di Grillo e dei 5S parole da condividere. Poi il nostro presidente del Consiglio, nel suo discorso al Senato, si è elevato a una statura considerevole sia politica che etica. Ed è forse questa statura che gli potrebbe impedire di accettare un secondo incarico? Oppure ha capito meglio di altri che il rischio vero potrebbe essere che un influente personaggio del Pd tenga sotto ricatto permanente il neonato governo già di per sé politicamente fragile? Una cosa è cambiata dal tempo di Gaber: la speranza di allora non c’è più e l’Italia non gioca alle carte e non parla di calcio nei bar, né ride, né canta, ma spera soltanto che torni a parlare la sacralità del senso dello Stato, cosa che ho trovato nel premier Conte.

Roberto Giagnorio

 

Alleanza di governo: così il Pd potrà riacquisire verginità

L’insaziabilità di plausi e potere ha condotto un uomo senza “cultura istituzionale e costituzionale” a gettare il Paese nel caos, ma anche, senza saperlo, a offrire ai partiti di sinistra un’occasione più unica che rara per mirare ad un alto obiettivo: ritornare ai valori di sinistra e rifarsi una verginità dopo i governi dell’inciucio con gli indagati di Fi (governi D’Alema, Letta, Renzi). Un’occasione simile non si ripeterà. Il Pd potrebbe sconfessare i disvalori che ha inseguito per mero tornaconto elettorale (i pacchetti di voti di Confindustria, ad esempio); potrebbe tornare a parlare di ambiente e cambiamenti climatici (e non far finta di farlo); bloccare ogni altro tentativo dei grandi petrolieri di trivellare i nostri stupendi mari. Potrebbe dimostrare che sta dalla parte di una giustizia che sia veramente tale anche per i colletti bianchi, sostenendo la riforma spazzacorrotti e proseguendo nel suo completamento con il blocco della prescrizione e la punizione per i magistrati. Potrebbe sostenere ciò che finge di volere da anni, ossia una seria lotta ai grandi evasori fiscali grazie alla quale recupereremmo tanto denaro e altrettanta credibilità in Europa. Potrebbe… ma mi chiedo se con personaggi filorenziani (Marcucci) o pro-colletti bianchi (Orlando) tali obiettivi siano raggiungibili.

Barbara Cinel

 

Estremismo miope: proiettile inviato a un ricercatore

Un proiettile è stato recapitato per posta al professore Marco Tamietto, ricercatore dell’Università di Torino e coordinatore di una sperimentazione su sei macachi. Sperimentazione atta a studi per il recupero della vista dei pazienti ipovedenti. I macachi verranno poi abbattuti, una volta non più utili alla causa. C’è stata una grandissima mobilitazione da parte delle associazioni animaliste. Ora il proiettile, palese atto di minaccia, viene recapitato al titolare degli esperimenti. Vorrei fare una semplice considerazione. Chi è animalista ama e protegge gli animali ma ha rispetto per ogni forma di vita. E chiunque sia stato a recapitare il proiettile con la scritta “Colpiremo duro te e la tua famiglia” viene condannato allo stesso modo dagli stessi animalisti. Perché l’estremismo bieco e miope non ha mai prodotto buoni risultati.

Cristian Carbognani

 

Gli italiani credono agli slogan e non si documentano

Il guaio più grosso è che gli italiani non si documentano. Sono superficiali. A loro bastano i proclami, non vanno poi a verificare se chi ha lanciato l’urlo abbia dato seguito con i fatti. “In Italia non entrerà più nessuno! Manderò via 600 mila migranti!”. E tutte le pecore a dargli il consenso. In quanti si sono poi documentati sul buon esito di queste sparate? Berlusconi e Renzi ci hanno campato con queste frasi. “Un milione di posti di lavoro!”. “Le tasse sono diminuite!”. “Mi ritiro dalla politica!”. Salvini, poi, ha superato il limite. Per fare il monumento a se stesso manda a carte quarantotto l’intero Paese, stracciando di fatto il contratto che aveva firmato e che già aveva disatteso più volte. E qui arriviamo agli errori del M5S, che si sono adeguati all’urlatore.

Fabrizio Virgili

Lo snodo del Viminale: serve un Minniti al momento giusto

 

“Nuovo governo corregga decreti Sicurezza ma l’immigrazione va governata. Ci abbiamo già perso diverse elezioni, non facciamo gli stessi errori del passato”.

Giorgio Gori, sindaco pd di Bergamo

 

Semmai il nuovo governo M5S-Pd dovesse vedere la luce, forse più dello stesso nome del premier, decisiva sarà la figura che avrà l’incarico di ministro degli Interni. Ruolo che per 14 mesi Matteo Salvini ha svolto, soprattutto lontano da Viminale, attraverso la massiccia e capillare azione di propaganda anti-immigrazione che conosciamo. Con provvedimenti ispirati a una visione apertamente in contrasto con il rispetto dei diritti umani, accompagnata da un’adeguata violenza di linguaggio. Con la strategia securitaria della “pacchia è finita”, il capo leghista è riuscito in poco tempo a trasformare un movimento in caduta libera nella forza elettorale dominante, lanciata verso la maggioranza assoluta. Può darsi che il cosiddetto Capitano stia cominciando a pagare il prezzo di una evidente incapacità di trasformare gli slogan in azione politica, ma quell’elettorato che inneggia al pugno duro contro i superstiti della strage infinita, e contro le navi che li accolgono a bordo, è sempre lì e non sarà facile convincerlo che governare l’immigrazione si può senza degradare l’immagine dell’Italia. Ecco perché, una volta disarcionato Salvini (finché non lo vediamo non ci crediamo), il Viminale può diventare, come dice Gori, lo snodo cruciale “per tenere insieme principi umanitari, legalità, sicurezza e interessi economici-demografici del nostro Paese”. Una svolta difficile da realizzare, che richiede volontà politica, competenza ed esperienza. Non è nostro compito candidare chicchessia ma l’uomo giusto al posto giusto lo abbiamo già visto all’opera e con successo. Si chiama Marco Minniti e sugli importanti risultati del suo lavoro (mai strombazzato con certe pagliacciate da spiaggia) si è issato il suo successore vantando quel drastico calo degli sbarchi che ha ricevuto in eredità. Siamo convinti che nell’indicarlo non gli facciamo un grande favore, ma quella dell’immigrazione è una partita che non si può più perdere. Perché mette in gioco non soltanto le sorti di un governo, ma della democrazia stessa.

Antonio Padellaro

Donna di 34 anni uccisa nel Ferrarese Fermato il compagno

È morta in ospedale, dove era giunta in gravissime condizioni, la donna di 34 anni aggredita ieri mattina a Copparo, nel Ferrarese, dal suo convivente, più grande di lei di 17 anni, fermato e interrogato in caserma dal pm e dai carabinieri. La donna ha perso la vita intorno a mezzogiorno, dopo che era stata portata nel reparto di rianimazione dell’ospedale Sant’Anna di Cona, in seguito a una lite scoppiata intorno alle 7.30 per motivi di gelosia. I due, che avevano una relazione da qualche tempo, si erano dati appuntamento ieri mattina per trascorrere la giornata insieme, secondo una prima ricostruzione dei carabinieri, ma c’è stata discussione, poi degenerata e lui, sposato con un’altra donna ma che aveva lasciato, con un corpo contundente ha colpito la donna ripetutamente al cranio.

La 34enne è svenuta ed è stata trasportata dal 118, in coma, in ospedale dove è morta dopo qualche ora. L’uomo, rintracciato dai carabinieri in mattinata, è stato interrogato per ore e per lui l’accusa è di omicidio.

Il grattacielo infinito adesso non piace più alla nuova Regione

Proprio quando si intravede la conclusione del cantiere infinito, la Regione Piemonte ne mette in discussione l’uso.

Nei 38 mila metri quadri del grattacielo alto 205 metri progettato dall’archistar Massimiliano Fuksas, il cui costo totale si aggira sui 220 milioni di euro, potrebbero non trovare posto gli uffici della presidenza di Alberto Cirio, che preferisce rimanere nel palazzo di piazza Castello, in barba al progetto di concentrare tutto in un’unica sede, risparmiare sugli affitti e vendere alcuni immobili.

L’amministrazione targata Forza Italia e Lega sta portando avanti questa riflessione. L’idea era emersa il 24 luglio scorso durante una seduta della prima commissione, dedicata allo stato dei lavori della “sede unica” che sorgerà nella zona del Lingotto. “Il termine dei lavori del palazzo è previsto per agosto 2020 – ha spiegato in quell’occasione l’assessore regionale al Bilancio e al Patrimonio, Andrea Tronzano –, ma sulla base dei primi accertamenti sembra difficile rispettare questa scadenza: senza voler illudere nessuno, ritengo comunque che potrebbero essere ultimati intorno a novembre 2020”.

Se tutto va bene il trasloco avverrebbe quindi nel 2021. Ma il condizionale è d’obbligo. Perché subito dopo è arrivata la notizia delle valutazioni “in corso” sul mantenimento degli spazi in pieno centro a Torino. “La nostra prima preoccupazione è terminare i lavori – dichiara ora al Fatto Quotidiano l’assessore Andrea Tronzano –, vogliamo valutare bene se tenere o vendere la sede aulica, storica e prestigiosa, ma anche più vicina ai cittadini”. Per stare nel centro di Torino, però, si rinuncerebbe a una bella somma. Il valore del palazzo è stimato sui 50 milioni di euro, “una cifra importante per il bilancio”, aggiunge Tronzano. L’immobile potrebbe essere ceduto a una società per farne un albergo di categoria “cinque stelle super”. In passato, mentre la Regione era guidata da Sergio Chiamparino, una società si era fatta avanti: “C’erano e ci sono interessamenti – conferma l’ex assessore Aldo Reschigna –, anche se non erano ufficiali perché per la vendita deve esserci una gara pubblica”.

Secondo Reschigna, la sede di piazza Castello, tolta la vista sui palazzi storici, al suo interno non ha niente di “aulico” e potrebbe essere ceduta. Per procedere in questa direzione, la Regione aveva chiesto al Comune di Torino di approvare una variante alla destinazione d’uso dell’immobile: “Era stata istruita, ma non è mai stata chiusa perché la Città rivendicava delle risorse da parte della Regione a cui non aveva diritto”, prosegue Reschigna. “Era bloccata dall’assessore all’urbanistica Guido Montanari, che però non c’è più”, aggiunge Tronzano. Il Fatto ha cercato di contattare Montanari, ma non è stato possibile raggiugerlo. “Non ci sono ragioni per non fare il cambio di destinazione d’uso – commenta Giorgio Bertola, consigliere regionale M5S –, dal punto di vista finanziario l’operazione grattacielo, tolti tutti i problemi successivi, poteva stare in piedi: concentrando tutti gli uffici nella sede unica si sarebbero risparmiati quasi 13 milioni l’anno di affitti passivi e si sarebbe potuto vendere alcuni immboli”. Tuttavia le cose non sono andate affatto bene, tra ritardi nei lavori, fallimenti delle ditte costruttrici, bonifiche, materiali scadenti e cause giudiziari. “La sostenibilità economica è ormai venuta meno, perciò la Regione non è nelle condizioni di tenere la sede di piazza Castello”, prosegue.

Ci sono poi altri aspetti da considerare. Ad esempio nella scorsa legislatura il Consiglio regionale a guida Pd ha stabilito che non si sarebbe spostato nel grattacielo perché aveva acquistato e ristrutturato l’edificio vicino Palazzo Lascaris, cioè l’ex sede del Banco di Sicilia, per circa 21 milioni.

Se anche la presidenza della Regione dovesse seguire il consiglio, la “sede unica” non sarebbe più unica. Inoltre i 50 milioni potrebbero essere importanti anche su un altro piano: “Le ditte costruttrici – ricorda il radicale Giulio Manfredi – hanno proposto alla Regione un accordo per il pagamento di 65 milioni di euro di ‘riserve’ (costi sostenuti in più, ndr). La proposta è stata rifiutata dalla passata amministrazione e dovrà essere vagliata da un tribunale”.