La sciarada estiva: interpretare Salvini

Cominciamo a temere seriamente per le condizioni mentali di Matteo Salvini. Ieri abbiamo visto l’uomo forte della Lega presentarsi ai microfoni dopo aver incontrato Mattarella: ebbene, non speravamo rivelasse la soluzione del gioco dell’estate, cioè il perché ha fatto cadere il governo che aveva appena promesso di sostenere (del resto abbiamo perso il conto delle mozioni di sfiducia che ha presentato e ritirato nell’arco di 24 ore); ma credevamo che almeno ribadisse l’irremovibile volontà di andare al voto, in virtù di quel “rifarei tutto” con cui martedì ha aperto il suo discorso dello sbraco.

L’esordio è stato spiazzante: “Qualcuno mi dice: ragioniamo perché dei no diventano sì. Miglioriamo il programma, miglioriamo la squadra e diamoci un obiettivo non contro, ma per”. Dunque, se ben interpretiamo la sciarada, Salvini sa da fonti certe che il M5S starebbe pensando di accettare alcune (ignote) condizioni dettate da lui. Scenario affascinante; se non fosse che poco dopo Di Maio ha esposto i punti di un governo politicamente incompatibile con Salvini (più il taglio dei parlamentari). Tre sono le ipotesi: o Salvini e Di Maio hanno parlato con due Mattarella diversi, uno che ha appreso che il governo continua e uno che sa che invece è finito martedì, come incidentalmente dichiarato dal presidente del Consiglio; o c’è una trattativa segreta tra i leader che Di Maio tiene nascosta all’opinione pubblica per fare il doppio gioco col Pd; o Salvini, accortosi della cantonata presa per pura smania ghiandolare, sta abdicando alla sua tenuta mentale.

Una breve digressione sul senso dei “no” che avrebbero indotto Salvini a innescare la psicotica pochade d’agosto. L’unico “no” inequivocabile pronunciato dal M5S è stato quello sul Tav, passato lo stesso in Senato grazie ai voti della Grande Armata del Sì composta da Pd, Lega, FI ecc. Mentre sulla Gronda di Genova pende una sospensione per via del possibile ritiro della concessione a Autostrade, sono legione i cantieri – Terzo Valico, Pedemontana, Tav Brescia-Verona, passanti autostradali di ogni genere e grado – su cui il ministero dei Trasporti ha dato via libera e/o piegato la testa (infatti ex-elettori e comitati locali se incontrano Toninelli per strada lo menano).

Ma torniamo all’indecifrabile discorso della Vetrata: “L’unica cosa che mi sento di dire, è che sarebbe irrispettoso veder rientrare dalla finestra quei Renzi, quelle Boschi, quei Casini, quelle Boldrini a far parte di un governo”. Qui è chiaro come le sabbie mobili in cui si è infilato obblighino Salvini ad aggrapparsi a nemici immaginari quali spaventosa alternativa a sé stesso (e in effetti, su Renzi qualche carta se la può giocare). Ma cosa c’entrano Renzi, Boschi, Casini e Boldrini nello scenario pre-7 agosto? Risulta forse all’ex ministro dell’Interno che stessero preparando un colpo di Stato? Lo spauracchio risente poi di un’insanabile aporia: è stato proprio Salvini, con le sevizie che ha tentato di infliggere alle Istituzioni, a ridare linfa al grande (si fa per dire) opportunismo politico del Machiavelli del Valdarno; sono state le sue manovre scomposte a far muovere le truppe renziane, ringalluzzite dall’ipotesi di far fuori Zingaretti coi noti metodi liquidatorî del capo. Le persone che Salvini voleva falciare col suo colpo di testa non erano certo i suoi (si fa sempre per dire) oppositori, ma i suoi alleati, e Conte che era il suo presidente.

Il finale è un rompicapo: “L’Italia non può avere un governo che litiga”, ha detto colui che ha aperto la lite: “abbiamo letto (quindi i giornali sono affidabili, ndr) che alcuni parlamentari 5Stelle sosterrebbero una manovra coraggiosa, espansiva”. Rassicurante: Salvini più una manciata di peones grillini potrebbero fare una manovra di mille fantastiliardi in deficit al solo scopo di pompare la propaganda, senza stavolta un Conte che vada a trattare in Europa per evitare all’Italia la procedura d’infrazione. Beninteso, e lo dice da “uomo concreto” e d’onore: “la via maestra sono le elezioni”. Se Salvini non sente le voci e non sta bluffando, può darsi che qualche scheggia impazzita del M5S sia tentata di sottostare ai suoi arbitrî credendosi indispensabile (è tipico di certi rapporti sadomasochistici), ma la ghiandola frigge. Ora, è chiaro che Zingaretti non vuole l’accordo, altrimenti ai 5 punti, talmente vaghi che potevano essere anche 256 e includere la salvaguardia dei panda, non avrebbe aggiunto condizioni (la rimozione di Conte) che il M5S non può accettare. Finora la soluzione più sensata è sembrata rompere il giocattolo a Salvini, formando un governo nuovo, Costituzione alla mano. Ma, se la politica fosse razionale, a Pd e M5S converrebbe andare al voto nel momento in cui Salvini è al suo minimo di credibilità e di lucidità.

Ps. L’onore è un lusso che solo i gentiluomini possono permettersi (Lettera da una sconosciuta, film del 1948 di Max Ophüls).

Mail Bos

 

Il partito degli affari ha vinto sul Tav, in spregio ai locali

E Tav sia. Per volere di Dio, del re e del popolo ci si imbarcherà in questa impresa improbabile, inutile e dispendiosa. Il confronto è stato impari: non un giornale, una trasmissione televisiva, un gruppo politico – di peso – che si sia sottratto alla narrazione di quello che il nostro giornale ha definito come “il partito degli affari”, che voleva l’opera utile e imprescindibile. Ovviamente anche una gran parte dell’opinione pubblica così formata ha finito per soggiacervi, in spregio totale ai popoli locali che si battevano disperatamente per difendere i loro luoghi, dipinti dal sistema come facinorosi e violenti.

Vorrei proporre ora al Fatto, cui non mancheranno certo fonti e risorse, l’istituzione di una rubrica che resista nei tempi lunghi dell’opera e che tenda a informare i lettori puntualmente delle spese, dei disastri e via via dei benefici, se ce ne saranno, di tale dissennata impresa. La si potrebbe intitolare: “Hai voluto la Tav…oletta? E ora…”.

Vincenzo Orsini

 

Caro Vincenzo, ma certo che la faremo, ove mai partissero i lavori. Ma, secondo me, non partiranno mai.

M. Trav.

 

Le citazioni di Giuseppe contro gli sproloqui di Matteo

Nel discorso di Conte, c’erano citazioni colte non fine a se stesse o per impreziosire il concetto, ma adottate per completarlo. Non si può dire lo stesso riguardo a Salvini che, citando San Giovanni Paolo II, ha rivelato il capovolgimento totale di un pensiero forte e sano, usato per argomentare un’idea rigida “incorniciata” da simboli religiosi, che stridono nell’animo di un cristiano o di un laico perbene.

Roberto Calò

 

Pasolini ci avvertì: siamo diventati un corpo senza nervi

Vorrei ricordare alcune frasi di Pier Paolo Pasolini, che ancora oggi sono piene di senso compiuto: “L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è ora, il fascismo. L’Italia cioè non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione […] Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione. Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà…”.

Maurizio Contigiani

 

Per non ritrovarci con i peggiori l’unica soluzione è Conte

È difficile fare un governo con questo Pd dove da tempo imperversa la mediocrità e nessuno vuole accanto persone capaci o addirittura “nuove e capaci”. Conte si è rivelato il miglior presidente del Consiglio degli ultimi trent’anni: competente, equilibrato, scrupoloso, rispettoso delle istituzioni nazionali ed europee, fermo e indipendente quanto basta. Gli si dia invece ampio mandato perché formi un governo con il meglio che trova in Italia, dentro (ma anche fuori) i partiti disponibili alla nuova coalizione, senza “veti” né “raccomandazioni”.

Carlo de Lisio

 

Il Centro Impastato ricorda Giovanna Maggiani Chelli

Il Centro Impastato di Palermo ricorda con affettuosa commozione Giovanna Maggiani Chelli, di cui abbiamo condiviso l’instancabile impegno per la verità sulla strage di Firenze del 27 maggio 1993, per fare piena luce sul contesto che ha generato, supportato e coperto lo stragismo mafioso, in cui si sono intrecciati il potere criminale e la criminalità del potere, accomunati nell’attacco alla convivenza democratica. L’abbiamo incontrata, partecipato a iniziative sulla strategia della violenza mafiosa, dato il nostro contributo ogni volta che ha chiesto collaborazione alla sua ricerca puntuale e appassionata a cui ha dedicato tutta la sua vita.

Per quanti considerano la lotta alle mafie e a ogni forma di complicità un compito imprescindibile, Giovanna è l’esempio di un impegno civile, lucido e coraggioso, intelligente e determinato, una forma di Resistenza quotidiana contro tutte le tentazioni di rassegnazione e di resa al depistaggio e alla menzogna. Sappiamo che la sua scomparsa lascia un vuoto, ma il suo prodigarsi con tutte le sue energie è una eredità difficile e preziosa, una strada da seguire, in un mondo in cui la volontà di portare a galla negoziati e trattative convive con la crisi dei valori in cui ha creduto, calpestati o messi in forse da vecchie e nuove complicità. Viviamo un periodo in cui la barbarie del linguaggio, l’arroganza dei nuovi potenti, l’indifferenza di gran parte della popolazione mettono gravemente a rischio le sorti della democrazia. Un mondo lontano ed estraneo a quello per cui si è battuta. Cara Giovanna, ci mancheranno la tua generosità, la tua ansia di giustizia e la tua nobile impazienza.

Centro Peppino Impastato Palermo

Una scommessa, ma il rischio maggiore è consegnare il Paese alla Lega

Gentile redazione, gradirei una risposta ad alcuni quesiti che io e i miei amici ci siamo posti.

1 Possibile che i 5 Stelle non abbiano capito che Zingaretti sta offrendo una polpetta avvelenata: vecchie mummie che risorgono e programma fuffa!

2 Governiamo insieme, poi aprono una crisi con un pretesto qualsiasi e si vota;

3 A questo punto i 5 Stelle saranno annientati;

4 Il grosso inciucione Pd-Lega è riuscito.

Il Movimento potrebbe invece dire che: per il bene del Paese loro ci hanno provato. Andrebbero al voto, Conte premier magari fosse, oppure un personaggio di elevata caratura, esperienza e rettitudine. Sarebbe l’unica via possibile per ottenere più voti, visto che Salvini, checché ne dicano i sondaggi farlocchi, è in caduta, salverebbero la faccia e l’elettorato.

Antonella Petrucci

 

Gentile Antonella, i suoi timori da elettrice del Movimento sono comprensibili. Il possibile accordo con il Pd rappresenta una sorta di abiura per tanti elettori del M5S e comporta pesanti rischi politici. E il primo per il Movimento è ovviamente il pericolo di affondare in tempi brevi con un esecutivo che dovrebbe nascere in fretta e tra mille sospetti incrociati. Un fallimento in tempi brevi del governo “giallorosso”, è evidente, sarebbe il migliore dei regali per Matteo Salvini, che potrebbe passare all’incasso nelle urne: magari già nella prossima primavera, dopo una campagna elettorale contro “l’inciucio Pd-M5S” come già urlano dirigenti e profili social del Carroccio. Però, Antonella, il prezzo lo pagherebbe anche il Pd. E questo dovrebbe essere un grande incentivo a fare sul serio per Zingaretti e i suoi. Dopodiché il quadro racconta che il M5S è in una fase di notevole difficoltà. Eventuali urne in autunno, o anche a inizio 2020, potrebbero costare carissimo ai 5Stelle. Che in campagna elettorale, è vero, potrebbero puntare sul tradimento di Salvini e rivendicare coerenza e provvedimenti realizzati. Ma potrebbe non bastare per evitare una sconfitta che, se fosse di proporzioni simili a quella delle Europee (17%), metterebbe a rischio la sopravvivenza del Movimento. A fronte di questo, va ricordato che i 5Stelle possono trovare diversi punti di contatto su temi e programmi con il Pd, dall’ambiente ai diritti civili fino al lavoro. Affinità che non cancellano le tante differenze, ma che possono essere la base per un esperimento rischioso quanto suggestivo. La scommessa è difficile. Ma può valere la pena giocare.

Luca De Carolis

Gli indios non sono più quelli di una volta

Quando nel maggio del 2017 arrivai a Buenos Aires, decisi che avrei realizzato un sogno che nutrivo dall’infanzia: visitare la foresta subtropicale, al confine con Brasile e Paraguay, e incontrare gli indios Guaraní. Feci scalo con l’aereo a Iguazú e prenotai un albergo vicino alle cascate. Chiesi alla reception informazioni sul villaggio più vicino. Mi fu detto che ce n’era più d’uno, avrebbero chiamato uno dei cacicchi per comunicargli l’arrivo di una giornalista interessata a realizzare un reportage. Il giorno seguente mi riferirono che il cacicco era disposto a farmi entrare nel villaggio a patto che gli dessi 200 dollari. Rimasi sconvolta. Sapevo che gli stili di vita dei popoli originari stessero cambiando, ma non mi attendevo una richiesta simile. Infastidita, rifiutai. Poco dopo, seppi dell’esistenza di un altro villaggio. Mi avventurai nella foresta, incuriosita e al contempo impaurita dalla possibile presenza di animali di ogni sorta, inclusi i giaguari. Seguendo i cartelli improvvisati su pezzi di tronco, arrivai nella comunità guaraní Yriapu. Conobbi Quorai, un uomo che da qualche anno aveva abbandonato la vita da cacciatore-raccoglitore per diventare guida turistica. Tutte le trappole che fino a qualche tempo prima usava per cibarsi erano diventate oggetti d’esposizione in una sorta di museo a cielo aperto. Anche le case erano state distrutte per fare posto a quelle fornite dallo Stato. Quorai aveva lo sguardo smarrito: la globalizzazione non li aveva risparmiati. Bottiglie di plastica erano sparse qua e là. L’alcolismo dilagava, così come le malattie gastrointestinali per via degli alimenti comprati in città. Compresi, allora, che la richiesta del cacicco non era stata peregrina. La “civiltà” li stava inghiottendo. Non restava che armarsi degli stessi strumenti e resistere alla perdita dell’identità, col rischio di finire a ingrossare le file dei poveri.

Scompare il Titanic, ma solo in fondo al mare. Il ricordo del film è vivo e vegeto

Desta un perturbante effetto scoprire che il Titanic sta lentamente scomparendo. A scoprirlo sono state le nuove immersioni effettuate dopo 15 anni da una nuova équipe subacquea, scesa a 4.000 metri di profondità per osservare il relitto. Secondo il video diffuso e divenuto già virale, infatti, la parte più danneggiata è il fianco destro e l’intera struttura superiore è collassata. In più, la flora sottomarina concorre a deteriorare i materiali organici del transatlantico affondato nell’aprile del 1912 durante il suo viaggio inaugurale che da Southampton avrebbe dovuto compiersi a New York, ma dove non approdò mai.

Un sentimento, dicevamo, in tutto e per tutto simile al misto d’impotenza e rabbia che ci avvince di fronte alla lenta agonia di una persona cara. E ciò perché vale per alcuni oggetti che ci siano particolarmente cari (solo alcuni, non tutti) ciò che vale per le persone (anche qui alcune, non tutte): la mancanza. Il Titanic è sì inserito nella cultura popolare da appartenere a ciascuno di noi, come un lontano parente mai visto di cui però s’è sempre sentito fare il nome.

Ma il palpito mentale che a un certo punto interviene – lo stesso che lo psichiatra rumeno Boris Cyrulnik chiama “resilienza” – e ci invita a far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, deve farci quasi ignorare la notizia. Come James Dean o Amy Whynouse, il Titanic è solo un altro che segue l’adagio del poeta greco Menandro, “Muore giovane chi è caro agli dei”. Colto in ultimo istante di splendore, il Titanic rimarrà sempre la nave in cui Jack e Roze si sono dichiarati amore eterno (certo, mica tanto eterno…) mentre Celine Dion canta “My heart will go on”.

Quel ramo (cool) del lago di Como che volge agli Usa

“Dimenticate la Costiera Amalfitana, Capri, la Riviera. La destinazione più cool in Italia è il lago di Como”, ha sentenziato la Cnn in un reportage di luglio. E ha spiegato doviziosamente perché. Intanto, si trova a un’ora da Milano, altro luogo trend delle destinazioni globali. Poi, “lo scenario incredibilmente pittoresco”, con tanto di “vegetazione lussureggiante e borghi storici sul lago incorniciati dallo sfondo delle Alpi italiane e svizzere”. Infine, immagini struggenti. Zoom su Villa Carlotta, dove le piante si tuffano sul lago. Scorci dalla terrazza del Mandarin, hotel extra-lusso. Citazione dei film girati sul lago, come l’episodio II di Star Wars Attack of the Clones. Ma anche Ocean twelve, Casino Royale… Ecco Villa d’Este, dove Obama è andato poche settimane fa accompagnato da George Clooney che da quando si è installato a Laglio è diventato il vero testimonial del lago e il suo mentore negli States. Infatti ormai è un via vai di attori, cantanti e vip. Per esempio, Bill Gates (beccato dai paparazzi mentre si issa un po’ impacciato dal motoscafo al molo di Cernobbio).

O il Boss: Bruce Springsteen con moglie è un habitué di Como. Sting alterna Toscana e lago. Avvistate Gloria Estefan e Christina Aguilera che compra giornali all’edicola di piazza Duomo e poi si rilassa al Wakeboard di Blevio, il lido dove ha sede la scuola di sci e sport nautici. A proposito dei taxi-motoscafo, quelli del lago sono più cari che a Venezia. Un dettaglio, ma significativo.

La Cnn non si è limitata a vantare le aristocratiche bellezze lacustri, ma suggerisce escursioni: per esempio, da Argegno (dove è stato visto Matt Dillon) consiglia di pigliare la funivia per Pigra, a picco sul lago, località della Val d’Intelvi è tornata ai fasti di una volta, erano anni che non si vedeva tanta gente così, sono tornati i milanesi che hanno riaperto le loro ville a Lanzo, a San Fedele, a Castiglione, a Pellio, a Casasco. Da un lato, è la riscoperta della “villeggiatura” di una volta: ritmi vacanzieri meno affannosi, sentieri e pensieri, la fuga dal pigia pigia e dalla volgarità ferragostana nelle spiagge; almeno, così senti dire ai tavoli dei caffè di San Fedele, cuore della Val d’Intelvi, però c’entrano molto anche la calura insopportabile di quest’estate torrida. Molti, inoltre, non si fidano più di certe mete extraeuropee esposte al rischio terroristico.

I dati lo confermano. Nella settimana di Ferragosto, il 99 per cento delle strutture alberghiere di Lecco era al completo, seguita a ruota (97 per cento) da quelle di Como, mentre il mare italiano lamentava defezioni inaspettate e presenze in brusco calo. C’è da dire che l’estate sul lago è diventata competitiva nei confronti del mare: spiagge attrezzate, alcune con sabbia, piscine, bistrot, beach day che nei fine settimana registrano il tutto esaurito.

A Bellagio, il LiBe (140 lettini) è uno dei posti più frequentati della movida. Ad Argegno, terrazza sul lago, ombrelloni, piscina: e clientela in gran parte straniera. Pure al lido di Lenno, incastonato tra le montagne e il golfo di Venere. Originale l’opzione di Cadenabbia: la piscina galleggiante dell’Infinity Pool, tra le più grandi d’Europa (ci sono 220 lettini a farle da cornice), con ristorante e bar dove si fa musica dal vivo occhieggia con la punta di Bellagio e i sogni di un mondo senza stress.

Quella miniera d’oro nero: il mio muro fu l’Apartheid

Nell’estate del 1989, a pochi mesi dal crollo del Muro di Berlino, io mi stavo occupando del lento sfaldamento di un altro muro: l’Apartheid. Nell’agosto dell’89 mi trovavo in Sudafrica per L’Europeo. Nel mese successivo il nuovo presidente sudafricano De Klerk, che sostituiva l’ultraconservatore Botha, avrebbe annunciato la sua intenzione di abolire la discriminazione razziale fra bianchi e neri, una decisione che era nell’aria da tempo. La parte più meschina e stupida dell’Apartheid, la cosiddetta “petty apartheid”, era stata già abolita: l’Immorality Act che interdiva i rapporti sessuali tra persone di razze diverse e la proibizione a neri e bianchi di frequentare gli stessi locali e usare gli stessi mezzi pubblici. Resisteva invece l’Apartheid più dura, la “job reservation”, che impediva ai neri di raggiungere posizioni apicali.

Ma nel 1989 anche l’abolizione della “petty apartheid” era più virtuale che reale, tale era la diffidenza che si era accumulata nei decenni fra le due comunità. Inoltre c’era una differenza culturale. È difficile immaginare due comunità così agli antipodi: la determinazione, la chiusa cupezza, di stampo protestante, degli afrikaner pedigree, boeri olandesi preilluministi che sembravano usciti paro paro dai quadri di Bruegel e l’allegria, la bonomia e la tradizionale indolenza dei neri che, nel 1989, erano ancora quelli descritti da Karen Blixen ne La mia Africa.

A Johannesburg sono salito a Hillbrow, una collina sopra la città, e sono entrato in un discreto pub, il Belmont. Separate da un vestibolo c’erano due grandi sale: il Taffi’s Bar e il Blue Bar. Nessuna scritta “white only”. Ma i bianchi stavano tutti al Taffi’s e i neri tutti al Blue. Non si vedeva un solo nero su un autobus di bianchi né, tantomeno, un bianco su un autobus che portava i neri nelle loro township. L’ho fatto io prendendo il bus per Alexandra, uno dei ghetti, insieme a Soweto, più famosi. Conservo ancora, con un certo orgoglio, il biglietto della Putco. I passeggeri neri mi guardavano con una certa curiosità, ma senza alcuna ostilità. Un’ostilità che non ho mai incontrato né nelle township né nei loro locali. Come mi ha detto un leader del Cosatu, il sindacato dei lavoratori neri: “Noi non ce l’abbiamo con i bianchi presi individualmente, ma con un sistema”.

C’è però una differenza tra i neri anziani e i giovani, soprattutto quelli che hanno studiato in Occidente. Mi trovavo una sera a cena a casa di amici, a Durban. C’era un giovane medico Bheki Mbhele che lavorava all’ospedale King Edward VIII. Mi trattava freddamente. Capisco che per lui doveva essere frustrante dover rientrare dopo cena con la sua bella Mercedes bianca e il suo PhD, a Clermont, il ghetto nero di Durban. Ma è anche vero che i neri che hanno studiato in Occidente perdono tutte le buone qualità della loro razza, a cominciare dalla tradizionale affabilità e una certa fanciullaggine, per acquisire tutte le cattive dei bianchi, a partire dall’ideologismo.

L’Apartheid in ritirata in superficie (sto parlando sempre del 1989) si prende la sua rivincita nelle miniere. Scendo nella Western Deep Levels, una delle più grandi miniere aurifere del Sudafrica. L’ascensore è una grande gabbia divisa a mezz’altezza da una grata. Nella parte superiore stanno i neri, sotto i bianchi. Se cade una pietra se la buscano i primi. A 2700 metri di profondità, dove si trova il reef, la vena aurifera, il caldo è insopportabile, l’umidità soffocante, non si respira. Anche il più piccolo movimento costa fatica. Il geologo fa portare i suoi strumenti dal bass boy, il capo dei lavoratori neri. Svoltiamo in una galleria ancora più angusta, un budello in leggera salita. C’è un passaggio in cui siamo costretti a strisciare pancia a terra fra la ghiaia scivolosa e la roccia che ci preme sulla schiena. Sono dieci, quindici metri da incubo. Finalmente passiamo al di là della strettoia. Alla luce delle torce che ondeggiano sugli elmetti quattro o cinque neri a torso nudo trapanano la roccia con i martelli pneumatici. È lo stope, l’ultima frontiera della miniera, il posto dove si estrae. Il rumore è infernale. I machine boy lavorano accovacciati perché il cunicolo è alto meno di un metro. Devono stare in quella posizione quattro o cinque ore, finché hanno finito di fare i fori nei quali verranno messe le cariche di dinamite. Alla luce della torcia il geologo mi mostra il reef, la vena, la stretta striscia di 30 centimetri di roccia per cui tutta la miniera, con i suoi uffici, le sue baracche, i suoi pozzi, le sue gabbie, i suoi livelli, i suoi treni, le sue gallerie, è costruita. Trenta maledetti centimetri, da cui si estrarranno 5, 10 grammi d’oro a tonnellata. Il geologo mi spiega perché lo stope è così basso, non più di un metro: per non diminuire la resa. Più bassa è la galleria, più alta è la resa. Risaliamo in superficie. La commovente natura sudafricana mi viene incontro. Riesce difficile immaginare che proprio sotto i nostri piedi c’è l’inferno.

Nelson Mandela ha potuto compiere il miracolo di una transazione pacifica dal Sudafrica dell’Apartheid a uno Stato di diritto perché apparteneva alle due culture.

Da una parte, avvocato, aveva introiettato i principi dell’Illuminismo, ma dall’altra rimaneva un Principe Xosa e, nonostante i 27 anni di galera, non aveva perso la tradizionale moderatezza dei neri d’antan.

Adesso in Sudafrica c’è la democrazia. La leadership è nera e corrotta come in tutte le altre, o quasi, democrazie del mondo. Tutto è tornato alla normalità.

West Kowloon, dove Pechino arresta chi vuole

“Stiamo per attraversarlo. Prega per me”. Le ultime parole spedite via whatsapp da Simon Cheng alla fidanzata prima di scomparire l’8 agosto scorso si riferiscono al momento in cui il treno su cui il giovane dipendente del consolato britannico di Hong Kong viaggiava per rientrare a casa dalla città cinese di Shenzen, stava per arrivare alla stazione condivisa di West Kowloon. Il treno ad alta velocità tra Shenzhen e Hong Kong si ferma infatti a una sola stazione di controllo doganale. L’anno scorso, un accordo ampiamente criticato tra le autorità cinesi e la governatrice di Hong Kong ha posto parte della stazione di West Kowloon sotto la legge cinese, consentendo ai funzionari dell’immigrazione e alla polizia cinesi di effettuare controlli . Ed è proprio quanto accaduto – per la prima volta – a West Kowloon il segnale che le peggiori paure della maggior parte degli abitanti di Hong Kong nei confronti della Cina sono giustificate.

Ufficialmente Simon Cheng è stato arrestato per aver agevolato la prostituzione. Maper la sua famiglia e i suoi legali è una scusa. Cheng, prima di essere arrestato alla stazione condivisa come confermato due giorni fa da Pechino, aveva riportato sui social network le apprensioni dei suoi concittadini proprio su questa legge e postato le immagini delle proteste. Nonostante le autorità cinesi abbiano dichiarato che Cheng dovrà scontare 15 giorni di carcerazione amministrativa per aver violato la legge sulla sicurezza nazionale, non vi è alcun dubbio che le manette a suoi polsi siano scattate per il suo sostegno a quelli che Pechino considera ormai “terroristi” e per essere un impiegato del consolato della Gran Bretagna. Il Regno Unito in questi mesi è stato più volte accusato dalla nomenklatura cinese di interferire indebitamente negli affari interni della Cina fomentando la rivolta. In realtà Londra si sente ancora garante dell’autonomia di Hong Kong dato che nel 1997 (anno della riconsegna di Hong Kong alla Cina) pretese il rispetto della formula “due sistemi, uno stato”.

L’arresto di Cheng è un chiaro monito per i giovani di Hong Kong che non accettano il sistema cinese, ma non è detto che le proteste si calmeranno, anzi. Pare certo che i funzionari dell’immigrazione cinese cerchino regolarmente i contenuti dei cellulari e ispezionino le borse dei viaggiatori mentre attraversano il confine. Reagendo alla detenzione di Cheng, Gary Fan, un legislatore democratico che ha votato contro il piano, ha affermato che “questo caso dimostra che il mio incubo si è avverato”.

I critici di Pechino sono ormai sicuri che nel consentire alla legge cinese di operare a Hong Kong, si renderà più facile per i funzionari cinesi arrestare i dissidenti e portarli oltre confine. L’Ordine degli avvocati di Hong Kong ha avvertito che la condivisione della stazione è “incostituzionale”. Gli sportelli di vendita dei biglietti sono stati aperti al pubblico per la prima volta a Hong Kong il 10 settembre 2018.

Nevrosi da guerra, reduci abbandonati dal governo

I soldati dell’esercito, che ha combattuto più guerre negli ultimi cinquant’anni in Medio Oriente, accusano il loro governo di averli abbandonati, di ignorare le loro gravi patologie contratte durante il servizio. Si moltiplicano in Israele le denunce contro il ministero della Difesa di ex soldati affetti da Ptsd – il disturbo post-traumatico da stress – causato dal servizio militare, secondo i gruppi di salute mentale locali e diversi ex coscritti. La “Nevrosi da guerra” – che colpisce soldati coinvolti in combattimenti o eventi bellici di grande drammaticità – ha iniziato a essere studiata dopo la Prima guerra mondiale, ma solo negli anni Ottanta è stata introdotta come diagnosi. Ogni 12 soldati israeliani coinvolti in combattimenti ad alta intensità, 1 segnala poi sintomi Ptsd, secondo uno studio citato dal Guardian. E la mancanza del riconoscimento della “nevrosi da guerra” lascia molti ex militari senza cure dopo il congedo dall’Idf.

Un esercito giovane e moderno, dove la leva è obbligatoria alla fine delle scuole superiori per 32 mesi. I soldati schierati lungo i pericolosi confini di Israele sono giovanissimi, hanno tra i 19 e i 22 anni e sono comandati da ufficiali di poco più anziani.

“Ho sparato al mio primo bersaglio, alla mia prima persona, prima dei 19 anni. Durante il servizio ho avuto compagni che mi sono morti tra le braccia”, racconta Or Eilon, 24 anni, che era un medico di prima linea e comandante di unità. Ha avuto gravi sintomi di Ptsd ed è stato congedato nel 2016. “Ho iniziato a impazzire, ho bruciato cose dentro casa, ho persino colpito mia mamma. Mi sono svegliato per mesi con il letto bagnato”.

Dopo il congedo a Eilon è stato diagnosticato il Ptsd. Nonostante ciò, ha lottato per tre anni per ottenere il riconoscimento dal ministero della Difesa, passo fondamentale per ricevere benefici e cure pagate dal governo. “Loro vogliono che tu ti arrenda, per questo fanno passare così tanto tempo”.

Negli ultimi dieci anni l’Idf – le forze di difesa israeliane – hanno combattuto tre grandi guerre a Gaza, tutte contaminate da accuse di abuso della forza militare. All’inizio di quest’anno, l’Onu ha accusato i soldati israeliani di aver sparato intenzionalmente contro civili che protestavano alla frontiera della Striscia. Contemporaneamente l’Idf esercita una paralizzante occupazione militare sui palestinesi in Cisgiordania.

L’ex soldato Ben Goor Levy, 39 anni, ha sviluppato Ptsd dopo aver sparato e ucciso un uomo: ha dovuto aspettare anni per ottenere il riconoscimento ufficiale della sua condizione. “Lo psichiatra dell’esercito mi ha diagnosticato il Ptsd ma ci sono voluti otto anni perché la Difesa lo accettasse”, racconta Levy. “Loro dicono: Hai sparato a qualcuno? Sei stato addestrato a farlo”.

Ottenere il riconoscimento ufficiale di una diagnosi di Ptsd spesso significa un lungo scontro legale, spiega Guy Konforti, avvocato ed ex consulente legale dell’esercito. “Il processo costa molto e può durare anni. Le vittime devono dimostrare che l’evento scatenante si è verificato durante il servizio militare”.

Eyal Fruchter, ricercatore e direttore della divisione di salute mentale del Rambam Health Care Campus, afferma che il governo israeliano sta evitando le sue responsabilità. “Penso che il ministero della Difesa stia maltrattando le persone. Ci vuole troppo tempo, le persone non chiederanno un risarcimento. Chi può permetterselo affronterà le cure privatamente, chi non può è abbandonato a se stesso”.

Sollecitato di una risposta, l’ufficio del portavoce del ministero della Difesa si è limitato a dichiarare: “Lo Stato di Israele è pienamente impegnato a fornire assistenza sociale e medica a coloro che sono rimasti feriti mentre prestavano servizio per il loro Paese. Per poter beneficiare dei servizi, il richiedente deve dimostrare che una disabilità è stata causata o aggravata durante e in conseguenza del suo servizio militare”. Ma non una parola sui tempi che deve affrontare “la pratica” prima di essere valutata.

L’Amazzonia brucia, le Ong per Bolsonaro sono colpevoli

Le accuse del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, contro le organizzazioni non governative per i roghi che stanno devastando l’Amazzonia, cadono per mancanza di prove. Lo ha ammesso lui stesso, ipotizzando che potrebbero essere stati anche i fazendeiros, ovvero i proprietari agricoli. L’attacco alle associazioni ambientaliste, comunque, persiste. Infatti, ieri, riferendosi al taglio dei fondi destinati all’Amazzonia con cui ha inaugurato il suo mandato, ha detto: “Secondo me, il più forte indizio è che le Ong hanno perso il seno dal quale si allattavano, è molto semplice”. Gli attivisti si difendono: “Il suo è un modo per sviare l’attenzione dalla questione principale, il controllo dell’Amazzonia”. La politica di Bolsonaro ha già manifestato i suoi effetti. La deforestazione è aumentata del 278% a luglio. Lo ha rivelato l’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe), che a Bolsonaro non è particolarmente gradito. Tanto da averne silurato il capo e da sminuirne la credibilità. Qualche giorno fa, l’Inpe ha lanciato l’allarme: nei primi mesi di quest’anno ha registrato l’84% di incendi in più rispetto al 2018. Da gennaio sono 72.843 i roghi che hanno devastato il Paese, più della metà sono scoppiati in Amazzonia. Le fiamme non hanno risparmiato alcune riserve protette. Solo in questa settimana ci sono stati 68 incendi nei territori indigeni. La parte più colpita è lo Stato del Mato Grosso, con una percentuale più alta rispetto al passato del 205%. Le conseguenze sono state percepite nettamente anche a San Paolo, a 3.000 km di distanza, dove il cielo si è totalmente oscurato. Secondo il rapporto dell’Istituto di ricerca ambientale dell’Amazzonia (Ipam) la causa dei roghi è la deforestazione. Sono arse soprattutto le aree disboscate e quindi più secche. “Ci sono poche evidenze di incendi naturali in Amazzonia”, ha dichiarato alla Bbc lo scienzato Jos Barlow che studia la conservazione del polmone verde.