L’università “bandita” sussurrava al ministero

Anche la macchina perfetta dell’Università di Catania, che secondo l’inchiesta “Università bandita”, sfornava concorsi truccati, ogni tanto si inceppava. Ma quando accadeva puntava a convincere anche i piani alti del ministero a soccorrerla, come nel caso di Daniele Livon, potente ex direttore generale del Miur e capace di attraversare indenne ben cinque governi fino all’approdo all’Anvur. Il suo nome è nelle carte dei pm catanesi, tirato in ballo dall’ex rettore dell’ateneo Giacomo Pignataro, ora sospeso, che dice di essersi rivolto proprio a Livon (estraneo all’inchiesta). Nell’estate 2016, Pignataro era stato dichiarato decaduto dal Tar siciliano. In quel periodo, intercettato dai magistrati, discute con Uccio Barone e Carmelo Monaco, altro docente, delle chiamate esterne a cui Monaco e Barone erano interessati (una delle quali riguardava il figlio di Barone) ma rimaste ferme perché non è stato possibile emanare i bandi. Scrivono i magistrati: “La stessa sera Barone chiama Pignataro: ‘Quel punto della… diciamo delle tre cattedre, perché si blocca e non può andare avanti?… C’è il problema delle risorse… se no si perdono’”. L’ex rettore spiega che non si tratta di ordinaria amministrazione e di aver già risolto, ottenendo da Livon l’accantonamento dei punti”.

“Era un periodo particolare, l’Università di catania era senza organi, la situazione era critica” ha detto Livon al Fatto. Spiega che i punti organico sono le facoltà assunzionali che vengono prorogati con decreti proroga, il cui utilizzo è sempre posticipato se ce n’è bisogno e che tra i suoi compiti c’era anche la gestione di queste dinamiche. “Conosco Pignataro – aggiunge – perché con lui ho avuto rapporti istituzionali come con altri”. Chiediamo a quale proroga potesse riferirsi: “Se la proroga si riferisce ai punti organico è prassi normale – spiega –. Se su altro, allora è diverso. Il ministero nel 2016 doveva ricevere il piano di programmazione triennale, forse a loro fu concesso di presentarlo più tardi”. In un altro passaggio dell’ordinanza, altre intercettazioni confermano la seconda ipotesi. Sono ancora Pignataro e Barone a parlare.

“Ho cercato di salvaguardare alcune cose e ci sono riuscito, no? C’era il rischio di perdere risorse perché entro il 20 dicembre avremmo dovuto presentare il programma triennale e mi sono fatto scrivere da Livon la nota che noi lo faremo entro il 20 marzo”, dice l’ex rettore. “C’è anche una eccezionalità” replica Barone. “Si certo – conferma Pignataro – ha messo nella lettera considerata l’eccezionalità del momento dell’ateneo”.

Su questo, spiega Livon, “c’è sicuramente un atto ufficiale: e se è arrivato a Catania evidentemente dipende da una richiesta ufficiale a cui è stata data una risposta ufficiale. Non c’è nulla di pilotato. Non sono termini perentori quelli delle scadenze. Tendenzialmente si rispetta la data ma può accadere che si diano proroghe. Era stato un anno devastante per Catania”. Chiediamo come abbia comunicato con Pignataro: “Con una nota ufficiale e protocollata”. Non ricorda però se e quando fosse arrivata. “In questo momento non ricordo. Però sono abbastanza sicuro sia stata una richiesta ufficiale”. Che però non fornisce e che dovrebbe essere al ministero dell’Istruzione: peccato che anche da cui ci rispondono che a dare gli atti ufficiali dovrebbe essere lo stesso Livon. L’unico a disposizione conferma la proroga: è il verbale del senato accademico del 16.2.2017: “L’Ateneo si è trovato nell’oggettiva impossibilità di adottare il documento di programmazione triennale 2016-2018 nei termini previsti, conseguentemente, il ministero ha disposto la proroga del suddetto termine al 20.3.2017”.

Due anni dopo, l’Unicatania si ritrova di nuovo senza rettore per l’inchiesta che ha colpito anche l’ex rettore Francesco Basile, nominato appena due anni fa. Oggi, si eleggerà il nuovo tra mille polemiche per via della data che chiama a raccolta gli elettori in una città semideserta e per la richiesta formale di alcuni giuristi catanesi (al consiglio del Ministri) di commissariare l’ateneo.

Bari, il concorso infinito. Dieci anni per un posto

Può durare anche dieci anni un concorso all’Università di Bari per l’assegnazione di un posto da ricercatore. Un decennio segnato da due sentenze del Tribunale amministrativo, tre del Consiglio di Stato e addirittura due procedimenti penali. Un periodo nel quale nelle commissioni giudicatrici i membri si dimettevano uno dietro l’altro, costringendo l’ateneo a comporle e ricomporle più e più volte. Una vera e propria guerra di carte bollate che ancora oggi non è conclusa.

Tutto comincia nel lontano 2009 quando l’ateneo barese bandisce il concorso per un posto da ricercatore nella facoltà di Economia e commercio nella sede distaccata di Taranto. Tra i corridoi si sussurra che i giochi siano fatti. A Monica Bruno, una delle concorrenti, giungono i “consigli” di lasciar perdere. La donna, però, registra tutto e denuncia: parte un procedimento penale che oggi pende in primo grado dinanzi al tribunale ionico e sembra destinato a chiudersi con la prescrizione, come Bruno spiega in una lettera aperta inviata al ministero dell’Istruzione in cui afferma che “il tempo perso per le lungaggini della giustizia penale, purtroppo, sembra avviare inesorabilmente il processo sul binario morto della prescrizione” ponendo così “una pietra tombale sulle ansie, sulle attese individuali e familiari, sui diritti calpestati, sul desiderio di giustizia”. Anche la Bruno viene denunciata, ma le accuse cadono in fretta: per il tribunale il fatto non sussiste.

La battaglia legale serve a poco: la commissione indica vincitore proprio il candidato dato per favorito nei corridoi, Giuseppe Sanseverino. Inizia così anche uno scontro legale: il Consiglio di Stato demolisce l’operato dell’università affermando che la commissione è riuscita a “sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato”. Che vuol dire? Innanzitutto che la commissione non ha tenuto conto del voto di laurea dei due candidati premiando Sanseverino che aveva conseguito 99 su 110 invece della Bruno che aveva ottenuto 110 e lode. Poi a suscitare “ampie perplessità” nei magistrati c’è anche la valutazione “dei cosiddetti soggiorni di studio all’estero” trasformati in titoli di preferenza. Insomma per il massimo organo della giustizia amministrativa, l’assegnazione è “inattendibile” e una nuova commissione con una “più attenta valutazione” dovrà stabilire chi ha il diritto di ottenere quel posto da ricercatore.

L’ateneo è costretto a obbedire nuove commissioni, ma i docenti rifiutano, si dimettono, sembrano quasi scappare da quel compito. L’impressione è che abbiano paura. Nel 2014 infatti l’allora rettore nomina una nuova commissione, ma a causa di altri cavilli procedurali finite nella aule di tribunale, la procedura viene riattivata solo un anno dopo.

Passano mesi e addirittura anni fino a quando una nuova commissione decide sulla vicenda: ad aprile 2017 vince nuovamente Sanseverino e la Bruno ancora una volte ricorre alle vie legali.

Nel 2019 Tar e Consiglio di Stato le danno ragione spiegando che anche questa volta la commissione ha erroneamente assegnato dei titoli all’uomo per delle pubblicazioni fatte in realtà dopo la scadenza del termine per la presentazione delle domande.

Insomma è tutto da rifare. A distanza di dieci anni, quel posto non è ancora stato assegnato definitivamente. Una commissione dovrà riunirsi e valutare. A patto che qualcuno accetti.

“Negro di m…” sull’auto del medico della Croce Rossa

Insultato perché nero. Un medico di origini camerunensi della Croce Rossa vittima a Roma di una aggressione a sfondo razzista. L’episodio è avvenuto mercoledì sera, e a renderlo pubblico è stata proprio la Cri. Andi Nganso, 30 anni, del Camerun, impiegato nell’Area salute del comitato nazionale dell’associazione, era andato a cena fuori e aveva parcheggiato la sua auto personale al Pigneto. Terminata la cena il medico è tornato alla macchina ma ha trovato i segni dell’atto vandalico: la frase “negro di merda” incisa con una chiave sul cofano. Sull’auto era ben visibile l’adesivo della Croce Rossa sul parabrezza. Il 30enne ha subito sporto denuncia. Non è peraltro la prima volta che il medico è vittima di episodi del genere. Nel gennaio di un anno fa, mentre era in servizio nell’ambulatorio della Guardia medica di Cantù, in Lombardia, subì un’offesa simile: una donna rifiutò di farsi assistere da lui perché di colore. Il medico rispose ironicamente sui social: “Ti ringrazio. Ho un quarto d’ora in più per bere un caffè”.

Escursionista ritrovata grazie a WhatsApp

Dall’isola di Ischia rimbalzano notizie che darebbero ragione a Gioacchino Genchi sui presunti errori commessi durante le ricerche di Simon Gautier. Nei giorni scorsi in un’intervista al Fatto Quotidiano il superconsulente informatico di numerose inchieste su omicidi e stragi di mafia, ha sottolineato una “imperdonabile disaccortezza” commessa durante i soccorsi del 27enne escursionista francese, precipitato il 9 agosto in un dirupo del parco del Cilento, in provincia di Salerno, e ritrovato cadavere soltanto 9 giorni dopo perlustrazioni lungo un’area di 143 chilometri quadrati, dopo averne fallito la geolocalizzazione: “L’operatrice del 118 che ha ricevuto la sua telefonata di aiuto avrebbe dovuto suggerirgli di inviare subito la posizione via whatsapp”. Ciò che ha fatto l’operatore del 118 che ieri ha gestito la telefonata di Federica M., una turista romana di 49 anni, in preda a un malore mentre si trovava da sola nel bosco di Zaro, migliaia di metri quadri di macchia mediterranea su Punta Caruso, al confine tra Forio e Lacco Ameno. Luca Cardillo, l’infermiere che ha risposto alla chiamata, dopo avere chiesto ripetutamente indicazioni all’escursionista circa la propria posizione senza riceverle, ha suggerito alla donna di inviargli un messaggio WhatsApp con la localizzazione rilevata dal Gps del cellulare. Questo ha consentito ai soccorritori a circoscrivere l’area delle ricerche anche se è la turista non è stata immediatamente rintracciata, nascosta nella fitta boscaglia. Ulteriori contatti telefonici, e le precisazioni fornite dalla signora sui particolari e sul panorama del luogo, hanno infine consentito l’intervento di soccorso via mare della Guardia costiera.

Ieri pomeriggio Simon ha iniziato il suo ritorno a casa. La salma del 27enne è stata prelevata dall’ospedale di Sapri e imbarcata su un aereo diretto a Roma. Poi, ha spiegato un portavoce dei carabinieri, dovrebbe essere rimpatriata in Francia, a Parigi, “entro la fine di questa settimana”, secondo i tempi delle procedure in corso. Sulla bara c’era un mazzo di fiori e la foto sorridente del ragazzo, in maglietta bianca, pubblicata nei giorni scorsi su tutti i media.

L’altro ieri il pm ha dato il via libera alla restituzione del corpo, dopo l’autopsia eseguita dal medico legale Adamo Maiese nell’obitorio dell’ospedale di Sapri. C’è un’indagine della Procura di Vallo della Lucania sulle cause della morte del ragazzo e sui presunti errori commessi durante i soccorsi, l’ipotesi di reato è omicidio colposo. Ad attendere Simon in Francia per i funerali, ci sono i familiari che hanno lasciato il golfo di Policastro dopo l’autopsia.

Il Tar può aprire i porti anche a Ocean Viking

“Abbiamo 356 sopravvissuti, 356 vite che chiedono umanità. Abbiamo bisogno al più presto di un porto sicuro di sbarco. Il clima è sempre più teso”. Medici senza frontiere ha lanciato l’ennesimo allarme per le condizioni in cui versano i naufraghi a bordo della Ocean Viking, la nave delle Ong Sos Mediterranée e Smf. Quello di oggi sarà il 14esimo giorno di navigazione Sicilia e Malta, in attesa di un porto sicuro dove attraccare. “Ci sono persone le cui condizioni di salute potrebbero diventare critiche – ha spiegato ieri il medico di bordo – fino al punto di dover richiedere un’evacuazione”.

Il Garante nazionale dei detenuti ha inviato una lettera ai suoi colleghi europei chiedendo un’azione comune per risolvere lo stallo. Il Portogallo ha annunciato la sua disponibilità ad accogliere 35 dei 356 migranti a bordo. Anche Parigi, confermando il rifiuto a concedere l’attracco, è disponibile ad accogliere “un numero importante di migranti”. A breve, quindi, potrebbe profilarsi un nuovo caso Open Arms, la nave dell’Ong spagnola, per il quale la Procura di Agrigento ha aperto un fascicolo per omissione di atti d’ufficio, da parte delle autorità italiane, perché – nonostante le esigenze sanitarie – non hanno autorizzato lo sbarco.

Il procuratore Luigi Patronaggio due giorni fa ha disposto il sequestro della nave consentendo lo sbarco dei naufraghi, che sarebbe stato comunque consentito 24 ore dopo dal Tar, intervenuto sul ricorso presentato dagli avvocati Arturo Salerni, Mario Angelelli, Maria Rosaria Damizia, Gaetano Pasqualino e Giuseppe Nicoletti, che sconfessa i Viminale.

Il decreto Sicurezza stabilisce, infatti, che se l’intervento in mare non viene effettuato in coordinamento con le autorità libiche, che controllano la loro zona Sar, il passaggio nelle acque italiane è considerato “non inoffensivo”. E il governo può vietarne l’ingresso. Il Tar del Lazio, sospendendo l’efficacia del divieto, considerato un potenziale eccesso di potere, parla di “violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso”. E ancora: “La stessa amministrazione (il Viminale, ndr) riconosce (…) che il natante soccorso da Open Arms (…) – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in situazione di evidente difficoltà”. E quindi: “Appare contraddittoria la valutazione (…) dell’esistenza dell’ipotesi di ‘passaggio non inoffensivo’”. Se il principio fosse confermato – contraddizione tra soccorso e passaggio non inoffensivo – cadrebbe un architrave del decreto. Se la Ocean Viking, entrando in acque italiane, dinanzi al divieto, ricorresse al Tar Lazio, potrebbe ottenere lo stesso risultato. Intanto la Open Arms è stata sottoposta a un fermo amministrativo per gravi anomalie anche sulla sicurezza della navigazione. E il sindaco di Lampedusa Totò Martello, pur dichiarando la disponibilità ad accogliere i nuovi naufraghi, denuncia il sovraffollamento dell’hotspot e chiede l’attenzione dello Stato “prima che qualcuno qui si arrabbi un po’ troppo”.

Totti fa il premier, B. brinda e Mattarella parte per Ibiza

Le trattative di governo proseguono e la satira sul web con esse. Tra tweet e meme – le immagini ironiche che diventano virali sui social – la Rete è piena di prese in giro ai protagonisti del tracollo gialloverde e delle consultazioni al Quirinale. Silvio Berlusconi, per esempio, è ritratto in queste ore in nome e in memoria di antiche passioni. Giuseppe Conte maltratta ancora idealmente Matteo Salvini. Il Presidente della Repubblica Mattarella superstar. Intervistato dalla mitica Franca Leosini, e, nell’attesa di sciogliere le Camere, pronto a volare a Ibiza per il weekend: “Lasciate che si uccidano tra loro”.

Matteo fa gli scatoloni, ora la “Bestia” chi la paga?

E ora “la Bestia” chi la paga? Tra i tanti ottimi motivi per cui Matteo Salvini vorrebbe incatenarsi al Viminale ci sono i soldi, ovviamente. Da ministro ha compiuto un’operazione rischiosa, mescolando pubblico e privato: la macchina della propaganda politica che ha fatto le sue fortune è stata trasferita in blocco a Roma.

È la famigerata “Bestia”, appunto. Un’invenzione di Luca Morisi, capo della comunicazione digitale del “Capitano”: è il team che orienta le parole d’ordine del leader seguendo gli impulsi del web e che inonda i suoi profili social con video, foto, dirette e dichiarazioni. È stato il motore dell’incessante campagna che ha portato la Lega al 34% delle Europee.

Prima della nomina di Salvini agli Interni, Morisi e i suoi venivano pagati dalla Lega con un contratto privato da 170 mila euro l’anno alla società Sistema Intranet srl. Dopo le Politiche del 4 marzo, “il Capitano” se li è portati tutti al ministero: il loro stipendio al momento lo paga lo Stato.

Morisi è stato assunto come “consigliere strategico per la comunicazione” a 65 mila euro l’anno. Il suo socio storico Andrea Paganella è il capo della segreteria del ministro e prende 85 mila euro. Con loro al Viminale c’è anche il figlio del presidente della Rai: Leonardo Foa, già nell’organico di Sistema Intranet dal settembre del 2017. Con i fasti romani però “la Bestia” s’è ingrossata e nello staff che cura i social sono entrati altri tre “ragazzini”: Fabio Visconti, Andrea Zanelli e Daniele Bertana. Tutti e quattro (compreso Foa) guadagnano 41.600 euro l’anno. Li paga il Viminale, malgrado la comunicazione digitale di Salvini non abbia nulla di istituzionale. I conti sono semplici. Prima la “Bestia” costava 170 mila euro e li pagava la Lega. Ora la macchinetta di Salvini costa 316 mila euro l’anno, quasi il doppio, e li paga lo Stato.

Cosa succederà quando “il Capitano” avrà fatto gli scatoloni? Non si sa: Salvini ha altro a cui pensare e non ha dato indicazioni sul destino di chi ha il contratto in scadenza. Il bilancio leghista non concede voli pindarici: i famosi 49 milioni da restituire all’erario sono stati spalmati in 76 rate a interessi zero, ma pesano per 600 mila euro l’anno. L’ultimo esercizio (2018) si è chiuso con un disavanzo di 16,5 milioni. La Lega oggi vive dei contribuiti pubblici del Parlamento e delle donazioni private dei suoi onorevoli. Se si andasse a votare – e venissero confermati i sondaggi – aumenterebbero entrambi in modo esponenziale. Per il resto non ci sono certezze.

Il problema, peraltro, non riguarda solo “la Bestia”: oltre a quelli impiegati nei social, ci sono molti altri professionisti portati da Salvini in Viminale e Palazzo Chigi (in qualità di vicepremier). C’è soprattutto Matteo Pandini, capo ufficio stampa agli Interni (90 mila euro l’anno) che dopo aver guidato l’aggressiva comunicazione del leghista sui migranti, è entrato a tutti gli effetti nella squadra della comunicazione leghista, ma rischia di dover tornare al vecchio lavoro di giornalista a Libero.

Poi i vari consiglieri come Stefano Beltrame, ex console italiano a Shanghai, chiamato al Viminale per 95 mila euro, Gianandrea Gaiani (65 mila euro), esperto di Difesa e volto dei salotti televisivi, l’ex parlamentare leghista Luigi Carlo Maria Peruzzotti (41.600 euro) e il giovane Andrea Pasini (41.600 euro), blogger e imprenditore (i salumi dell’azienda di famiglia riforniscono il ristorante PaStation del figlio di Denis Verdini).

A Palazzo Chigi invece Salvini ha messo a libro paga, tra gli altri, la sua storica portavoce Iva Garibaldi (120 mila euro), il sondaggista Alessandro Amadori (65 mila euro) e il consigliere Claudio D’Amico (65 mila euro), l’uomo che si occupa degli affari russi, presente al famoso incontro del Metropol di Mosca con Salvini e Savoini.

Farsa Salvini: “Se mi chiama Di Maio, mica ho rancore…”

Alla fine si arriva al paradosso puro: “Credo che Di Maio abbia lavorato bene nell’interesse del Paese”. È l’ultima parola di Matteo Salvini, subito dopo le consultazioni con il presidente della Repubblica. Mentre interpreta l’ennesimo episodio di una serie tv piuttosto imbarazzante, l’attore Salvini riesce a imitare la faccia di uno che ci crede davvero. In sala stampa, accompagnato dai capigruppo Molinari e Romeo, ci mette qualche minuto per arrivare al punto. Prima ripete le solite formule: “La strada maestra è quella che porta alle elezioni”, non vuole “giochini di palazzo” o la nascita di un governo “che avrebbe un solo collante, stare contro di me”

Poi però viene al dunque: “Certo, se qualcuno mi dice che i No diventano Sì, miglioriamo la squadra, il programma, ci diamo un tempo e un obiettivo… Ho sempre detto che sono uomo concreto, non porto rancore, guardo avanti, mai indietro”.

Ecco, Salvini non porta rancore: dopo aver fatto dimettere il premier del governo gialloverde, incontra il capo dello Stato e gli dice di essere pronto a rifare il governo gialloverde; a Mattarella ha chiesto di verificare se non ci siano le condizioni per riprendere il discorso che lui stesso ha appena deciso di interrompere.

Sembra davvero l’interprete di una serie comica: una favolosa Boris della politica italiana. Riassunto delle puntate precedenti: il 9 agosto il capo della Lega presenta una mozione di sfiducia al premier Conte e di fatto stacca la spina al governo di cui è ministro e vicepremier. Il motivo? Non ne può più dei suoi alleati – quindi di Di Maio – che “dicono solo no”. Quasi subito si pente, spaventato dall’ipotesi “inciucio” Pd-M5S, dalle reazioni sui social e dai sondaggi interni: quelli degli ultimi giorni – conferma un’autorevole fonte leghista – sono decisamente peggiorati. Così Salvini torna indietro. E lo fa con parole sempre più goffe: “Il mio telefono è sempre acceso”, “abbiamo fatto anche tante cose buone”, “voglio restare al Viminale finché il buon Dio lo vorrà”, “sono disposto a qualsiasi cosa pur di risparmiare agli italiani il ritorno di Renzi e Boschi”.

Si arriva al 20 agosto, il giorno delle comunicazioni di Conte: il discorso del premier è un lungo, ininterrotto atto d’accusa nei suoi confronti. Salvini, al suo fianco, incassa come un sacco da boxe, mentre si esibisce in espressioni comiche a favore di fotografi e telecamere. Quando arriva il suo momento di parlare, si dice molto offeso: “Non sapevo che il presidente del consiglio pensasse tutte queste cose di me, probabilmente aveva già un piano per accordarsi con il Pd”. Eppure, incredibilmente, poche ore dopo la Lega ritira la mozione di sfiducia, mentre Conte sta per andare al Quirinale a rassegnare le dimissioni.

Ieri l’ultimo capolavoro: dopo aver incontrato Mattarella, Salvini conferma che le porte sono aperte, spalancate, per i suoi ex alleati di governo e arriva a lodare addirittura Di Maio. Quello degli insulti, quello che diceva no, adesso è uno che “ha lavorato bene nell’interesse del Paese”.

Un po’ è strategia, un po’ “il Capitano” ci crede ancora: la trattativa tra Cinque Stelle e Pd è complicata, tra i grillini non mancano i pontieri nostalgici del governo del cambiamento. E poi formalmente il capo dello Stato non ha chiuso nessun “forno”, nemmeno quello di un clamoroso bis pentaleghista. Se l’Italia è Boris, ogni farsa è plausibile. Ma allora cosa dire dei protagonisti della recita?

Conte in campagna: “M5S e Lega? Sarebbe sindrome di Stoccolma”

Da due giorni è in ritiro, in campagna non troppo lontano da Roma, con i familiari. Si è “ripreso tempo per i suoi affetti”. Osserva a debita distanza quello che accade al Quirinale. E riceve segnali, tanti, ma non tutti sono affettuosi come quello che gli ha riservato il presidente Sergio Mattarella nel giorno delle sue dimissioni. Perché Giuseppe Conte ha fatto una scelta, quella di chiudere definitivamente l’esperienza gialloverde. E non è stata gradita fino in fondo da tutti, nemmeno tra chi l’ha applaudito dopo il suo discorso al Senato.

“Parole troppe dure”, le ha insolitamente bollate uno dei suoi ministri, il placido Enzo Moavero Milanesi, l’altroieri al meeting di Comunione e Liberazione. In effetti, l’affondo di Conte contro Matteo Salvini è stato impietoso – il “più duro degli ultimi trent’anni in Parlamento”, gli ha fatto sapere qualcuno – ed è stato proprio il presidente del Consiglio dimissionario a non voler ascoltare le sirene del suo staff, che gli consigliava di essere più morbido, di lasciare aperto uno spiraglio, di non mettere la pietra tombale sopra il governo con la Lega. Ma lui non ha sentito ragioni. E di quel j’accuse lungo 45 minuti non rimpiange nulla, nemmeno il rischio – di cui lo hanno avvertito al banco del governo – di aver sbagliato la citazione di Federico II di Svevia: “L’ho presa da Kantorowicz, sono corso a controllare la pagina: era giusta”.

Ma Conte non rinnega neanche nulla dei 14 mesi trascorsi a Palazzo Chigi con Matteo Salvini: “Nessun ravvedimento”, ha scandito a Palazzo Madama. E ancora oggi si rende conto, lui ex elettore del centrosinistra (fino al No al referendum renziano), di essere visto come uno dei simboli del contratto gialloverde. Ma il tradimento del Papeete è stato per lui uno scoglio insuperabile, aggravato dal ritiro in extremis della mozione di sfiducia contro di lui.

Per questo guarda sbigottito ai “ponti d’oro” che gli esponenti della Lega stanno facendo in queste ore ai Cinque Stelle, alle dichiarazioni di Salvini che ancora si dice disposto a “guardare avanti” se “i no diventano sì”. Offerte che qualcuno, nel Movimento, continua a prendere in considerazione. Ma “la durezza del mio discorso – ha ragionato Conte con i suoi – non ha impedito ai seviziatori della Lega di tornare dai seviziati 5Stelle. Però forse impedirà ai seviziati 5Stelle di cadere vittima della sindrome di Stoccolma e di tornare con i seviziatori”.

È pronto a tornare alla vita da avvocato e professore, Conte, ma certo lo lusingano gli attestati di stima che sta ricevendo, compresa l’inattesa telefonata – l’unica proveniente dai dem – di Romano Prodi, che gli ha ribadito la necessità di una “coalizione Ursula” che lo veda protagonista, un patto tra le forze che a Bruxelles hanno eletto la Von der Leyen a presidente della Commissione Ue.

È onorato, Conte. Ma pure consapevole che l’ipotesi di un accordo col Pd è complicata. E necessita che si riconoscano anche alcuni errori fatti finora. Anche lui pensa, come Mattarella, che “o si riesce a siglare un accordo blindato, un patto di legislatura di durata garantita, o è meglio andare a votare subito”. Prima che Salvini rialzi la testa dopo il calo di consensi seguito a una crisi incomprensibile agli italiani.

I tempi stretti che Mattarella si è detto disposto a concedere non depongono a favore di una soluzione positiva. E il premier sa che la discussione sul suo nome è un elemento decisivo della trattativa, ma non fa nulla per rientrare in gioco. Ma comprende anche l’ansia di Zingaretti di liberarsi di una figura popolare e ingombrante come la sua più che dell’indebolito Di Maio. Non pensa di essere indispensabile, però. E ritiene che il M5S abbia “tanti eletti, anche al primo mandato, su cui investire proficuamente”.

Prima che i giorni della riflessione finiscano, il premier ha ancora delle faccende da sbrigare, e nemmeno di poco conto. Mercoledì si è congedato dal suo staff a Palazzo Chigi. Ha firmato il testo che lo trasforma in premier in carica solo per “gli affari correnti”. Ha intimato ai ministri di evitare nomine last minute. Poi è partito per la campagna romana, per un paio di giorni di relax in famiglia. Sabato è atteso a Biarritz, in Francia, per il G7. Ed entro lunedì dovrebbe indicare il nome del Commissario italiano a Bruxelles, seppure il termine non sia perentorio. Conte ha rinviato ogni valutazione al dopo-crisi: se l’accordo tra Pd e 5Stelle dovesse chiudersi positivamente, sceglierà un tecnico-politico che rappresenti la nuova area di maggioranza. Conte si consulterà con Mattarella e Von der Leyen, ma è dell’idea che non si debba temporeggiare per la nomina, onde evitare che il commissario italiano entri in carica in ritardo, abbia poco tempo per preparare l’“esame” europeo ed entri in corsa a partita iniziata. Anche perché chiunque vada dovrà prepararsi. Conte l’aveva detto anche a Giancarlo Giorgetti, qualche settimana fa: “Dovrai passare l’estate a studiare”. Poi è andata com’è andata. Con quel discorso al Senato, che ha trasformato ogni tentazione di tornare indietro in un’impresa indecente. Almeno per Conte.

Intesa su ecologia e sociale I nodi: migranti e Benetton

Tre punti fermi dal Pd, dieci dal M5S. Nicola Zingaretti è salito ieri al Quirinale annunciando che ogni intesa coi 5 Stelle passerà dallo stop al taglio dei parlamentari, dal superamento dei due decreti Sicurezza e da un accordo di massima sulla manovra prima della formazione del governo. Punti che in parte modificano quanto stabilito dallo stesso Pd in direzione, quando i punti erano 5: appartenenza leale all’Ue, riconoscimento della democrazia rappresentativa, sostenibilità ambientale, cambio della gestione dei flussi migratori e ricette economiche e sociali in chiave redistributiva.

Ben più dettagliato è invece il decalogo dei 5 Stelle presentato ieri. Al primo punto c’è proprio il taglio dei parlamentari: il Pd si oppone, ma potrebbe cambiare idea in caso si accompagni al cambio della legge elettorale. Il secondo punto riguarda la manovra, nodo citato anche dai dem. Di Maio ha parlato di una legge “equa” in cui ha incluso diversi provvedimenti. Sulla sterilizzazione dell’Iva il Pd non si oppone, ma il tema sarà come arrivarci. Complicata l’intesa sul salario minimo, preteso dai 5 Stelle e in passato fortemente osteggiato dai dem. Spazio poi all’ambiente: Di Maio ha utilizzato lo stesso concetto di green new deal citato da Zingaretti nelle scorse settimane. Dunque, per quanto le proposte siano assiomi generali, l’accordo c’è. Il quarto punto è un antico leitmotiv : la riforma della Rai sul modello Bbc. Anche qui, almeno i propositi sono in sintonia. Pure sul conflitto d’interessi la sinistra promette leggi da anni, senza essere mai riuscita a intervenire.

Il quinto tema proposto da Di Maio è la giustizia, con una legge “che ne dimezzi i tempi” e che riformi il Csm. Il Pd ha più volte invocato la necessità di cambiarne le regole di elezione, ma non è detto che le intenzioni dei dem coincidano con quelle del M5S. Il sesto tema sono le autonomie regionali. Di Maio vuole portarle a termine, a patto “di istituire livelli essenziali di prestazione per tutte le altre Regioni”. Il dem Stefano Bonaccini chiede l’autonomia in Emilia, dunque sarà anche interesse del Pd arrivare alla meta. Il settimo punto comprende norme di buon senso (“carcere per gli evasori, inasprimento delle pene per i reati finanziari”), ma anche la questione migranti. Di Maio la declina solo in termini di “serio contrasto all’immigrazione clandestina”, senza accennare ai decreti Sicurezza, ma sottolineando, come il Pd, la necessità di “interventi mirati” a livello europeo. Se il piano di investimenti per il Sud, ottavo punto, difficilmente troverebbe ostacoli, il penultimo paletto suona come una provocazione: la riforma del sistema bancario, per separare quelle commerciali da quelle di investimento, richiama le battaglie grilline contro gli interessi dem negli istituti bancari.

Il finale è invece “morbido”: il M5S chiede infatti “la tutela dei beni comuni”. Problema: su acqua e scuola ci si può mettere d’accordo. Sulla revoca delle concessioni autostradali, sbandierata da Di Maio, il Pd ha qualcosa da ridire. Totale sintonia, infine, per sottrazione: né Pd né 5 Stelle hanno detto una parola sui diritti civili.