“Sesame Street”: i 50 anni dell’“altra” scuola americana

Alla vigilia di ogni anno scolastico, i genitori dei più piccoli sono presi dalla disperazione. Oltre a dover pensare a grembiuli, zaini, astucci, quaderni e libri di testo, dovranno affrontare una prova molto più impegnativa a letto agli orari stabiliti (cioè presto) e bye bye ai cartoni animati visti fino a tarda sera (modello baby sitter). Una sciagura che si abbatterà sulla famiglia all’urlo di “siete tutti cattivi!”.

Eppure non tutta la tv viene per nuocere, anzi. A volte serve addirittura per imparare. Nel 1969 nasceva, negli Stati Uniti, il programma che ha cambiato il modo di fare televisione per bambini e che oggi, cinquant’anni dopo, è ancora con noi: Sesame Street, in Italia tradotto con Sesamo apriti. Oltre 4500 puntate, due film usciti (1985 e 1999) e uno attualmente in lavorazione con l’attrice Anne Hathaway, un pubblico online di milioni di bambini, trenta versioni internazionali in coproduzione – dal Messico all’Afghanistan – e soprattutto una sfilata di musicisti in trasmissione che in confronto il red carpet diventa pink. Ideato dalla produttrice televisiva Joan Ganz Cooney e dallo psicologo Lloyd Morrissett, lo show si prefiggeva di ridurre il divario culturale esistente tra i ricchi rampolli americani (pochi) e i figli dei poveracci (la maggior parte). Un po’ come il nostro amato Maestro Manzi, ma decisamente più pop e più innovativo. Per portare a termine la propria missione, i due arruolarono anche un docente di Pedagogia di Harvard e soprattutto i mitici Muppet, i pupazzi parlanti di Jim Henson. E siccome si scoprì che i bambini erano più attenti se vedevano sullo schermo delle celebrità, che magari canticchiavano parodie delle canzoncine ascoltate in casa, il successo del Sesame Street fu presto decretato. Musica e lettere dell’alfabeto, musica e numeri, musica e regole di comportamento: ogni insegnamento, accompagnato da una melodia, divenne accessibile a tutti i bambini d’America.

E se i primi anni lo spettacolo ebbe ospiti folk come Pete Seeger, nel giro di poco più di un decennio le star della musica made in Usa fecero a gara per partecipare a qualche puntata, cantare e giocare con Ernie e Bert (Ernesto e Berto, nella versione italiana). I primi furono Steve Wonder, che nel 1973 suonò “Superstition” dal vivo per un pubblico di bambini, e Johnny Cash, che si portò dietro suo figlio. Ma poi Diana Ross, Paul Simon, Billy Joel tra gli anni 70 e gli 80; Celine Dion, Tracy Chapman, Gloria Estefan nei 90; Ed Sheeran, Katy Perry, Bruno Mars, Janelle Monàe per arrivare fino a noi. Addirittura i Rem, che hanno suonato “Happy Furry Monsters” (imperdibile, il video è su Youtube) e poi si sono fermati tutto il giorno sul set di registrazione, raccontando barzellette e assistendo alla produzione. Soltanto Madonna, i Rolling Stones e il Boss – nonostante le preghiere e la parodia di Bruce Springbean – non hanno mai voluto partecipare.

Innovativo? Più di quanto si possa immaginare fin qui. Perché la carta vincente di Sesame Street, ciò che l’ha reso davvero all’avanguardia, è stato il concetto – ante litteram – di multiculturalità: partendo dalla musica, che ha subito incluso il jazz e l’afro, la classica e il pop, è stata insegnata ai bambini l’inclusività.

Non solo: attraverso le performance dei grandi artisti, a ogni piccolo americano viene data la speranza di potercela fare. Quasi come la Ruota della Fortuna da noi. Anzi no, quella è un’altra storia. Noi i pupazzi li abbiamo in carne e ossa.

Rolling Stones Rock: un ciottolo su Marte per quattro montagne della musica

Esistono le risposte pubbliche, edulcorate, quelle che tutti noi diamo per senso dell’etichetta, e resistono al contempo le stilettate che non proferiamo per buona creanza, per grazia umana o senso del pudore.

Chissà che avranno pensato (davvero) i Rolling Stones quando la Nasa ha pensato di dare il nome di “Rolling Stones Rock” a una pietrolina su Marte poco più grande di una pallina da golf, che ha colpito la loro attenzione (così hanno dichiarato) perché sembrò “rotolare” per circa un metro quando la sonda spaziale ha attraccato la superficie marziana nel novembre dello scorso anno.

La risposta ufficiale della band è stata la seguente: “È un modo meraviglioso di celebrare il tour Stones No Filter in arrivo a Pasadena.” E fin qui, nessun dubbio sulla gratitudine espressa. Ma è il seguito, quando affermano: “Questa è sicuramente una pietra miliare nella nostra lunga e ricca storia. Un grande grazie alla Nasa per averla realizzata” ad accendere l’allarme dell’ironia. Dietro gli aggettivi “lunga”, “ricca”, ma soprattutto dietro gli anodini “grande grazie” e “pietra miliare” ci piace pensare che Mick Jagger abbia voluto citare Virgilio, quando nelle Georgiche, confrontando il lavoro delle api con quello dei ciclopi scrive: Si parva licet componere magnis.

I benefici del sale? In miniera, ovviamente

Organizzare feste, celebrare matrimoni, allestire concerti o tenere convegni a 200 metri sottoterra? Yes, we can. Incredibile ma vero, solo la discesa nella celebrata Miniera di Sale “Wieliczka”, a pochi km da Cracovia mi ha dato la certezza che quelle “dicerie” corrispondevano a verità. Visitare la seconda tappa più “gettonata” (dopo Auschwitz) presso la città più antica e bella della Polonia è stata un’esperienza sorprendente. Il complesso minerario – dal 1978 iscritto all’Unesco – risale al 3500 a.C., quando si formarono i primi giacimenti di salgemma che l’uomo ha scoperto, e quindi iniziato a estrarre, nel XIII secolo. Da massima industria d’esportazione polacca a uno dei principali luoghi turistici: il passaggio avvenuto dalla chiusura dell’estrazione massiccia del minerale (circa un ventennio fa) ha accompagnato il processo di trasformazione socio-politica della Polonia, portando sul sito negli ultimi anni milioni di visitatori. Ma cosa si scopre scendendo quegli infiniti scalini salati per entrare nel cuore “fresco” e salubre della terra? La visita assomiglia a un viaggio su un altro pianeta giacché non esiste un immaginario simile da nessun’altra parte della Terra. E se non fosse tutto autentico, si potrebbe pensare a una Disneyland underground. La magia di un labirinto di corridoi dove si respira a pieni polmoni (si fa anche balneologia e respirazione presso una torre di sale adiacente la miniera) dai quali si aprono stanze sfavillanti, una cattedrale enorme, numerose ricostruzioni (in sale) degli antichi minatori e di scene della storia polacca, ma anche saloni per le feste, ristoranti e negozi dove acquistare cosmetici a base di sale: insomma il trionfo del nuovo volto della Polonia (anche nel marketing) che giustamente ha scelto il proprio passato quale “miniera” per il futuro.

La musica delle donne: che fatica poter suonare

“Non sò se quel sorriso/ Mi schernisce o m’affida/ Se quel mirami fiso/ M’allesta o mi diffida”. Dell’estensore di questi versi diremo dopo. Adesso preme subito sottolineare la sottile psicologia che vi soggiace: chi scrive si chiede se un sorriso rivolto è un gesto di scherno o di incoraggiamento, e se uno sguardo fisso è un invito a lanciarsi o di contro uno scoraggiamento. Dunque già agli inizi del ’600 concepisce che il gioco della seduzione è cosa assai più complicata di quanto fino al secolo precedente, il ’500, era sembrato nelle epopee cavalleresche: per esempio ne L’Orlando Furioso affinché l’amore tra Ruggiero e Arianna si compia, basta che lui (pagano) si converta al cristianesimo di lei.

La strofe succitata è l’incipit di un’aria tratta da Il Primo Libro delle Musiche a una e due voci che Francesca Caccini, la prima compositrice classica che la Storia abbia mai conosciuto, pubblica nel 1618 mentre il Guercino dipinge il Matrimonio mistico di Santa Caterina e il Cristo morto compianto dagli Angeli e Cartesio pubblica le Regulae ad directionem ingenii – in cui scrive che “Tutte le scienze sono così connesse tra loro che è molto più facile apprenderle insieme piuttosto che separarne una sola dalle altre” – in preparazione a quella rivoluzionaria opera per il pensiero scientifico che sarà Il discorso sul metodo.

Figlia d’arte di cotanto Giulio Caccini, Francesca nasce nel 1587 e cresce nella Firenze medicea del XVII secolo. Primogenita in una famiglia di musicisti, all’età di tredici anni debuttò cantando nel Concerto Caccini, in occasione del matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV, Re di Francia. Oltre a distinguersi per la voce, venne istruita dal padre alle lettere: scrisse poesie in latino e in volgare, cantava in francese e in spagnolo. In più, suonava il liuto, il chitarrineto e il clavicembalo; all’età di diciotto anni iniziò a comporre. Si diceva che la Cecchina, come venne soprannominata, fosse un genio. Nel 1607 entra ufficialmente al servizio della corte medicea e divenne la prima musica di corte (era pagata 20 scudi mensili e guadagnava più del marito, il cantante Giovan Battista Signorini). Nel 1625, per festeggiare nei giorni del carnevale la vittoria contro i turchi di Ladislao Sigismondo Vasa (Principe ereditario di Polonia e ospite dei Medici) venne messo in scena nel giardino di Villa del Poggio Imperiale di Firenze lo spettacolo La liberazione di Ruggiero dall’Isola di Alcina (un po’ opera e un po’ balletto) composto da Francesca, che a trent’otto anni è all’apice della sua carriera, avendo portato le sue composizioni nelle corti d’Italia e d’Europa. Lo spettacolo di quella soirée verrà portato anche a Varsavia, e sarà la prima opera italiana scritta da una donna a essere rappresentata all’estero. Tuttavia, nonostante l’inaudito successo riscosso per i suoi contemporanei, dal 1700 in poi Francesca Caccini viene totalmente obliata.

Barbara Strozzi (Venezia 1619-Padova 1677) debutta come cantante grazie al padre adottivo Giulio Strozzi – librettista, poeta e giudice – che la piazza nei salotti già adolescente come artista e quindi, poiché siamo nel ’600 veneziano, quale cortigiana. Per questo è attraente, oltre alle trouvailles che di lei sono per buona ventura giunte fino a noi – ben otto libri di composizioni, tra cui: Il primo libro per madrigali (1644), Cantate, ariette e duetti (1651), Arie a voce sola (1664) che la impongono come la compositrice che più di tutte ci ha lasciato una traccia di “musica femminile”, di musica cioè creata da una donna per le donne – il dipinto La virtuosissima cantatrice di Giulio Strozzi: Barbara è ammaliante, di tre quarti, regge una viola da gamba e sul tavolo accanto a lei vi sono un violino e degli spartiti; molto scollata, il seno sinistro è completamente offerto.

Non è per pruderie che sottolineiamo il particolare, quanto per ragionare attorno alla quæstio della musicista donna nei tempi antichi e dell’equivalenza con la figura della cortigiana, della donna di malaffare, e con una vita non rispettabile. Questo è il centro d’attrazione del luminoso saggio Note dal silenzio (EDT, Traduzione di Leonardo Marcello Pignataro, 295 pp. Eurp 26) di Anna Beer, che affresca con storiografico piglio le vite oltre che di Caccini e Strozzi, di Élisabeth Jacquet de La Guerre, Marianna Martines, Fanny Hensel, Clara Schumann, Lili Boulanger ed Elizabeth Maconchy.

Con sconfortante mestizia, e con le dovute difficoltà di recupero bibliografico, Beer suggerisce che colei che non volesse rinchiudersi in convento per dare sfogo alla propria arte (lì erano liberissime di creare per sé e non per il mondo), e aspirasse invece a una carriera artistica professionale aveva bisogno di un padre o un marito importanti a sostenerle in pubblico ed economicamente perché le arti erano poco pagate (e questo, ahimè non è cambiato), oppure doveva essere anche la cortigiana di un protettore. Senza, erano spacciate. Questo invece per fortuna è cambiato…

All’assalto della corazzata. È sempre corsa alla Juve

Dalla fine del governo al mercato che non finisce mai, da un Conte all’altro, da Toninelli a Balotelli: riecco a voi il calcio dei campanili. Si parte oggi, con Parma-Juventus alle 18 e Fiorentina-Napoli alle 20:45. Avanti popoli, tutti: il campionato è l’unico romanzo che, al netto delle storture e di quei mostri chiamati “plusvalenze”, continua ad avvincerci perché ci divide e a dividerci perché ci avvince. La dittatura della Juventus, otto scudetti di fila, esige risposte forti, secche. Gli inni alla svolta, alla bellezza si rincorrono giulivi. Il rito della griglia è il piccolo canto libero di ognuno di noi. Vi giro la mia, in attesa che il 2 settembre sigilli scambi e ricambi.

1) JUVENTUS. Un cantiere aperto. O Cristiano o si spacca, questa volta senza se e senza ma: dal bilancio alla Champions. In patria, nonostante o proprio grazie al caos-esuberi, è sempre la più forte. Da Allegri a Sarri (auguri!), il gioco al centro del villaggio. E Dybala vicino alla porta, sì, ma quale?

2) NAPOLI. La conferma di Ancelotti è stata un messaggio, gli acquisti di Manolas e Lozano un segnale. E non è mai troppo Icardi: sarebbe la ciliegina. Dimenticavo Allan al Paris Saint-Germain: bufala di un inverno fa.

3) INTER. Da Spalletti a Conte e da Icardi a Lukaku aspettando Alexis Sanchez: più quadrata, meno pazza. Sensi e Barella portano vivacità a centrocampo. Manca qualcosa sulle fasce. Occhio a Candreva. Dalla Juventus al Chelsea, il primo anno di Conte è sempre il migliore.

4) LAZIO. Allenatore e rosa, più o meno la stessa struttura. I progressi di Correa e le volate di Lazzari potrebbero orientare la rotta. Bel colpo, aver trattenuto Milinkovic-Savic.

5) ROMA. La prima senza Romolo-Totti e Remo-De Rossi. L’incognita Fonseca (a me piace) domina il panorama. Ripartire da Dzeko gonfia le vele, anche se il confine resta Zaniolo e l’urgenza, registrare la difesa.

6) MILAN. È un biglietto della lotteria, visto l’ingorgo (Duarte, Theo Hernandez, Krunic, Bennacer, Leao): si punta molto sul mister, ma Giampaolo non gioca. Una dritta: seguite le orme di Bonaventura.

7) ATALANTA. Gasp assicura la continuità del progetto. Sono rimasti il Papu e il papa (Ilicic), Muriel è un’alternativa tosta. Semmai, è la Champions che potrebbe rubare energie.

8) TORINO. Ha perso così poco e pareggiato così tanto, la scorsa stagione, che deve decidersi: o di qua o di là. Mazzarri, Belotti, Sirigu: come no. Ma l’euro-sconfitta con il Wolverhampton ha ribadito che la chiave saranno le lune di Zaza e Berenguer.

9) FIORENTINA. Chiusa la saga dei Della Valle, comincia l’era Commisso. E comincia con Chiesa. Impossibile “non” far meglio dell’ultimo calvario. Già mi intrigava il riciclo di Boateng, figuriamoci l’operazione Ribéry, 36 anni di dribbling al mondo.

10) CAGLIARI. Il ritorno di Nainggolan è polvere da sparo, Maran sa come si maneggia. E poi Rog. E poi Pavoletti. Il k.o. di Cragno rappresenta però un brutto incipit.

11) SAMPDORIA. Vialli sullo sfondo, il trasloco da Giampaolo a Di Francesco, le cessioni di Andersen e Praet. Troppi rebus. E una domanda: a 36 anni, Quagliarella saprà ripetersi?

12) BOLOGNA. Forza Sinisa, naturalmente. Molto passa dal suo recupero. Ciò premesso, mi fido del fiuto di Sabatini: ma Pulgar l’avrei tenuto. Le rughe di Palacio sono tracce, non trappole.

13) PARMA. D’Aversa è un fior di artigiano e la bottega all’altezza delle ambizioni societarie. Karamoh è un’idea, Inglese e Gervinho lo zoccolo duro. Il contropiede come simbolo. Adelante con juicio.

14) SASSUOLO. De Zerbi ha perso Sensi, non proprio una pagliuzza. La fiducia in Caputo è atto di grande coraggio, nella speranza che Berardi possa domare finalmente i suoi dubbi esistenziali.

15) GENOA. Andreazzoli è un allenatore che stava per salvare l’Empoli con il gioco. Il busillis è Preziosi, sempre: il Genoa estivo, “questo”, è da metà classifica, ma “quello” di gennaio, post mercato? Il caso Piatek spalanca scenari imbarazzanti.

16) SPAL. Semplici corre per la terza salvezza consecutiva, un mezzo miracolo. Ceduto Lazzari, ha avuto D’Alessandro e Di Francesco. Gli servono, soprattutto, i 16 gol di Petagna, l’altro mezzo miracolo.

17) BRESCIA. Non invidio Corini, tra Scilla-Cellino e Cariddi-Balotelli: Mario può esplodere sul bersaglio o in mano al balilla. Mi aggrappo al talento di Tonali, classe 2000.

18) UDINESE. Tudor ha meritato la conferma sul campo. L’organico non ha subito scosse né offerto mosse. Si riparte da De Paul e Lasagna: non è tutto, non è poco. Allarma la fase difensiva.

19) LECCE. O Lapadula torna il cecchino di Pescara o la vedo male. Liverani coltiva il gusto per la manovra: non sempre paga, anche se spesso aiuta.

20) VERONA. Juric è un tecnico strano che va a periodi. Crea e distrugge, distrugge e crea. Le fortune dell’Hellas ruotano attorno alla malizia di Veloso e ai blitz di Lazovic: pillole di vecchio Grifo per scacciare il mal di coda.

“Sono felice, l’Inghilterra entra in Europa”

“Questa è una delle tante lettere scritte da Giò Ponti indirizzate allo storico dell’architettura britannico Joseph Rykwert, che venne in Italia la prima volta negli anni Quaranta, subito dopo la Seconda guerra mondiale, in occasione di una sorta di pellegrinaggio per incontrare gli architetti italiani più attivi. A Milano il giovane Rykwert divenne amico di Vittorio Gregotti e Giò Ponti, che gli scrive questa missiva nel 1971, alla vigilia dell’entrata della Gran Bretagna in Europa, con parole entusiastiche per la novità. Ritrovata nell’archivio di Rykwert e inedita, appare oggi estremamente attuale”.

Come spiega lo storico dell’arte Ludovico Pratesi, la lettera di Ponti ritrovata nell’archivio Rykwert è interessante da leggere soprattutto ai tempi della Brexit.

Scrive Giò Ponti: “Sono molto felice di apprendere che ora l’Inghilterra può aggregarsi all’Europa (e a tutti noi), l’Europa ha bisogno della Gran, civilizzata e colta, Bretagna. “J’ai deux amours” – come nella canzone di Josephine Baker – ho due grandi amori: uno (infedele) è per l’Italia, che mi rende felice al pensiero che la Gran Bretagna si unirà all’Europa (e perciò anche all’Italia), l’altro (fedele) è per la Gran Bretagna, che qualunque cosa accada non cambierà mai. Tuo, Giò”.

Architetto e accademico, Giò Ponti (1891-1976) fu soprattutto designer tra i più innovatori Novecento. Mentre a Fortunato Depero in quegli stessi anni si deve l’incontro tra marketing pubblicitario e produzione artistica (sua, per esempio, è la bottiglia a cono rovesciato del Campari), Ponti era fermamente convinto che disegno industriale e arte moderna avessero un territorio comune. Va versata, alla sua geniale produzione, l’obolo di almeno tre momenti, che siedono tutti “a tavola”.

Dapprima, quando approda alla Richard Ginori e vi rielabora l’idea di decorazione della ceramica, ispirandosi alla Secessione Viennese (e per ciò nel 1925 vincerà il Grand Prix all’Esposizione Internazionale di arti decorative e industriali di Parigi). In seguito, occupandosi del placé: le sue avveniristiche posate che insistono sull’idea di oggetto unico. Infine, è da annoverare la “superleggera” del 1955, la sedia realizzata migliorando nei materiali, nella comodità e nelle linee la Sedia di Chiavari.

Addestrare i figli come i cani: l’ultima frontiera dell’assurdo

“Seduto”. Si siede. Click. Bocconcino succulento. “Terra”. Si mette giù. Click. Bocconcino. Non lo fa? Lo si ignora. Fa qualcosa di sbagliato? Lo si ignora. Torniamo a casa e troviamo la casa messa a soqquadro? Lo si ignora. Si comporta bene con un suo simile? Click. Bocconcino. E poi a lungo andare solo il click si può eliminare, lasciando il bocconcino (anche se c’è chi fa esattamente il contrario).

È la traduzione – in soldoni, ci perdonino gli educatori, di cui ovviamente c’è bisogno nel caso lo si voglia seguire – del clicker training, il sistema di addestramento iniziato con i delfini e passato poi ai cani (ma anche ai cavalli, ai gatti e persino ai pappagalli) basato sulla teoria del condizionamento. In pratica, si incentivano i comportamenti positivi dell’animale rafforzandoli con un premio (il bocconcino, o la palla o comunque una ricompensa “desiderata”) e, prima ancora, con il suono di un clicker. Si tratta del gioco che molti di noi usavano quando erano bambini, lo chiamavamo “raganella”: un oggettino metallico capace di emettere un click-clack sonoro. Con un po’ di esercizio, l’animale assocerà il suono a un suo comportamento positivo, che piace al “padrone”. Viceversa la “marachella”, piuttosto che essere punita – la teoria presuppone che si apprende molto meno con le punizioni –, dovrà essere ignorata. Il clicker training funziona e anche in Italia è molto diffusa.

Ma che succede se si esporta questo “addestramento” ai bambini? Il putiferio. Almeno stando a quanto sta accadendo in Gran Bretagna – la notizia è stata riportata ieri dall’Independent –, dopo che Channel 4 ha deciso di mandare in onda una nuova serie tv che incoraggia i genitori a educare i propri figli come se fossero cani. Train your baby like a dog si chiama, ed è già andata in onda la prima puntata martedì scorso. L’addestratrice comportamentista Jo-Rosie Haffenden assiste mamme e papà disperati per i capricci del figlio di 3 anni o per il fatto che un ragazzo di 18 anni si rifiuta di dormire nel suo letto.

In Inghilterra è scoppiata una cagnara (passateci il gioco di parole): a pronunciare la fatwa è stata l’associazione Autistic Inclusive Meets che ha promosso una petizione su Change.org.

In poche ore sono già state raccolte quasi 32 mila firme. “I bambini non sono cani! – ha scritto la presidente dell’organizzazione, Emma Dalmayne – Non c’è alcuna dignità o rispetto in quel tipo di addestramento, finiremo con l’insegnare ai bambini a soddisfare interamente le richieste degli adulti, senza preoccuparci del loro benessere e della loro autonomia”.

Eppure il rinforzo positivo viene già utilizzato – non senza polemiche – nella terapia comportamentale Applied Behaviourial Analysis (Aba) che si applica ai bambini autistici. Anche qui semplificando – in questo caso ci perdonino gli psicologi – viene orientato il loro comportamento. A elaborare l’Aba, alla fine degli anni 60, fu Ivar Lovaas, psicologo e professore presso l’Università di California Los Angeles. Al di là delle dichiarazioni che Lovaas dava dei piccoli autistici (“Hai una persona in senso fisico – hanno i capelli, un naso e una bocca – ma non sono persone in senso psicologico”), le sue teorie vennero utilizzate anche nelle abonimevoli “tecniche di conversione gay”. E per quanto oggi l’Aba sia stata resa più “umana”, ci sono molti adulti autistici o genitori di figli autistici che la stanno pesantemente mettendo in discussione in ogni angolo del pianeta. Alcune ricerche hanno dimostrato che può persino causa disturbi comportamentali negli adulti. Partendo dal presupposto che il comportamento è condizionabile, cosa ne è delle emozioni e dell’autodeterminazione?

Se già queste polemiche riguardano il mondo dell’autismo, figuriamoci cosa sta accadendo con la messa in onda del programma di Channel 4. La Autistic Inclusive Meets ha chiesto l’intervento del Ceo di Channel 4, Alexandra Rose Mahon, ma un portavoce del canale ha difeso il prodotto. E, come accade a Hollywood, ha sottolineato che “durante le riprese e la trasmissione, nessuno è stato maltrattato”.

Uno straniero di nome Fante

“Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d’albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell’albergo. O pagavo, o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.” Così inizia Chiedi alla polvere, il romanzo più conosciuto di John Fante, pubblicato nel 1939, forse il più rappresentativo, con l’intimo uso della prima persona, e l’ironia salvifica e feroce.

Io l’ho conosciuto con Aspetta primavera, Bandini, romanzo d’esordio. Fu un fragore, un’esplosione, come se tutto in me fosse andato all’aria per poi ritrovare un posto nuovo, una funzione diversa dalla precedente. Una voce senza distacco, come se la terza persona che raccontava la vicenda dei Bandini, uscisse dalle pagine per condurmi in Colorado, dove il ghiaccio impedisce a un muratore di lavorare e comprare pane, e mi dicesse: guarda com’è facile diventare meschini, disumani.

John Fante nacque l’8 aprile 1909 a Denver, figlio di Nick Fante, migrante abruzzese di Torricella Peligna, il paese in cui si svolge il Festival “Il Dio di Mio Padre” dedicato allo scrittore, e da Mary Capoluongo, nata da un sarto di origini lucane. Pochi come lui sono stati in grado di raccontare lo spaesamento, la sensazione di essere costantemente fuori posto, passeggeri abusivi su una crociera di lusso, confinati nella stiva, mentre gli altri ballano e si divertono. Il bisogno di riscatto.

Dago red, non è solo il titolo di una sua raccolta di racconti, ma un segno distintivo, uno stigma. A “red”, il vino rosso e forte, si unisce Dago (pron. dey-goh), uno degli epiteti destinati ai migranti italiani negli Stati Uniti. La parola potrebbe derivare da they go; oppure until the day goes, per indicare i lavoratori a giornata, o da dagger coltello, gente dalla lama facile. Lo utilizzò già nel 1904 Giovanni Pascoli, in Italy, dove il poeta parla di migrazione: “… dietro mormorare odono DEGO”.

E venne rispolverato per Giacomo “Ago” Agostini che nel 1974 partecipava alla 200 miglia di Daytona: Ago-Dago, per indicare l’inferiorità del pilota italiano nei confronti degli statunitensi. Agostini vinse la gara.

Nell’invitarmi a scrivere queste righe mi è stato chiesto come John Fante potrebbe contribuire al dibattito sul fenomeno migratorio. Credo che non avrebbe un’opinione in merito, e provo a spiegarmi. I sondaggi sul senso di insicurezza per la presenza di stranieri, ci dicono che la percentuale più alta di insicuri che invocano il respingimento come unica soluzione, si trova fra persone che escono poco di casa, col televisore sempre acceso, bassa scolarizzazione, che mai hanno avuto contatti con uno straniero e gli anziani. Chi viaggia, legge, ed è giovane, non capisce il senso della domanda. Non riconosce come straniero uno che è compagno di banco, con cui va in palestra, al cinema. La multiculturalità è già un dato di fatto.

E gli episodi di bullismo in questo contesto, credo, avvengono perché siamo noi adulti a indicare il bersaglio, a dire che la mancanza di realizzazione e il disagio tipico dell’età, sono causati dalla presenza del diverso. E torno a John Fante. Non avrebbe un’opinione sulla migrazione perché per lui non era un fenomeno, ma una condizione; né credo gli importasse il motivo per cui la gente emigri (siamo forse nati ancorati alla terra come gli alberi?). Può dirci, piuttosto, cosa significhi essere un migrante, di passaggio, portatori di quell’impermanenza che definisce ogni essere vivente. E mortale.

Vivere, e morire, sono cose difficilissime, e non basta una vita a prepararci al compito. Ma un artista ci può condurre per mano sull’orlo dell’abisso (accadde a me con Aspetta primavera, Bandini) e sussurrarci: farà paura, ci sarà dolore, pianto, cicatrici, ti avevano detto che sarebbe stato facile, e invece. Ma si può fare, e ti mostro la via.

La cultura, l’arte, non sono sostantivi, ma avverbi di modo, come affrontare la vita, a dieci o a cento anni. E se pensi di non riuscire e la paura ti assale, chiedi alla polvere. Chiedi a John Fante.

Viminale: la partita impopolare del “dopo di lui”

Non abbiamo la minima idea su come finirà la trattativa tra M5S e Pd per la formazione di un eventuale governo. Una cosa però la sappiamo già. Se l’esecutivo vedrà la luce, c’è un luogo del potere da cui ogni politico dotato di intelletto cercherà di tenersi alla larga: il Viminale. Diventare ministro dell’Interno dopo Matteo Salvini è oggi un’impresa da far tremare i polsi a tutti. Non, intendiamoci, perché sia particolarmente difficile reggere quel dicastero. È molto più complicato occuparsi di economia, lavoro, scuola, Pubblica amministrazione e sanità. Grazie all’abilità dei vari capi della Polizia e dei funzionari che si sono succeduti nel corso degli anni, il Viminale funziona quasi come un orologio svizzero. Salvini poteva fare il ministro al moijto dalla spiaggia del Papeete perché a Roma c’era chi vigilava sulla sicurezza degli italiani al posto suo. Ma se la macchina va avanti da sola, la differenza in termini di popolarità e consenso elettorale la fanno i proclami; il braccio di ferro con le Ong; i porti a parole chiusi, ma in realtà aperti a ogni barchino di disperati che riesca ad attraversare da solo il Mediterraneo; il continuo sottolineare che gli immigrati irregolari in termini percentuali commettono molti più reati rispetto agli italiani (anche perché essendo irregolari hanno ben poche possibilità di trovare un lavoro in un Paese in cui già il lavoro scarseggia, ndr)

È evidente che il prossimo ministro dell’Interno di tutto questo, in un ipotetico governo rosso-giallo, non dovrà e potrà parlare. A ogni nuovo sbarco o delitto verrà anzi cannoneggiato dalla destra, mentre a sinistra gli spareranno contro tutte le volte che tenterà di far applicare la legge. Non i famosi decreti Sicurezza di cui il Pd pretende ora la cancellazione, ma persino le vecchie norme volute da Marco Minniti, che a ben vedere non sono mai state a fondo utilizzate. Per rendersene conto basta osservare cosa dicono oggi ingiustamente di Minniti buona parte del suo stesso partito e tutti i possibili alleati a sinistra.

In un esecutivo che, alla luce dei risultati delle Europee, nasce estremamente impopolare, il successore di Salvini sarà il più impopolare tra i ministri. Per mesi e mesi i confronti tra il vecchio e il nuovo inquilino del Viminale nei bar, sui social e nei talk televisivi saranno continui. E in larga maggioranza saranno a sfavore del nuovo arrivato. Certo, col tempo, se sarà abile e serio riuscirà a farsi valere. Sull’immigrazione, per esempio, ci sono tante cose da fare che non sono mai state fatte. A partire dagli accordi con molti Paesi stranieri per rimpatriare chi non ha diritto a restare, passando per i corridoi umanitari che diano ai veri profughi la possibilità di venire e gli interventi per fermare lo scempio del caporalato nei campi del sud e del nord Italia. Ma l’elenco è molto più lungo.

Ora solo un uomo o una donna dotati di carattere d’acciaio e impermeabili alle lusinghe del consenso popolare possono essere disposti a imbarcarsi in una situazione del genere. Non i nostri politici che, salvo rare eccezioni, non guardano alle prossime generazioni, ma solo alle prossime elezioni. Per questo prevediamo che, davanti all’offerta del Viminale da parte di un eventuale nuovo premier, assisteremo a un fuggi fuggi generale. Dicono che quella sia la seconda poltrona più importante del governo. Ma dopo Salvini è diventata quella giusta per farsi per primi impallinare.

Europa e Italia, una terza via è già possibile

La recessione economica sta toccando anche la Germania, la quale avendo avuto anche dalla Commissione europea il massimo sostegno e avendo violato, senza subire richiami, per ben cinque volte i limiti di Maastricht, peraltro non denunciando mai il suo surplus commerciale, ha raggiunto una indiscutibile supremazia economica in Europa. La stessa Germania però, come poco sopra si diceva, è costretta oggi a constatare quanto dannoso sia per gli Stati e per l’Europa il sistema economico predatorio neoliberista, che vuole la ricchezza nelle mani di pochi, lascia libere le imprese di acquistare prodotti finanziari nocivi anziché investire in attività produttive, vieta l’intervento dello Stato nell’economia, e fa in modo che gli Stati più forti dominino gli Stati più deboli.

Ciò in pieno contrasto con il sistema economico di stampo keynesiano, che vuole la distribuzione della ricchezza alla base della piramide sociale, fa crescere l’economia, assicura la permanenza e lo sviluppo dei posti di lavoro, e sostiene l’intervento dello Stato nell’economia.

Gli economisti tedeschi pensano soltanto ad allentare i limiti all’indebitamento, ma non riconoscono che il loro errore è stato di proporzioni molto più vaste, poiché essi hanno sostenuto un sistema economico predatorio sostituendolo al sistema economico produttivo di stampo keynesiano. Ma ora i nodi sono arrivati al pettine.

La situazione politica italiana, già tanto ingarbugliata al suo interno, si trova oggi a muoversi in una ben più ampia situazione europea, poiché l’Europa stessa, temendo i populismi e i sovranismi, auspica, a quanto pare, un’alleanza tra 5 Stelle e Pd.

Siamo abituati da tempo a questi cambiamenti radicali dello schieramento politico e una soluzione di questo tipo non ci spaventa.

Ma un dato deve essere tenuto in primissima considerazione: una eventuale alleanza fra M5S e Pd deve costituire una forza all’interno dell’Europa capace di far riflettere gli economisti europei e far comprendere loro che tra gli estremi di una politica neoliberista predatoria finora seguita e una politica sovranista e populista disgregatrice della stessa Europa, esiste una terza via: quella di far valere, come prevede la Costituzione italiana, all’interno dei singoli Stati membri, e tra gli Stati stessi, una politica che distribuisca la ricchezza fra tutti i lavoratori evitando azioni dissipatrici e predatorie da parte della finanza.

E si ricordi che da una parte dello schieramento della sinistra italiana è stata presentata alla Camera una proposta di legge (On. Stefano Fassina) che dà un’interpretazione costituzionalmente orientata, sia dei beni comuni, sia dell’articolo 832 del Codice civile riguardante la proprietà privata, e che altrettanto ha fatto il Movimento 5 Stelle presentando un analogo disegno di legge al Senato (senatrice Nugnes e altri senatori M5S).

È su queste due prime leggi che può e deve assolutamente fondarsi una rottura con il passato e l’inizio di una politica che voglia davvero assicurare l’occupazione di tutti i lavoratori e lo sviluppo economico dell’Europa.