Becchi e i suoi fratelli: la Lega continua a tentare di far pace

Sarà pure vero, come dicono i Cinque Stelle, che non c’è “nessun altro tavolo aperto” oltre alla trattativa con il Pd. Ma sotto la cenere depositata nelle ultime settimane, nel “secondo forno” dei grillini con la Lega c’è ancora un sottile strato di brace che arde. Forse è la nostalgia canaglia del governo del cambiamento, oppure le difficoltà oggettive a far coppia con il “partito di Bibbiano”, ma tra gli ex amanti che si sono lasciati rovinosamente sotto Ferragosto i telefoni sono caldi e i sentimenti, in fondo, vivi.

Il discorso vale soprattutto per i leghisti. Matteo Salvini per i suoi vecchi alleati ormai si è fatto esplicitamente zerbino. Non si è vergognato di mostrarlo nemmeno ieri, in diretta Facebook dal Viminale: “Le vie del Signore e della Lega sono infinite – ha ribadito col consueto afflato evangelico – e sono disposto a tutto pur di non rivedere Renzi e Boschi al governo”.

Quel “tutto”, secondo i retroscenisti, è la poltrona principale di Palazzo Chigi: pur di restare in sella e di conservare il ministero degli Interni, Salvini sarebbe disposto a lasciare a Di Maio la carica di premier.

Le attenzioni del “Capitano”, in questo senso, sono pressanti. A cercare un contatto con le ambascerie dell’altro vicepremier grillino sarebbe stata una figura di spicco dello staff di Salvini: “Abbiamo capito di aver fatto un errore – il senso del messaggio – e il nostro mondo sta reagendo male alla nostra rottura. Parliamoci”. Persino Giancarlo Giorgetti, che voleva staccare la spina al governo in tempi non sospetti, ha regalato una risposta allusiva al giornalista che gli chiedeva se ci fossero ancora spiragli per un riappacificamento: “Dico soltanto una cosa, molto onestamente io ho sentito i 10 punti di Di Maio e sono quasi tutti o tutti parte integrante del contratto con la Lega: cosa voglia dire questo non lo so, ma è un dato di fatto”.

L’attuale stato di sospensione produce anche aneddoti piuttosto comici, come quello di cui è protagonista Paolo Becchi, un tempo considerato l’ideologo dei Cinque Stelle, oggi tra i più scalmanati sostenitori della pace con la Lega.

Becchi ha lanciato su twitter l’hashtag #nuovogovernogialloverde, che malgrado la lunghezza e l’oggettiva illeggibilità è entrato per qualche ora tra gli argomenti di tendenza. Rinfrancato da questa impresa, si è messo in testa un’idea geniale e ha mandato un messaggio a Salvini e uno a Di Maio: “Luigi ti vuole parlare” e “Matteo ti vuole parlare”. La prodezza è riuscita a metà: Salvini ha cercato di contattare Di Maio su whatsapp, il grillino – a quanto si apprende – non gli ha risposto.

Si rispondono e si parlano, invece, i tanto declamati “pontieri” posizionati su entrambi i lati della barricata, che da giorni provano a mantenere in vita il dialogo. Sono per lo più parlamentari semplici, ma c’è anche qualche esponente di governo. Come non smette di raccontare il leghista pontino Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, “per 11 mesi, fino alle Europee, questo governo ha lavorato tanto e bene, non dobbiamo dimenticarlo”. E poi si sono cementati “rapporti di amicizia e affetto” che vanno al di là anche del colore politico, “come quelli con Laura (Castelli, ndr) e Buffagni”, altro sottosegretario, molto in vista tra i grillini “dialoganti”.

Tutto questo calore umano, diciamo, speso per ammorbidire gli ex alleati, alla fine rischia di risultare inutile e un po’ umiliante, ma qualche effetto potrebbe anche produrlo.

Colpiscono, al riguardo, le parole di Alessandro Di Battista, uno dei più inflessibili contestatori di Salvini e del Carroccio: “Ho visto nuove aperture della Lega al Movimento – ha scritto su Facebook – e mi sembra una buona cosa. Soprattutto perché non mi dispiacerebbe un presidente del Consiglio del Movimento 5 Stelle. Ho visto inoltre porte spalancate da parte del Pd. Zingaretti fa la parte di chi pone veti e condizioni ma in realtà ha il terrore che Renzi spacchi il Pd”.

Nel Movimento non tutti hanno apprezzato l’uscita dell’ex deputato romano. Anche se alla fine è soprattutto tattica: due forni is megl che uan, come diceva una vecchia pubblicità. E come spiega Di Battista: “Il Movimento 5 Stelle ha oggi un potere contrattuale immenso. Tutti ci cercano. Un potere del genere è essenziale sfruttarlo nell’esclusivo interesse dei cittadini. Alziamo enormemente la posta sulle nostre idee e proposte”. Col rischio, magari calcolato, di far spezzare la corda.

Non basta la paura di Salvini: o facciamo un esecutivo forte oppure è meglio votare

“Le strade che abbiamo davanti sono tre, mica due”. Mi ha scritto un compagno (fa strano, ma i compagni esistono). Ho chiesto spiegazioni.

Prima strada, mi scrive, niente governo, elezioni, il Pd va benino (la polarizzazione, il bene e il male, ecc.), i pentastellati malino e il polo reazionario Salvini-Meloni prende il Paese per i prossimi cinque anni. Governo omogeneo, nazionalista, antieuropeo, razzista, sviluppista, antifemminista. E scordatevi crisi anticipate.

Seconda strada. Si fa un governo politico, programma comune, altro che contratto, cinque sei cose da fare subito per voltare pagina e ricostruire una connessione non avvelenata tra istituzioni e cittadini. Un governo in discontinuità con i 14 mesi che abbiamo alle spalle, volati via tra lancio degli stracci, propaganda, ferocia sociale e poco altro.

Terza strada, quella che pochi vedono, ma che alla fine rischia di essere la più probabile. Fare un governo di merda. Scrive sempre quel compagno. Un governo piccolo, nato per contrarietà, per paura delle urne, somma sgangherata di correnti e sotto correnti. Un governo con poche idee piuttosto confuse. E magari un personale politico protagonista non proprio brillante degli ultimi anni, degli ultimi governi.

Dobbiamo dare un senso alla carambola che vive il Paese e provare a fare sul serio.

Non basta la paura di Salvini. Se ci saranno le urne combatteremo col coltello tra i denti, non contro il fanfaron fascismo ma contro l’atterraggio in Italia di una delle forme di governo oggi più in voga nel mondo, quella post-democratica, che mischia concentrazione dei poteri e corruzione. Il divorzio tra sviluppo e democrazia c’è stato da tempo e la post democrazia, autoritarismo leadership forti e esecutivi piglia tutto, governa gran parte del pianeta con un certo grado di successo. Governa con consenso popolare. Russia, India, Stati Uniti (ultima crociata di Trump contro lo ius soli), Brasile (guerra alle ong e alle comunità locali mentre l’Amazzonia brucia), Turchia, Polonia, Ungheria, i casi più evidenti. Per non parlare di Paesi autoritari per definizione come la Cina o l’Iran. Salvini non è un prodotto locale. È il vero surrogato alla crisi della globalizzazione. Salvini è il prodotto dello schianto del mondialismo liberista. Lui come tutti quelli che nel mondo agitano la bandiera dell’identitarismo, del razzismo, dell’omofobia, del protezionismo e del nemico. Interno o esterno fa lo stesso.

E non c’è bisogno di scomodare Polibio per scoprire la natura transitoria e fragile della democrazia di fronte alla continua tentazione dell’intreccio maligno tra massa e potere.

Qui stiamo, a queste domande dobbiamo rispondere.

Non si ferma il vento nero che spira in tutto il mondo senza pensieri forti e nuovi paradigmi. Ecologia, welfare, salario minimo, conoscenza, nuova Europa, convivenza tra gli umani, autonomia delle donne, tanto per cominciare. Un ragionamento radicale sul modello sociale e di sviluppo, una rivoluzione vera nel rapporto tra democrazia partecipativa e capacità decisionale della rappresentanza. Altro che taglio dei parlamentari. Uno spot che durerà un minuto e che alla fine incasseranno i cialtroni. Serve una svolta, nei contenuti e nelle biografie capaci di interpretare il cambiamento. Io tifo per il disgelo tra sinistra e 5 Stelle, lavoro per la nascita di un governo politico, forte, pronto a governare per i prossimi anni. Il fallimento di questa prospettiva consegnerebbe tra qualche mese il Paese agli amici di Putin. Rublo più, rublo meno.

Serve un governo, ma non un governo di merda. Continua a dire quel compagno. Se poi tra ripicche e ambizioni dovessimo non farcela, allora meglio le urne. Almeno sarebbe chiaro il nemico contro cui sinistra e 5 Stelle dovranno combattere.

 

“L’accordo con il Pd va trovato. Di Maio non sieda nel governo”

La veterana che è stata la prima capogruppo alla Camera del Movimento, il volto del proverbiale streaming con Pier Luigi Bersani, sostiene che bisogna provarci e possibilmente riuscirci: “Possiamo trovare un accordo con il Pd perché abbiamo una cornice di valori in comune. E poi abbiamo l’impegno con i cittadini di portare avanti i punti di programma con cui ci siamo presentati alle scorse Politiche”. Roberta Lombardi spera nell’intesa, “anche se l’ipotesi delle elezioni è sempre lì”. Ma ha paletti e principi da ricordare. E una premessa: “Con la Lega non si può assolutamente tornare, non potremmo mai più fidarci di chi ha aperto una crisi di governo senza alcuna ragione”.

In un post Alessandro Di Battista saluta come “una buona cosa le aperture della Lega”. Che ne pensa?

Mi viene in mente che anche nel 2013, quando non eravamo arrivati primi per pochi decimali, io e l’altro capogruppo Vito Crimi eravamo impegnati in tavoli e incontri. E ogni tanto arrivava la dichiarazione di qualche solista che andava in direzione contraria alla volontà maggioritaria del gruppo parlamentare. Mi immagino cosa avranno provato oggi i nostri attuali capigruppo seduti al tavolo con il Pd, quando hanno visto quel post. Se vuole davvero dimostrare di aver capito la lezione delle Europee, il Movimento deve tornare a muoversi in modo corale e non per fughe in avanti di qualcuno.

Di Battista potrebbe aver tenuto aperto il forno con la Lega per ottenere di più dal Pd…

Giocare al rialzo su temi importanti per il Paese è giusto. Quello che è pericoloso è farlo con una tempistica sbagliata, nel momento in cui due forze politiche che se le sono date fino all’altro giorno si stanno guardando negli occhi. Le trattative non si fanno con i post. Io tratto con il Pd in Regione Lazio in qualità di capogruppo del M5S e non lo faccio mai tramite note o interviste. Cerco di convincere i democratici a lavorare assieme su punti necessari e comuni a entrambi, dai rifiuti all’economia circolare. E lo stiamo facendo.

Come giudica i punti elencati da Zingaretti e Di Maio?

La base di partenza è buona. Abbiamo governato per 14 mesi con una forza politica che non ci ha permesso di essere noi stessi: la Lega è un partito conservatore e noi siamo progressisti, il Carroccio sottovaluta il tema dell’ambiente mentre per noi è centrale. Invece con il Pd si possono trovare punti di contatto su temi come l’ambiente, la coesione sociale e il conflitto d’interessi. E sono essenziali il taglio dei parlamentari e il disinnesco delle clausole Iva.

Lei definisce il M5S progressista, ma avete votato senza colpo ferire i due decreti Sicurezza di Salvini. E c’è il tema dei porti. Non siete così progressisti, oppure avete ceduto troppo alla Lega?

Sull’immigrazione abbiamo sempre avuto un’impostazione diversa da quella del Pd, anche se già molti anni fa facemmo approvare da tutto il Parlamento una mozione in cui chiedevamo, tra l’altro, che i migranti fossero redistribuiti nei vari Paesi europei e i corridoi umanitari. Dopodiché sulla sicurezza abbiamo ceduto un po’ troppo alla Lega, è vero. Ma con i dem si può ricostruire un percorso anche su questo.

Zingaretti ha detto che Giuseppe Conte non può tornare a Palazzo Chigi, mentre Di Maio per lui potrebbe far parte del governo. Potendo scegliere chi terrebbe? Conte è essenziale?

Vorrei che ci concentrassimo più sulle cose da fare che sui nomi. ‘Siamo tutti indispensabili ma nessuno è insostituibile’, diceva Gianroberto Casaleggio. Dopodiché il presidente Conte, che non è mai stato iscritto al Movimento, si è costruito una grande credibilità anche a livello internazionale. È una risorsa del Paese, che va valorizzata.

E Di Maio?

Ritengo che i nomi di primo piano di Pd e M5S non dovrebbero fare parte di un eventuale nuovo governo. Potrebbero essere divisivi. Ora servono responsabilità e coraggio.

Ma la vostra base come potrà accettare un accordo con i dem, “il partito delle banche” come urlate da anni?

La nostra gente ha mostrato sempre di avere senso pratico. L’accordo con il Pd stavamo per farlo anche nel 2018, poi Renzi lo fece saltare. Ma anche la Lega era quella dei 49 milioni euro di rimborsi pubblici spariti e che amministra Comuni e Regioni con Berlusconi. Però gli iscritti ci dissero di andare avanti, per realizzare il programma.

L’accordo va votato sulla piattaforma Rousseau?

Sarebbe nelle nostre corde. Però comunicare in pochi giorni il senso e i punti di un’intesa così complessa, perché giustamente il Quirinale ha fretta di mettere in sicurezza il Paese, non mi pare facile. Bisognerà valutare.

Ha accennato al voto anticipato. Concederebbe la deroga a chi già sta svolgendo il secondo mandato?

Assolutamente no. E certe dichiarazioni mi sembrano fatte da persone che si sentono la deroga in tasca. O che magari hanno fretta di tornare in Parlamento.

Mine, trappole e “pre-verità”. La lunga strada per l’esecutivo

La pre-verità è un sms che cita “fonti attendibili” e mi dice che, alla fine, “quasi sicuramente” si farà un governo M5S-Lega con premier una donna: o la Casellati, o la Cartabia.

La pre-verità non è una fake news basata sulla menzogna poiché, come nel caso in esame, annuncia qualcosa di molto sorprendente e improbabile. Da considerarsi tuttavia non del tutto campato per aria.

La pre-verità si distingue anche dalla post-verità che riguarda quelle notizie accettate come vere dal pubblico, senza nessuna verifica concreta dei fatti raccontati.

Nel nostro caso si dà credito all’idea che nei quattro giorni concessi da Sergio Mattarella a Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio per trovare un accordo, la trattativa possa saltare lasciando spazio al secondo forno spalancato da Matteo Salvini all’ex alleato (il Salvimaio bis). Ipotesi che i Cinque Stelle potrebbero riconsiderare pur di non sottoporsi a un rischioso voto anticipato. Ma le pre-verità servono soprattutto a creare confusione, o ad alimentare speranze infondate, o a spargere zizzania, insomma ad avvelenare i pozzi sulla base di indicibili strategie.

Ieri, venerdì 22 agosto, la rassegna stampa era tutta un campo minato, e non certo per responsabilità dei cronisti politici impegnati a non tralasciare alcun ordigno abbandonato sul terreno nella crisi più esplosiva che si ricordi. Ed ecco, in rapida sequenza, lo Zingaretti double-face “che sta andando alle nozze con i grillini ma forse con il retropensiero elettorale” (Il Messaggero). Oppure l’Alessandro Di Battista, pseudo-complottista, poiché si farebbe strada “negli ambienti 5 Stelle il sospetto che voglia le urne per defenestrare il capo politico Di Maio” (Corriere della Sera).

Non a caso il Giornale segnala “sabotatori ovunque e doppi forni”, mentre Libero titola “Di Maio va in castigo” e racconta dei perfidi grillini “pronti a sacrificarlo per accordarsi con i dem” (mentre in sovrappiù “Fico vuole fargli le scarpe”). Implacabile, la Verità ci informa dettagliatamente sull’“impepata di tasse nella pentola Pd-M5S” avvertendo che l’“inciucio giallorosso” regalerà agli italiani, oltre alle cavallette, “la patrimoniale, tasse sulla casa e imposte green”.

Perfino sul nome del possibile premier, e degli aspiranti ministri, si attiva il gioco al massacro visto che tra i nomi di Enrico Giovannini (ex Istat per chi non ne avesse memoria), Raffaele Cantone (ex Anticorruzione, che come il grigio si porta bene su tutto), della chissà perché gettonatissima Marta Cartabia (Corte costituzionale), e della rivale presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, ne resterà solo uno. O nessuno. Per cui, questo diario si sente di rivolgere ai suoi pochi ma affezionati lettori un sincero consiglio: fidatevi soltanto di ciò che vedete con i vostri occhi e sentite con le vostre orecchie. Se può servire, di fatti assolutamente accertati ne abbiamo appuntati tre.

Il primo si è svolto martedì scorso nell’aula del Senato quando il premier dimissionario Giuseppe Conte ha impartito al vicepremier Matteo Salvini, sotto gli occhi di svariati milioni di italiani, una sensazionale lezione di correttezza istituzionale e di buona educazione. Infatti, mentre i consensi dell’uno, già alti, si sono vieppiù impennati, l’altro viene segnalato dai primi sondaggi in calo, e comunque per la prima volta da molti mesi avrebbe interrotto la crescita.

Altro documento da tenere bene a mente è il video in cui Matteo Renzi accusa Paolo Gentiloni “di aver provato a far saltare l’accordo con il M5S”. Che poi Zingaretti definisca le accuse “ridicole e offensive” è la conferma dell’esistenza di due, o forse tre, o anche quattro diversi Pd. Comprereste un’auto usata eccetera eccetera?

Terzo riscontro oggettivo è il presidente della Repubblica che fissa a martedì prossimo l’orologio della crisi. Dopodiché, ha fatto capire, senza una soluzione solida e credibile il ricorso alle urne sarà inevitabile.

Dunque, se ci sarà un nuovo governo lo sapremo con certezza soltanto il giorno del giuramento al Quirinale. E forse neppure allora.

Ex Ilva, ora il Quirinale chiede un altro Cdm

Il decreto per salvare l’ex Ilva di Taranto e le altre imprese in crisi c’è. O almeno ci sono le famose intese tra i vari ministeri coinvolti, inviate a Palazzo Chigi pochi giorni il consiglio dei Ministri che ha approvato – appunto “salvo intese” – il decreto Imprese. Per il Quirinale, però, non basta: serve, come spiegato ieri dal Sole 24 Ore, un passaggio formale in un ulteriore Cdm che cristallizzi il testo.

Sulla carta una pura formalità, ma nella realtà rischia di trasformarsi in un problema ben più grande: senza questo passaggio, a pagare la crisi sarebbero i lavoratori dello stabilimento tarantino e delle altre sedi gestite da ArcelorMittal. L’azienda, infatti, ha chiaramente avvertito il governo tempo addietro che senza immunità è pronta a lasciare Taranto. Ma non solo. In attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del dl Imprese ci sono anche i rider e i lavoratori di Whirlpool e Blutec.

Intanto sulla questione immunità penale a Taranto, che il dl Imprese dovrebbe ripristinare in modo ridimensionato e vincolato al piano di risanamento ambientale dell’acciaieria di Taranto, si apre un nuovo pasticcio. Come svelato dal Nuovo Quotidiano di Puglia, in vista della discussione dinanzi alla Consulta del ricorso del gip Benedetto Ruberto sulla legittimità costituzionale dello scudo penale ai vertici della società, il governo ha chiesto tramite l’Avvocatura dello Stato il 14 maggio scorso, che i giudici delle leggi rimettano gli atti al gip di Taranto affinché si esprima sul decreto Crescita, il provvedimento che risale ad aprile scorso e che conteneva la cancellazione dell’immunità a partire dal prossimo mese di settembre.

Una richiesta che, tuttavia, oggi appare evidentemente superata proprio dal dl Imprese che ripristina invece il salvacondotto – seppur parziale – per l’azienda. Il prossimo 9 ottobre, la Corte costituzionale dovrà esprimersi sulla vicenda per stabilire se come sostiene il gip di Taranto “quelle norme che hanno autorizzato lo stabilimento a proseguire, nonostante le deficienze impiantistiche, ben oltre l’originario termine di 36 mesi” non abbiano clamorosamente violato i precetti costituzionali. Una decisione che arriverà tra due mesi quando la situazione sarà nuovamente mutata.

Guida al toto-premier: il candidato di Greta, la donna, l’esiliato ecc.

Il nome, Sergio Mattarella al prossimo giro vuole il nome. E, s’intende, quello del prossimo presidente del Consiglio nel caso grillini e pidini andassero avanti nella formazione di un governo. Ora, non sappiamo se gli interessati hanno un nome, però – se proprio ha fretta – il capo dello Stato può guardare sui giornali e avrà l’imbarazzo della scelta. Sarà perché è agosto, ma il modello sembra un po’ quello del calciomercato: cento nomi, poi se sarà uno di questi sarà a maggior gloria del giornalismo di qualità.

Al borsino degli scambi, ad esempio, va molto Enrico Giovannini. Il suo agente è la famosa Greta Thunberg, la quale però pretende un contratto almeno triennale, definito nei programmi e scritto su carta riciclabile: professore di Statistica, ex presidente dell’Istat, ex ministro del Lavoro, Giovannini è tra i fondatori dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile e, soprattutto, ha accompagnato la giovane ambientalista svedese nel suo tour romano.

Se non è perfetto, poco ci manca e quel poco, se così si può dire, è il genere sessuale. C’è infatti voglia di una donna a Palazzo Chigi e procuratori e intermediari sui giornali ne offrono di ogni tipo: si parla molto di Marta Cartabia, che ha ancora un anno di contratto con la Corte costituzionale, ma potrebbe lasciare la squadra in anticipo se al Quirinale glielo chiedessero. È disponibile anche per un lavoro semestrale: a quel punto bisognerà, però, trattare sui bonus.

Accanto alla giurista, sempre in quota “rosa”, va forte il nome di Paola Severino, ex Guardasigilli con Monti, legale di grido, ottimi rapporti con quel che resta dei poteri italiani, Confindustria in testa: anche lei offre il vantaggio di poter essere contrattualizzata per brevi periodi.

Deve avere un ottimo agente, perché finisce in tutti i pezzi di calciomercato, pure quello per il commissario europeo, la diplomatica Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina.

Il Mino Raiola della politica italiana, vale a dire Matteo Renzi, com’è noto spinge invece per portare a Palazzo Chigi Raffaele Cantone col ruolo di frontman e badante della compagine giallo-rosé: il magistrato, svincolatosi da poco dall’Autorità Anticorruzione, dovrebbe tornare alla toga, ma non è chiaro in quale squadra e si sta guardando intorno per vedere cosa offre il mercato.

Di tutt’altro profilo è un altro candidato giornalistico alla guida di un prossimo esecutivo. Sabino Cassese, principe degli amministrativisti e voce ascoltatissima da quella maionese scaduta che è l’establishment italiano: già giudice della Consulta e ministro con Ciampi, sembrava aver lasciato il calcio giocato limitandosi al ruolo di commentatore, ma farebbe uno sforzo per tempi brevissimi se richiamato dal presidente della squadra.

Sono mille e più di mille i nomi finiti nelle pagine del calciomercato: i costituzionalisti Valerio Onida e Giovanni Maria Flick, il grillino Roberto Fico (che è un po’ l’Icardi della politica, visto che il suo eventuale trasferimento innescherebbe un interessante giro di poltrone a partire da quella più alta di Montecitorio), pure l’ex premier del Pd Enrico Letta è finito tra i papabili (oggi, peraltro, è bloccato a Parigi come il brasiliano Neymar). L’ultimo nome è Franco Bernabè: banchiere, ex Telecom ed Eni, manager della cultura, membro del Bilderberg, prodiano ma anche ospite di Casaleggio a #Sum. Una pazzia tipo De Rossi al Boca.

Il sogno degli esperti della materia però, che si cita solo con riferimenti indiretti e per sancirne l’inarrivabilità (modello Messi), è un altro: il governatore della Bce e signore dello spread Mario Draghi, in scadenza di contratto a novembre, che però ha già fatto sapere di avere più allettanti offerte dall’estero. Per il ritorno in Italia, semmai, aspetterà il 2022, quando partirà il mercato del Quirinale. Nell’attesa, volendo, c’è il suo sosia per le feste private: Carlo Cottarelli, che non si affida neanche a un agente e cura da solo il suo mercato. Interessante novità.

Il grillino puberale e lo psicorenzista

La giravoltadi Renzi nei confronti dei grillini è di quelle difficili da raccontare. Se non si vuole – e per carità, non si vuole – ricorrere alle pure ragioni d’interesse serve un fior d’intellettuale a spiegarla. E chi meglio dell’uomo che ha chiarito la forza del renzismo con la psicobanalisi (copyright: Crozza)? Infatti ieri su Repubblica c’era un imperdibile Massimo Recalcati dal titolo “Se i 5S escono dalla pubertà”. Dice: “In questo scenario non può non colpire la metamorfosi comportamentale e psicologica in atto nel M5S”. Dice: “Postura decisamente inusuale”. Dice: “I suoi parlamentari non sono più gli antagonisti irriducibili delle istituzioni ontologicamente marce nel nome del popolo, ma si trovano a farsi strenui difensori di quelle istituzioni aggredite” (da Salvini). Dice: “In gioco per il M5S è quello che accade sempre nel passaggio psicologico tra la pubertà e l’età adulta”. Che cambiamento straordinario, se non fosse per quel Di Maio, che “psicologicamente si è rivelato totalmente imprigionato nel fantasma puberale” (pure nella psicobanalisi qualcuno a cui dare la colpa se ’sto governo non si fa bisogna lasciarselo…). Comunque, tolto Di Maio tutto bene. Dal che si desume anche che visione abbia di una vita sana il buon Recalcati: a vent’anni populista, a venticinque gialloverde, a trenta renziano.

Ocean Viking, Malta accetta lo sbarco dei 356 naufraghi

Per la Ocean Viking, con i suoi 356 naufraghi a bordo, dopo due settimane lo stallo è finalmente terminato: Malta ha autorizzato lo sbarco. Lo ha annunciato ieri il premier Joseph Muscat: “Malta trasferirà le persone a bordo della Ocean Viking su unità navali delle forze armate maltesi, al di fuori delle acque territoriali, e le condurrà a terra. Tutti i migranti saranno ricollocati in altri Stati membri: Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo e Romania. Nessuno rimarrà a Malta”.

La Francia ha dichiarato di voler accogliere 150 dei 256 naufraghi soccorsi dalla nave delle Ong Sos Mediterranée e Medici senza frontiere. Il commissario agli Affari interni dell’Ue, Dimitris Avramopoulos ha commentato: “Lodo Malta e il premier Jospeh Muscat per la solidarietà e l’approccio europeo. Grazie a Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo e Romania. Questi impegni devono essere onorati rapidamente”. E Salvini corre a metterci su il cappello: “Come promesso, non abbiamo dato nessun permesso allo sbarco in Italia della Ocean Viking” e “non verrà in un porto italiano. Detto fatto, come promesso”.

Nel frattempo a Lampedusa arrivano 14 migranti – molto probabilmente tunisini – su un barchino. E approda anche la nave militare spagnola Audaz: imbarcherà 15 dei 163 naufraghi sbarcati dalla Open Arms. Dal porto di Licata è invece partita la nave Mare Jonio, gestita dalla ong Mediterranea Saving Humans. E Salvini torna a commentare: “Dopo due mesi di sequestro torna incredibilmente in acqua la nave dei centri sociali, con l’ex animatore dell’osteria ‘Allo sbirro morto’ (il riferimento è a Luca Casarini, capo missione della Ong, ndr) e compagni! Spero che nessuno pensi a un governo dei porti aperti… Mai col Pd!”. I volontari della Mediterranea inviano invece un messaggio all’Ue: “Eu stop hiding behind Salvini”, “Unione europea basta nascondersi dietro Salvini”. Scritta apparsa ieri sulla vela della barca d’appoggio alla Mare Jonio che da ieri è tornata a navigare per fornire i propri soccorsi. E le cifre dicono che di soccorsi c’è bisogno.

Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, dall’inizio del 2019, in mare sono morti ben 859 migranti, pari al 55 per cento dei 1.558 morti, nello stesso periodo, durante il 2018. Il flusso degli ingressi in Europa via mare è diminuito del 30 per cento: dal primo gennaio al 22 agosto sono giunte in Europa 45.505 persone, rispetto alle 64.836 registrate, nello stesso periodo, durante il 2018. Il record di arrivi spetta alla Grecia (23.193), seguita dalla Spagna (23.193) mentre l’Italia è a quota 4.664.

Gronda, l’alternativa fa spendere 2 miliardi in meno di pedaggi

Analisi costi-benefici, questa sconosciuta. Nonostante sia da alcuni mesi al centro del dibattito politico e abbia probabilmente avuto un qualche ruolo nella caduta dell’esecutivo, la finalità precipua del ricorso a questa metodologia di valutazione degli investimenti e, più in generale, delle politiche pubbliche, sembra rimanere sconosciuta o, più probabilmente, essere considerata non rilevante quando non fastidiosa per il merito delle decisioni da assumere. Ne è prova, da ultimo, la recente pubblicazione della valutazione della Gronda autostradale di Genova. La notizia, veicolata da quasi tutti i mezzi di informazione, è che l’analisi costi-benefici ha bocciato – con o senza virgolette – il progetto. Non è così come si può agevolmente comprendere dalla lettura del documento.

Il progetto di Autostrade supera con buon margine l’esame. A seconda della entità della crescita dei flussi di traffico nei prossimi decenni, i benefici risultano compresi in un intervallo compreso tra 1,5 e 2,2 volte i costi. Si tratta dunque, nel complesso, di un buon progetto. Nulla a che vedere con la Torino-Lione o il Terzo Valico: per il collegamento internazionale, i benefici attesi sono pari a meno di un decimo dei costi ancora da sostenere: 800 milioni contro 11 miliardi. Nel caso della Gronda il costo (attualizzato) risulta pari a circa 3,8 miliardi mentre i benefici variano tra un minimo di 5,8 e un massimo di 8,4 miliardi di euro. Un risultato perfino più positivo di quello ipotizzato dal concessionario. E che smentisce alla radice la nozione secondo la quale sottoporre a valutazione un qualsiasi progetto equivarrebbe automaticamente a decretarne la non fattibilità.

Perché, dunque, il ministero dei Trasporti ha ritenuto opportuno un “supplemento di indagine” per il progetto? I fautori della realizzazione dell’opera come attualmente configurata paventano il rischio di un sotterfugio per non fare nulla. È un rischio reale anche in considerazione del lunghissimo periodo di gestazione dell’opera. Ed è importante sottolineare che il solo posticipare la realizzazione di un buon investimento rappresenta di per se stesso un costo. Ma, volendolo fare, è possibile tenersi il bambino buttando solo l’acqua sporca che, nel caso della Gronda, è rappresentata da costi di investimento eccessivi rispetto a quelli ottimali. Non è un caso che ci si trovi in questa condizione.

Al contrario, è scontato che sia così in un assetto che prevede la remunerazione del costruttore in proporzione a quanto investito e non, come accade in un ambito di mercato, ai benefici per i consumatori. Più spendi e più guadagni: piace a tutti vincere facile.

Dall’analisi condotta è emerso che esistono soluzioni alternative le quali, contribuendo in misura pressoché identica al progetto attuale alla riduzione della congestione stradale del nodo di Genova, comportano l’impiego di risorse molto più limitate. Quale azienda privata non sceglierebbe un investimento che porterebbe agli stessi ricavi di un altro che costa il doppio? Nessuna, ovviamente. Se questo non si verifica nel caso di investimenti in infrastrutture è perché, a differenza di quanto accade in un mercato concorrenziale, gli interessi di produttori e consumatori sono divergenti. La costi-benefici tutela gli interessi dei contribuenti e dei consumatori: nel caso della Gronda optare per un progetto più efficiente equivale a far pagare quasi due miliardi in meno di pedaggi agli automobilisti.

* Professore all’Università
di Torino, esperto di trasporti. Ha curato anche l’analisi costi-benefici del Tav

Retata nei call center: “Lavoratori schiavi come nel primo 900”

Trattati come schiavi, umiliati e vessati per 3,78 euro l’ora, costretti a firmare le dimissioni in bianco e subire in silenzio le minacce di una superiore che impartiva loro precise direttive, altrimenti li cacciava. Le condizioni di lavoro dei 128 dipendenti di due call center di Cagliari erano paragonabili a quelle che si vivevano in alcune aziende in Europa nei primi del 900. Lo hanno scoperto i funzionari dell’Ispettorato del lavoro di Cagliari e Oristano effettuando un dettagliato accertamento nei confronti di due società che operavano per conto di una importante società nazionale fornitrice di energia elettrica, completamente estranea alla vicenda. Le indagini sono partite a seguito di alcune segnalazioni anonime fatte da ex dipendenti licenziati. Le verifiche non sono state per nulla facili: le due società, infatti, cambiavano costantemente sede, scegliendo ciclicamente nuovi appartamenti a Cagliari in cui far lavorare i dipendenti, quasi tutti sotto i 30 anni. Racconti dettagliati che hanno aperto uno scenario degno dello schiavismo. In attesa di sviluppi penali, per le due società sono scattate multe per quasi 110 mila euro, oltre all’obbligo di versare all’Inps circa 500 mila euro di contributi mai versati.