Alla vigilia di ogni anno scolastico, i genitori dei più piccoli sono presi dalla disperazione. Oltre a dover pensare a grembiuli, zaini, astucci, quaderni e libri di testo, dovranno affrontare una prova molto più impegnativa a letto agli orari stabiliti (cioè presto) e bye bye ai cartoni animati visti fino a tarda sera (modello baby sitter). Una sciagura che si abbatterà sulla famiglia all’urlo di “siete tutti cattivi!”.
Eppure non tutta la tv viene per nuocere, anzi. A volte serve addirittura per imparare. Nel 1969 nasceva, negli Stati Uniti, il programma che ha cambiato il modo di fare televisione per bambini e che oggi, cinquant’anni dopo, è ancora con noi: Sesame Street, in Italia tradotto con Sesamo apriti. Oltre 4500 puntate, due film usciti (1985 e 1999) e uno attualmente in lavorazione con l’attrice Anne Hathaway, un pubblico online di milioni di bambini, trenta versioni internazionali in coproduzione – dal Messico all’Afghanistan – e soprattutto una sfilata di musicisti in trasmissione che in confronto il red carpet diventa pink. Ideato dalla produttrice televisiva Joan Ganz Cooney e dallo psicologo Lloyd Morrissett, lo show si prefiggeva di ridurre il divario culturale esistente tra i ricchi rampolli americani (pochi) e i figli dei poveracci (la maggior parte). Un po’ come il nostro amato Maestro Manzi, ma decisamente più pop e più innovativo. Per portare a termine la propria missione, i due arruolarono anche un docente di Pedagogia di Harvard e soprattutto i mitici Muppet, i pupazzi parlanti di Jim Henson. E siccome si scoprì che i bambini erano più attenti se vedevano sullo schermo delle celebrità, che magari canticchiavano parodie delle canzoncine ascoltate in casa, il successo del Sesame Street fu presto decretato. Musica e lettere dell’alfabeto, musica e numeri, musica e regole di comportamento: ogni insegnamento, accompagnato da una melodia, divenne accessibile a tutti i bambini d’America.
E se i primi anni lo spettacolo ebbe ospiti folk come Pete Seeger, nel giro di poco più di un decennio le star della musica made in Usa fecero a gara per partecipare a qualche puntata, cantare e giocare con Ernie e Bert (Ernesto e Berto, nella versione italiana). I primi furono Steve Wonder, che nel 1973 suonò “Superstition” dal vivo per un pubblico di bambini, e Johnny Cash, che si portò dietro suo figlio. Ma poi Diana Ross, Paul Simon, Billy Joel tra gli anni 70 e gli 80; Celine Dion, Tracy Chapman, Gloria Estefan nei 90; Ed Sheeran, Katy Perry, Bruno Mars, Janelle Monàe per arrivare fino a noi. Addirittura i Rem, che hanno suonato “Happy Furry Monsters” (imperdibile, il video è su Youtube) e poi si sono fermati tutto il giorno sul set di registrazione, raccontando barzellette e assistendo alla produzione. Soltanto Madonna, i Rolling Stones e il Boss – nonostante le preghiere e la parodia di Bruce Springbean – non hanno mai voluto partecipare.
Innovativo? Più di quanto si possa immaginare fin qui. Perché la carta vincente di Sesame Street, ciò che l’ha reso davvero all’avanguardia, è stato il concetto – ante litteram – di multiculturalità: partendo dalla musica, che ha subito incluso il jazz e l’afro, la classica e il pop, è stata insegnata ai bambini l’inclusività.
Non solo: attraverso le performance dei grandi artisti, a ogni piccolo americano viene data la speranza di potercela fare. Quasi come la Ruota della Fortuna da noi. Anzi no, quella è un’altra storia. Noi i pupazzi li abbiamo in carne e ossa.