“Quando la manna non cade dal cielo” è l’evocativo nome dato al progetto lanciato in Sicilia dal consorzio Manna Madonita (con dietro un investimento di qualche milione di euro da parte della Fondazione per il Sud) al fine di ricuperare sessanta ettari di frassini abbandonati nella provincia di Palermo e formare una nuova generazione di “mannaruoli”, capaci di far stillare dalla pianta le lagrime di linfa.
Il suo nome ci giunge, com’è noto, dalle Sacre Scritture, quando agli Ebrei (“erranti” già allora) Dio fece cascare dal cielo per sfamarli fiocchi di una sostanza biancastra e zuccherina; stupiti, pronunciarono: “Mân Hu” (cos’è?). Di lì, la traduzione passa per il latino munus (dono) e conia il termine che anche oggi utilizziamo per designare un colpo di fortuna o una buona novella che ci piovano dal cielo.
Di origine non divina (almeno non strictu sensu) di questa gemma naturale se ne ha notizia già nei secoli X e XI, ma è nel ’600, come dichiara anche il Professor Rosario Schicchi – docente di Botanica dell’Università di Palermo – che prende piede il vero e proprio mercato della manna, nota anche col nome di “miele di rugiada” o “pane degli angeli”.
Persino Johann Wolfgang von Goethe nel suo Viaggio in Italia (intrapreso nel 1787) la annovera, una volta sbarcato a Palermo, tra i molti fascini della Sicilia (che dell’Italia scrive “è la chiave di ogni cosa”… se lo appuntino i secessionisti). La gemma dei frassini gli rimarrà così impressa che nel 1808, nella stesura del Faust, mette in bocca a Mefistofele per comprarsi l’alchimista che lo ha invocato: “La Madre del Signore ci ristorerà con la manna celeste”.
Nell’antichità, i mannaruoli dovevano ’ntaccare (fare delle tacche) dal basso verso l’alto il fusto e i rami del frassino con un apposito cuteddu (un coltello assai simile a una roncola), per far stillare la linfa dal tronco che avrebbe poi creato delle stalattiti naturali – chiamati cannuoli (cannoli) – che poi le donne si affrettavano a staccare con delicatezza. Il periodo deve essere d’estate, quando cioè la pianta per via della scarsezza di piogge va in stress e produce più linfa per irrorarsi.
Oggi, se la tecnica di taglio è la stessa – “la pianta va ferita con garbo” spiega un giovane ‘ntaccaruolo – cambia però la raccolta, che sfrutta un filo di nylon teso dall’incisione fino a terra: in questo modo, la manna raccolta è più pura. Parimenti è cambiato, o meglio s’è sfaccettato il suo impiego: nella prima metà del ’900, la manna veniva impiegata precipuamente nell’industria farmaceutica, che pagava oro per le sue proprietà depurative, decongestionanti, lassative e cicatrizzanti (con il conseguente risultato del crollo di questo mercato, una volta sintetizzato in laboratorio il mannitolo dagli scarti della barbabietola da zucchero).
Oggi la fetta che la manna occupa è più ampia, ancorché resti un bene di lusso, e passa per la gastronomia (il noto pasticcere Fiasconaro ha creato il “mannetto”, un panettone artigianale alla manna), ma anche per la cosmesi e per il turismo legato allo Slow Food. Non a caso, la manna è inserita nel PAT (prodotti agroalimetari tradizionali). Per farci un’idea, un chilo costa 200 euro, non proprio bazzecole.
Sventuratamente, i frassini da manna vengono coltivati solo tra Castelbuono e Pollina per una superficie di 200 ettari, per questo il progetto “Quando la manna non cade dal cielo” (lanciato l’8 agosto, e che verrà inaugurato sabato 24 al Museo della Manna a Pollina) vuole ricuperare i frassineti, formare giovani e creare lavoro. A dispetto di quanto evoca il nome, l’intervento salvifico della manna stavolta è tutto umano.