Meglio il golf delle periferie. Mezzo milione al club privato

Dici “Sport e periferie” e pensi a campetti di provincia, scuole, palestre. Il nome, semplice ma evocativo, ideato qualche anno fa dalla premiata coppia Renzi-Malagò per il grande piano Pd per lo sport, rimanda all’attività di base e al sociale. A tutto, fuorché un ricco circolo privato della Capitale, da quasi 4 mila euro l’anno a quota, presieduto da un noto dirigente vicino alla sinistra, dove brillanti professionisti e soci benestanti giocano a golf nel tempo libero. Eppure è (anche) qui che finiranno i soldi pubblici per “le aree più disagiate delle città” (così diceva il programma).

Sullo “sport” niente da dire. Quanto alla “periferia”, in effetti ci troviamo a una trentina di chilometri dal centro della Capitale, ma non proprio quella degradata di cui parlava il piano. Immersa nel verde di Roma nord, toponimo che è più uno status sociale che un quartiere fisico, l’Olgiata è teatro di romanzi sulla borghesia italiana (ad esempio la trilogia di Alessandro Piperno) e spensierate gite domenicali. È qui che sorge il rinomato Golf club, che ospiterà il prossimo Open d’Italia, più importante torneo del Paese. Grazie anche a mezzo milione dello Stato.

Il finanziamento è curioso. Si trova fra le pieghe di un decreto della Presidenza del Consiglio, scritto in fitto burocratese e senza nemmeno la menzione del circolo, che individua i 245 interventi del secondo ciclo di Sport e periferie (firmato dal governo gialloverde ma risalente al precedente). Parliamo del piano per l’impiantistica da centinaia di milioni lanciato dall’ex premier Renzi e affidato al Coni. Già il primo bando aveva dato esiti contrastanti, come rivelato da un’inchiesta del Fatto quotidiano: tanti soldi stanziati ma pochi spesi (appena l’8%), consulenze, tipologia di lavori indecifrabile. Tanto che il sottosegretario Giorgetti ha deciso di toglierlo al Coni, per riportarlo a Palazzo Chigi.

Un punto fermo almeno sembrava esserci: soldi pubblici per interventi pubblici. Ed in effetti i lavori su strutture di proprietà privata si contano sulle dita di una mano: 5 su 245. In teoria i criteri fissati dal Coni dovrebbero penalizzarli, ma in qualche modo l’Olgiata grazie a una piccola quota di cofinanziamento (140 su 700 mila totali) e valutazioni alte è riuscito a entrare. I soldi serviranno per tutti i lavori di manutenzione sul campo, non sono quelli straordinari per l’Open ma anche “quelli normalmente eseguiti ogni anno a carico della spesa corrente del circolo”. Ironia della sorte, la convenzione è con Sport e salute, società governativa nata al posto di Coni servizi per destinare più fondi al sociale. Non ai soci dell’Olgiata.

Per il circolo, che non se la passa benissimo, è una manna dal cielo: in documenti interni, il presidente Giovanni Sernicola (un tempo alla guida del centro studi Nens fondato da Bersani e Visco, di cui è stato anche capo segreteria al Mef) spiega che il finanziamento pubblico è stato contabilizzato “come entrata straordinaria 2018”, per non chiudere in rosso il bilancio e “evitare un pesante ripianamento a carico dei soci” (ora però ci sono ripercussioni sulla cassa). Praticamente con i soldi dello Stato gli iscritti hanno aggiustato campo e conti senza aprire il portafoglio. Un bel regalo, specie in vista del prossimo Open d’Italia a ottobre. L’Olgiata avrebbe dovuto ospitarlo già nel 2017, ma il torneo era stato dirottato a Milano, proprio per mancanza di fondi. Organizzare l’Open costa, specie da quando l’Italia si è aggiudicata la Ryder Cup, con montepremi triplicato (ovviamente con soldi pubblici) e standard più alti. Problema risolto.

La passione del governo per il golf, del resto, è cosa nota. Ai tempi di Renzi e Lotti il Pd aveva “nascosto” in manovra 60 milioni per la Ryder Cup 2022. Adesso è la volta di Sport e periferie. Nel bando c’è anche un altro milione per il campo a Sutri della FederGolf (privato sui generis, in questo caso il contributo è coerente: per le Federazioni c’è un cluster apposito). Oltre a mezzo milione per l’Olgiata. In fondo, meglio il golf delle periferie.

De Vito, l’accusa si sgonfia: “Solo congetture”

L’accusa che l’ha portato prima in carcere e poi ai domiciliari è quella di corruzione: Marcello De Vito, ex presidente dell’assemblea capitolina (M5S), secondo la procura di Roma, avrebbe ricevuto diverse “utilità” dall’imprenditore Luca Parnasi, interessato alla costruzione del nuovo stadio della Roma, “in funzione dell’appoggio nell’iter amministrativo” e della “approvazione del progetto” che risultava “ostacolato” dai “limiti di cubatura di una precedente delibera comunale”.

Già l’11 luglio scorso la Cassazione, pronunciandosi sul suo arresto, aveva inferto un colpo all’accusa, stabilendo che il provvedimento cautelare per De Vito dovesse essere nuovamente esaminato dal tribunale del Riesame. Ma le motivazioni rese note ieri paiono una vera e propria bocciatura delle motivazioni che hanno portato all’arresto.

La sesta sezione penale della Cassazione – Presidente Pierluigi Di Stefano, giudice estensore Andrea Tronci – ha ravvisato “plurime ed evidenti censure sul piano della linearità logica e del vizio di motivazione”. Vediamo perché.

Secondo l’accusa le dichiarazioni di Parnasi sui punti chiave dell’inchiesta – “gli interventi compiuti da De Vito”, le “utilità conseguite attraverso incarichi professionali allo studio legale di Camillo Mezzacapo” e il “successivo riversamento del denaro” a una società riconducibile agli stessi De Vito e Mezzacapo – rappresenterebbero “un solido elemento indiziario… ampiamente riscontrato dall’indagine”. La Cassazione sostiene il contrario: “Il valore confessorio dell’esistenza di un patto corruttivo” non rispecchia “il tenore” delle dichiarazioni rese da Parnasi “potendo pertando riconnettersi solo a una operazione interpretativa”. Anche l’assunto delle utilità conseguite da De Vito attraverso gli incarichi fittizi assegnati da Parnasi all’ufficio legale di Mezzacapo, secondo la Cassazione, si “basa su enunciati contraddittori”: non sembrano fittizi, secondo la Cassazione, incarichi sui quali Mezzacapo e Parnasi si scambiavano “un nutrito numero di sms” per informarsi sulla “evoluzione della vicenda”.

La Suprema Corte passa poi all’atto contrario ai doveri d’ufficio che l’accusa contesta a De Vito, ovvero “l’aver presieduto l’assemblea, il 14 giugno 2017, esprimendo il proprio voto favorevole all’approvazione del progetto e alle connesse varianti del piano regolatore generale”. E anche in questo caso la bocciatura è radicale: “L’assunto risulta gravemente insufficiente sul piano della motivazione”. E non soltanto per i motivi finora elencati. Al di là del lungo iter amministrativo, intrapreso dalla giunta Marino e proseguito dal quella Raggi, manca “qualsiasi indice probatorio dell’inopinato mutamento di linea da parte della maggioranza consiliare e di un’attività, da parte di De Vito, volto a modificare, in senso più confacente agli interessi del privato, il già palesato favore della maggioranza comunale”. E così rispedisce gli atti al tribunale del Riesame affinché rivaluti la misura cautelare nei riguiardi di De Vito e Mezzacapo.

Crisi di governo, a rischio i lavoratori del porto di Cagliari

I lavoratori del Porto Canale di Cagliari dal primo settembre potrebbero trovarsi senza lavoro. La procedura di licenziamento annunciata dalla società concessionaria dello scalo sardo, che intende cessare l’attività entro il 31 agosto, è una minaccia sempre più concreta per i 210 dipendenti, dato che al momento non c’è nessun riscontro da parte dell’azienda alle proposte dei sindacati, che chiedono – in attesa di un piano di rilancio – almeno la cassa integrazione a 12 mesi. Era questo anche il programma stabilito nell’ultima riunione al Mise, datata 31 luglio, mentre sul fronte della Presidenza del Consiglio si sarebbe dovuta cercare la mediazione capace di superare i veti contrapposti fra diversi dicasteri per sbrogliare la matassa delle autorizzazioni ambientali che bloccano una parte dei possibili investimenti sull’area del Porto Canale. Ora la crisi di governo non fa che complicare le cose. Per questo l’assemblea dei lavoratori ha deliberato il presidio permanente del porto, per richiamare l’attenzione su una vertenza non solo sarda, ma con risvolti sulla competitività dell’intero Paese. “I tempi stringono, il Mise deve convocare il tavolo perché la priorità è la difesa dei posti di lavoro”.

Salviamo il cetriolo di mare dai cinesi (e dalle mafie)

Un disastro ambientale per saziare gli appetiti della Cina. E anche di alcune organizzazioni criminali. È il rischio corso in diverse zone italiane a causa del business delle oloturie, specie più nota come “cetrioli di mare”: un prodotto raccolto in modo selvaggio nei nostri mari per essere esportato in alcuni paesi asiatici dove è considerato una delizia culinaria, che in alcuni casi può arrivare a costare fino a 3 mila dollari al chilogrammo, e utilizzato anche per usi medicinali e nel settore della cosmesi.

Una miniera d’oro, insomma. Un affare da milioni di euro che ha chiaramente attirato anche l’interesse di alcune organizzazioni criminali. A raccontarlo sono diverse inchieste giudiziarie. Come quella aperta a Taranto, coordinata dal pubblico ministero Mariano Buccoliero, che ha permesso di stroncare un traffico di tonnellate di oloturie che ogni anno viaggiavano verso Honk Kong: le indagini della Polizia e della Guardia di finanza hanno svelato come solo tra gennaio e luglio 2015, oltre 350 tonnellate di prodotti sono giunti in Cina per un controvalore di 2 milione e 500 mila euro. Sotto chiave erano finiti due laboratori realizzati nel tarantino e l’iscrizione nel registro degli indagati di ben 14 persone: il pm Buccoliero ha contestato ad alcuni l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale. Già perché razziare i cetrioli di mare può causare “danni irreversibili” all’ecosistema marino: l’oloturia, infatti, come ha spiegato una relazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche, svolge un ruolo fondamentale come “biorimediatori naturali” cioè organismi “capaci di fornire un servizio di depurazione degli inquinanti batterici presenti nell’ambiente marino”.

Le conseguenze della pesca indiscriminata, come l’estinzione o la diminuzione di una o più specie di oloturie in una zona, può quindi portare a conseguenze drammatiche per la flora e la fauna acquatica. Nelle carte dell’inchiesta il fenomeno è definito di dimensioni “mastodontiche” ed “esorbitanti” e non riguarda solo le acque del tarantino. Anzi. L’inchiesta ha dimostrato che i pescatori di oloturie negli ultimi mesi delle indagini si erano progressivamente trasferiti “verso il confine con la provincia di Lecce”: un dato che secondo i magistrati è “chiaramente indicativo di un concreto depauperamento dei fondali e tale da far ritenere verosimile l’ipotesi che la pesca delle oloturie effettuata con le modalità accertate dalle indagini stia portando all’estinzione della specie nei fondali marini ionici”. Un saccheggio che viaggia quindi lungo le coste.

A Lecce un’altra inchiesta condotta dal pm Elsa Valeria Mignone ha portato al sequestro di 11 tonnellate di oloturie e al fermo di ben 7 pescherecci. Ma la cronaca quotidiana racconta di sequestri frequenti anche fuori dal territorio pugliese: come a Cagliari dove sono state recuperati 5.000 cetrioli di mare in fase di essiccazione, 150 confezioni pronte al commercio e circa 600 oloturie ancora vive. Nell’ultimo anno alcuni sequestri sono stati disposti nel Palermitano e anche nel Golfo degli Aranci in Sardegna.

Inoltre, come rivelato dal sito Veraleaks.org, nel mirino dei pescatori sono finite anche altre specie come i cavallucci marini: il sito ha infatti pubblicato immagini di oloturie e cavallucci marini confezionati e venduti in Cina con tanto di richiamo al “Made in Italy”.

Il primo argine al “sacco” di oloturie è giunto dopo l’inchiesta tarantina: nell’aprile 2018, infatti, il ministero dell’Ambiente ha emanato un decreto che vieta di “pescare, detenere a bordo, trasbordare” o anche semplice “sbarcare esemplari di oloturie”, ma solo “fino a dicembre 2019”. Dal 2020, quindi, se il ministero non dovesse prorogare il divieto, la pesca di oloturie potrà riprendere senza rischi. E l’annunciato disastro ambientale sarà a norma di legge.

“A rischio anche il cavalluccio marino”

“Non ci sono solo le oloturie: infatti, anche i cavallucci marini sono vittime di questa razzia”. Così Michele Gristina, ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Dottor Gristina, partiamo dalla fine: che danni provocano questi traffici all’ambiente marino?

Gli effetti di una riduzione delle popolazioni di una specie come le oloturie sono difficilmente calcolabili, ma indagini condotte dai colleghi del Cnr di Taranto hanno dimostrato che le oloturie hanno un effetto “facilitatore” nell’insediamento delle piante acquatiche come la Posidonia oceanica e la Cymodocea nodosa che danno vita a foreste marine di fondamentale importanza nei processi che regolano gli ecosistemi costieri. Senza oloturie sarà quindi molto più difficile che creino queste “oasi”.

Perché?

Perché i cetrioli di mare sono organismi “detritivori”, che si nutrono cioè di detriti e ingeriscono sabbia e fango su cui vivono, trattenendo materiale organico e batteri. Sono, quindi, dei depuratori naturali che trattengono la sostanza organica e eliminano batteri anche potenzialmente patogeni.

È già troppo tardi o siamo ancora in tempo per porre rimedio a questo saccheggio?

I dati sul fenomeno purtroppo sono scarsi e frammentari, ma quasi tutte le regioni meridionali e rivierasche del Paese ne sono interessate. La natura clandestina e illegale stessa del fenomeno rende difficile ottenere un quadro complessivo ed esaustivo. È inoltre preoccupante osservare come negli ultimi anni ci sia stata una inversione delle rotte dei traffici illegali degli animali selvatici. Tradizionalmente America del Nord ed Europa erano in continenti cui erano destinati uccelli, rettili e pesci catturati in paesi tropicali, esotici ed economicamente arretrati. Oggi, probabilmente a causa della crisi economica, in particolare del settore della pesca, la rotta si è invertita favorendo il traffico illegale di specie che, in Italia sono di scarso o nullo valore commerciale, mentre nei mercati asiatici raggiungono prezzi salatissimi.

Come le oloturie…

Ma non solo. Va ricordato che il traffico di oloturie dall’Italia ai mercati orientali ha fatto da traino per la cattura e la commercializzazione di altre specie come quella del cavalluccio marino, specie minacciata secondo la Red List dalla International Union for the Conservation of Nature and Natural Resources. In questo caso nei Paesi orientali viene principalmente utilizzata in diversi preparati della medicina tradizionale cinese e che ha un mercato floridissimo.

Cosa può fare allora lo Stato?

Le forze dell’ordine preposte stanno facendo un lavoro egregio con una intensa attività di prevenzione e di repressione del fenomeno. Ecco, sarebbe opportuno che il decreto ministeriale dell’aprile 2018 che vieta la pesca e la vendita delle oloturie, venga non solo prorogato, ma anche ampliato vietando la pesca, la detenzione e la vendita anche altre specie potenzialmente a rischio.

Avellino, esplosioni nel palazzo vescovile. Tre feriti lievi

Tre forti deflagrazioni in rapida sequenza si sono verificate all’interno del palazzo vescovile di Avellino, in piazza della Libertà. Nell’esplosione sono rimasti feriti un passante, un vigile urbano e il direttore della Caritas diocesana, Carlo Mele, che ha i suoi uffici all’interno dell’edificio in piazza della Libertà. Hanno avuto lievi ustioni. Il boato, avvertito anche a distanza, si è verificato poco dopo le 17. Il responsabile sarebbe un 43enne residente a Forino (Avellino) e originario del Salernitano. L’uomo sarebbe già noto alle forze dell’ordine e si tratterebbe di un frequentatore della mensa dei poveri di Avellino, diretta dalla Caritas. Dopo essere stato fermato da una pattuglia dei vigili urbani, con l’aiuto di alcuni passanti che avevano assistito alla scena, il 43enne è stato inizialmente condotto presso il Comando della Municipale e poi preso in custodia dagli uomini della Questura di Avellino. Ad inchiodare l’attentatore ci sarebbero alcune testimonianze dirette oltre ai filmati delle telecamere di sorveglianza presenti davanti al Palazzo Vescovile e in piazza Libertà. L’attentato sarebbe il gesto di uno squilibrato, ma gli investigatori stanno verificando se l’uomo avesse avuto qualche contrasto con la Caritas.

Piscitelli. Il silenzio delle istituzioni sui funerali di chi non era solo un tifoso

 

Ma dov’era il ministro dell’Interno, ieri, quando un funerale che doveva essere “privato”, quello del signor Piscitelli, a Roma, si è trasformato nell’ennesima sconfitta per lo Stato di diritto, con tanto di saluti fascisti?

Non sarà che a forza di pensare soltanto all’immigrazione, il Paese sta perdendo la bussola democratica?

Simone Demaria

 

Gentile Simone, la sua non è solo una domanda legittima, ma è “la” domanda che in tanti dovrebbero porsi. Una questione che non va rivolta solo al ministro dell’Interno, ma a diversi organi dello Stato. E probabilmente anche a una buona parte della stampa che, impegnata a raccontare (giustamente) la crisi di governo, ha forse lasciato che questa pessima pagina diventasse quasi un episodio di cronaca esclusivamente locale.

Ecco, penso che innanzitutto vadano focalizzati due punti. Il primo è che questa “trattativa” tra lo Stato e la famiglia di Piscitelli non è da condannare nelle sue intenzioni (l’ordine pubblico è seriamente a rischio nelle occasioni come questa e quindi deve essere tutelato) ma è censurabile per l’estrema flessibilità mostrata nella fase esecutiva. Una flessibilità fortunatamente venuta meno quando la famiglia ha provato a esporre la bara fuori dal carro funebre per una celebrazione. Il secondo punto attiene alla capacità di comprendere che questo non era solo il funerale di un ex leader della tifoseria laziale legata da sempre a una frangia dell’estrema destra, ma di uomo che, secondo quanto emerso da diverse indagini della magistratura, ricopriva un ruolo di primissimo piano nel narcotraffico della Capitale. Un boss. Forse tutto questo è stato sottovalutato, riducendo quell’omaggio pubblico alla solita “bravata” a metà strada tra la nostalgia fascista e la mentalità ultras. La prova è nel silenzio delle istituzioni e dell’intera politica: dopo la pubblicazione degli articoli nessuno è intervenuto sulla vicenda. Viene da chiedersi: cosa sarebbe accaduto se una minima parte di tutto quello che è successo dinanzi al santuario del Divino Amore, fosse accaduto a Corleone? Oppure a Bagheria? O a San Luca in Calabria? Non so dire se il nostro Paese stia perdendo la bussola democratica, ma di certo sta tralasciando alcuni compiti imprescindibili come la legalità e la lotta alle mafie.

Francesco Casula

Mail box

 

Il paradosso di Salvini: Pd e 5S favoriti dal suo suicidio politico

Le condizioni generiche, poste in modo altrettanto generico da Zingaretti per un accordo col M5S, hanno l’aria di essere delle “non condizioni”. Il no al taglio dei parlamentari è inaccettabile e vergognoso. Poi ci sono le faide interne al Pd. E “il cambio nella gestione di flussi migratori”. I dubbi sorgono anche in merito al ruolo di Renzi e alla sostenibilità sposata ora da chi ha votato per il Tav insieme alla Lega ed è favorevole alle ricerche petrolifere. Tutti hanno l’interesse a trovare la quadra, trasformando la crisi innescata da Salvini, in nome dei sondaggi, nel suicidio politico del “capitano”. Difficile trovarne uno simile nella storia repubblicana.

I vantaggi per i contraenti sarebbero enormi. Con l’accordo, il Pd torna al potere ed evita cinque anni di opposizione a un governo di destra a egemonia leghista. Per i 5S sarebbe una manna. Erano stati messi all’angolo, isolati e fagocitati dallo scomodo alleato, che faceva il bello e il cattivo tempo sull’onda di consensi montanti. Continuando si sarebbero consumati lentamente. Se fossero stati loro a rompere, la responsabilità li avrebbe schiacciati. Non sapevano come uscirne, ma, in un sol colpo, Salvini, che ora si affida alla Madonna, potrebbe aver risolto tutti i loro problemi.

Mario Frattarelli

 

Con la crisi si rischia che l’Ue imponga i soliti diktat

La caduta del governo giallo-verde, al di là delle simpatie e delle opinioni politiche di ciascuno di noi, non è da salutare con troppo entusiasmo poiché, in questo momento, non esiste un’alternativa politica valida, tantomeno funzionale agli interessi delle classi lavoratrici. In qualche misura si è replicato il copione delle manovre che nel 2011 fecero cadere il governo Berlusconi, favorendo l’ascesa di Monti a Palazzo Chigi.

Con le conseguenze nefaste che ben sappiamo: su tutte, cito la “riforma Fornero” e otto anni di austerity. Politiche che hanno generato in Italia oltre 5 milioni di poveri assoluti.

La linea perseguita dal governo Monti e dai vari governi targati Pd (soprattutto con Renzi) è stata costellata da una sequela di costrizioni e ricatti dettati dall’alto per imporre nel modo più tassativo controriforme ostili e impopolari. Il solo fatto che il governo giallo-verde non sia stato succube dei diktat di Bruxelles e della Bce è certo da ritenersi un segnale incoraggiante, nella misura in cui si è interrotta la politica decennale e mortifera dell’austerity che ha imperversato negli ultimi tempi. Le peggiori politiche di tipo socio-economico degli ultimi anni sono state realizzate sotto l’egida di quei partiti che, almeno in teoria, si dichiarano “di sinistra”. Credo che i simboli e le etichette formali non contino più delle azioni concrete e dei fatti, in politica come in altre dimensioni della vita sociale. Mi riferisco non solo al Pd di Renzi e Gentiloni, oggi di Zingaretti, ma anche ai governi presieduti da Prodi, appoggiati da Rifondazione ai tempi di Fausto Bertinotti. Purtroppo, si sa che: “La storia insegna, ma non ha scolari”, come ci spiegava Gramsci.

Lucio Garofalo

 

Dispersione scolastica, un problema da affrontare

Il nostro sistema scolastico continua a perdere tanti alunni. Dei nuovi iscritti alle scuole superiori 130 mila non prenderanno mai il diploma, mentre solo il 18 per cento riuscirà a conseguire la laurea. Sono numeri allarmanti che ci pongono in una posizione ben lontana rispetto agli standard dell’Unione europea.

Gabriele Salini

 

Trarre beneficio dal diverso, lo facevano i Romani ma noi no

Premesso che viviamo in uno dei Paesi più belli al mondo, interroghiamoci sul perché in un contesto così favorevole dal punto di vista sia climatico che culturale, ci ritroviamo a vivere in una realtà sociale che si sta trasformando in un “incubo”.

Probabilmente abbiamo scartato, con imperdonabile indifferenza, valori culturali che ci hanno resi peculiari nel corso della nostra tormentata storia. Ad esempio la tolleranza nei confronti della diversità, perfino al tempo dell’impero romano. Quando gli antichi romani conquistavano paesi molto diversi tra loro, ne rispettavano la cultura ponendo come unica condizione che si sottomettessero al potere di Roma.

E certamente gli antichi romani non erano dei missionari francescani. In Italia sta venendo meno la capacità di approfittare delle diversità culturali. Il diverso ha solo un valore economico da sfruttare. Siamo stati bombardati da stimoli che hanno fatto leva sulla nostra paura della diversità, che ci è stata rappresentata come una gravissima minaccia.

Così abbiamo perduto di vista un approccio diverso al problema che ci consentirebbe di avvantaggiarci della diversità.

Come? Certamente controllando rigorosamente e sanzionando i comportamenti illeciti (compresi i nostri). Facendo in modo che tutti possano lavorare e vivere dignitosamente nel segno della collaborazione. Questo eviterebbe anche ai nostri figli di essere costretti a emigrare per trovare opportunità di lavoro.

Caterina Bangrazi

La metamorfosi del premier per caso

La metamorfosi di Giuseppe Conte da premier per caso a campione della cultura istituzionale (e costituzionale) è un interessante enigma del nostro tempo. Se ne sono escogitate spiegazioni diverse: un machiavellico accordo dietro le quinte fra M5S e Pd, la voglia di restare a galla a ogni costo, una personale avversione a Salvini, l’asse con Mattarella, o Merkel, o Macron, o Von der Leyen, o altro ancora.

La caratura sostanzialmente impeccabile del suo discorso al Senato ha sorpreso tutti, ma nessuno più di Salvini, prontissimo a coprirsi di ridicolo con una conversione a U spinta fino a rilanciare l’alleanza che aveva appena sepolto; dando per scontato, evidentemente, che Conte dovesse più o meno di buona voglia allinearsi. Ma la metamorfosi di Conte ha un’altra spiegazione, confermata da non pochi indizi. Proiettato a Palazzo Chigi dalla debolezza della coalizione giallo-verde, il premier malgré lui è apparso al principio disorientato, incerto nel definire e giocare il proprio ruolo istituzionale, pronto a mediare a ogni costo pur di tenere insieme il diavolo e l’acqua santa, disposto a chiudere gli occhi su quel che accadeva nel governo e in Parlamento pur di tenere in piedi la coalizione, tributario dei suoi due vice piuttosto che autonomo vertice dell’esecutivo. Eppure, col passare del tempo, Conte ha saputo acquistare sicurezza, costruire su una solida cultura giuridica di fondo una visione del proprio ruolo conforme non a stravaganti “contratti”, ma a Costituzione; e quando Salvini ha preso l’abitudine di dire “il mio governo” non gli ha risposto direttamente, ma ha cominciato a dire “i miei ministri”. Facendo leva sul desolante provincialismo dei suoi vice, ha saputo gradualmente acquistare a Bruxelles lo spazio e la stima che a Roma gli venivano negati. Ha trovato la forza di citare sempre più spesso un articolo della Costituzione che conosceva benissimo sin dal principio, l’art. 95 secondo cui il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile”. Ha frenato l’autonomia regionale d’impronta leghista, anche se fondata su una riforma costituzionale di centrosinistra e su un’intesa firmata da Gentiloni, illustrando le proprie ragioni in una puntuale lettera ai cittadini del Veneto e della Lombardia pubblicata sul Corriere della Sera del 21 luglio.

Agli occhi di molti (come Emma Bonino nel suo intervento al Senato), questi e altri indizi di autonomia di giudizio e senso istituzionale non bastano a spiegare fino in fondo perché tanto spesso, fino a qualche mese fa, egli abbia chinato la testa controfirmando di fatto comportamenti, idee, provvedimenti da cui nel discorso al Senato ha finalmente preso le distanze. Ma una riflessione a freddo è a questo punto necessaria: Conte è stato, è vero, un premier improvvisato, frutto più dell’incapacità di Salvini e Di Maio di accordarsi su chi dovesse andare a Palazzo Chigi che dei suoi meriti personali; ma forse proprio per questo da lui e non da altri è venuta la vera novità di questa crisi, la sua piena parlamentarizzazione. La Costituzione non dice che a presiedere il Consiglio dei ministri debba essere un politico di mestiere, che abbia fatto carriera in un qualche apparato di partito, eppure è stato quasi sempre così. Le pochissime eccezioni (come Ciampi e Monti) riguardano personalità che avevano già ricoperto altissimi ruoli, in Banca d’Italia o nella Commissione europea. Giuseppe Conte è la prima e unica anomalia: la prima volta nella storia della Repubblica in cui un comune cittadino, fino a ieri intento a fare il suo mestiere, per una singolare congiuntura politica si trova proiettato a capo del governo. Senza aspettarselo, senza esservi veramente preparato, senza godere di una fama consolidata, di una fiducia previa.

Questo è dunque l’enigma, ma questa è anche la soluzione: è il Conte cittadino “comune” che, dopo essersi anche troppe volte prestato a un gioco politico troppo più forte di lui, ha finalmente trovato in se stesso (e nella propria cultura giuridica) il coraggio della dignità, la forza del proprio ruolo istituzionale.

Possiamo rimproverargli di non averlo fatto prima. Ma dobbiamo essergli grati di averlo fatto adesso. E dovremmo esser capaci di trarre la morale della favola, nel momento in cui si va a formare un nuovo governo.

Un governo sì, ma buono e senza fretta

Non a qualunque costo, non in qualunque modo. È verissimo: votare ora significherebbe regalare a Salvini un consenso inerziale che ha già cominciato lentamente a perdere e che qualche mese lontano dal Viminale (dove mai sarebbe dovuto arrivare) potrà erodere decisivamente. Ma solo se chi governerà al suo posto lo farà meglio di lui: cioè producendo giustizia sociale. Dunque, non un governo qualsiasi, ma un buon governo.

Il primo requisito sembra incompatibile con la perentoria richiesta di avere un nome e un programma “entro martedì”. La possibile intesa tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico non è, infatti, una soluzione d’emergenza, ma l’unica soluzione possibile, anche dopo le elezioni (l’altra è un governo Salvini). Quindi, non si capisce perché la sua nascita debba esser forzata da levatrici impazienti e dunque necessariamente maldestre. L’accumulo di diffidenza (per essere eufemistici) e propaganda, e le profonde spaccature (di potere) nei due partiti è tale da non potersi sciogliere in poche ore. Né d’altra parte ci si vorrebbe rassegnare a pensare che sia tutta questione di mi piace o non mi piace, come sui social network. Un governo che abbia qualche prospettiva di durata e serietà (quel buon governo che serve a battere Salvini), deve basarsi su un confronto sulle cose, e non sui nomi. La trattativa che ha visto alla fine nascere il governo Conte è durata, comprensibilmente, due mesi: perché questa (anche più difficile) deve compiersi, o la va o la spacca, in meno di una settimana? In Germania la nascita dell’attuale governo Merkel ha richiesto quasi 6 mesi, mentre in Spagna è da 4 mesi che si discute di un esecutivo che probabilmente non partirà. Bisogna dimenticare la funebre retorica del “governo nato nell’urna” (peraltro ormai remota), e darsi un tempo ragionevole. Sappiamo bene che si rischia, così, di dover votare a Natale, e che i tempi della legge finanziaria incombono. Ma dovremmo imparare, una buona volta, a scegliere il male minore: e un governo debole e destinato a cadere presto bruciando l’unica via d’uscita post-elettorale è un male maggiore. Avere più tempo significherebbe forse poter evitare errori fatali. Uno di essi è già apparso all’orizzonte, in queste ore frenetiche: ed è l’idea di un governo costituente. Al taglio dei parlamentari proposto dai Cinque Stelle, il Pd risponde proponendo una più complessiva riforma della Costituzione (monocameralismo e maggioritario, torna a sibilare Renzi nell’audio dal sen fuggito). C’è innanzitutto un grave errore di metodo: durante la campagna del referendum che bocciò la riforma Boschi-Renzi, ripetemmo fino a perdere il fiato (insieme a tutto il Movimento 5 Stelle) che non spetta ai governi cambiare la Costituzione. Anche i muri avevano allora imparato a memoria queste parole di Piero Calamandrei: “Nella preparazione della Costituzione, il governo non deve avere alcuna ingerenza… Nel campo del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa, neanche preparatoria… Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti”. Ebbene, fondare un nuovo governo su un patto costituente sarebbe un errore gravissimo, qualunque sia il contenuto di quel patto. Perché è evidente che Salvini si batte solo in un modo: attuandola, la Costituzione antifascista del 1948, non stravolgendola. Attuandola a partire dall’approvazione dell’unica legge elettorale che ne fa funzionare le garanzie: una proporzionale pura. E poi attuando soprattutto il secondo comma dell’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Più lo si attua, più il consenso a Salvini diminuisce: è sul come farlo che 5 Stelle e Pd dovrebbero confrontarsi. Con ragionevole calma.