Il filo tra Mattarella e Zingaretti (che dubita dei 5 Stelle)

Dopo l’incontro con Luigi Di Maio, Sergio Mattarella parla con Nicola Zingaretti. È da lui che cerca di capire se ci sono ancora dei margini di trattativa, dopo una giornata convulsa, caotica e ancora interlocutoria. Il segretario del Pd chiarisce che si va avanti solo se il Movimento 5 Stelle chiude il forno con la Lega. Nelle parole del capo politico dei Cinque Stelle, i dem hanno notato un’ambiguità che non è piaciuta rispetto al rapporto con Matteo Salvini. Non è un caso il fatto che Zingaretti abbia parlato con Davide Casaleggio in questi giorni: si aspetta che sia lui a chiarire a Di Maio che se vuole trattare con il Pd, deve farlo in maniera esclusiva.

“Ci sono punti programmatici da cui partire”, dice il segretario dem a sera, rispetto alla trattativa con i Cinque Stelle. Ma in realtà, gli ostacoli sulla strada del governo da parte della maggioranza del Pd sono almeno due, uno ufficiale, l’altro coperto. Primo: lo stop al taglio dei parlamentari come previsto dalla riforma Fraccaro. Secondo: il nome del premier. Zingaretti vuole che si tratti di una scelta condivisa, mentre i renziani sono disposti a tutto. Intanto, hanno già ceduto sull’opzione del Conte bis, ma pur di arrivare al governo, sono disponibili persino a considerare l’ipotesi di Di Maio premier. Mentre sperano che Mattarella indichi un nome proprio.

A sera, insomma, l’accordo Pd-M5S non è fallito, ma neanche fatto. Matteo Renzi, alla scuola di politica del Ciocco, non proferisce parola pubblicamente, ma i suoi accusano la segreteria di volerlo affossare. Intanto, già oggi, potrebbero esserci i primi incontri ufficiali: è in agenda quello tra Di Maio e Zingaretti (che però può slittare). E i capigruppo Pd e M5S dovrebbero incontrarsi.

La delegazione dem arriva al Colle quando mancano 15 minuti alle 11. Oltre al segretario ci sono il presidente dem, Paolo Gentiloni, la vicesegretaria Paola De Micheli, i capigruppo Delrio e Andrea Marcucci. Mezzora scarsa: d’altra parte, il Pd ha il filo diretto con il Quirinale. Nella sala alla Vetrata, Zingaretti dichiara che il Pd ritiene “utile” provare a costituire un “governo di svolta” per il quale “abbiamo indicato i primi non negoziabili principi”. Un’apertura per quanto cauta, ma volutamente zavorrata dalle tre condizioni rese note subito dopo l’uscita dal Colle (quella che i renziani definiscono “la velina di Gentiloni”): il Pd non è disposto a sostenere il disegno di legge costituzionale sulla riforma del numero dei parlamentari; la cancellazione del decreto Sicurezza; la definizione “preventiva” della manovra.

Zingarettie Gentiloni il governo con i Cinque Stelle non lo vogliono. Alzare l’asticella è sia un modo per farlo fallire sia per portarlo a casa alle proprie condizioni. La faccia scura di Marcucci dopo il colloquio con il presidente la dice lunga. Ma gli aperturisti corrono al riparo. A iniziare da Delrio: il taglio dei parlamentari si può fare, ma “deve tenere conto di una riforma della legge elettorale che garantisca rappresentanza democratica ai territori”, dice. Mentre dai vertici del Nazareno ci mettono una pezza: niente di nuovo sotto al sole, si trattava solo dell’esplicitazione dell’ordine del giorno votato dalla direzione.

Dopo il discorso di Di Maio, la situazione si complica ulteriormente. È ancora Delrio che corre ai ripari, che parla con il Movimento, che cerca di portare a casa il governo, mediando anche tra renziani e zingarettiani.

Lo stato maggiore del partito è riunito al Nazareno. Dalla segreteria ci tengono a chiarire che sul taglio dei parlamentari tutto il Pd è d’accordo. Poi, però, c’è chi si spinge a evocare la riforma Boschi, come punto di partenza. Non esattamente un buon biglietto da visita. E allora, nel frattempo, Delrio e Marcucci aspettano l’ufficialità dell’apertura della trattativa con i capigruppo dei Cinque Stelle. Se sono loro a trattare, il ragionamento, è tutto più semplice: perché la riforma Fraccaro la conoscono “più degli esponenti della segreteria” e possono arrivare a una soluzione condivisa. Non a caso, al Nazareno spingono perché ad affiancarli ci siano almeno i due vicesegretari, Andrea Orlando e la De Micheli.

Conte scende, Fico sale: e adesso fa paura a Di Maio

Ora Luigi Di Maio prova a inseguire quello in cui non ha mai creduto, un accordo con il Pd. Ma la via d’uscita che pochi ma influenti big vogliono tenere aperta, un ritorno con la Lega magari dopo un’abiura di Matteo Salvini, resta sullo sfondo. Con il capo che non asseconda ma non condanna, aspetta. Nonostante il no di gran parte del gruppo parlamentare, urlato dritto ieri in assemblea, e il divieto di doppio forno calato dal Quirinale, che ieri stava per punire per indisciplina il vicepremier, reo di non aver detto quella parola, Partito democratico, dai microfoni del Colle.

Poi in serata è arrivato il cerotto, cioè il mandato dell’assemblea del M5S ai capigruppo per trattare con i vertici parlamentari del Pd. E alle otto della sera Sergio Mattarella ha concesso tempo per provare a costruire un governo. Ma i sospetti rimangono lì, come le rogne. E il primo ostacolo a un patto con i dem è il bisogno di Maio di una bandiera da sventolare, e per questo pretende subito il taglio dei parlamentari. “Se non ci garantiscono il taglio di 345 eletti il tavolo neanche lo apriamo” giurano dal Movimento. E dietro c’è anche, anzi soprattutto una ragione tattica: se si votasse in via definitiva il provvedimento alla Camera, tra tempi per l’attesa dell’eventuale referendum, revisione dei collegi e una nuova legge elettorale la legislatura si prolungherebbe per inerzia. “Così potremmo avere la garanzia che il governo durerà” è il calcolo.

Ma il rosario dei nodi è lungo. E il principale rimane il nome per Palazzo Chigi. Perché la grandissima parte del Movimento invoca Giuseppe Conte, ma Di Maio si sta già rassegnando al veto del Pd, cioè a far cadere il nome del premier uscente, di cui soffre popolarità e stile, e con il quale la distanza è da settimane profonda. Soprattutto, Di Maio sa che i dem non potrebbero accettare sia lui che Conte in uno stesso esecutivo. E non ha voglia di fare un passo indietro: anche se alcuni big in queste ore glielo hanno chiesto, proprio per arrivare a un Conte2. “Se ti chiami fuori dal governo toglierai forza al veto del Pd su Giuseppe e darai un grande segnale ai gruppi parlamentari e alla base” è il ragionamento fatto al capo. Ma Di Maio, capo già molto indebolito, non ha voglia di sacrificarsi. Rimanere fuori dal prossimo esecutivo gli farebbe perdere visibilità e altra quota nel Movimento, dove Beppe Grillo è tornato centrale. Però non potrebbe fare muro a un altro nome in costante ascesa per Palazzo Chigi, quello di Roberto Fico. Il presidente della Camera, il grillino con il cuore rosso antico, l’opposto del vicepremier: che lo soffre, come avrebbe sofferto Conte.

Ma Fico a molti del Pd andrebbe benissimo, e dire di no sarebbe complicato. Nell’attesa, Di Maio cerca una terza scelta. Ma al momento non ha una vera carta. Così deve giocare di tattica, non chiudere a Conte, e fingere di non notare maggiorenti come Stefano Buffagni e Gianluigi Paragone che parlano con il Carroccio. Anche Paola Taverna è più che scettica sul Pd. E ieri sera circolavano voci su un sms di Davide Casaleggio a favore di un nuovo patto con la Lega. Di certo in assemblea il capo ha lasciato parlare per primo di tavoli e punti programmatici il capogruppo in Senato Stefano Patuanelli, per far capire che l’avvio della trattativa, “sui temi”, dovranno darlo i vertici in Parlamento. Solo poi, teoricamente, dovrebbero sedersi al tavolo anche Di Maio e Zingaretti, per parlare del nome per la presidenza del Consiglio.

Di certo grandissima parte del M5S vuole Conte e solo lui, e ieri in assemblea lo ha ribadito. Tanti hanno anche chiesto di tagliare ufficialmente ogni ponte con la Lega. Perché temono la ricaduta. Non a caso, un veterano come Nicola Morra ha dettato paletti: “Al tavolo col Pd non dovrà esserci chi era a quello col Carroccio. E niente comunicazione presente durante le contrattazioni politiche”. Una contromossa, nel gioco dei sospetti.

L’incognita Di Maio rallenta il Colle, ma l’“innesco” c’è

Insolitamente brusco e deluso, se non arrabbiato. Alle otto di sera, il capo dello Stato appare alla stampa e concede gli annunciati tempi supplementari in questa pazza crisi d’agosto. Ma non nel modo che avrebbe voluto, cioè chiaro e netto. In ogni caso quattro giorni, da oggi a martedì 27 agosto, quando al Colle comincerà il secondo giro di colloqui con i partiti. Una breve dichiarazione dopo due ore di “riflessione” alla fine della seconda, fatidica giornata di consultazioni. Quella in cui sono salite al Quirinale le delegazioni delle due forze al centro della Trattativa Giallorossa: prima, nella mattinata, la formazione del Pd guidata dal segretario Nicola Zingaretti, indi nel pomeriggio l’atteso trio del M5S, con il capo politico Luigi Di Maio scortato dai due capigruppo parlamentari, Francesco D’Uva della Camera e Stefano Patuanelli del Senato.

Il Pd manifesta la sua disponibilità, seppure con i cinque punti-paletti piantati da Zingaretti, ma la giornata si complica con la successiva ambiguità “scivolosa”, così trapela, del leader grillino nonché vicepremier uscente. Ieri, il presidente della Repubblica avrebbe desiderato da entrambe le forze, Pd e M5S, una “chiara” volontà di ricercare un accordo per una nuova maggioranza parlamentare. Una volta dentro, Di Maio tratteggia sì questa ipotesi ma lo fa con molta “prudenza”, dando appunto la sensazione di essere “scivoloso”. A quel punto si appalesa ancora una volta l’improbabile spettro del governo gialloverde. I Cinque Stelle, infatti, entrano quando va via la Lega capeggiata da Matteo Salvini, che completa la sua retromarcia di questi giorni ribadendo pubblicamente la sua offerta di pace al M5S. In pratica, queste “coincidenze” sono l’esatto contrario di quello che chiedeva Mattarella alla vigilia del primo giro di consultazioni. Ergo, il sospetto è che i pentastellati abbiano due forni aperti e questo scatena il caos in una giornata intricatissima.

Di qui allora le due ore di “riflessione” che il capo dello Stato si ritaglia alla fine delle consultazioni. Di Maio all’uscita non cita mai il Pd, ma si è impegnato con il Colle a chiedere un mandato pieno all’assemblea dei parlamentari per trattare con Zingaretti. Mattarella si chiude in conclave con i suoi consiglieri e l’apertura dall’assemblea dei 5S finalmente arriva. L’innesco c’è. Ma quanta fatica! Una vera liturgia da Prima Repubblica, fatta di sottintesi e frasi mai esplicite, da parte del capo politico del Movimento. In fondo, Di Maio e anche Zingaretti incarnano alla perfezione il paradosso di questa crisi. Tocca a loro due, da leader delle rispettive forze, condurre una trattativa che non volevano e di cui non sono mai stati convinti. Ed è per questo che, alle otto di sera, il capo dello Stato concede i quattro giorni di supplementari mettendo sul tavolo la tradizionale arma del voto anticipato.

Questo il passaggio: “In mancanza di queste condizioni la strada da percorrere è quella di nuove elezioni. Si tratta di una decisione da non assumere alla leggera – dopo poco più di un anno di vita della Legislatura – mentre la Costituzione prevede che gli elettori vengano chiamati al voto per eleggere il Parlamento ogni cinque anni. Il ricorso agli elettori è, tuttavia, necessario qualora il Parlamento non sia in condizione di esprimere una maggioranza di governo”.

Non solo. Neanche il presidente della Repubblica delimita il perimetro dell’eventuale nuovo governo. Sono le parole che fanno da preludio all’annuncio di un secondo giro completo di consultazioni, interpellando tutti i partiti: “Nel corso delle consultazioni appena concluse, mi è stato comunicato da parte di alcuni partiti politici che sono state avviate iniziative per un’intesa, in Parlamento, per un nuovo governo; e mi è stata avanzata la richiesta di avere il tempo di sviluppare questo confronto. Anche da parte di altre forze politiche è stata espressa la possibilità di ulteriori verifiche”. Un riferimento, questo, al presunto forno Lega-M5S ma anche al refrain di Berlusconi e Meloni su una impossibile maggioranza di centrodestra in questo Parlamento, a meno che non ci sia una consistente campagna acquisti di Responsabili.

“La strada non solo è in salita, ma è anche stretta”: in serata al Colle è questa la valutazione su un futuro governo giallorosso. Anche perché il capo dello Stato ha detto che vuole “decisioni chiare in tempi brevi” e guarda con preoccupazione alle divisioni interne delle due forze, in particolare nel M5S. Poi mercoledì sera tirerà la somma dei giorni che verranno. Attenzione: non è detto che arrivi l’incarico in automatico. Per mercoledì 28, Pd e M5S devono soprattutto portare nome del premier e programma. Il “Pacchetto completo”.

La trattativa sui 10 punti Il tempo scade martedì

Il tempo è agli sgoccioli. Perché dopo la seconda giornata di consultazioni, al Quirinale si è quasi esaurita la sabbia nella clessidra che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha concesso ai partiti per verificare la possibilità di far proseguire la legislatura fino alla scadenza naturale. “La crisi va risolta in tempi brevi e con decisioni chiare. Mi è stato comunicato che sono state già avviate trattative tra le forze in Parlamento, per le quali mi è stato chiesto più tempo: per questo avvierò nuove consultazioni nella giornata di martedì alla fine delle quali trarrò le mie conclusioni”, ha detto il capo dello Stato, che prima di far sentire la sua voce si è preso due ore di riflessione. Perché le delegazioni di Pd e Movimento 5 Stelle, che dovrebbero dare vita a un’alleanza parlamentare a sostegno di un nuovo governo, gli hanno dato segnali non proprio inequivocabili. Il tatticismo di Matteo Salvini, che si è detto disponibile a rimettere insieme i cocci dell’alleanza gialloverde con il Movimento 5 Stelle, ha fatto il resto. E persino Forza Italia ha fatto la sua parte per complicare lo scenario avendo chiesto, prima del ritorno alle urne, che venga verificata l’esistenza in Parlamento di una maggioranza disponibile a sostenere un esecutivo di centrodestra. Ma andiamo con ordine.

Al Colle, Nicola Zingaretti ha dato disponibilità a verificare la possibilità di “formare una diversa maggioranza con l’avvio di una fase politica nuova, per dare vita a un governo nel segno della discontinuità politica e programmatica”. Un governo di chiara marca europeista con un programma solido e di svolta radicale delle scelte economiche e di sviluppo, che punti sulla sostenibilità ambientale e ridia centralità a politiche redistributive, agli investimenti, ai temi del lavoro e attenzione all’equità sociale “e per evitare ulteriori inasprimenti fiscali a cominciare da quello dell’Iva”. Da parte loro i 5 Stelle hanno presentato a Mattarella un programma di governo in dieci punti a partire dalla riforma della giustizia e della Rai, la legge sul conflitto di interessi. E soprattutto il taglio dei parlamentari, un banco di prova su cui misurare la volontà del Pd di fare sul serio: per questo nelle prossime ore una delegazione pentastellata è intenzionata a incontrare i dem che sul punto ieri hanno messo le mani collegando il taglio delle poltrone ai tempi della riforma della legge elettorale. Oltre a esigere che il Movimento abiuri ai decreti Sicurezza varati dal governo gialloverde: il che ha fatto imbizzarrire i renziani che temono che dietro le pretese di Zingaretti si nasconda la sua volontà di far saltare tutto e portare il Paese alle urne. A complicare il quadro l’ennesimo rilancio di Matteo Salvini: che vuole elezioni immediate, ma è tornato a proporre ai 5 Stelle di tornare insieme “se i no diventano sì. Sono un uomo concreto non porto rancore”. E a patto di cambiare qualche ministro inviso alla Lega. Che però si tiene stretto il doppio forno con il centrodestra data la disponibilità di Fratelli d’Italia e Forza Italia ad appoggiarne la richiesta per elezioni immediate. “L’unica soluzione rispettosa degli italiani e della Costituzione”, ha detto Giorgia Meloni, che pare ottimista sull’alleanza elettorale di coalizione con Salvini. “Penso che se si andasse al voto ci sarebbe una compagine formata da Fratelli d’Italia e dalla Lega e sarebbe maggioritaria. Sul ruolo di Forza Italia vedremo in queste ore”.

 

Fratelli d’Italia
Corteggia Matteo e spera nelle urne

La posizione di Fratelli d’Italia è forse la più netta, mai in lizza per governi di coalizione e da sempre all’opposizione dei gialloverdi. L’unico obiettivo di Giorgia Meloni è andare alle elezioni, allearsi con Salvini – e con Forza Italia? – e sbancare: nei sondaggi FdI è sopra il 6% e insieme al Carroccio potrebbe ambire alla maggioranza assoluta. Ieri la Meloni ha ribadito al capo dello Stato la necessità di elezioni: “L’unico modo di avere un governo stabile è andare a votare. La nostra idea è che non sia inevitabile avere un governo che ha la maggioranza in Parlamento, ma che non ha il consenso tra i cittadini, lo considererei irrispettoso della volontà popolare”.

 

Partito democratico
Solito ordine sparso: chi decide alla fine?

Nonostante il mandato all’unanimità ricevuto da Zingaretti in direzione, il Pd fatica a conciliare le sue anime. Ieri il segretario ha espresso a Mattarella “la volontà di formare una maggioranza” insieme al M5S, ma con alcuni punti fermi: abolizione dei decreti Sicurezza, un accordo di massima sulla manovra prima della formazione del governo e stop al taglio dei parlamentari. Una linea non del tutto conforme a quella stabilita in direzione, come lamentato ieri dai renziani. Le parti sono chiare: Zingaretti è tentato dalle elezioni – anche solo per rinnovare i gruppi parlamentari, ora in mano a Renzi –, l’ex premier punta all’intesa col M5S.

 

Forza Italia
Sognando le elezioni e la vecchia coalizione

La delegazione di Forza Italia guidata da Berlusconi ha chiesto a Mattarella che venga verificata l’esistenza in Parlamento di una maggioranza di centrodestra. “Nel caso non fosse possibile, la strada maestra sono le elezioni” perché “in nessun caso Forza Italia è disponibile ad alleanze con chi abbiamo contrastato in campagna elettorale e che esprime una visione del Paese diversa e opposta alla nostra”. Per Berlusconi serve invece un esecutivo autorevole a vocazione atlantica ed europeista, che restituisca al Paese “una rispettabilità e una considerazione europea e internazionale che oggi l’Italia non ha”.

 

Lega
Dopo la crisi arriva  la retromarcia coi 5S

Le difficoltà della Lega sono tutte nelle dichiarazioni di Salvini a margine delle consultazioni. “Il voto è la via maestra”, perché da qualche mese “c’erano troppi no”. Ma se “miglioriamo la squadra e il programma”, allora il Carroccio è “pronto, senza pregiudiziali e senza guardare indietro”. Tradotto: con il taglio di qualche testa eccellente, il Salvimaio potrebbe continuare. Un tentativo fuori tempo massimo che continua da giorni, con intenso corteggiamento da parte dei leghisti di una parte del Movimento che non stravede per l’alleanza col Pd. Conseguenza di un pentimento, almeno parziale, visto anche l’impatto della crisi sull’opinione pubblica.

 

Movimento 5 stelle
Green, casta, evasori: dieci punti per l’intesa

Il Movimento 5 Stelle si è detto disponibile a far nascere una nuova maggioranza sulla base di 10 impegni prioritari, a partire dal taglio dei parlamentari, la riforma della giustizia e della Rai, la legge sul conflitto di interessi. Luigi Di Maio, che non si è mai riferito al Pd come interlocutore per il nuovo governo, ha indicato come base programmatica anche la necessità di varare una manovra equa, una rivoluzione green, un piano straordinario di investimenti per il Sud. Ma anche un progetto di autonomia differenziata accompagnato alla riforma degli enti locali, la riforma del sistema bancario e la tutela dei beni comuni.

Mutande di ghisa

Che il Pd non fosse un partito, ma un manicomio, era noto, anche se dopo un anno passato a parlare di Salvini molti l’avevano dimenticato. Ora però è bastato che i riflettori tornassero a illuminarlo per rammentarlo anche ai più distratti. Basti pensare che per due anni nessuno in quel partito osava aprire il benché minimo spiraglio ai 5Stelle, per paura di essere fucilato sui social da Renzi&renzini: gli stessi che adesso fulminano chiunque rifiuti di spalancare le porte ai 5Stelle. Perciò non vorremmo essere nei panni di Di Maio che, dopo mesi di sevizie salviniane, ora rischia la labirintite all’inseguimento delle varie correnti pidine. Né in quelli di Mattarella, al cui cospetto ieri Zingaretti e Delrio sono riusciti a dire l’uno il contrario dell’altro. Trattare col Pd è come trattare con la Libia: fai l’accordo con Al Sarraj, poi scopri che non controlla neppure la scala del palazzo presidenziale perché quella è presidiata da Haftar, però il tetto è occupato dalla milizia di Misurata, peraltro assediata dal capotribù dei Warfalla, diversamente dalle cantine contese dai clan Gadadfa e Magharba. Così uno o se li compra tutti, o si spara.

Ieri Di Maio ha illustrato i suoi 10 punti, un po’ più precisi dei 5 di Zingaretti. Belli o brutti, sono molto più di sinistra del Pd e non nascondono veti. Invece il buon Zinga, dopo aver sciorinato il programma esistenziale di Miss Italia (manca solo la pace nel mondo), ha fatto trapelare il veto su Conte premier e attaccato il taglio dei parlamentari: due dita negli occhi del promesso sposo, che notoriamente vuole anzitutto Conte premier e meno casta. E infatti Renzi, che ha costretto il Pd alla giravolta, accetta sia Conte sia il taglio. Ora, delle due l’una: o Zinga vuol far saltare la trattativa per andare alle elezioni e garantirsi un bel quinquennio di opposizione parolaia a Salvini con gruppi parlamentari di fiducia, e allora la scelta di stracciare le due bandiere M5S ha un senso; oppure pensa che in un governo che nasce nello spirito del proporzionale debba comandare chi ha 163 parlamentari su chi ne ha 339, e allora ha sbagliato i suoi calcoli. Se mai Di Maio e “i Pd” si incontreranno, si capirà se i veti sono roba seria o le solite fumisterie politichesi. Ma al posto di Di Maio ci muniremmo di mutande di ghisa e cammineremmo rasente ai muri. Se il M5S non vuol proprio suicidarsi, fra un governo modello Libia e il voto subito, ha molto meno da perdere dalla seconda opzione. L’occasione d’oro di sfidare un Salvini in stato così comatoso e confusionale (ora vuole un governo uguale a quello che ha appena affossato), magari con Conte candidato premier, non durerà in eterno.

Ponzetti indaga sui misteri istriani di Oreste

Che cosa può nascondere la morte di un anziano e tranquillo geometra, di nome Oreste Zarotti?

Il mistero comincia dall’ultimo desiderio dell’uomo, che nelle ore dell’agonia dapprima cita un verso dantesco del Purgatorio – quello che comincia così: “Era già l’ora che volge il disio” – poi chiede al figlio di poter parlare con il commissario Ottavio Ponzetti, suo amico da anni. Ma Zarotti se ne va per sempre, il poliziotto arriva in ritardo e dieci anni dopo, nel 2018, è lo stesso figlio a farsi vivo con il commissario. Anche la madre è morta e lui, che si chiama Marco e fa il giornalista, ha trovato due sorprese nella casa dei genitori, nel villaggio Giuliano-Dalmata di Roma, laddove “nel 1947 un gruppo di esuli istriani aveva occupato in quella zona dei vecchi padiglioni edificati da Mussolini per ospitare gli operai che costruirono l’Eur, poi abbandonati allo scoppio della guerra”. Ché è dal tragico e sanguinoso esodo dall’Istria nel 1947 che parte la nona indagine di Ottavio Ponzetti, il protagonista dei romanzi gialli di Giovanni Ricciardi, coltissimo professore di greco e latino in un liceo della Capitale.

Stavolta però non c’è alcuna inchiesta ufficiale. Ponzetti conosceva Oreste e risponde alla chiamata di Marco Zarotti. Il figlio del geometra ha trovato in una cassaforte segreta una pistola e una lettera. La prima è una Tokarev, di fabbricazione jugoslava, cui mancano due proiettili. La missiva è invece indirizzata a un certo Ulisse, altro enigma nell’enigma. È una struggente lettera d’amore: “E mi siedo qui, nello stesso posto dove ti ho atteso tante volte. Continuo a sperare che un giorno tu tornerai a scavalcare il cancelletto del giardino e a sederti sotto il fico finché io non mi accorgerò, scostando le tendine della finestra, che ci sei ancora”. Chi è Ulisse? E perché Oreste Zarotti, uomo pacifico, conservava un’arma? Pagina dopo pagina Ponzetti s’immerge nei sette anni del dramma istriano che vanno dal 1947 al 1954, l’anno di Trieste di nuovo italiana, la fine del Territorio libero di quella città divisa in due zone.

Una tragedia diventata nei decenni prigioniera della retorica della destra nostalgica del Duce, ma che invece fu ampia e investì non solo i fascisti, ma anche partigiani e semplici cittadini. L’esodo e le foibe. Gli spietati soldati comunisti del regime jugoslavo di Tito. Al centro del giallo di Ricciardi c’è soprattutto Pola, oggi croata, la “città dolente” di un film degli anni Quaranta sceneggiato da Federico Fellini.

Oreste era infatti arrivato a Roma da Pola, mentre la moglie era di Fiume. L’uomo, però, a differenza degli altri esuli non coltivava la memoria del passato, semmai l’oblio. In ogni caso, nella sua indagine storica sulla famiglia Zarotti, il commissario di stanza ai Parioli scopre altre anomalie nella vita di Oreste: il diploma da geometra (lui non ne aveva mai parlato ai suoi), vari viaggi “personali”, finanche la repentina comparsa di una giovane donna nello studio dove lavorava.

L’epilogo rivela una verità clamorosa, collegata alla pistola e alla lettera, e illumina un altro aspetto buio di quei dolorosi anni: il controesodo che fecero gli operai stalinisti di Monfalcone, con le loro famiglie, per consentire la riapertura dei cantieri titini di Pola e Fiume e dare così il loro contributo, da comunisti italiani, alla costruzione del socialismo jugoslavo. Un’utopia finita nel sangue, dopo l’espulsione di Tito dal Cominform di Mosca, nel 1948. In tutto tremila persone, dimenticate dalla Storia.

1959: quando l’estate era divisa tra “Il Gattopardo” e Monicelli

Nell’Italia in bianco e nero di sessant’anni fa brilla un’estate feconda di esiti letterari e cinematografici. Tra il giugno e il settembre 1959 si consumano i riti del premio Strega e della Mostra del cinema di Venezia con un novero piuttosto significativo di opere che hanno segnato il nostro immaginario. Con un piede già nel miracolo economico, il Belpaese cattura l’istantanea del passaggio tra retaggio agreste e dimensione urbana in tre libri della dozzina finalista dello Strega: Una vita violenta di Pasolini, storia di un giovane della borgata romana che, tra degrado e delinquenza, trova un possibile riscatto con un gesto di umanità nell’ora della morte; Donnarumma all’assalto di Ottieri che racconta l’organizzazione capitalistica del lavoro in una grande industria del Mezzogiorno; Il ponte della Ghisolfa di Testori, affresco della periferia milanese tra operai, sfaccendati, prostitute, aspiranti campioni sportivi in lotta per la sopravvivenza. Al Ninfeo di Villa Giulia a luglio la spunta Il Gattopardo, uscito postumo l’anno prima. La vittoria di Tomasi di Lampedusa sarà così liquidata da Moravia: “È un libro di destra e sono stati gli uomini di destra a decretarne il successo”. Pubblicato da Feltrinelli e inviso all’intellighenzia comunista per il suo sguardo “reazionario” sul Risorgimento, il romanzo fu ostracizzato da più parti. Pasolini si prodigò in prima persona per riuscire a imporsi ma dovette accontentarsi del terzo posto. A rovinargli la festa ci si mise anche Fenoglio col suo Primavera di bellezza, parabola partigiana nelle Langhe, pubblicato dal suo stesso editore, Garzanti, e Pasolini non perdonò mai all’autore di Alba di non essersi fatto da parte. Alla finale del 7 luglio, ad assistere al trionfo dello scomparso principe siciliano, ci sarà Luchino Visconti che l’anno successivo girerà Rocco e i suoi fratelli ispirandosi a Testori e che nel 1963 firmerà proprio la versione cinematografica del Gattopardo con il volto di Burt Lancaster.

In una nebbia fittissima di dispute ideologiche, i due film che a settembre si impongono a Venezia, con un Leone d’oro ex aequo, interrogano la storia nazionale e la rileggono da prospettive singolari. A seguire un ideale asse cronologico (da menzionare anche Estate violenta di Zurlini che quell’anno commuove con una storia d’amore ambientata tra il luglio e il settembre del 1943) abbiamo La grande guerra di Monicelli con il primo conflitto mondiale del ’15-’18 e Il generale Della Rovere di Rossellini, centrato sulla Resistenza. Il capolavoro di Monicelli è preceduto da una campagna stampa ostile. L’accusa contro il regista toscano è quella di voler ridicolizzare l’amor patrio. Il produttore De Laurentiis prese in mano la situazione e dopo un paio di colloqui con l’allora ministro della difesa Andreotti riuscì a ottenere il via libera del governo. Il film racconta di due soldati: Jacovacci (Sordi), romano furbo e scansafatiche, e Busacca (Gassman), milanese burbero ma dal cuore d’oro. I due stringono amicizia e cercano di sopravvivere insieme alla vita di trincea. Dopo la disfatta di Caporetto, si fanno sorprendere da un battaglione di austriaci. Visto lo scherno e il disprezzo dei nemici nei loro confronti ritrovano la loro dignità rifiutandosi di fornire informazioni e finiscono fucilati. Uno stesso scenario di eroismo atipico è narrato da Rossellini nel suo Generale Della Rovere, tratto da un racconto di Montanelli (che polemizzò con la sceneggiatura di Amidei per aver sostituito il congedo finale “Viva il Re!” con il politicamente corretto “Viva l’Italia!”) e interpretato da Vittorio De Sica. Su pressione dei tedeschi, un guitto accetta di recitare la parte di un generale lealista e antirepubblichino nel carcere di San Vittore allo scopo di carpire informazioni ai resistenti detenuti. Ma succede l’imprevisto: il truffatore si identifica sempre di più nel suo personaggio, si rifiuta di collaborare e diventa davvero l’eroe che i compagni di carcere credono che sia davanti al plotone di esecuzione.

Un’estate artistica divisa tra modernità (i rivoluzionari anni Sessanta bussano alla porta) e memoria storica che si potrebbe sublimare, a mo’ di eterno refrain identitario, nella celeberrima frase che Tancredi indirizza al principe di Salina nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.

Tutta colpa di Lilith: rubò il sonno ai bambini

Le antiche credenze babilonesi, arabe, ebraiche, raccontavano di come demoni chiamati rispettivamente Tabi, Karina, Lilith tentassero di impossessarsi dei bambini approfittando del loro sonno. Il risultato è una lotta disperata, un pianto straziante e inconsolabile, inscenata dal bambino incosciente ma terrorizzato durante il sonno. Samuel Kottek dell’Università di Gerusalemme ha ripercorso la antica storia del disturbo che oggi chiamiamo pavor nocturnus, terrore notturno.

Avete mai osservato un bambino durante un episodio di terrore notturno? Non è facile, viene immediatamente naturale abbracciarlo, consolarlo, proteggerlo. Capire che è una richiesta di aiuto, una implorazione disperata è una facile intuizione. Ma cosa in realtà gli sta succedendo?

Se non avete mai sentito parlare di questo particolare disturbo, immaginate per un momento questa scena: è notte, la casa è immersa nel silenzio, solo il vento fuori dalle finestre, i sogni vi cullano. Il tempo sembra immobilizzato sotto la pressione docile delle coperte. Improvvisamente, l’aria viene spezzata dal grido di un bambino. Un grido terrificante, il bambino si dispera, si strappa la voce dalla gola. Quando arrivate davanti a lui, la scena si fa ancora più inquietante: è pallido, i capelli completamente bagnati, il suo sguardo è fisso su un punto indefinito della parete; sembra spaventato da qualcosa, da qualcuno, eppure dentro la stanza non c’è nessuno. Se provate a consolarlo, la sua disperazione crescerà, il cuore batterà ancora più veloce. Se lo svegliate, per qualche istante, anche se voi foste i suoi genitori, lui non avrà la minima idea di chi siete e tenterà di respingervi, di fuggire da voi. Nella sua testa la vostra sagoma sarà identica a quella della creatura invisibile che fino a un attimo prima lo stava tormentando. Si può assistere a questo fenomeno una volta o due, senza troppa preoccupazione, e magari ci convinciamo che si trattava soltanto di un brutto sogno. In altri casi più rari, però, l’appuntamento notturno con il risveglio straziante di un figlio è così ricorrente da creare ansia, generare domande, logorare intere famiglie che quasi sempre devono rassegnarsi a restare senza risposta e senza soluzione.

Il pavor nocturnus, o terrore notturno come oggi tutti lo conosciamo, viene inserito dalla Classificazione Internazionale dei Disturbi del Sonno fra le parasonnie – ossia comportamenti strani, inabituali che possono comparire durante il sonno – del sonno non-Rem (il sonno privo di movimenti oculari rapidi… e di sogni), assieme ai risvegli confusi (quella via di mezzo fra sonno e veglia, quando apparentemente svegli ci alziamo, confabuliamo, non siamo in grado di capire dove ci troviamo, cosa sta succedendo, parliamo in maniera rallentata o incomprensibile, appariamo diversi dal solito, a volte decisamente disinibiti e poi, al risveglio, non ricordiamo nulla di ciò che abbiamo fatto) al sonnambulismo e la sindrome del pasto notturno (o sleep eating – abbuffate notturne… di qualunque cosa). Il disturbo di cui parliamo ha una storia decisamente affascinante. Una prima descrizione del terrore notturno risale ad uno scienziato persiano vissuto tra il IX e il X secolo d.C, Abu Bakr Muhammad ibn Zakariy ya al-Razi, meglio conosciuto in Occidente come Rhazes. Nella sua opera Pratica Puerorum Rhazes descrive il nostro terrore notturno, tradotto probabilmente in modo erroneo in latino Mater Puerorum. Secondo alcuni studi, infatti, infatti, Rhazes lo imputa all’influsso di un demone notturno: è Lilith, la madre di tutti i demoni della antica tradizione ebraica che assilla i bambini durante la notte.

Solo molti secoli più tardi Mater Puerorum verrà assimilato all’isteria. Con l’avvento della psicanalisi e dell’interpretazione dei sogni il terrore notturno verrà poi considerato una forma di attacco d’ansia risultato da un conflitto inconscio. Freud considerava un elemento a favore della sua ipotesi la coincidenza temporale del terrore notturno con le fasi anale ed edipica dello sviluppo psicologico. Quando negli anni Settanta fu chiaro come il terrore notturno non coincidesse con la fase dei sogni, cioè il sonno Rem, bensì con il sonno a onde lente, alla prominenza della teoria freudiana si affiancarono altre interpretazioni. E altre ricerche. Gli studi degli anni Novanta e quelli successivi degli ultimi due decenni suggeriscono come il terrore notturno, così come il sonnambulismo, siano l’espressione di un risveglio parziale: mentre i centri che controllano e generano il sonno a onde lente mantengono il soggetto in uno stato di sonno, aree circoscritte del nostro cervello si attivano, dando luogo a risvegli parziali.

Allo stadio è meglio non capire l’inglese

Il giorno che Mondonico alzò la sedia io vidi per la prima volta la città dei balocchi per un diciassettenne del 1992: Amsterdam. È il 13 maggio, finale di ritorno di Coppa Uefa contro l’Ajax dopo il 2-2 dell’andata a Torino. Papà, mio fratello e io non possiamo mancare. La partità è alla sera, noi arriviamo alla mattina. C’è tutto il giorno per sbirciare il Paese dei balocchi. Mio fratello (22 anni) e io, con le nostre brave sciarpette granata, siamo immediatamente identificabili. Per tutto il giorno, ogni tre passi, veniamo avvicinati da improbabili personaggi che ci offrono ogni tipo di stupefacente. Ogni volta, con gentilezza, decliniamo. Giunti a sera in prossimità dello stadio, un distinto ragazzo di colore si avvicina a mio fratello e con in mano una sigaretta chiede: “’scuse me, have you got a lighter?”. Mio padre (da cui ci eravamo smarcati di qualche passo per tutto il pomeriggio) non ha mai parlato inglese, è vicino, sente e si fionda sul malcapitato: “Via! Non vogliono niente!”. Il ragazzo, interdetto, si allontana tra le perfide risate di noi due.

La partita finirà 0-0, il Torino colpirà tre pali di cui uno al 90’. Un gol e la Coppa sarebbe stata nostra, ma vince l’Ajax. Uscendo dallo stadio (da un settore promiscuo olandese e italiano), mi scappa una lacrimuccia di sconforto. Un tifoso dell’Ajax mima il gesto del pianto e mi schernisce: “Ooooh, are you saaaaad?”. Mio padre, che non ha mai parlato inglese, gli risponde: “Sì, sì, sei bello tu, coglione!”. E torniamo a casa comunque fieri.

Il ritorno di Neo, vent’anni dopo: gli eroi imbalsamati valgono (ancora) il box office

Regista mutante e protagonista imbalsamato. Ma se la saga funziona, ben venga la notizia che da ieri ha rallegrato i fan di Matrix: a vent’anni dal primo, il quarto capitolo si farà e sarà in produzione nel 2020. Se al timone resta Lana (nata Laurence) Wachowski che del franchise con la sorella Lily (già fratello, nata Andrew) è ideatrice fin dal primo e tuttora mitico film, davanti all’obiettivo si muoverà ancora Keanu Reeves, oggi 54enne ma che ab origine della matrice era poco più che trentenne, con tutte le differenze del caso. Per quanto prestante, il divo sembra appartenere a una nuova categoria hollywoodiana, quella degli eroi imbalsamati, immoti e immutabili: tanto a cancellare i segni del tempo ci pensano gli effetti speciali qualora il botox non sia sufficiente. Amato se non idolatrato, con il bel Keanu si può schierare l’immarcescibile 73enne Sylvester Stallone il cui Rambo 5 è di imminente uscita, ma anche l’ex Top Gun Tom Cruise non è da meno: a 57 anni continua a sorridere d’abbagliante dentatura mentre si cala da un elicottero nelle vesti di Jack Reacher. La reiterazione imperterrita di queste star probabilmente risponde alla spendibilità data dalla riconoscibilità, in altre parole, i vari Neo, Rocky/Rambo e Jack Reacher non possono che essere Reeves, Stallone e Cruise: ma siamo sicuri che le esigenze di marketing debbano prevalere sulla credibilità di questi onoratissimi ma ormai inadeguati signori del cinema? Perché di ruoli, per loro, ce ne sono a dozzine mentre un rinnovamento muscolare (vedi i vari Superman e Batman che cambiano regolarmente volto) potrebbe giovare agli stessi franchise. Ma se così va bene a Hollywood, a noi non resta che dire: c’era una volta Neo, di nome e di fatto.