Da 74 giorni non si hanno più notizie di Ibrahim Ezz el-Din, 26 anni, ingegnere e urbanista egiziano, prelevato in strada alla periferia sudorientale del Cairo dalle forze di sicurezza.
Da cinque anni, Ezz el-Din lavora per la Commissione egiziana per i Diritti e le Libertà (Ecrf), la stessa organizzazione che segue il caso Regeni per conto della famiglia del ricercatore italiano rapito e ucciso al Cairo tra gennaio e febbraio del 2016.
Mohamed Lotfy, vicepresidente Ecrf, nessun indizio su dove potrebbe trovarsi il vostro collaboratore?
Nessuno. Con la famiglia e i suoi legali abbiamo tentato di avere notizie attraverso ogni canale possibile, invano. Quando ci siamo rivolti alle stazioni di polizia, a partire da quella di al-Muqattam, il quartiere dove è stato fermato Ibrahim, ci hanno risposto che di lui non sapevano nulla.
Perché hanno arrestato Ezz el-Din?
Fermo restando che non abbiamo idea sulle motivazioni e sugli addebiti penali nei confronti di Ibrahim, credo che il motivo sia legato all’attivismo durante il periodo studentesco e universitario a favore del partito Strong Egypt, vicino ai Fratelli Musulmani e al leader Mohamed Morsi (stroncato da un malore in tribunale lo scorso 17 giugno, ndr). Quello è il passato però. Noi lo abbiamo assunto per le sue capacità. Non per questioni politiche o religiose. In Ecrf abbiamo altri criteri di scelta, tra i 54 dipendenti ci sono profili diversi.
L’incolumità di Ezz el-Din è a rischio?
Certo, la sua famiglia e noi di Ecrf siamo molto preoccupati. È la prima volta di un arresto avvolto nel mistero per così tanto tempo. Di solito dopo una, massimo due settimane, le autorità giudiziarie e di polizia almeno un segnale lo mandano. Stavolta no, prova, secondo me, che Ibrahim è ancora nelle mani dei servizi di sicurezza.
Qualcuno paragona questo caso alla tragedia di Giulio Regeni, è d’accordo?
Forse qualche dettaglio lo ricorda, ma credo si tratti di una storia diametralmente diversa. Soprattutto speriamo che l’epilogo sia diverso.
A proposito di Giulio Regeni, c’è il rischio che l’indagine affondi definitivamente?
Il rischio è concreto. Al momento, almeno qui al Cairo, è tutto fermo. La strategia del regime, come in altre storie drammatiche, è lasciar passare il tempo e far sì che l’opinione pubblica se ne dimentichi. Ecrf tiene la guardia alta e continuerà a farlo, ma senza una volontà politica forte temiamo il peggio.
A proposito di volontà politica, cosa si aspetta, anzi cosa spera possa emergere dalla crisi in cui è ripiombata l’Italia nell’ottica del caso Regeni?
Mi aspettavo di più dall’ultima maggioranza. Sostanzialmente tra questo esecutivo e il precedente non ho notato una decisa inversione di tendenza. Alla base c’è un’amicizia storica tra le autorità italiane e il potere politico egiziano: dai tempi di Mubarak e Berlusconi fino all’attuale regime di al-Sisi. L’unica eccezione è rappresentata dal presidente della Camera, Roberto Fico. Io stesso ho avuto modo di incontrarlo qui al Cairo. È stato cordiale ed è sembrato davvero animato dalla volontà di fare chiarezza sull’omicidio di Giulio.
Con Ibrahim Ezz el-Din aumenta la pattuglia di membri della Commissione in carcere, qual è la situazione?
Il prossimo 10 settembre saranno due anni esatti dall’arresto di Ibrahim Metwaly, legato anch’egli all’inchiesta sulla morte di Regeni. Il procedimento è fermo e lui resta in carcere con accuse assurde, compresa quella di terrorismo. Stesso discorso vale per Haitham Mohameddine, finito agli arresti più di recente.
La conferenza sulle torture, organizzata dalle Nazioni Unite al Cairo per i prossimi 4 e 5 settembre, è stata annullata: quale il suo commento?
Sarebbe stato paradossale avere esperti internazionali a colloquio su una pratica che in Egitto viene quotidianamente perpetrata. I vertici UN sono stati poco attenti, oppure sono degli ipocriti. Come Ecrf abbiamo fatto di tutto affinché la conferenza fosse cancellata.