Senza l’Ambiente non si fa nessun accordo

 

“Alla televisione avrebbero dovuto parlare solo di quello. Alla radio, sui quotidiani, sulle prime pagine dei giornali. Praticamente non si sarebbe dovuto leggere né sentire altro. Come se ci fosse una guerra mondiale”

(Greta Thunberg)

 

Nella variabilità cromatica della nostra politica contemporanea, consona ormai più al linguaggio calcistico che a quello parlamentare, il verde della Lega potrebbe dunque lasciare il posto al rosso del Pd per abbinarsi con il giallo del Movimento 5 Stelle. “Finalmente, grazie!”, dovremmo dire noi invece di Matteo Salvini che ha rotto un accoppiamento contronatura dopo averlo promosso e consumato. Eppure, riferimenti politici a parte, proprio quel colore sarebbe in grado di dare un’identità e un’anima a un’eventuale coalizione giallo-rossa, se i due partner principali lasciassero prevalere le ragioni che li accomunano rispetto a quelle che li dividono come in ogni matrimonio che non si voglia trasformare in un divorzio.

È il verde dell’ambientalismo infatti il collante più forte che può unire i due ex nemici, i “pidioti” e i “grullini”, in nome della lotta al cambiamento climatico e della sopravvivenza del genere umano, mentre brucia un altro pezzo della foresta amazzonica. Un paradigma di governo che travalica, oltre agli insulti o ai contrasti del passato, anche la querelle sulla riduzione del numero dei parlamentari e l’ignominia dei cosiddetti “decreti sicurezza”. Questa, come ha avvertito nei giorni scorsi Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente e alfiere dell’ala ambientalista del Partito democratico, “è l’occasione per fare un governo verde non solo a chiacchiere”.

La retorica ecologista ha già recitato troppe litanie e troppe giaculatorie, offrendo spesso un alibi anche allo sfruttamento commerciale dell’ambientalismo: dai negozi “verdi” agli alimenti biologici fino al risparmio sul cambio della biancheria negli alberghi. A cominciare dal riscaldamento globale, questa è una questione unificante nel segno della quale vale la pena costituire una “santa alleanza” per combattere insieme una “guerra santa”. E non è evidentemente una base su cui si possa replicare un contratto di governo con la Lega sovranista di Salvini.

Certo, rispetto alla dimensione planetaria dell’emergenza climatica, permangono varie diatribe minori – dal Tap al Tav – che non agevolano un’intesa fra il M5S e il Pd. Ma in questi 14 mesi, anche i grillini hanno sperimentato sulla propria pelle che un conto è stare all’opposizione e un altro conto è governare. Lo stesso “pasdaran” Alessandro Di Battista ha dovuto chiedere scusa agli elettori salentini per il via libera al gasdotto trans-adriatico che sbarcherà in Puglia e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, forte dell’investitura politica pentastellata, è riuscito abilmente a individuare una soluzione “tecnica” per la controversa linea ferroviaria Torino-Lione, accreditando la tesi che ormai è più costoso interrompere i lavori che completarli. E comunque, è necessario assumere l’impegno formale di bloccare contestualmente il transito di auto e Tir, per abbattere l’inquinamento atmosferico.

Sì, “la nostra casa è in fiamme”, come ammonisce la sedicenne svedese Greta Thunberg, diventata eroina e icona dell’ambientalismo internazionale. E bisogna preoccuparsi di spegnere l’incendio, prima ancora di congelare l’Iva, di approvare la manovra economica e la nuova legge di Bilancio, di discutere sui tre o cinque “punti irrinunciabili” di Nicola Zingaretti o sui dieci di Luigi Di Maio. Il governo di svolta, ammesso che si voglia farlo sul serio, può cominciare solo da qui.

La Buba non ama le politiche espansive, però ha l’arma segreta

Come, eufemizzando, non è stato forse detto abbastanza, la Germania non è la locomotiva d’Europa. Potrebbe esserlo, certo, ma preferisce viaggiare a motori spenti come ultimo vagone del treno mondiale: ora che il convoglio s’è fermato, rischia seriamente di staccarsi e cominciare a viaggiare all’indietro. Fuor di metafora, l’economia tedesca – e non certo da sola – sente arrivare una discreta tranvata e tutti, nelle settimane scorse, s’erano convinti che i tedeschi avrebbero dato energia al loro motore, cioè avrebbero abbandonato il feticcio del surplus (di bilancio pubblico e di bilancia commerciale con l’estero) per dare una decisa spinta alla loro crescita aiutando i cittadini tedeschi e pure le molte economie con loro interconnesse. Questo, peraltro, chiedono a Berlino ormai da anni la Commissione Ue, la Bce, il Fmi e molte altre primarie istituzioni, tra cui la Casa Bianca, che qualcosa pesa. Giovedì, però, l’agenzia finanziaria Bloomberg ha diffuso il parere della Bundesbank: non c’è necessità di uno stimolo fiscale, sostiene la Banca centrale tedesca, anche se è probabile una nuova contrazione dell’economia in questo trimestre (tecnicamente, la Germania entrerebbe in recessione). E vabbè, se dicono che non serve non serve e comunque l’eroico popolo tedesco, come nel 1944, può stare tranquillo: la Bundesbank ha quasi pronta un’arma segreta per ribaltare l’esito della guerra (commerciale). Dicono si chiami V7, una cosa tipo un minibot rotondo, che vola e lancia pure i razzi laser contro i dazi. Cosa potrebbe andar male?

La Cina aumenta i dazi. Il G7 inizia già stremato

Se il G7 fosse davvero lo strumento principe della governance mondiale, il vertice da oggi a lunedì, a Biarritz, in Francia, sarebbe un incontro al calore bianco: la guerra dei dazi riesplosa tra Cina e Stati Uniti, con le Borse in calo ovunque e i contraccolpi sugli altri fronti di conflitto commerciale, con un possibile declino della crescita globale; i rischi per la sicurezza insiti nelle scelte degli Usa sulle armi nucleari; e l’apertura alla Russia per un ritorno fra i Grandi nel 2020, quando il vertice sarà gestito da Donald Trump prima delle elezioni presidenziali. Ma il G7 è un formato da tempo inadeguato ad assicurare la governance mondiale (non che il G20 suo succedaneo abbia fatto meglio). L’ultima arma di distrazione di massa è l’eco-catastrofe dell’Amazzonia.

Alla vigilia, la Cina ha annunciato che imporrà nuovi dazi su 75 miliardi di dollari di beni made in Usa: è la risposta di Pechino ai dazi americani operativi dal 1° settembre sull’import cinese. C’era chi s’illudeva che il recente slittamento al 15 dicembre di alcuni dazi Usa potesse evitare contromosse cinesi. Ma Pechino ha invece reagito, forse irritata dal carattere altalenante delle prese di posizione di Trump, ora concilianti, ora aggressive, oltreché dalle asserite ingerenze di Washington sulle vicende di Hong Kong. A parole l’Amministrazione Trump fa spallucce. Il presidente twitta: “Non ci serve la Cina”; e annuncia una replica. “Il nostro Paese – dice – ha stupidamente perso miliardi di dollari con la Cina negli scorsi anni. Ci hanno rubato proprietà intellettuale. Non consentirò che accada ancora”. E Peter Navarro, il consigliere di Trump per le politiche commerciali, dice che i dazi cinesi non rallenteranno l’economia Usa, che “non avranno un impatto a livello macro”. Un freno alla crescita e una recessione sono incubi presidenziali in vista di Usa 2020. I nuovi dazi cinesi varieranno dal 5 al 10% e toccheranno 5078 beni Usa, dicono fonti di Pechino. Che vanno ad aggiungersi al 25% sull’import di auto e al 5% sulle componenti di auto, che erano stati sospesi in aprile, per favorire il dialogo, ma che saranno efficaci dal 15 dicembre. Di recente, Pechino ha rinnovato l’invito a Washington per “ritrovarsi a metà strada” ed evitare una nuova escalation delle tensioni commerciali, che possono avere riflessi sull’economia globale dove già s’affaccia il rischio recessione. Ma le intemperanze di Trump hanno minato il consenso raggiunto a due riprese col presidente cinese Xi Jinping.

I negoziati vanno avanti, ma in un clima deteriorato. Il tema irrompe sul tavolo del G7, anche se non è chiaro quanto i Grandi avranno modo e tempo per discuterne. Il tema generale scelto dalla presidenza francese è “la lotta contro le diseguaglianze” che, in linea di principio, dovrebbe trovare tutti d’accordo. Il presidente Macron ha anche introdotto una novità nel formato del Vertice, aprendo alcune delle discussioni a Paesi che non sono membri del gruppo. La riunione si aprirà questa sera, alle 19, con una cena informale su politica e sicurezza e si concluderà lunedì con un pranzo di lavoro sulla “trasformazione digitale”. Genericità dei temi, brevità dei tempi e numero dei partecipanti garantiscono la mancanza di decisioni e l’evanescenza delle conclusioni. Se qualcosa di importante accadrà, sarà soprattutto nei bilaterali.

Trump minaccia la Fed: “Non ha fatto niente”

Chicago

Promemoria per tutti quelli che in Europa reclamano una Banca centrale meno indipendente e agli ordini della politica, che stampi moneta per sostenere l’economia: guardate cosa sta succedendo negli Stati Uniti e chiedetevi se è un modello virtuoso. “Chi è il nostro più grande nemico: Jay Powell o il presidente Xi?”. Donald Trump su Twitter non si contiene dopo aver ascoltato il molto atteso discorso del presidente della Federal Reserve, la Banca centrale americana, Jay Powell, al convegno annuale di Jackson Hole. Il tentativo della Casa Bianca di intimidire la Fed per ottenere una politica monetaria che favorisca la rielezione di Trump nel 2020 è al limite della violenza.

“Ci sono più esseri umani che algoritmi a studiare il discorso di Powell”, ha riassunto il clima di ieri, con una battuta nerd, il blogger Zerohedge. Tutti volevano capire se la Fed era pronta a evocare nuovi tagli dei tassi di interesse dopo quello di fine luglio, il primo dopo 10 anni, che ha portato il costo del denaro tra il 2 e il 2,5%. Non l’ha fatto in modo esplicito e Trump si è infuriato, “come al solito la Fed non ha fatto NIENTE!”, ha twittato all’istante.

La situazione paradossale dell’economia americana, riassunta da Powell nel suo discorso a Jackson Hole è la seguente. Le cose non sono mai andate meglio, dopo 11 anni di crescita ininterrotta: l’inflazione è intorno all’obiettivo del 2%, il tasso di disoccupazione è ai minimi, al 3,7% (in Italia è sopra il 10), perfino tra le minoranze è basso, al 6% tra gli afroamericani. Dov’è il problema? Tutti si aspettano che presto la corsa dell’economia Usa finirà. Molti segnali – incluso il rallentamento della Germania e la “dissoluzione del governo italiano”, dice Powell – indicano che l’espansione potrebbe essere vicina alla conclusione. E una recessione nell’anno elettorale ridurrebbe le possibilità di Trump di essere riconfermato a novembre 2020. Qui finisce la parte razionale della storia.

Una delle principali incognite sull’economia mondiale e uno dei possibili grilletti della recessione Usa è la guerra commerciale scatenata da Trump contro la Cina. Dopo molte minacce e retromarce, Trump ha dato il via al terzo pacchetto di sanzioni che, per la prima volta, colpiranno anche beni di consumo come abbigliamento e giocattoli. Un parte di queste misure scatta a settembre, un’altra a metà dicembre. La Cina ha già risposto con l’annuncio di nuove tariffe sulle merci americane per 75 miliardi di dollari. Il Congressional Budget Office, l’autorità indipendente sui conti pubblici, stima che la famiglia americana media perderà 580 dollari di reddito disponibile nel 2020 per colpa della guerra commerciale. Ma questo Trump non lo ammette mai. Quando la Fed ha tagliato i tassi a luglio, la Cina ha risposto lasciando svalutare la sua valuta, Washington ha risposto accusando Pechino di “manipolare” la moneta, cosa che legittima altre ritorsioni commerciali.

In questo delirio, Powell ha ricordato ieri che “stabilire la politica commerciale spetta al Congresso e all’Amministrazione (il governo, ndr), non alla Fed”. Non ci sono precedenti di situazioni simili e questo alimenta l’incertezza che riduce la capacità della Banca centrale di influenzare le aspettative e dunque l’economia. Ma Trump vuole l’impossibile: per affermare il principio America First alza muri commerciali contro la Cina e così rischia di innescare la recessione, per questo chiede che sia Powell con la politica monetaria a evitargli di pagare il conto, svalutando il dollaro per sostenere le esportazioni e la domanda interna, anche al prezzo di gonfiare una bolla di credito facile e preparare un’altra crisi finanziaria come quella del 2008.

Il presidente della Fed non è bellicoso verso la Casa Bianca, in un passaggio del suo discorso spiega che tagliare i tassi all’apice del ciclo economico – quando la teoria direbbe di alzarli, per evitare arrivi l’inflazione – può rendere meno drammatica l’inevitabile recessione. Ma a Trump non basta: a lui interessa solo la rielezione nel 2020 e vuole che a garantirgliela sia la Fed.

Diseguaglianze e Brexit: l’agenda inadeguata di Biarritz

Lotta contro le diseguaglianze per la parità di genere e la tutela dell’ambiente: questi i temi centrali indicati da Emmanuel Macron per la presidenza francese del G7, il tavolo delle potenze mondiali che torna a riunirsi da oggi a lunedì a Biarritz, cittadina sulla costa atlantica, dove si incontreranno i capi di Stato e di governo di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Canada, Usa e Giappone. Ma se l’agenda ufficiale punta l’attenzione su Africa e disuguaglianze, sul tavolo ci saranno ben altri questioni, dalla guerra dei dazi tra Usa e Cina, con le conseguenti tensioni con l’Europa, alla Brexit imminente, fino alla crisi nel Golfo Persico con l’Iran; senza dimenticare la recessione che sembra profilarsi all’orizzonte, la situazione esplosiva in Kashmir e la protesta a Hong Kong. Ma non mancheranno discussioni sulla proposta di una web tax per colpire i colossi digitali, così come il dibattito sull’affidabilità delle criptovalute dopo la presentazione della ‘Libra’ targata Facebook. Nella girandola di appuntamenti e incontri, gli occhi saranno tutti puntati in primis sull’ultimo arrivato, il nuovo premier britannico Boris Johnson, con le conseguenti tensioni con l’Europa per l’imminente Brexit.

“Il cerino di Bolsonaro brucia le foreste e la verità”

La comunità internazionale resta col fiato sospeso per i roghi che stanno devastando l’Amazzonia. “La maggior parte – secondo l’antropologo e divulgatore scientifico Yurij Castelfranchi, docente dell’Università federale di Minas Gerais in Brasile – sono legati all’espansione dell’agrobusiness”.

Professore, ne è sicuro?

Non è propriamente questo il periodo per roghi di queste dimensioni e nessuno fra gli esperti individua la causa nella stagione secca o nel vento. I punti del Paese maggiormente colpiti sono proprio quelli conosciuti da tempo per l’agrobusiness. È molto facile da verificare, basta un satellite. C’è l’intenzione di distruggere aree protette per renderle coltivabili. In concomitanza ci sono attacchi di terrorismo politico agli enti governativi che si occupano di ambiente. Il governo Bolsonaro ha rimesso il Brasile in una condizione di colonialismo, soggetto all’esportazione di commodities di bassissimo costo, come minerali, carne e prodotti agricoli. Gli incendi hanno a che fare con questo: distruggere la foresta per fare spazio a nuove piantagioni di soia e allevamenti di bestiame. Lui ha autorizzato politicamente i deforestatori garantendogli l’immunità. Ha cambiato i vertici di vari dipartimenti governativi. I latifondisti sanno che sono legittimati persino a uccidere. È in corso un far west, specialmente nelle regioni amazzoniche e dell’entroterra.

Perché accusare le Ong?

È un classico del governo Bolsonaro, che usa le stesse tattiche della post-verità di Trump, servendosi di una mitragliatrice di calunnie. I bersagli sono gli ambientalisti, le università e gli indigeni. L’attacco alle Ong è durato 24 ore, perché lui stesso ha dovuto ammettere che è probabile che i fuochi siano stati appiccati dagli agricoltori. Il suo scopo è di sviare l’opinione pubblica per fare in modo che i più fanatici, il 10-15% degli elettori, facciano circolare sui social network queste teorie della cospirazione di comunisti, alleati con ambientalisti, multinazionali e governi stranieri, per appropriarsi dell’Amazzonia.

È vero che non ci sono mezzi per domare gli incendi?

I mezzi non li abbiamo perché Bolsonaro li ha distrutti. Ha tagliato tutti i fondi alle politiche ambientali, ha distrutto politicamente gli enti spostando le competenze in altri ministeri che hanno tutelano altri interessi. La crisi economica è una scusa. I tagli che ha fatto sono avvenuti in concomitanza con un’iniezione di liquidità ai parlamentari.

E l’opinione pubblica da che parte sta?

È polarizzata, divisa. C’è un contesto di campagna elettorale perpetua. Il governo di fatto non è mai cominciato. Non ci sono politiche pubbliche. Ci sono conflitti interni al governo giganteschi. C’è un clima fatto di toni violenti. La maggior parte dei brasiliani è preoccupata, per questo Bolsonaro ha fatto un passo indietro sugli incendi, ammettendo che sono stati appiccati dall’agrobusiness.

In che condizioni versano i popoli indigeni?

La situazione è più drammatica che mai. Al limite del disastro umanitario. È in corso un vero e proprio crimine contro l’umanità. Sono stati legittimati gli attacchi nei confronti degli indios. Ci sono scontri ed epidemie. I garimpeiros, i cercatori d’oro, hanno invaso la terra Yanomami e altre regioni remote. Ci sono già morti. Dadiv Yanomami, che è lo sciamano, intellettuale indigeno più noto, è stato minacciato di morte pochi giorni fa. Gli indios stanno manifestando un’enorme capacità di resistenza e le donne stanno avendo un ruolo importantissimo. Gli indios brasiliani sono un baluardo importante per la difesa della democrazia.

È d’accordo con Macron che quella dell’Amazzonia è una questione internazionale?

Certo, e va trattata come una crisi diplomatica internazionale. Bolsonaro, come tutti i nazionalisti, reagisce come se fosse minacciata la sovranità nazionale, avallando l’idea che esista un piano diabolico di espropriazione dell’Amazzonia per farne un protettorato internazionale. Ci sono già moltissimi appelli alla comunità internazionale per la difesa dei popoli indigeni, dell’Amazzonia e dell’università. Ci sono lettere aperte su riviste come Science e Nature. Del resto è in ballo l’equilibrio climatico e idrico mondiale.

Il G7 si schiera: “Interveniamo, è un’emergenza internazionale”

Il G7 di Biarritz si apre in un clima di tensione internazionale. A innescare la crisi diplomatica sono state le dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron, che ha espresso la volontà di discutere durante il summit degli incendi che stanno devastando l’Amazzonia. “La nostra casa brucia”, ha detto. Immediato l’appoggio della cancelliera tedesca Angela Merkel. Macron ha accusato il presidente brasiliano Jair Bolsonaro di “mentire” e di non agire per domare i roghi. Ha pure annunciato che si opporrà alla ratifica del trattato di libero scambio Ue- Mercosur, firmato a metà giugno. La replica da oltreoceano è stata immediata: “Si sta strumentalizzando una questione interna al Brasile e ad altri Paesi amazzonici con uno stile sensazionalistico che non contribuisce a risolvere i problemi”, ha detto Bolsonaro. E poi l’affondo: “Discuterne senza la partecipazione della nostra regione rimanda a una mentalità colonialista superata nel XXI secolo”. Nelle ultime 48 ore in Amazzonia ci sono stati 2.500 nuovi focolai di incendi. La Commissione europea – fa sapere la portavoce dell’esecutivo Ue Mina Andreeva – “è seriamente preoccupata, appoggia l’iniziativa del presidente francese Macron di discuterne al G7 ed è pronta a fornire assistenza”. Intanto la procura federale brasiliana ha aperto un’inchiesta sui roghi e Bolsonaro, dopo la crescente pressione internazionale, ha annunciato l’invio dell’esercito nelle aree dove divampano le fiamme. Nel frattempo le immagini della foresta amazzonica in fiamme stanno facendo il giro del mondo. L’hashtag #PrayforAmazonia in poco tempo è diventato virale. Anche le star di Hollywood si sono mobilitate. Da Leonardo DiCaprio all’ambasciatrice Onu per l’ambiente Gisele Bündchen, da Ricky Martin a Cara Delevingne.

Un terrorismo in stand by. L’Isis c’è ancora, ma non si vede

Èun anno che il terrorismo islamico ha risparmiato l’Europa. Solo piccoli episodi individuali. Lupetti solitari. Ma è un’illusione. Il pericolo è tornato. Il Califfato è stato sconfitto, ma non l’Isis. Che si sta riorganizzando. Alcuni dei capi sopravvissuti avrebbero accesso a fondi segreti, valutati sui 300-400 milioni di dollari. Sufficienti per ridare slancio e vigore alle azioni terroristiche e alla propaganda islamica. È l’allarme della principali agenzie occidentali d’intelligence: l’Isis, nonostante le disfatte militari, ha “mantenuto una forte presenza” in Siria e Iraq. Anthony Cordesman, dirigente del Center for Strategic and International Studies, apprezzato think tank di Washington cita un significativo episodio, la battaglia di Baghouz: “La nostra intelligence militare aveva previsto una settimana di combattimenti. Invece ci sono voluti parecchi mesi. I combattenti islamici erano molto più numerosi di quanto non avessero ipotizzato”. Tant’è che nel rapporto annuale dello scorso gennaio, i servizi Usa hanno riclassificato “il pericolo rappresentato dallo Stato Islamico e da altre organizzazioni terroristiche come al Qaeda” come “ancora potente”. Un messaggio all’Europa.

Chi trema di più è la Francia, già squassata dalle stragi dei jihadisti. La radicalizzazione prospera nelle sovraffollate galere. Entro la fine del 2019, per esempio, una trentina di terroristi islamici uscirà di prigione. Ricominceranno? L’estrema destra soffia sul fuoco della paura. Ricorda che almeno altre 20 mila persone, schedate con la fiche S, cioè sospetti di essere potenziali nemici dello Stato, circolano libere. Guai ad abbassare la guardia e ad avere troppo frettolosamente dato per spacciato l’Isis. L’Europol, nel suo ultimo rapporto, mostra una cartina in cui sono elencati Stato per Stato arresti e attacchi di terroristi islamici. Il Centro nazionale dell’Antiterrorismo Usa non sottovaluta questi episodi, “la rinascita dello Stato Islamico post Califfato suscita grave preoccupazione”. Segnali di questa inquietante ripresa ci sono da più di un anno. Daesh, la forma organizzata dell’Isis, si è diversificata in 8 rami operativi, connessi con una dozzina di reti clandestine che sparpagliano migliaia di combattenti in tutto il mondo. Anche nella distratta Europa. Secondo i dati incrociati dei servizi d’intelligence di Europol, Onu e dell’Inspector General per il Congresso Usa, lo Stato Islamico disporrebbe ancora di 18 mila militanti in Iraq e Siria, soprattutto nelle zone rurali e montuose. Ma la minaccia più immediata arriva dai foreign fighters di ritorno, cioè i combattenti stranieri dell’Isis catturati che Damasco e Baghdad vogliono rispedire nei loro Paesi d’origine. L’Onu ha calcolato che fossero circa 40 mila, provenienti da 110 Stati. Di questi, 6 mila europei, soprattutto francesi e belgi. Per ora, solo un terzo è tornato. Ma la maggior parte degli Stati si rifiuta di accoglierli. La Francia è la più inguaiata, è di questi giorni la polemica sul trasferimento di 11 prigionieri jihadisti, 7 dei quali condannati a morte in Iraq. Nel frattempo, cresce l’attività terroristica di Isis e della concorrente al Qaeda. Nei primi sei mesi del 2019 in 5 province irachene ci sono stati 139 attacchi costati la vita a 274 persone. Secondo i servizi d’intelligence, in due province dell’Afganistan orientale, 2 mila jihadisti stanno combattendo contro tutti, a cominciare dai Talebani. In parecchi sono sconfinati nel Pakistan. Lo scopo è evidente: destabilizzare i fragili equilibri politici di Kabul, specie dopo l’accordo con Washington per il disimpegno delle truppe Usa.

L’ultimo massacro è avvenuto a Kabul, alla festa di un matrimonio: Abu Asem al-Pakistani si è fatto esplodere provocando 63 morti e 182 feriti. L’attentato suicida è stato rivendicato su Telegram dallo Stato Islamico.

L’Onu ha creato 38 “entità internazionali” che operano sotto la sigla United Nations Counter-Terrorism Implementation Task Force (Unctift). Hanno aderito, tra gli altri, Usa, Russia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Spagna, Israele. Non l’Italia, considerata quasi un “santuario”, dove i terroristi si rifugiano, restano “in sonno” e agiscono come retrovie. Molte espulsioni, qualche sequestro di denaro. Fino a quando questa sorta di extraterritorialità degli attentati? Le rotte del terrorismo portano sempre di più a sud. L’Africa è nel mirino. In quella subsahariana è nato il G-5, che coordina le attività antiterrorismo di Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger e Ciad. Ma è ancora poco. E non basta proporre, come hanno fatto le Nazioni Unite il 6 dicembre 2018, un patto globale di coordinamento antiterroristico. Perché non tutti remano dalla stessa parte.

Andrea morto nell’ostello malfamato. L’autopsia spiegherà la fine dello chef

Per capire quando e di cosa sia morto chef Andrea Zamperoni bisognerà attendere l’esito dell’autopsia. Dall’Italia intanto Renato Rozi, lo zio, afferma: “Era nel posto sbagliato al momento sbagliato”.

Il posto sbagliato è una camera al primo piano del Kamway Lodge un ostello del Queens, a New York. Una chiamata anonima avvisa la polizia che trova il corpo senza vita di Zamperoni avvolto in un lenzuolo bianco, come se qualcuno avesse predisposto di spostare quello stesso cadavere.

Sul luogo del rinvenimento c’è anche una donna, completamente nuda. Al momento però non è dato sapere quale sia stato il suo ruolo. L’unica notizia è che le telecamere di sorveglianza registrano le immagini del momento in cui la presunta testimone esce scortata dai poliziotti che dopo averla accompagnata in commissariato e interrogata l’hanno rilasciata, pere senza alcun addebito.

Oriella Ave Dosi, la mamma di Zamperoni, oltre a chiedere il rispetto del silenzio ha formalizzato la denuncia sulla morte del figlio trasmessa alla Procura di Lodi nell’ambito dell’indagine aperta sul caso. Per il procuratore della Repubblica, Domenico Chiaro è un “atto dovuto che consente di chiedere ufficialmente informazioni all’autorità competente estera per capire meglio cosa è successo, se c’è un reato e se è perseguibile anche in Italia”. L’apertura del fascicolo “è un primo passo obbligato, come avviene in questi casi, per ora con finalità solo conoscitiva da parte nostra”.

Il riconoscimento del corpo è toccato a Stefano fratello gemello di Zamperoni originario di Zorlesco di Casalpusterlengo, nel Lodigiano. “I funerali di Andrea si terranno certamente in Italia, la madre e il padre attenderanno qui la salma” ha anticipato lo zio dello chef che era stato visto l’ultima volta dai suoi colleghi sabato sera a fine turno. Un coinquilino aveva poi raccontato che il 33enne aveva preso un’auto con Uber intorno alle 2.30 di notte, prima di sparire nel nulla. Sono stati i membri dello staff del locale lunedì, preoccupati di non vederlo arrivare, ad avvisare la polizia.

Il Kamway Lodge è considerato un posto mal frequentato, noto conosciuto dalla polizia per i suoi giri di droga e prostituzione. Solo dall’inizio dell’anno sarebbero stati registrati 25 interventi della polizia ed effettuati almeno due arresti. Zamperoni lavorava da circa un anno per il Cipriani Dolci al Grand Central Terminal, nel cuore di Manhattan. Uno chef conosciuto a livello internazionale; per la collega Cristina Bowerman presidente dell’Accademia del gusto la sua morte richiama quella di Stefano Riccioletti travolto da un’auto a Miami, anche lui nel posto sbagliato al momento sbagliato.

“Teorema, il film teorematico”: e il professore ci mise trenta

Di tutte le leggende dell’Università di Firenze nei leggendari anni Settanta, la più leggendaria era la cattedra di Pio Baldelli. Teorico della controinformazione, ex direttore di Lotta Continua, indagato e condannato per alcuni articoli in favore dell’anarchico Pinelli… In tempi di assemblee e occupazioni permanenti, l’unico professore più a sinistra del Movimento, agli antipodi dai “fascisti” ma lontano anni luce anche dai cupi baroni cattocomunisti. Nel piano di studi di ogni studente impegnato non poteva mancare l’esame di Storia del Cinema alla facoltà di Magistero di via del Parione; Baldelli aveva aperto all’esame di gruppo, e con i miei compagni di corso non avemmo dubbi, l’avremmo dato assieme. C’è sempre una prima volta, ed era questa.

Ma noi facemmo di più. Proponemmo di unirsi a noi a Sara, Cristina e Giulia, tre studentesse a loro volta molto amiche, a cui da un po’ facevamo il filo senza troppo successo. Non erano granché cinefile, ma nessun problema; la tesina l’avremmo scritta noi tre, un quarto d’ora di colloquio e la promozione era assicurata. Le ragazze, forse anche per il riverbero charmeur della fama di Pio Baldelli, delle feste nella sua casa di via dell’Oriolo, dissero sì. Restava solo da decidere l’argomento della tesina che poi avremmo discusso tutti assieme appassionatamente. In facoltà vigeva un lussureggiante mercato nero di tesi di seconda mano, usato sicuro riciclabile senza problemi; andavano per la maggiore le tesine sul “Cinema delle ombre” con cui si era arricchito un collettivo di studenti greci fuoricorso. Nessuno sapeva niente di questa antica tradizione egea, nemmeno i prof, quindi si andava sul sicuro.

Ma noi facemmo di più. Eravamo veramente appassionati di cinema e volevamo fare bella figura con le ragazze. Così ci impegnammo in una dotta tesina sull’ultimo Pasolini, dove ci scagliavamo contro la censura inflitta a Salò o le 120 giornate di Sodoma, una difesa appassionata su cui Baldelli non poteva che essere d’accordo.

Consegnammo la nostra tesi agli assistenti, e una settimana dopo arrivò il giorno dell’esame.

“Complimenti, avete fatto un buon lavoro”.

Alto, stempiato, fronte convessa, basette brizzolate alla Michel Piccoli, Baldelli era di bell’aspetto, ma anche di ottimo umore. Ci fece cenno di accomodarci alla spicciolata, come fossimo in un salottino. La nostra tesina a sei firme giaceva sul tavolo davanti a lui, immacolata.

“Grazie professore”.

Con A. e R. scambiammo uno sguardo d’intesa. Questi sì che sono esami. Le ragazze, che alla tesina avevano dato un contributo relativo, annuivano.

“Però non si può discutere di Salò senza avere visto tutto il cinema di Pasolini…”.

“Certo, professore”.

“E voi il cinema di Pasolini l’avete visto tutto, naturalmente…”.

Dopo un altro rapido scambio di sguardi A. prese la parola.

“Be’, professore, a essere sinceri, non proprio. Nessuno di noi li ha visti tutti, però ogni film di Pasolini è stato visto da almeno uno di noi”.

“Ci siamo confrontati”, aggiunsi, “è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di dare l’esame di gruppo”.

“Bisognava coalizzare le forze”.

“Ah, è per questo. Bravi. Allora parliamo un momento del primo Pasolini. Teorema, per esempio. Chi di voi l’ha visto?”.

Non si sarebbe sentita volare una mosca.

“Io no”, sibilò dopo qualche istante A., il primo a riprendersi dalla doccia gelata. “Io no”, disse Sara, una biondina con gli occhi azzurri seduta accanto a lui. “Io no” fece eco la riccioluta Cristina. “Io nemmeno”, mormorò la longilinea Giulia, che per l’occasione aveva sfoggiato una delle sue celebri minigonne.

Come in Mezzogiorno di fuoco, a fronteggiarci in silenzio eravamo rimasti io e M.

“Io no”, disse M con voce rotta.

Le sorti del gruppo erano rimaste nelle mie mani. Se avessi ammesso che nemmeno io avevo visto Teorema, il professor Baldelli avrebbe avuto ragione a cacciarci. Capitava di rado, ma capitava. Impreparati e profittatori della buona fede del compagno professore. Addio esame; e addio ragazze.

“Io sì”.

“Bene. Parlamene”.

Tutti gli sguardi si rivolsero su di me. Quello del professore, ma soprattutto quelli dei miei compagni di esame. L’avrà visto davvero? Speriamo che abbia almeno letto la trama. Ma Teorema non solo non l’avevo visto; non ne avevo la più pallida idea. Per un attimo ebbi la tentazione di dileguarmi; ma poi lanciai la stampella, come Enrico Toti.

“Teorema…” scandii alzando gli occhi al soffitto, come se volessi afferrare le parole nell’iperuranio, “è un film teorematico…”.

Bastò.

“Giusto”, mi interruppe Baldelli, che non amava le sofferenze altrui. “Decisamente un film teorematico, altrimenti non si sarebbe intitolato Teorema. Un po’ come Salò, per questo volevo essere sicuro che almeno uno di voi l’avesse visto”.

Una decina di minuti dopo, trascorse un paio di ovvietà a testa sulla Trilogia della vita e la sua abiura, il professore ci riconsegnò i libretti in bianco.

“Scrivete voi. Poi io firmo”.

“Scriviamo anche il voto?”.

“Certo. A proposito: voi quanto vi dareste?”.

Ancora una volta non si sarebbe sentita volare una mosca. E ancora una volta il più lesto fu A.

“Trenta?”.

Il professor Baldelli fece un’ultima panoramica del gruppo di esaminandi seduti davanti lui. Ci aveva dato una lezione, ma in fondo non ce l’eravamo cavata male, soprattutto nella scelta della squadra.

“Trenta”.

E trenta fu.