Amatrice tre anni dopo: “Ricostruito soltanto il 4%”

Parole false e vuote. “Chiediamo perdono per le parole false e vuote che abbiamo ascoltato o pronunciato in questi anni”, afferma monsignor Domenico Pompili vescovo di Rieti aprendo la celebrazione, in ricordo delle vittime del sisma del 24 agosto 2016, che si è svolta nel palazzetto dello sport di Amatrice. La risposta è l’applauso dei molti presenti, un modo per rimanere insieme e uniti nonostante il nulla che li aspetta fuori.

Sono passati tre anni dal terremoto. Il centro di Amatrice non c’è più, in Arquata del Tronto tutto è fermo, Accumoli – epicentro del sisma – è solo macerie. Oltre 49 mila sfollati nelle quattro Regioni coinvolte (Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria), 299 vittime (249 tra Accumoli e Amatrice), oltre 300 feriti: 15 secondi che distrussero tanto, scosse successive che durarono mesi e azzerarono il resto. Danni stimati intorno ai 23 miliardi di euro. Centinaia di fascicoli aperti alla Procura di Rieti per edifici costruiti con materiali scadenti, come i palazzi popolari gemelli di Amatrice dove morirono 18 dei 22 residenti. Ad oggi sono un’ottantina gli interventi di ricostruzione pubblica in fase di progettazione: circa 120 milioni di euro.

Il giorno del ricordo delle vittime per la propria gente inizia nella notte: alle 3:36 con i rintocchi della campana che scandisce la lettura dei nomi. La fiaccolata che per la prima volta attraversa Corso Umberto I cuore di Amatrice, nella zona rossa. Chi vorrebbe ricostruire deve scalare montagne: certificazioni su certificazioni imposte dalla burocrazia. Dai 12 ai 15 mesi, solo per poter iniziare. Con quali certezze? Queste terre rischiano di rimanere deserte. Comuni che non hanno personale per le pratiche. Tre anni dopo è tutto fermo al palo. “La situazione è preoccupante, la ricostruzione ferma al 4%”, denuncia Antonio Fontanella sindaco di Amatrice. “Dobbiamo rifare 4.500 edifici e questa operazione così grande viene affrontata con una legislazione ordinaria”; definisce “insensato” dover attendere i pareri di nulla osta sul rischio idrogeologico per ciò che deve essere ricostruire nello stesso luogo. Così serviranno almeno 10 anni. Alessia D’Alessio, avvocato e figlia del fondatore della corsa Amatrice-Configlio, domanda: “Dove stanno i soldi che tutto il mondo ha mandato per la ricostruzione?”. Fra gli esponenti politici nazionali presenti, il sottosegretario Vito Crimi del M5S e il presidente della Regione Lazio e segretario Pd, Nicola Zingaretti, insieme al capo della Protezione civile, Angelo Borrelli.

Il sentimento comune affidato al passaggio dell’omelia: “Viviamo il dolore per chi non c’è più, una ferita che non si rimargina”. Il vescovo invoca una “visione, non punti di vista”, parla di disincanto per la ricostruzione promessa da parole conclamate. Dolore, nostalgia e rabbia.

 

Campania, navigator in protesta: “Iniziamo sciopero della fame”

Hannoannunciato ieri l’inizio dello sciopero della fame, i navigator campani, e chiedono l’intervento del capo dello Stato. La nuova forma di protesta prenderà il via lunedì quando, davanti alla sede della Regione Campania, terranno un presidio. La scelta di utilizzare “questa estrema modalità di espressione è dettata – spiegano – dall’atteggiamento del presidente della Regione, Vincenzo De Luca, che a oggi non sta dando seguito agli accordi già sottoscritti nelle conferenze unificate Stato-Regioni del 17 aprile 2019 e del 27 giugno 2019, rifiutandosi di firmare la convenzione bilaterale con Anpal Servizi che stabilisce esclusivamente le modalità di intervento con cui i navigator dovrebbero operare, contraddicendo così fondamentali principi costituzionali: il diritto al lavoro e all’uguaglianza. Chiediamo con questa battaglia di civiltà e tutela del sistema costituzionale – proseguono – parità di trattamento rispetto ai vincitori delle altre regioni italiane e che venga rispettato il diritto al lavoro e al contratto. Chiediamo inoltre l’intervento delle più alte cariche dello Stato, in primis, del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, come garante della Costituzione e rappresentate dell’unità nazionale”.

Affitto da studenti, ecco quanto ti chiedono: “300euro in tripla”

Vincere lo scetticismo che suscitano alcuni dati circolati in questi giorni sul rincaro degli affitti per i posti letto agli studenti è stato semplicissimo: vestiti (di nuovo) i panni di matricole, abbiamo provato a cercare una sistemazione per il semestre impellente. Siamo partiti da Milano, ipotizzato di dover frequentare la Statale. Il primo annuncio sembra ottimale: un monolocale soppalcato in un piccolo studio, con affaccio su un cortile. Contattiamo il proprietario. Ci spiega che il soppalco, in realtà, è diviso in due parti e in ognuna c’è un letto. La zona comune, di circa 7 metri quadrati, ha un divano e due armadi. C’è un bagno e dovremmo condividere questi spazi con una “lavoratrice molto cordiale che però fa la settimana corta, quindi sarebbe meglio che anche noi avessimo settimana corta”. E per cucinare? “Io vivo accanto – spiega – qui c’è la cucina. La si può usare tutti insieme”. Tutto questo alla modica cifra di 390 euro al mese a persona, spese escluse. Le richieste sono tantissime ed è facile capire perché: il secondo annuncio che troviamo ha dell’incredibile, sono richiesti 300 euro al mese (anche in questo caso spese escluse) per un posto letto in una camera tripla da condividere con un ragazzo e una ragazza. Sono preferite, stavolta, “persone che restano anche nel weekend”.

Proviamo allora a cercare un alloggio a Roma. I prezzi sono più bassi, ma non di molto. Per una stanza singola a 600 metri dalla stazione della metropolitana ci chiedono 500 euro escluse spese. La casa ha altre tre stanze, un solo bagno e una piccola cucina in comune. Man mano che scende il prezzo, diminuisce la qualità delle stanze e la vicinanza ai mezzi pubblici. A circa 280 euro troviamo un’ampia stanza in periferia, La Sapienza dista 7 km, ci sono solo gli autobus e per raggiungere la stazione della metro ci vogliono 20 minuti a piedi. “I prezzi sono questi – ci spiega il proprietario – io cerco di tenerli bassi perché so cosa significa, ho avuto figli che hanno studiato fuori e non mi piace approfittarne”. Nella sua casa, però, ci sono 4 stanze, di cui una adibita a doppia da cui ricava 400 euro in totale. Significa che quell’appartamento frutta 1.240 euro al mese, escluse le spese di condominio.

Secondo l’ultimo rapporto elaborato da Solo Affitti e preso come riferimento dello scenario in cui in queste settimane si muovono gli studenti e i genitori, gli affitti sono aumentati del 6% rispetto all’anno scorso: tradotto significa circa 20 euro al mese in più per ogni studente fuorisede. È solo l’ultimo rincaro negli ultimi tre anni: era stato del 5% nel 2017, del 4% nel 2018. La città più cara d’Italia per gli studenti fuorisede è Milano, dove una stanza singola costerebbe in media 575 euro, con un aumento del 2% rispetto allo scorso anno. Roma è al secondo posto, dove si arriva oltre i 400 euro mensili e quest’anno anche Torino sale sul podio scalzando Firenze (che si attesta a 358 euro) coi suoi 360 euro. L’altra faccia della medaglia è che le residenze universitarie (per le quali il ministero stanzia fondi e finanziamenti che rientrano, come le borse di studio, nell’ambito del diritto allo studio) non sono abbastanza e non soddisfano tutte le richieste. Un osservatorio completo della situazione non esiste, ma si può cercare di analizzare le maggiori città per farsi un’idea. L’anno scorso, l’Osservatorio regionale per il diritto allo studio del Piemonte ha realizzato uno studio sulla propria offerta, e nel farlo ha analizzato anche quella di alcune altre regioni. Il calcolo è stato basato sul numero di studenti idonei (per reddito e in base a parametri specifici, tra cui il raggiungimento di un minimo di crediti ed esami) e fuorisede. “L’Edisu nel 2015/16 ha assegnato agli idonei fuorisede 2112 posti letto con i quali è riuscita a garantire un alloggio al 53% di questi studenti, dunque circa la metà; non si tratta di una percentuale elevata – si legge – ma confrontata alla media nazionale del 40%, risulta una delle regioni con il grado di soddisfacimento della domanda più alto, dopo la Puglia, le Marche e il Friuli-Venezia Giulia”.

Il Piemonte, in questo calcolo, rileva anche una anomalia. “È evidente che la domanda di posto letto misurata attraverso gli idonei fuorisede è inferiore a quella reale: da un lato, perché questi ultimi non rappresentano la totalità degli iscritti fuorisede, dall’altro perché dipendente dai criteri stabiliti da ciascun ente per definire il fuorisede che possono essere più o meno inclusivi”. È emblematico il caso della Campania: è la terza regione per numero di iscritti universitari (dopo il Lazio e la Lombardia) ma risulta avere soltanto 944 studenti idonei fuorisede, per cui soddisfa il 30% circa della domanda con 445 posti letto. Poco meno di uno su tre. La Statale di Milano, nell’annunciare un piano triennale che in tre anni dovrebbe portare l’ateneo ad avere a disposizione circa 300 posti in più, spiega che nell’anno accademico 2018-2019 “delle 1099 domande inserite in graduatoria per il diritto allo studio sono risultati assegnatari del posto letto 713 studenti mentre sono rimasti esclusi, pur avendo i titoli, 368 studenti. Delle 510 domande ricevute per uso foresteria nel 2018, si sono dovute respingere per mancanza di posti 217 richieste”.

A Roma, gli ultimi dati sono stati diffusi dal collettivo universitario Link secondo cui nell’ultimo anno sono stati almeno 3 mila gli idonei che non hanno avuto un alloggio. E sempre Link lancia l’allarme per questi mesi: “Troppo spesso ci si ritrova in balia della speculazione immobiliare, di stanze troppo piccole e di contratti inadeguati, se non ad affitti in nero. Questo porta gli studenti a compiere enormi sacrifici per potersi mantenere, o addirittura ad abbandonare gli studi – ha detto nei giorni scorsi Francesco Pellas, coordinatore di Link Roma, rivolgendosi al Comune –. Chiediamo che il Comune di Roma si impegni ad agevolare gli studenti universitari: è impensabile che nella Capitale solo un fuorisede su 50 riesca ad accedere a un posto alloggio”.

Pd-M5S, così lontani e così (più) vicini

Cos’è cambiato nei 17 mesi tra il marzo 2018 e l’agosto 2019? Allora, fallito il tentativo di fare un governo con la destra ma senza Berlusconi, i 5Stelle si rivolsero al Pd per esplorare la possibilità di un governo congiunto. Il Pd rifiutò persino di sedersi al tavolo delle trattative, come se i 5Stelle fossero appestati.

Renzi, sapendo che lui e la Boschi erano fuori dai giochi per qualsiasi ministero, si precipitò da Fazio per chiudere la questione. Bastava poco a Renzi e ai renziani per fare un anno fa, per scelta, ciò che stanno facendo oggi per ripiego. Rispetto al marzo 2018, di cambiato, ci sono solo le batoste che Salvini ha distribuito a destra e a manca, scompaginando le forze in campo e terrorizzando tutti quelli che hanno visto in lui una solida minaccia pre-fascista. Batoste terapeutiche per Pd e M5S, messi di fronte a un chiaro dilemma: o regalare il Paese a Salvini, sicuro vincitore di una eventuale battaglia elettorale, o tentare un accordo per sopravvivere alla meno peggio in un governo creato non per un progetto ma per scampare alla paura. Ogni partito è fatto di vertice e di base. In 17 mesi nulla è cambiato nei due vertici: sia Pd che M5S hanno leader di media qualità, malati gli uni di infantilismo tardivo e gli altri di senilità precoce, privi di un modello di società da proporre al Paese, entrambi capaci di dimezzare in pochi mesi il loro elettorato e incapaci di recuperarlo. L’unico vertice che ha una nuova strategia è il gruppetto di LeU e della Sinistra, che ha saggiamente deciso di turarsi il naso e fare corpo con il Pd. Alla base, invece, qualcosa si è mosso. Diciassette mesi fa, secondo l’Istituto Cattaneo, l’elettorato dei 5Stelle era composto per il 45% da elettori “di sinistra”, per il 25% da elettori di destra, per il 30% da elettori fluttuanti. In questi mesi Di Maio, con il decreto Dignità e il Reddito di cittadinanza, ha accentuato il suo aspetto socialdemocratico deludendo i grillini di destra, mentre Salvini li attirava con la sua propaganda fascistoide. Dunque, oggi, l’elettorato M5S è depurato di buona parte della sua ala conservatrice e la cresciuta percentuale di sinistra è più propensa a un’alleanza con il Pd. Ma anche nella base del Pd qualcosa è cambiato. Ha votato in massa alle primarie per Zingaretti, la cui presenza, benché scialba, ha recuperato almeno in parte quei tre milioni di ex-votanti Pd che, delusi da Renzi, si erano dispersi.

Oggi, insomma, rispetto a 17 mesi fa, i due elettorati sono più omogenei politicamente e lo erano già socialmente. Il 4 marzo, sempre secondo l’Istituto Cattaneo – hanno votato M5S il 33% degli iscritti alla Cgil, il 47% degli operai e dei disoccupati, il 48% degli insegnanti. Se nascerà un governo Pd-M5S, il vero problema sarà il rapporto con l’opposizione. Salvini è uomo di piazza; meglio di tutti sa come catturare e infiammare l’animo delle masse; non ha scrupoli nella scelta di alleati e finanziatori; dispone di una sperimentata task force per manovrare i social spregiudicatamente; con le sue divise militari ammicca senza remore alle forze armate. La Meloni non è da meno. Intorno a loro c’è un arcipelago di formazioni non solo parlamentari come CasaPound o Movimento Nazionale per la Sovranità, ma anche extraparlamentari come Fronte Nazionale o Fascismo e Libertà. L’elettorato di Lega e FdI è sanguigno e indignato; incoraggiato dalla spregiudicatezza di Salvini e dall’estremismo della Meloni, affida la vittoria delle proprie idee a un comportamento collettivo che non va per il sottile e che reputa i vincoli della Costituzione e della legge come optional. Questo popolo in crescita, per qualche mese si è sentito vittorioso e sicuro di un governo con “pieni poteri”. Poi, d’improvviso, si è visto sottrarre la vittoria. Come si comporterà questo 40% improvvisamente castrato dei suoi sogni? Con quali richiami sarà convocato a fare opposizione? A quali di essi risponderà e in che modo?

Vi sono, infine, tre personaggi di cui intriga prevedere il destino. Giuseppe Conte è un cattedratico con tutte le carte in regola, non gli mancano lavoro e stipendio sicuri e dignitosi. Ma, dopo 17 mesi di familiarità con i grandi della Terra, si rassegnerà ai bizantini e polverosi rapporti con anonimi colleghi del consiglio di facoltà? Conte non è più un enigma. All’inizio si poteva ipotizzare, con pari approssimazione, che fosse sia un ambizioso, disposto a barattare la dignità con la notorietà, sia una personalità di sottile intelligenza che, nutrita di pazienza, astuzia e cultura, a tempo debito avrebbe avuto la meglio sui propri mandanti. Oggi sappiamo che è vera la seconda ipotesi e che Conte ha sfoderato una sorprendente capacità di addomesticarsi alle stanze del potere. Soprattutto ha dimostrato che la cultura accademica e l’esperienza internazionale, insieme a uno stile bene educato, sono monete che hanno sempre un corso legale rispetto al pattume sgrammaticato e cafone. Perderne il contributo nel prossimo governo sarebbe uno stupido spreco.

Luigi Di Maio è l’altro enigma svelato. Ha 33 anni. Quanti 33enni in Italia, in Europa, nel mondo hanno un curriculum come il suo? Liceo classico; giornalista pubblicista; due volte deputato; per cinque anni vicepresidente della Camera; ministro del Lavoro; ministro dello Sviluppo economico; vicepresidente del Consiglio; capo politico del M5S. Piaccia o no, è un fuoriclasse. Cosa gli manca? Una laurea prestigiosa, il perfezionamento di un paio di lingue, una solida cultura politologica e generale, una consistente esperienza internazionale, la disinvoltura di chi padroneggia un variegato contesto sociale, compresi i livelli più esclusivi. Quattro anni di perfezionamento alla Harvard business school and administration di Boston o all’École pratique des hautes études di Parigi o alla London School of Economics and Political Science risolverebbero il problema. Per fare una scelta del genere ci vuole un curriculum, una intelligenza, una lungimiranza e un coraggio fuori del comune. Ma se Di Maio avesse la forza per farla, tornerebbe in Italia a 37 anni (dieci meno di Salvini oggi), giovanissimo, preparatissimo, candidato vincente alle maggiori cariche italiane ed europee. L’alternativa è quella di restare e vivacchiare per 4 anni in un governicchio dove nessuno sa dove vuole andare. Il terzo personaggio – Davide Casaleggio – resta enigmatico, schiacciato com’è tra l’onnivora figura paterna e la complessa situazione politica. I 5Stelle sono nella posizione ambigua e delicatissima di un movimento che, dovendo trasformarsi in partito, rischia di dissolversi. Per governare questa transizione occorre una personalità che unisca in grado eccellente, la visione, il carisma e la managerialità. E che non si dedichi a quest’opera ciclopica in part-time, come ha fatto imprudentemente Di Maio. La piattaforma informatica è uno strumento utile ma, da solo, è meno di niente.

Se Casaleggio Jr. avesse davvero queste qualità ed esse gli venissero esplicitamente riconosciute dal popolo dei 5Stelle, allora dovrebbe dedicarsi anima e corpo alla sua organizzazione partitica. Altrimenti dovrebbe passare la palla per non distruggere la macchina ingegnosa che il padre ha creato.

Nuova crisi, vecchi compagni

Quando c’è una crisi di governo i comunisti sono sempre di mezzo, anche se la crisi non è la loro e il governo neppure. L’ultimo scontro è fra Fausto Bertinotti, indimenticato leader di Rifondazione che oggi indica come “modello” nientemeno che il banchiere francese Macron, e il suo ex compagno di partito Marco Rizzo, che lo bolla come “ideologo del peggior revisionismo”.

Tutto parte da alcune dichiarazioni di Bertinotti, contrario all’alleanza Pd-M5S “frutto dell’ansia di andare al governo” (lui che in effetti i governi ha sempre preferito farli cadere). “Servirebbe solo a sfogare il ‘governismo’, piuttosto si torni alle urne”, spiega.

Mai chiamato in causa, il leader del Partito comunista, Rizzo, si è però sentito in dovere di rispondergli piccatamente su Twitter: “Da lui, responsabie dell’azzeramento di quanto restava del movimento comunista in Italia, non accettiamo nulla. Continui ad andare alle sue feste e raduni di preti, banchieri e industriali, non parli più di politica”. La crisi di governo degli ultimi giorni sarà pure indecifrabile, ma almeno i vecchi compagni restano una certezza: continuano a litigare.

“Nei 5Stelle attratti da Salvini c’è la sindrome di Stoccolma”

Come i cosmonauti, pure i politici prima di affrontare il periglioso mare del negoziato dovrebbero sottoporsi a uno stress test.

A Giuseppe Conte, il premier uscente, è infatti parso di intravedere elementi psicopatologici nelle relazioni tra partiti e loro leader, giungendo ad annotare persino dei disturbi comportamentali nel rapporto che ora slega e ora lega Luigi Di Maio a Matteo Salvini.

Il primo, somatizzando oltre il lecito, starebbe subendo la cosiddetta sindrome di Stoccolma, una forma di empatia che il “seviziato” a cinquestelle avrebbe nei confronti del “seviziatore” padano.

Isabella Merzagora, che insegna Criminologia alla Statale di Milano, ha le competenze per approfondire la questione: “La sindrome prende il nome da un evento delittuoso, una rapina in banca a Stoccolma con sequestro di persone. Le conseguenze anche psicologiche che subirono i sequestrati furono analizzate e ne fu studiato l’impatto più sorprendente: quel trasporto positivo che i sequestrati ebbero nei confronti dei sequestratori”.

Nel caso in esame, il “seviziato” sarebbe Luigi Di Maio, il “seviziatore” invece Matteo Salvini.

Resto nel cortile delle mie competenze: la sindrome si manifesta quando la tua sopravvivenza dipende in tutto o in parte dall’altro. Che sarà anche un tuo nemico, ma che ha in mano le sorti del tuo futuro.

Professoressa, però qui Di Maio, senza voler far torto alla casistica criminologica, potrebbe interromperci e dire: quando passerà mai un altro treno, un’altra offerta come questa per i Cinquestelle? Di Maio premier, addirittura. Si chiama utilità marginale.

Infatti non mi avventuro nell’analisi politica dei rapporti tra i due. Le trasmetto i canoni, la cornice selettiva, null’altro che un banale riepilogo di ciò che la scienza ha scoperto e narrato sulla sindrome di Stoccolma.

Non è che la passione per la politica, esondando, produca ai protagonisti un’alterata percezione della realtà? È colpa dei moijto o di una eccessiva dose di autostima se Salvini adesso sta pagando il pegno di una crisi di governo aperta così avventurosamente?

La storia contemporanea e anche quella meno recente dimostrano che personaggi con qualche sintomo psicopatologico hanno realizzato cose grandi, nonostante tutto. Drammaticamente grandi. Il carattere paranoico di Hitler, ampiamente studiato, purtroppo non gli ha impedito una politica sciaguratamente coerente e anche un seguito popolare enorme. È sì un caso estremo, ma assai significativo. Così come è vero che la passione, quando si impossessa totalmente della nostra mente, ci rende più vulnerabili.

Io preferirei avere dei governanti col sale in zucca.

Anch’io lo preferirei. Abbiamo comuni desideri.

La passione porta a commettere delitti.

L’ira, l’amore, la gelosia, la paura sono formidabili macchine che muovono delitti. Il legislatore non rende per questo giustificabile il fatto commesso dal reo. Resta comunque la manifestazione di volontà.

La paura di perdere la poltrona è l’accusa principe con la quale l’avversario ingaggia il duello. Ma se la politica non dev’essere solo passione, diviene mestiere. E se è mestiere perché Di Maio o Salvini o Zingaretti o Renzi non dovrebbero avere paura di perdere la poltrona?

Infatti anch’io ho paura di perdere la poltrona. Non penso con gioia al giorno della mia pensione.

La paura come movente psicologico dell’azione politica.

Anche come strategia possibile.

Salvini ha goduto del consenso che la paura gli ha intestato.

Siamo nel campo della paura indotta. Ti rivelo un nemico, a te ignoto, al quale potrai addebitare i tuoi problemi. Dev’esserci naturalmente un adeguato clima, un disagio sociale forte. È un modo di alleggerirmi della paura madre (il lavoro, la salute, la famiglia) e trasferire ad altri il senso della mia condizione di disagio.

E siamo alla strategia del capro espiatorio

Funziona benissimo, sempre.

Nei crimini e nella politica.

Procediamo a un transfert. Spostiamo il problema. Ce ne liberiamo noi, lo addebitiamo ad altri.

La paura collettiva è anche la causa che ci fa chiedere l’uomo forte al comando.

L’auspicio dell’uomo forte ci solleva dalla fatica di pensare. È una richiesta, un desiderio che si fa più nitido quando il livello della confusione sociale è più acuto, la classifica dei valori si fa più incerta.

Fino a due anni fa sembrava che fossimo angustiati dalla corruzione. Fu persino creata un’Autorità indipendente per rendere supremo il valore costituzionale della lotta ai tangentisti. Adesso le mazzette non fanno più audience, anzi c’è una sorta di condono tombale. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.

Le mode sono il male endemico di una società con valori senza fissa dimora. Salgono e scendono, a seconda del tempo. È il nostro più grande guaio.

5S, mappa della crisi. Dal ritorno di Grillo alle speranze di Fico

La bandiera è una, ma tanti giocatori non fanno necessariamente una squadra. Perché lo schema di gioco, come gli obiettivi, non sono sempre gli stessi. Anche nel Movimento dove Luigi Di Maio, capo politico affaticato, ha invocato unità e provato a ricucire con le varie anime sparse del M5S, creando una cabina di regia che dovrebbe evitare il liberi tutti e contenere distanze e dissapori. Ma le diversità a 5 Stelle restano evidenti, nella partita che vale un governo.

Beppe Grillo. Il fondatore che pareva un padre nobile lontano e disilluso, uno di quei parenti che vedi a Natale per obbligo morale, è tornato centrale nel suo Movimento. Ed è il primo, rilevante riverbero della crisi di governo sui 5 Stelle. È stato Grillo con un post in un sabato di agosto a benedire la via della trattativa col Pd, in nome dell’argine “ai nuovi barbari”. E sempre lui ha riunito il gotha del M5S nella sua villa al mare in Toscana per sancire la rottura con Matteo Salvini. È in contatto con il Pd e con gli emissari di Nicola Zingaretti, da giorni. E voleva a tutti i costi che a Palazzo Chigi ritornasse Giuseppe Conte. Per questo, quando venerdì ha visto il post di Alessandro Di Battista che riapriva un varco alla Lega ed era un indiretto calcio in faccia al premier uscente, è subito uscito con un contro-post a favore di Conte. Perché il post di Di Battista era stato concertato direttamente con Di Maio. Ergo, il fondatore ha visto i suoi ragazzi andare in un’altra direzione. E si è mosso, da garante. Irritato.

Davide Casaleggio. È l’altro potere, quello della casa madre di Milano, l’erede che ha le chiavi della piattaforma e dell’associazione Rousseau, cuori operativi (e casseforti) del Movimento. Per formazione, istinto e conoscenza degli umori del web era scettico sin dall’inizio sull’accordo con il Pd, e ora lo descrivono come di fatto contrario. Ma non al punto di andare in aperto contrasto con Grillo. Zingaretti e i suoi lo hanno cercato e lo cercano, e lui risponde. Repubblica ha scritto, e Casaleggio non ha smentito, che nella prima telefonata con il segretario dem si sia premurato di blindare un posto per Di Maio nel governo. Perché il vicepremier è sempre il suo uomo di riferimento. Sussurrano che tema norme draconiane del Pd che possano danneggiare la Casaleggio. Cattiverie, o forse no.

Luigi Di Maio. Il capo politico che da Statuto dovrebbe restarlo in ogni caso, cioè per molti anni, può vincere o perdere quasi tutto, e anche per questo deve muoversi tra mille fuochi. Nonostante chilometri di comunicati e dichiarazioni, il rapporto con Conte si era fatto gelido. E anche in queste ore di convulsioni un dimaiano ringhia: “Con quel discorso violento contro la Lega in Senato, l’ex premier ci voleva buttare nelle braccia del Pd”. Nonostante o forse per questo, Di Maio ha dovuto iniziare e insistere sul nome di Conte: perché di vere alternative non ne ha, o perché, malignano alcuni, voleva bruciarlo. Lui smentisce: “Io Conte non lo mollo, spero che lui non molli noi”. Ma era e rimane molto perplesso su un accordo con i dem, e potendo sarebbe tornato con la Lega. Però sa di essere in corsa per Palazzo Chigi. Sta affrontando la crisi con modi spicci. Ha vidimato il post di Di Battista uscito un attimo prima che i capigruppo vedessero i colleghi del Pd. I grillini al tavolo, ignari come tutto il resto del M5S, l’hanno presa malissimo. Ma Di Maio tira dritto, comunque autocrate quando la palla scotta. In una chat interna è stato secco: “Se per avere Conte a Palazzo Chigi chiedessero a tutti voi ministri uscenti di fare un passo indietro, accettereste?”. Sono piovuti tanti sì. E vai a capire quanto erano sinceri.

Alessandro Di Battista. L’ex deputato è tornato a muoversi in sintonia con Di Maio, dopo che il capo lo aveva bastonato nelle assemblee per settimane. “Io e Luigi non siamo mai stati così vicini”, ha spiegato a chi lo ha sentito in queste ore. Il post di venerdì con le condizioni al Pd e l’occhiolino strizzato al Carroccio ha fatto infuriare tantissimi. Però la mossa era strategica, ha giurato Di Battista, fatta solo “per alzare l’asticella con il Pd e ottenere di più per i cittadini”. Di certo il fu trascinatore di folle è, assieme a Paola Taverna, il big più ostile a un’intesa con i dem. E vede con favore un ritorno al voto, con una campagna elettorale in cui sarebbe per forza di cose un prim’attore.

Roberto Fico. Il presidente della Camera è l’alfa e l’omega della trattativa. Primo fautore assieme a Grillo dell’apertura al Pd, parla costantamente coi dem e con Di Maio, tenendo assieme i lembi del filo. Come il capo politico di cui è l’antitesi per storia, idee e carattere, è in corsa per Palazzo Chigi. Ma sa perfettamente che per Di Maio e gran parte del M5S il suo nome rappresenta un ordigno. E comunque preferirebbe, assicura a tutti, agevolare un’altra soluzione per la premiership. Non ha gradito i segnali alla Lega. E nei suoi ragionamenti continua a ribadire quella preoccupazione: “È in gioco la sopravvivenza del M5S”. Appeso anche al governo che verrà. O alle urne che cancelleranno questo strano film.

La vita agra della base dem: “Il boccone M5S va ingoiato”

Avanti tutta, anche con i Cinque Stelle, se lo chiede il Partito. A Ravenna il popolo dei volontari della festa dell’Unità non ha dubbi, o se li ha cerca di nasconderli, magari sotto la sfoglia dei tortellini. “Non mi piacciono, ma penso sia peggio vedere Salvini ogni giorno che sbraita agitando il rosario” sintetizza Fausto, uno dei 1.000 militanti che lavorano dietro le quinte dei ristoranti.

Tra gli stand, la possibilità di tornare a governare (seppur con i grillini) scatena entusiasmi soprattutto tra i giovanissimi, convinti che la partita vada giocata a qualunque costo. “Le regole devono essere chiare, nessuna presa in giro – commenta Niccolò, vent’anni appena compiuti – non ci dimentichiamo lo streaming con Bersani”. Già, nel cuore della rossa Emilia Romagna non si scorda nulla. Qui fa ancora male la scissione con i compagni di Liberi e Uguali guidati dal ravennate Vasco Errani, ex presidente della Regione e ora senatore. Guai a parlare di un nuovo partito per Matteo Renzi, adesso più che mai è il momento dell’unità. Caduto il governo, il Pd può smettere di stare in panchina: è l’aspirazione di tutti, anche se detta a bassa voce.

Lo stesso messaggio lanciato da Alessandro Barattoni, segretario provinciale a Ravenna, che negli scorsi giorni ha tenuto una lunga direzione con gli iscritti. Fino alle due del mattino e oltre, ma compatti sul messaggio finale: “Rientriamo in partita”. Pensiero condiviso dall’ex deputato dem Pierluigi Castagnetti: “Mi auguro che l’accordo si faccia, se penso alle alternative credo che serva un governo e da subito. Le varie dichiarazioni di questi giorni mi sembrano solo schermaglie, anche se gli interlocutori – i grillini – ci hanno fatto vedere di tutto e di più. Ma rimango uno di quelli che auspica un accordo”.

Nel corso del dibattito su Benigno Zaccagnini a 30 anni dalla scomparsa, è proprio Castagnetti a strappare il primo applauso, citando il motto più famoso del segretario della Dc: “Non per odio ma per amore”. Altri tempi. Sul palco c’è anche Antonio Bassolino, ex sindaco di Napoli: “Sono d’accordo – dice – sul fatto che bisogna cercare una soluzione di qualità, la politica deve mirare alto. Interloquire è indispensabile, è stato un errore non farlo un anno fa dopo il voto. Ma dobbiamo toglierci dalla testa, come leggo in queste ore, che il voto sarebbe un pericolo per il paese. Per diventare una grande forza di maggioranza dobbiamo conquistare tutti i giovani che non sono mai stati né democristiani né comunisti, oggi sono la maggior parte degli italiani, a loro dobbiamo pensare”. Il fu ministro del Lavoro non cita il leader della Lega, ma si riferisce a lui: “Il ricordo di Zaccagnini fa pensare alla serietà politica e personale, al valore della parola e al mantenere gli impegni presi, mi chiedo come sia possibile oggi invece possibile vedere in tv un modo di fare e di comportarsi, un vero e proprio stile da parte del ministero degli Interni che è molto lontano da quello di Benigno”.

La sala piano piano si riempie, come i tavoli dei bar, mentre si allungano le file davanti ai ristoranti. Si parla di realpolitik, tra un amaro e l’altro, citando i tempi andati post Resistenza in cui si costruiva un paese nonostante le differenze. “E adesso non dovremmo essere in grado di governare insieme al Movimento Cinque Stelle?”, scherza ma nemmeno troppo Luisa. Un po’ di delusione arriva a metà serata quando si diffonde la voce, poi confermata, che l’economista Enrico Giovannini non avrebbe più partecipato all’incontro sulla “sfida climatica nel tempo di Greta Thunberg”. L’ex ministro del Lavoro del governo Letta ed ex presidente dell’Istat da qualche giorno è considerato uno dei potenziali premier dell’eventuale esecutivo giallorosso. È apprezzato dai dem per il passato incarico al ministero e dai grillini per l’attenzione costante ai temi ecologisti. La sua assenza, in questo senso, è significativa: non sorprende che voglia evitare dichiarazioni che possano bruciarlo (ammesso che il suo nome sia davvero un’ipotesi concreta). Sono stati in tanti ad apprezzare le dichiarazioni di apertura sul reddito di cittadinanza fatte a pochi chilometri da qua, a Rimini, al meeting di Comunione e Liberazione. A Ravenna invece nessuno ha potuto ascoltarlo.

Salvini aspetta e spera: vuole incontrare Di Maio

Per citare la poco fortunata espressione di un altro noto Matteo, si potrebbe dire che Salvini è nella fase dei pop-corn. Il capo della Lega aspetta. Aspetta e osserva. Registra con soddisfazione le prevedibili difficoltà nella trattativa tra Cinque Stelle e Pd. È convinto che le correnti interne ai due partiti finiranno col sabotare ogni intesa. Crede – e spera – che prima o poi Luigi Di Maio dovrà rispondere ai suoi messaggi e che presto arriverà il momento in cui torneranno a sedersi allo stesso tavolo.

Non smette di crederci, insomma, malgrado l’ultima bastonata di Giuseppe Conte, che ha tirato la volata all’accordo tra dem e grillini. Le frasi del premier dimissionario (“Quella con la Lega è una stagione politica per me chiusa”) hanno irritato molto il capo della Lega. Che le ha fatte liquidare con un virgolettato di poche righe, non particolarmente incisivo, da attribuire a generiche “fonti leghiste”: “Lo stesso Conte che per un anno ci ha aiutato a fermare i barconi e a chiudere i porti, in una settimana passa dalla Lega al Pd? Che tristezza”.

L’avvocato del popolo ormai è una pagina che appartiene al passato. La speranza, ora, è riuscire a ritrovare un filo diretto con l’ex amico Luigi. Il “Capitano” non ha smentito – e quindi di fatto ha confermato – le indiscrezioni degli ultimi giorni sull’offerta fatta recapitare ai Cinque Stelle: Di Maio premier, lui ancora al ministero dell’Interno, Giancarlo Giorgetti all’Economia. Salvini aspetta solo un’apertura. Per questo non si allontana da Roma: se il telefono dovesse squillare, lui è già pronto. Anche un incontro “riservato”, fanno sapere in modo vagamente allusivo dal Carroccio. A ben vedere, l’estate romana di Salvini è un paradosso: da ministro era ipercinetico e quasi sempre assente dagli uffici del ministero, da quando ha fatto iniziare la crisi invece si è trasferito in pianta stabile nella Capitale e addirittura frequenta molto spesso il Viminale. Della Città eterna ieri ha pubblicato anche uno scatto (sfocato) sui social, una foto del sole che declina sul Cupolone di San Pietro e i tetti del centro: un tramonto. Ma con un messaggio militante: “Mai arrendersi, mai!”.

In una giornata di attesa – tra una coppa di zabaione e un augurio al Milan per l’inizio della Serie A – Salvini ha ricevuto la visita di Lorenzo Fontana, uno dei suoi più stretti amici, nel partito e nel governo. Il ministro veronese, fedele alla linea, ha confermato la versione ufficiale della Lega: “La via maestra, che preferiamo, è il voto”. Ma ha pure incoraggiato il clima di moderata fiducia nel fallimento delle trattative tra Pd e Cinque Stelle e nel ritorno all’ovile degli ex alleati. “Penso proprio che sia possibile”, ha detto Fontana. Che poi ha commentato con soddisfazione la recente e improvvisa apertura alla Lega del grillino Alessandro Di Battista: “Vorrà dire che lui ha riflettuto ed evidentemente ha capito che ci sono compagni di strada peggiori… Senz’altro è un segnale, ora vedremo cosa accade”.

La vera garanzia di Salvini e dei suoi, in fondo, sono i problemi degli altri: le crepe evidenti dentro ai gruppi parlamentari – e nelle basi elettorali – di Partito democratico e Cinque Stelle. Sui social del Movimento sono comparse centinaia e centinaia di messaggi contro il patto col Pd. Il Capitano legge e sorride. Anche se sono perfettamente speculari a quelli scritti contro di lui quando ha deciso di staccare la spina al governo. Oggi non lo rifarebbe mai.

Il premier ci crede e chiude la porta alla Lega: “È finita”

La giornata di ieri per il presidente del Consiglio era iniziata come s’era chiusa la serata di venerdì: Giuseppe Conte non era di buon umore perché pensava di essere stato “bruciato” dai 5 Stelle. Tradotto: il suo nome era finito sul tavolo della trattativa tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti troppo presto, come se fosse quello che si usa per farsi dire di no e passare al candidato vero. Ieri lo stesso capo politico grillino gli ha assicurato per telefono che non è così: per i 5 Stelle il suo, gli ha ripetuto a voce, è l’unico nome sul tavolo. E l’unico, probabilmente, che passerebbe il vaglio di un voto su Rousseau. E così – mentre si preparava a volare a Biarritz, in Francia, per la riunione del G7 – il presidente del Consiglio dimissionario ha ripreso a pensare, e con una certa soddisfazione, di potersi giocare le sue carte anche nella eventuale seconda vita della legislatura: da gialloverde a giallorosé, d’altra parte, non c’è che un colore di differenza.

Le benemerenze anti-salvianiane guadagnate coi duri attacchi al ministro dell’Interno in Senato non sono finora bastate a superare il niet del segretario del Pd, ma l’ex “avvocato del popolo” si sente pienamente in gioco e ha dalla sua parte, oltre a una discreta fetta dello stesso Partito democratico (i renziani, ma non solo), anche Bruxelles e i governi europei, che gli devono la “normalizzazione” dei 5 Stelle e il successo dell’elezione dell’ex ministra di Angela Merkel, Ursula von der Leyen, a capo della commissione Ue.

Non a caso Conte arriva a Biarritz, luogo proustiano, accolto dalla madeleine a mezzo stampa di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo: “Il presidente Giuseppe Conte è stato uno dei migliori esempi di lealtà in Europa. È sempre difficile difendere gli interessi nazionali e trovare soluzioni europee ma su di lui posso dire soltanto cose positive. E poi ha un gran senso dell’umorismo”.

La benedizione delle migliori grisaglie di Bruxelles s’accompagna, ovviamente, a quella delle cancellerie più importanti d’Europa: Berlino e Parigi, per citare le due che contano, sono grate all’uomo che ha estromesso dal governo Matteo Salvini e non vedrebbero male una sua permanenza a Palazzo Chigi (tanto più che anche durante le trattative sulla manovra dello scorso autunno, Conte si è dimostrato fedele alle richieste di Bruxelles imbrigliando le richieste della riottosa maggioranza gialloverde). La cosa è plasticamente testimoniata dal fatto che, ad accogliere l’italiano al suo arrivo, provvedono proprio il padrone di casa, Emmanuel Macron, e Angela Merkel.

Da questo contesto nascono le due dichiarazioni che il premier italiano affida alle agenzie, convocate per l’occasione, nel tardo pomeriggio, prima che il vertice francese avesse inizio. La prima cosa che Conte s’è premurato di fare è, usando il linguaggio dei giornali, “chiudere il forno leghista”, cioè escludere un ritorno alla coalizione gialloverde (con cui pure flirta un pezzo del M5S): “Quella con la Lega è un’esperienza politica che io non rinnego”, ma “è una stagione politica chiusa che non si potrà riaprire più per nessuna ragione per quanto mi riguarda”. La seconda risposta è alla domanda telecomandata sul cosiddetto “Conte bis”: “Io non credo che sia una questione di persone ma di programmi: posso augurarmi per il bene del Paese che i leader che stanno lavorando per dare prospettive all’Italia lo facciano intensamente e bene. Alcuni temi li ho espressi al Senato. Quello di cui ha bisogno il Paese è un grande progetto riformatore”.

Parole che hanno guadagnato al premier l’attenzione dei telegiornali e quella della parte dialogante del Pd (“le sue parole aiutano a fare chiarezza”, dichiara subito il renziano Marcucci), cui ha fatto seguito l’ennesima passerella coi capi di Stato e di governo del G7 raccontata ai presenti, con dovizia di particolari, dallo staff di Palazzo Chigi. Particolarmente benvenuti, per Conte, i dieci minuti di chiacchierata a tu per tu che gli regala Donald Trump prima di cena: “I rapporti personali vanno al di là degli incarichi”, gli avrebbe detto il presidente Usa. Una frase gentile, certo, ma a ben pensarci non proprio un attestato di fiducia per le sue ambizioni di bis.