Casaleggio & C. in allarme: i social M5S contro l’intesa

Hanno studiato per giorni i social network del Movimento. Setacciato gli umori di quella strana bestia che è il web. E si sono convinti che a oggi, la grande maggioranza degli iscritti e dei simpatizzanti del M5S non vuole l’intesa con il Pd. “L’80, 90 per cento degli interventi è contro l’accordo”: così hanno sentenziato gli addetti ai social dei Cinque Stelle in rapporti riservati recapitati al capo politico Luigi Di Maio.

Un dato rilanciato nelle riunioni interne da Pietro Dettori, membro dell’associazione Rousseau, vicinissimo a Davide Casaleggio e tra i più stretti collaboratori e consiglieri di Di Maio. Nonché uno dei principali fautori del ritorno del Movimento con la Lega, per cui spinge in silenzio anche l’erede di Gianroberto. L’asse milanese del M5S insomma tifa per una difficile riappacificazione con il Carroccio. E a sostegno può mostrare i segnali dal web, un responso pesante nel loro mondo. Tornare con la Lega non dispiacerebbe neanche allo stesso Di Maio, a determinate condizioni (anche se il capo politico giura di non aver mai risposto alle offerte di Matteo Salvini, pronto a concedergli la poltrona di presidente del Consiglio).

Ma i numeri, più che gli scrupoli, sono una muraglia alla nostalgia di alcuni. Perché a Di Maio dai Direttivi di Camera e Senato lo hanno spiegato chiaramente: un nuovo accordo con la Lega aprirebbe una faglia nei gruppi parlamentari, soprattutto a Palazzo Madama. “Potremmo trovarci costretti a far entrare in maggioranza altri partiti per reggere”, osserva un big di quelli che sanno fare di conto.

E un indizio che suona come monito arriva dal post su Facebook della deputata Lucia Azzolina: “Non prendo neanche in considerazione un ritorno con la Lega, perché sarebbe la morte di una parte del gruppo parlamentare del Movimento”. Tradotto, riabbracciare Salvini sarebbe maledettamente complicato. Ma al di là di calcoli e tentazioni, resta l’insurrezione del web: che pesa sulla trattativa con il Pd, e non solo perché la rende più sanguinosa per Di Maio e i suoi. Un’eventuale intesa con i dem andrebbe comunque votata dagli iscritti sulla piattaforma Rousseau. “E con questi numeri, l’unico nome come premier che ci permetterebbe di reggere il vaglio dei nostri è quello di Giuseppe Conte” riflettono ai piani alti. O forse quello di Di Maio, ma questo per adesso non lo dicono dritto. Di certo sulle chat interne si discute, e parecchio, dell’orientamento degli iscritti e della votazione su Rousseau. In diversi, anche di peso, stanno sollevando dubbi sul ricorso al portale. “Nel giro di pochi giorni non avremmo il tempo di spiegare alla gente il senso e i dettagli di un accordo così complesso” è il ragionamento. E ieri sul Fatto anche Roberta Lombardi, notoriamente vicina a Casaleggio, predicava cautela: “Il voto su Rousseau è nelle nostre corde, ma bisognerà valutare, il tempo è poco”. Ma i vertici del Movimento, Di Maio compreso, vogliono far tenere la votazione.

Non a caso un veterano come Max Bugani, anche lui nell’associazione Rousseau e nella “cabina di regia” del M5S, dopo aver ricucito con il capo politico ha ringhiato in una chat: “La votazione va fatta, fa parte dei principi cardine del Movimento. Se non la facessimo la gente ci manderebbe al diavolo”.

Così si ritorna al nodo principale della trattativa tra 5Stelle e dem, cioè all’indispensabilità di Conte come premier per il Movimento, anche per blindare l’intesa sulla rete. E non è affatto un dettaglio, in una partita dove contano anche le sfumature. Figuriamoci i numeri.

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Il dialogo va avanti. Su Conte l’assedio del Pd a Zingaretti

“Il nodo è uno solo: il nome del premier”. Un dirigente del Pd zingarettiano a fine pomeriggio sintetizza così lo stato dell’arte. Confuso e complicato, perché Cinque Stelle e democratici cercano un’intesa, ma la via per Palazzo Chigi è stretta. Un ruolo per cui sono tre i nomi che circolano: Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Roberto Fico. E tutti e tre, per motivi diversi, possono far saltare tutto.

Conte per ora rimane al centro del tavolo: Di Maio, contrariamente ai sospetti di chi pensa che in realtà abbia voluto bruciarlo sottoponendolo a Nicola Zingaretti, è intenzionato a insistere sul nome del premier uscente almeno fino a domattina. Problema: il segretario del Pd continua a porre il veto sul nome del premier dimissionario, nonostante un grosso pezzo del Pd – e pure della sua maggioranza congressuale – gli chieda di cambiare linea.

Nel frattempo, lo stesso Zingaretti fa filtrare la sua netta preferenza per Fico (che piace a tutti i dem): dal Nazareno raccontano di contatti in corso con pezzi del Movimento per spingere il presidente della Camera. Secondo problema: Fico è un nome che spaccherebbe il M5S. “Se il Pd mettesse Fico sul tavolo, sarebbe il segno che vuole far saltare il banco”, riassumono dalle parti di Luigi Di Maio. E così in molti – per ora a mezza bocca – pensano che il nome giusto sia proprio Di Maio. Un’opzione difficilissima da mandare giù per il Pd e che contravverrebbe (come Conte) alla “discontinuità” chiesta da Zingaretti, ma che avrebbe il pregio di “incatenare” i grillini al nuovo esecutivo di legislatura.

Nella giornatadei silenzi pesanti, un punto resta fermo: i dem aspettano una mossa ufficiale dal Movimento e sperano in un nome terzo, una sorta di carta a sorpresa, come fu nel 2018 quello di Conte. Terzo problema: i 5 Stelle quel nome non ce l’hanno. Zingaretti e Di Maio, intanto, non solo continuano a sentirsi, ma hanno in programma di incontrarsi a stretto giro. Per oggi pomeriggio è previsto un altro incontro dei capigruppo. Segno che la trattativa va avanti.

Se il segretario chiude, non tutta la sua segreteria fa lo stesso: “Se i 5 Stelle, insieme a Conte, mettessero sul tavolo poltrone di peso e concessioni sul programma, si potrebbe ragionare”. Posizione dialogante che si sposa con quanto filtra da ambienti Cinque Stelle: “Luigi a Zingaretti ha fatto solo il nome di Conte e basta: non è così che può partire il dialogo. Se magari aprisse su qualche ministero importante o il commissario Ue sarebbe quanto meno l’inizio di una trattativa”.

Si vedrà, ma ieri era la giornata dello stallo e dei sospetti incrociati. Venerdì, incontrandolo, Zingaretti s’è convinto che Di Maio abbia grandi problemi interni. Anche nel Pd, però, le tensioni si sprecano. Ad esempio ieri pomeriggio, a Roma, s’è incontrato lo stato maggiore del partito: Zingaretti, Marco Minniti, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Piero Fassino, Paola De Micheli, Andrea Orlando, Gianni Cuperlo. Una cabina di regia in piena regola, con l’obiettivo di preparare le mosse dei prossimi giorni. In casa dem, i dubbi principali riguardano ancora le reali intenzioni del capo politico dei Cinque Stelle. E anche la sua effettiva capacità di tenere unito il Movimento.

Anche Zingaretti, va detto, ha i suoi problemi: se Renzi ormai si è attribuito il ruolo di sponsor di Conte, anche nella cerchia degli “zingarettiani” c’è chi chiede al segretario di cambiare idea. E su questo scommettono i 5Stelle, sul lavorio delle varie anime dem per convincere il segretario. Troppo importante per molti che già si vedono ministri portare a casa l’accordo. Ma anche durante la riunione di ieri, Zingaretti è stato chiaro: “Su questo non torno indietro”. Di certo, per lui sarebbe una vera sconfessione.

Gianni Cuperlo è, per così dire, fedele alla linea del segretario: “Sono piuttosto disarmato quando sento Conte dire ‘un’esperienza che non rinnego ma che considero chiusa’ – dice a sera in tv – Se non era d’accordo sulla politica di questi ultimi 14 mesi e i valori che l’hanno sostenuta, allora aveva il dovere di dirlo. Non possiamo immaginare che la politica sia solo un cambio di casacca: il trasformismo non ha mai prodotto il bene della politica e del Paese”.

Accusa sanguinosa che è l’esatto contrario di quanto scolpisce il capogruppo renziano del Senato, Andrea Marcucci, subito dopo le dichiarazioni di Conte: “Fa chiarezza. Bene. E accolgo il suo invito a lavorare a un progetto riformatore senza fermarsi ai nomi”. Renzi, indirettamente, ci mette il suo timbro su Twitter: “Salvini ha chiesto pieni poteri, ma rispetto a 15 giorni fa adesso è all’angolo. Mi auguro che adesso prevalga la responsabilità: si pensi all’Italia, non all’interesse dei singoli”.

Dal Colle, intanto, seguono la situazione con un certo pessimismo. Mattarella non si fida e non derogherà ai tempi stretti concessi per presentarsi al Colle entro martedì con un accordo di massimo su nome e programma. Almeno questo casino non durerà a lungo.

Le parole per dirlo

Siccome la confusione regna sovrana, com’è naturale nei preparativi di nozze di due promessi sposi che si insultano da 10 anni, urge un po’ di igiene linguistica.

“Conte-bis”. L’eventuale ritorno del premier uscente non sarebbe un “Conte-bis”, come lo chiamano tutti, ma un “Conte-2”. Il Conte-bis sarebbe un nuovo governo giallo-verde e con qualche ministro rimpastato. Questo invece avrebbe un’altra squadra e una maggioranza diversa (giallo-rosa). Il che è normale in un sistema proporzionale, qual è tornato a essere il nostro. De Gasperi fece 8 governi, 3 col Pci e 5 col centro. I centristi Fanfani e Moro aprirono al Psi e lo stesso Moro al Pci. Andreotti, uomo della destra Dc, guidò il governo della “non sfiducia” con Berlinguer.

“Discontinuità”. In politica non dipende dalle persone, salvo che siano indegne, ma dal programma. Ed è ovvio che quello giallo-rosa sarebbe discontinuo dal giallo-verde. Se M5S e Pd trovassero l’intesa, sarebbe un delitto mandarla a monte perché Zingaretti ritiene Conte un emblema della “continuità” e i 5 Stelle no. Fu il M5S a siglare con Salvini il Contratto giallo-verde dopo il no del Pd. Conte, neppure iscritto, arrivò dopo. Da indipendente di area. E come tale si comportò, da premier-mediatore, dando torto ora a Salvini ora a Di Maio. Il Pd, se vuole “discontinuità”, dovrebbe chiederla a tutta la prima linea 5Stelle. Ma allora che senso ha trattare con loro? Meglio dire “voto subito”, almeno si capisce. Senza contare che un governo senza i big della sua maggioranza durerebbe poco.

“Diktat” e “veti”. Finora a imporne alcuni è stato Zingaretti: Conte no (veto), via i decreti Sicurezza (diktat), no al taglio dei parlamentari (diktat, poi caduto). Il M5S è stato ambiguo, non sbarrando le porte alla Lega (almeno pubblicamente: in realtà quel forno è chiuso perché non ha più i voti dei gruppi parlamentari). Ma non ha posto né veti su ministri Pd né diktat su cose da fare o non fare. Come il Pd, ha esposto il suo programma. E, da partito di maggioranza relativa, ha indicato il suo premier: Conte. Una scelta che, se fosse mantenuta e accettata, farebbe onore al Pd, ma anche a Di Maio. Che, come Fico, ha resistito alle profferte di premiership. L’anno scorso rinunciò per non baciare i tacchi a B. come pretendeva Salvini; stavolta perché pensa che Conte sia più adatto a quel ruolo, che meriti la riconferma e che giovi alla compattezza del Movimento. Non è un sacrificio facile, né usuale. Se le cose andassero in questa direzione, si potrebbe persino dire che non tutti i politici – nel M5S e pure nel Pd – pensano solo alla poltrona.

Pari opportunismi

Tra i motivi che militano a favore di un governo M5S-Pd c’è lo spettacolo che va in scena alla Rai. Che resta lo specchio migliore della politica peggiore. I sismografi segnalano movimenti tellurici di natura ondulatoria e sussultoria nei corridoi. Scosse dovute alle ambasce dei mezzibusti e dirigenti che dal Pd, dato prematuramente per morto, erano balzati sul Carroccio di Salvini a suon di like sui social del nuovo, presunto Capitano. Magari dopo un breve transito in zona M5S, seguito da precipitosa fuga quando tutti celebravano le esequie grilline. Dopo tanto peregrinare e leccare, gli sventurati pensavano di trovare un po’ di requie per le stanche membra e le consunte lingue, in attesa delle agognate promozioni al seguito del Re del Papeete. Qualcuno aveva avuto fugaci erezioni estive nel sentirgli invocare i “pieni poteri”, che nei golpe seri passano sempre dall’occupazione della tv pubblica. Poi la ferale notizia: non se ne fa più niente, anzi forse vanno al governo M5S e Pd. E chi stava nei due partiti o ci aveva fatto una breve capatina si morde le mani: “Mannaggia, ero dei loro fino a giugno!”. “Ma non potevo restare lì?”. “Ora che faccio, torno?”. “E se poi il governo salta e vince Lui?”. Come diceva l’Emilio Fede di Guzzanti, nulla è più difficile che leccare culi in movimento. I più esperti la risolvono alla Totò: “Mi sarà scappato un pro (o un like, ndr), ma sono sempre stato anti!”. I neofiti, incollati alle Maratone Mentana, si tengono sulle generali: “Ma sa, io non mi occupo più di politica…”.

L’altra faccia della medaglia è il professor Massimo Recalcati. Dopo averci triturato i santissimi per anni su Renzi erede di Telemaco e i baluba grillini da sterminare nella culla, ovviamente secondo Lacan, ultimamente era un po’ sulle sue. Ma ieri Recalcazzola è tornato su Repubblica con una notizia bomba: i 5Stelle, ora molto cari al suo Matteo, “escono dalla pubertà”. Digiuni come siamo di fasi freudiane, figuriamoci lacaniane, non sappiamo se il concetto recalcazzico richiami alla fase orale, a quella anale più o meno sadica, o a quella fallica, e in quale di esse si trovino i vari Pd attualmente sul mercato. Ci dirà lui, se vorrà. Ciò che conta è che al caposcuola della psicobanalisi è apparso Lacan e gli ha comunicato che i 5Stelle, grazie a Conte, stanno abbandonando il “fantasma puberale dell’antipolitica che li ha generati”. Ma a una condizione: che Di Maio si ritiri subito, avendo perso le Europee; invece Renzi, che ha perso pure le circoscrizionali, no. Noi non vorremmo mai che Recalcazzola s’offrisse proprio mentre si assegnano i nuovi ministeri. Altrimenti sarebbe perfetto per i Pari Opportunismi.

Incontro Di Maio-Zingaretti: “Conte premier”, “No lui no”

E ora il vero nodo che rimane da sciogliere in vista di una possibile alleanza tra Pd e M5S è quello del nome da indicare per Palazzo Chigi. Perchè ieri Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si sono incontrati a Roma all’ora dell’aperitivo per affrontare la questione delle questioni: il capo politico del M5S ha indicato come premier Giuseppe Conte. Il segretario dem ha detto no e ha ribadito – come si legge nella nota del Nazareno – “la necessità di un governo di svolta, non per una questione personale, ma per rimarcare una necessaria discontinuità”. Anche se Di Maio ha fatto notare al suo interlocutore un dettaglio non trascurabile: il nome di Conte ha già ottenuto l’approvazione di Matteo Renzi, l’uomo che controlla buona parte delle truppe dem in Parlamento. Il confronto continuerà nelle prossime ore.

È un fatto comunque che al di là delle distanze, i due abbiano deciso di vedersi alla fine di una giornata dove una ad una erano cadute tutte le pregiudiziali di merito rispetto alla creazione della maggioranza giallorossa.

Alla Camera si erano infatti incontrate le due delegazioni dem e Cinque Stelle incaricate di verificare le condizioni minime per far proseguire il negoziato. “Dal tavolo non sono sorti ostacoli insormontabili” hanno detto quasi all’unisono Andrea Orlando, Graziano Delrio e Andrea Marcucci per i dem e i capigruppo di Camera e Senato pentastellati Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli al termine del confronto a Montecitorio. Concluso con l’impegno a tenere altri bilaterali dedicati ai singoli dossier, che però non sono stati ancora calendarizzati. Anche se fin d’ora entrambe le parti hanno constatato “un’ampia convergenza” sull’agenda sociale e sui temi ambientali. Una convergenza indispensabile in vista innanzitutto della prossima manovra di bilancio che attende al varco il futuro esecutivo.

Questioni che rimangono ancora sullo sfondo perchè l’incontro di ieri a Montecitorio è servito prima che a trattare di questioni di merito, a risolverne alcune preliminari: i Cinque Stelle, per testare la volontà del Pd di dare corpo a un’alleanza di legislatura, hanno chiesto garanzie su una battaglia simbolo, quella del taglio dei parlamentari che per diventare legge ha bisogno di un ultimo voto decisivo. Mentre i dem hanno insistito con i Cinque Stelle perchè da parte del Movimento venisse spazzata via ogni ambiguità rispetto alla Lega di Matteo Salvini, che dopo aver innescato la crisi ora chiede a Luigi Di Maio di tornare a fare squadra. Il sospetto che ancora aleggia in casa Pd è che i 5 Stelle vogliano tenere aperto il forno con il Carroccio forse per alzare la posta o forse perchè nel Movimento c’è qualcuno a cui in fondo non dispiacerebbe riallacciare i rapporti con il Carroccio. E non è bastato che ieri il capogruppo dei Cinque Stelle Patuanelli minimizzasse le parole di chi nel Movimento non esclude o forse auspica possibili ritorni di fiamma in salsa salviniana. Né che l’altro capogruppo D’Uva sottolineasse che il Movimento “non ha ulteriori tavoli in calendario con altre forze politiche”.

Prima che Zingaretti e Di Maio si vedessero, il vicesegretario Orlando aveva provato a forzare la mano: “Il punto che resta da chiudere definitivamente è questo elemento di ambiguità che ancora esiste rispetto alla decisione univoca di tenere una interlocuzione con il Pd. Aspettiamo un passaggio formale: mi pare sia importante che sia detto in modo chiaro al Capo dello Stato”.

Anche i Cinque Stelle non si fidano fino in fondo del Pd e per questo vogliono metterlo alla prova: hanno chiesto garanzie sul provvedimento che prevede il taglio dei parlamentari che attende di essere approvato in quarta e ultima lettura a Montecitorio. A cui i dem hanno risposto con un primo segnale: “Noi – hanno scritto in una nota i due capigruppo e il vicesegretario una volta tornati al Nazareno dopo l’incontro con i 5S – siamo sempre stati e rimaniamo a favore del taglio dei parlamentari. Siamo disponibili a votare la legge ma riteniamo che vada accompagnato da garanzie costituzionali e da regole sul funzionamento parlamentare. È questo il senso del calendario che siamo disponibili a costruire insieme e in tempi rapidi”. Tradotto: il taglio delle poltrone (accompagnato da una riforma dei regolamenti parlamentari per non paralizzare i lavori delle commissioni di Camera e Senato), non è un tabù ma deve essere abbinato a una riforma elettorale in senso proporzionale che – al di là delle fumisterie tattiche – il Movimento 5 Stelle desidera e il Pd anela, a prescindere. Quel che è certo è che martedì Zingaretti e Di Maio sono attesi da Sergio Mattarella al Colle a cui dovranno dire se l’alleanza giallorossa nascerà davvero o no.

Grillo ‘eleva’ il premier, il capo politico segue (ma non esclude Chigi)

Lo ha fatto scrivere al battitore libero, che i 5 Stelle hanno per le mani un “potere contrattuale immenso”. E che siccome “tutti ci cercano”, devono “alzare la posta enormemente”. Così, mandato in avanscoperta quell’Alessandro Di Battista che non chiude le porte nemmeno alla Lega, ieri sera Luigi Di Maio si è seduto al tavolo con Nicola Zingaretti con una strategia precisa: “A palazzo Chigi vogliamo Conte”. Il nome del presidente del Consiglio, quello che per i dem è l’indigeribile simbolo gialloverde.

Hanno deciso di sparare alto e adesso toccherà capire fino a che punto si può andare avanti. Di Maio è soddisfatto del primo incontro con il segretario Pd. Non si erano mai visti fuori dalle occasioni ufficiali e l’aperitivo di ieri sera è servito innanzitutto a stabilire un primo rapporto umano tra i due leader che il presidente Mattarella aspetta al varco martedì. “Tutto un altro stile rispetto a quelli con cui ho dovuto trattare finora”, si è confidato Di Maio con i suoi, apprezzando il fatto che – anche di fronte alla proposta Conte – Zingaretti si sia detto “disponibile a un’ulteriore verifica”.

L’idea di giocarsi la carta del premier uscente era già nella sua testa. Ma certo ha pesato il post – di cui non era stato avvertito – con cui Beppe Grillo ieri ha inserito Conte tra gli “elevati”, categoria che finora il comico aveva riservato solo a sé. Dunque, ha scandito il garante M5S, “qualsiasi cosa che preveda di scambiare lui, come facesse parte di un mazzo di figurine del circo mediatico-politico, sarebbe una disgrazia”.

Non è un riferimento casuale, il suo. Anzi, è un preciso avvertimento al piano B che ieri ha circolato con una certa insistenza e che fa leva sulla tentazione di Di Maio di andare all’incasso della cambiale mai riscossa il 4 marzo di un anno fa, il sogno che aveva dovuto sacrificare sull’altare del contratto gialloverde: palazzo Chigi, stavolta tutto per sé.

È l’offerta che gli ha fatto recapitare Matteo Salvini, sperando di convincerlo a tornare indietro. E Di Maio non ha ancora categoricamente cacciato via l’ex alleato “seviziatore”, come lo ha definito il premier Giuseppe Conte, assai preoccupato dalla “sindrome di Stoccolma” che aleggia in casa 5 Stelle. Tant’è che non è stata gradita, nel Movimento, la sicumera con cui il capogruppo M5S alla Camera abbia chiuso ad “altri tavoli”, dopo l’incontro con la delegazione dem.

Così anche nel Pd cominciano ad accarezzare l’idea di controbattere alle sirene leghiste con la stessa carta. Che Di Maio non fosse “un tabù”, i dem, lo hanno detto fin dall’inizio. Che il premier del nuovo governo dovesse essere espresso dal Movimento, pure. E adesso, l’ipotesi di sovrapporre le due caselle non sembra più così strampalata.

Vista da Nicola Zingaretti, la faccenda mostra alcuni risvolti positivi: se a palazzo Chigi sale Di Maio c’è l’automatica garanzia che il Movimento non farà scherzi e pure la certezza che Giuseppe Conte – più affine al bacino elettorale di riferimento dei dem – finisca fuori gioco.

Ma è nel Movimento, per assurdo, che l’ambizione di Di Maio rischia di fare più danni. Perché riaprirebbe inevitabilmente le faide interne – si legga a questo proposito l’intervista di Roberta Lombardi a pagina 6 – che solo lo “standing” di Conte può riuscire a mettere a tacere.

Ieri, in un vertice ristretto tra i big del partito, si è arrivati alla conclusione che non ci sono carte coperte da giocarsi nella trattativa con i dem. C’è solo Conte. E poi c’è la base, che scalpita per essere consultata via Rousseau. Ma il voto non arriverà prima che l’accordo sul nome sia chiuso. Che sia quello del premier o del capo politico, sarà un successo.

“Ok al taglio, ma via il bicameralismo”

Se oggi tra 5 Stelle e Pd sembra esserci intesa, fino a poco fa il tema del taglio dei parlamentari aveva invece creato non poche divisioni tra i potenziali alleati. I grillini promotori della riforma, i dem tre volte contrari in Aula, unici insieme a LeU e +Europa.

Recuperando i dibattiti alle Camere nei giorni delle votazioni, appare chiaro quello che i dem si sono in qualche modo dovuti rimangiare, ottenendo però l’apertura dei 5 Stelle almeno su alcune loro obiezioni. Slogan a parte (Roberto Giachetti definì la riforma “una cazzata”, Emanuele Fiano parlò di “pericolo democratico”), il Pd non era contrario, almeno a parole, al taglio degli eletti, ma al suo mancato inserimento in un quadro di riforme più ampio che comprendesse una nuova legge elettorale e magari pure la revisione del bicameralismo paritario. In pratica, una riedizione della riforma bocciata nel 2016.

Il 7 febbraio, Dario Parrini avvertiva: “Siamo sempre stati favorevoli a una riduzione del numero dei parlamentari, se però questa scelta si colloca all’interno di una riforma seria che perlomeno porti al superamento (…) del fatto che ci sono due Camere che fanno esattamente la stessa cosa”. Buoni motivi per definire la proposta grillina “un mostriciattolo propagandistico”. Simona Malpezzi rilanciava: “Ridurre il numero dei parlamentari e lasciare tutto così com’è significa dire che il bicameralismo paritario funziona. Invece (…) una delle due Camere non lavora e resta impalata ad aspettare l’altro ramo”. E poi l’esortazione: “Riconoscete a una Camera una determinata funzione e all’altra un’altra, più specifica e più adatta”, creando “un Senato delle autonomie”.

Così anche Gianni Pittella: “Per dare funzionalità alle istituzioni occorre superare il bicameralismo perfetto. Non è possibile fare il ping pong tra due istituzioni che fanno la stessa cosa. Siamo d’accordo su questo?”. Domanda tornata attuale adesso, anche se difficilmente i 5 Stelle potevano accettare quando contrastato con forza tre anni fa.

Meno problematico affrontare i dubbi sulla legge elettorale. Il taglio dei parlamentari, stante il Rosatellum, sbilancerebbe infatti i seggi in favore di chi vince i collegi, che sarebbero più estesi e dunque meno rappresentativi dell’elettorato. Con anche la conseguenza di escludere dal Parlamento i partiti più piccoli. A maggio Emanuele Fiano la spiegava così: “Siamo contrari perché (la riforma, ndr) alza l’asticella del quorum, perché in una Camera di 400 persone coi numeri di oggi ci saranno quattro partiti, perché chiudete la bocca alle minoranze”.

Motivi per cui più onorevoli dem auspicavano un proporzionale puro. Con toni a volte accesi: “Per la prima volta – tuonava Ivan Scalfarotto – abbiamo una riforma che deliberatamente vuole mettere il Parlamento in condizione di non funzionare”. E se Roberta Pinotti paventava lo “smantellamento della democrazia”, Luigi Zanda era catastrofico: “La riduzione dei parlamentari presentata in tempi di riformismo democratico è diventata dal 4 marzo un’altra cosa, una mossa preparatoria di un futuro istituzionale democraticamente equivoco”. Ma proprio da quell’equivoco, ora, passa parte dell’intesa.

Se salta tutto Mattarella ha già stabilito la data ultima per le urne: il 10 novembre

Sergio Mattarella, come si sa, ha messo fretta ai partiti che intendono dar vita a un nuovo governo. E non in senso generico, ma assai specifico per un motivo semplice: il capo dello Stato, se non si trova una maggioranza politica, non è intenzionato (o almeno così ha sostenuto coi suoi interlocutori) a fare un governo del presidente per fare la legge di Bilancio e andare a votare all’inizio del 2020.

Il Quirinale non intende dare questa scappatoia a quel vasto pezzo di Parlamento che, pur di non andare a votare, darebbe la fiducia pressoché a chiunque (o almeno, va ribadito, è quel che ha chiarito ai partiti). Insomma, se Pd e 5 Stelle non si mettono d’accordo Mattarella farà un esecutivo elettorale per non far fare la campagna elettorale a Matteo Salvini dal Quirinale, ma scioglierà subito le Camere e porterà il Paese alle urne durante l’autunno. Il presidente ha già comunicato la sua deadline alle forze politiche: è domenica 10 novembre, anche perché per il 27 ottobre ipotizzato inizialmente dalla Lega non c’è tempo e domenica 3 novembre cade durante il ponte del 1° novembre. Questo significa due cose:

1) lo scioglimento delle Camere da parte del capo dello Stato deve arrivare entro i primi dieci giorni di settembre, perché – nonostante la legge conceda tra 45 e 70 giorni per organizzare le elezioni – il farraginoso sistema di voto degli italiani all’estero richiede almeno 60 giorni per essere funzionante.

2) Il tempo per le trattative tra Pd e 5 Stelle è assai limitato: una settimana, massimo dieci giorni perché, in caso di fallimento, va nominato e mandato alle Camere il governo di garanzia e poi ci sono una serie di adempimenti formali prima di arrivare allo scioglimento vero e proprio e alla convocazione, come si dice, dei comizi elettorali.

Le urne in autunno, insomma, sono ancora una possibilità che il Quirinale tiene bene a mente. Tanto più che Mattarella ha capito benissimo, e ancora di più ieri, quanto sarà difficile mettere assieme 5 Stelle e democratici sull’unica cosa che gli ha chiesto per autorizzarli ad andare avanti: un nome, quello del presidente del Consiglio, perché i governi si costruiscono a partire da lì, il resto viene in discesa.

Voto di scambio, 87 rinvii a giudizio: ci sono anche Cuffaro e Pagano (Lega)

Ci sonoanche un assessore della giunta Musumeci, l’ex governatore Totò Cuffaro e un deputato leghista tra gli 87 rinvii a giudizio nell’inchiesta siciliana “Voto connection” sulle ultime elezioni regionali guidata dal pm di Termini Imerese Annadomenica Gallucci. I reati contestati vanno dal voto di scambio all’attentato ai diritti politici e riguardano sindaci, avvocati, onorevoli e semplici cittadini che avrebbero venduto il proprio voto in cambio di un posto di lavoro.

Tra i rinviati a giudizio c’è Alessandro Pagano, ex Pdl oggi alla Camera con la Lega. Totò Cuffaro, secondo l’accusa, sarebbe invece intervenuto in sostenendo il candidato Filippo Tripoli, che non riuscì a centrare l’elezione all’Ars, ma che pochi mesi fa è diventato il nuovo sindaco di Bagheria. All’assessore Salvatore Cordaro, invece, i pm contestano l’assunzione di un corriere che avrebbe “portato voti” all’allora candidato alle comunali di Termini Imerese Francesco Giunta. Nei guai anche il capogruppo all’Ars del movimento del governatore, Alessandro Aricò, che avrebbe invece promesso l’assunzione di un tirocinante presso il “centro Salus”, per 500 euro al mese, in cambio del sostegno alle ultime elezioni regionali. L’udienza preliminare è stata fissata il 4 dicembre di fronte al gup Claudio Bencivinni.

Zinga s’intesta la trattativa e vuole Renzi fuorigioco

Giuseppe Conte come premier è un nome irricevibile per il Pd zingarettiano, per rimarcare la “discontinuità”. Ma il confronto va avanti: dopo l’aperitivo con Luigi Di Maio di ieri sera durato un’ora, Nicola Zingaretti ci tiene a chiarire che la trattativa per il governo Pd-M5s non si è arenata. E che quello del capo politico dei Cinque Stelle non è stato un vero e proprio ultimatum, piuttosto una mossa doverosa nei confronti dello stesso Conte, ma anche un passo tattico. Una reazione che dimostra un fatto: Zingaretti si è convinto che il tentativo di un governo con i Cinque Stelle va fatto davvero.

La macchina si è messa in moto e a questo punto il segretario del Pd deve giocarsi la partita in modo che sia chiaro che, se si fa l’esecutivo, l’azionista di riferimento dentro il Pd è lui. E non Matteo Renzi, tanto per citarne uno a caso. Per questo l’interlocuzione con Luigi Di Maio la porta avanti in prima persona.

Renzi però non si fa da parte: tanto è vero che è lo stesso capo politico M5S a far notare a Zingaretti che per l’ex premier fiorentino il veto su Conte non c’è. Cosa che i renziani ribadiscono in serata.

Questo mentre nelle varie anime del Pd, pur di portare a casa l’accordo, in molti si spingono a prendere in considerazione la possibilità che sia proprio Di Maio il premier. Zingaretti (per ora) stoppa. Ma a detta anche da uomini a lui vicini non è detto che il punto di caduta non sia proprio quello.

D’altra parte, l’incontro tra le delegazioni Pd e M5s è andato bene. Anche se la risposta politica chiara dal capo politico Cinque Stelle non arriva immediatamente. I capigruppo si limitano a dire: “Siamo qui e non da un’altra parte. Quindi è questa la trattativa che stiamo facendo”. Un ragionamento che ai dem non basta, visto che l’ufficialità richiesta non arriva. Cosa che desta perplessità maggiori, dopo che il Pd si è presentato all’incontro offrendo al Movimento il “lodo Delrio”, ovvero l’intenzione di tagliare i parlamentari e nel frattempo di fare una legge elettorale proporzionale. Di più. Delrio ha persino proposto di far firmare un impegno a Zingaretti, con i tempi: il taglio dei parlamentari andrebbe calendarizzato in ottobre, subito dopo il giuramento dell’eventuale governo, previsto per fine settembre. E il “foglietto” sarebbe una garanzia che Di Maio potrebbe esibire in qualsiasi momento di fronte a un eventuale tradimento.

Ma a sera la trattativa entra nel vivo, sul punto dirimente: il nome del premier. Dopo una giornata che per il Pd non è comunque stata facile. Ci ha pensato Renzi in mattinata a movimentarla: “Se uno, contravvenendo alle regole interne, con uno spin fa saltare tutto non è detto che il Pd arrivi tutto insieme alle elezioni”, sono le parole dell’ex premier in un audio registrato mentre parla alla sua scuola di formazione politica a Barga, in Garfagnana. Sul banco degli accusati c’è Paolo Gentiloni, che avrebbe provato a far saltare l’intesa Pd-5Stelle con la richiesta di tre condizioni, una “triplice abiura”. Il caso agita le acque, ma si smonta abbastanza presto: Renzi stesso depotenzia la portata delle proprie parole, facendo filtrare il fatto che l’audio è stato rubato e pure facendo ribadire ai suoi che per l’uscita dal Pd, in caso di voto, non è pronto. D’altra parte, Zingaretti, che si riunisce al Nazareno con lo stato maggiore del partito, non può permettersi di andare al voto con un’altra scissione. Quindi definisce quelle di Renzi “accuse ridicole e infondate”, chiede di evitare dichiarazioni che possano complicare la situazione, ma in realtà lavora per ricomporre.

A mediare è lo stesso Delrio, che giovedì invita Zingaretti a correggere il tiro sui tre punti e in questi giorni cerca di ridimensionare il “pericolo” Renzi. “Matteo non è un problema”, va dicendo a tutti. Il punto è che per uscire dal Pd l’ex segretario ha bisogno di una legge proporzionale che gli permetta di avere qualche chance di contare con il suo partito: un buon motivo per non far fallire il governo.

Nel frattempo, al Nazareno si continua a parlare di ministeri e di caselle da occupare. Prima di tutto quella del premier. Ufficialmente, nell’incontro di ieri la cosa non entra. Ma non mancano le battute: “Avete affossato Conte subito dopo il suo discorso contro Salvini”, dicono i capigruppo M5S. “Non è che si può pensare che chi è stato garante dell’alleanza gialloverde lo sia pure di quella giallorossa. Al limite sarebbe meglio Di Maio”, i ragionamenti che si fanno. In casa dem, il governo pare una priorità.