Non cade dal cielo, però la manna è ancora un miracolo

“Quando la manna non cade dal cielo” è l’evocativo nome dato al progetto lanciato in Sicilia dal consorzio Manna Madonita (con dietro un investimento di qualche milione di euro da parte della Fondazione per il Sud) al fine di ricuperare sessanta ettari di frassini abbandonati nella provincia di Palermo e formare una nuova generazione di “mannaruoli”, capaci di far stillare dalla pianta le lagrime di linfa.

Il suo nome ci giunge, com’è noto, dalle Sacre Scritture, quando agli Ebrei (“erranti” già allora) Dio fece cascare dal cielo per sfamarli fiocchi di una sostanza biancastra e zuccherina; stupiti, pronunciarono: “Mân Hu” (cos’è?). Di lì, la traduzione passa per il latino munus (dono) e conia il termine che anche oggi utilizziamo per designare un colpo di fortuna o una buona novella che ci piovano dal cielo.

Di origine non divina (almeno non strictu sensu) di questa gemma naturale se ne ha notizia già nei secoli X e XI, ma è nel ’600, come dichiara anche il Professor Rosario Schicchi – docente di Botanica dell’Università di Palermo – che prende piede il vero e proprio mercato della manna, nota anche col nome di “miele di rugiada” o “pane degli angeli”.

Persino Johann Wolfgang von Goethe nel suo Viaggio in Italia (intrapreso nel 1787) la annovera, una volta sbarcato a Palermo, tra i molti fascini della Sicilia (che dell’Italia scrive “è la chiave di ogni cosa”… se lo appuntino i secessionisti). La gemma dei frassini gli rimarrà così impressa che nel 1808, nella stesura del Faust, mette in bocca a Mefistofele per comprarsi l’alchimista che lo ha invocato: “La Madre del Signore ci ristorerà con la manna celeste”.

Nell’antichità, i mannaruoli dovevano ’ntaccare (fare delle tacche) dal basso verso l’alto il fusto e i rami del frassino con un apposito cuteddu (un coltello assai simile a una roncola), per far stillare la linfa dal tronco che avrebbe poi creato delle stalattiti naturali – chiamati cannuoli (cannoli) – che poi le donne si affrettavano a staccare con delicatezza. Il periodo deve essere d’estate, quando cioè la pianta per via della scarsezza di piogge va in stress e produce più linfa per irrorarsi.

Oggi, se la tecnica di taglio è la stessa – “la pianta va ferita con garbo” spiega un giovane ‘ntaccaruolo – cambia però la raccolta, che sfrutta un filo di nylon teso dall’incisione fino a terra: in questo modo, la manna raccolta è più pura. Parimenti è cambiato, o meglio s’è sfaccettato il suo impiego: nella prima metà del ’900, la manna veniva impiegata precipuamente nell’industria farmaceutica, che pagava oro per le sue proprietà depurative, decongestionanti, lassative e cicatrizzanti (con il conseguente risultato del crollo di questo mercato, una volta sintetizzato in laboratorio il mannitolo dagli scarti della barbabietola da zucchero).

Oggi la fetta che la manna occupa è più ampia, ancorché resti un bene di lusso, e passa per la gastronomia (il noto pasticcere Fiasconaro ha creato il “mannetto”, un panettone artigianale alla manna), ma anche per la cosmesi e per il turismo legato allo Slow Food. Non a caso, la manna è inserita nel PAT (prodotti agroalimetari tradizionali). Per farci un’idea, un chilo costa 200 euro, non proprio bazzecole.

Sventuratamente, i frassini da manna vengono coltivati solo tra Castelbuono e Pollina per una superficie di 200 ettari, per questo il progetto “Quando la manna non cade dal cielo” (lanciato l’8 agosto, e che verrà inaugurato sabato 24 al Museo della Manna a Pollina) vuole ricuperare i frassineti, formare giovani e creare lavoro. A dispetto di quanto evoca il nome, l’intervento salvifico della manna stavolta è tutto umano.

Pattie Boyd, la sposa infelice contesa dagli dei (del rock)

Londra. Paddington Station. Un sussulto e il treno si avvia. Un ragazzo con gli occhi di velluto e una scolaretta siedono l’uno di fronte all’altra. L’atmosfera è fresca, leggera. Chiacchierano del più e del meno: lui fa qualche battuta, lei sorride. “Mi vuoi sposare?”, le chiede all’improvviso. Lei scoppia a ridere. ‘È uno scherzo’, pensa. “Be’, se proprio non vuoi sposarmi – insiste lui – verresti almeno a cena con me?”. Il cambio di programma è ancora più esilarante. La scolaretta è senza parole. Non può, spiega: il suo ragazzo non approverebbe. Potrebbero cenare tutti e tre insieme, rilancia lei. Gli occhi di velluto sorridono, ma declinano, cortesemente.

La giornata finisce, il treno rientra, i due scendono, si salutano e ognuno se ne va per la sua strada. Nell’aria, l’elettricità di cose che avrebbero potuto essere ma non sono state. Lei ha diciannove anni, si chiama Pattie e fa la modella. Dicono somigli alla Bardot. Lei si schermisce e aspetta la sua occasione. Un giorno, forse, chissà. Intanto la sua agenzia l’ha spedita a Paddington, per fare la comparsa in un film. Il ragazzo con gli occhi di velluto, invece, di anni ne ha ventuno. Si chiama George ed è uno dei protagonisti di quel film. Non è un attore, però. Suona la chitarra. Per lui, l’occasione giusta è arrivata. Né lui né i suoi tre amici se la sono lasciata scappare. Capelli a caschetto e frangetta, stivaletti a punta sotto pantaloni a sigaretta, giacca e cravatta. Con il loro irriverente ‘Yeah, yeah, yeah!’ stanno facendo impazzire i teenager di tutto il mondo. Si fanno chiamare “The Beatles” e il timido George – Harrison – è la chitarra solista. Un fuoco di paglia, secondo i mille Catone della modernità. Solo rumore. Anche da noi i benpensanti storcono il naso. Niente diretta tv per il primo live italiano dei Fab Four: di quei ragazzi, ‘tra un mese non si ricorderà più nessuno’. Più di mezzo secolo ci separa da quel vaticinio e i Beatles sono ancora la rock band più grande e amata, e uno dei più folgoranti social network della contemporaneità. Tant’è.

Ritroviamo la scolaretta in uno squallido seminterrato di Soho, durante gli scatti per un insignificante catalogo di moda. In una pausa, confessa a un’amica di aver rifiutato l’invito a cena di uno dei Beatles. “Devi essere completamente fuori di testa!”, s’infiamma l’altra. Per la giovane modella, però, la fortuna è come il postino: suona sempre due volte. Qualche giorno dopo, infatti, lei e occhi di velluto si incontrano di nuovo. È una sessione fotografica per la stampa: quattro ragazze sono state ingaggiate per mettersi alle spalle dei Beatles e fingere di sistemargli i capelli. Pattie, ovviamente, punta dritta il suo George. “Come sta il tuo ragazzo?”. “L’ho mollato”. Il Beatle sorride e rinnova l’invito. Questa volta Pattie – Boyd – accetta. Il resto, è storia. La storia di una delle love-story più intense e rockambolesche del jet-set musicale. È per lei che George scrive Something: secondo Frank Sinatra, “la più bella canzone d’amore mai scritta”. Rose, certo. Ma anche spine. Molte. Troppe. Strappano la pelle e fanno sanguinare. La separazione per i tour e le interminabili session di registrazione, l’assillo di giornalisti e fotografi, le fan che la minacciano per essersi portata via il loro George. E, naturalmente, le spire devastanti della psichedelia: alcol, droghe, sesso e ogni genere di viaggio. Gli amori degli dèi scricchiolano per le stesse ragioni di quelli dei comuni mortali: quando cadono, però, il frastuono è insostenibile. “Mi sentivo non amata e infelice”, confesserà Pattie. Un bel giorno – i due sono sposati da tre anni – riceve una lettera. “La mia vita privata – scrive un ammiratore misterioso – è una farsa inarrestabile, che giorno dopo giorno degenera in modo intollerabile… sembra un’eternità dall’ultima volta che ti ho vista e ti ho parlato”. Ami ancora tuo marito?, chiede. Deve saperlo. Qualunque sia la risposta. Solo così potrà darsi pace. Firmato: “con tutto il mio amore. e”.

La minuscola non è una congiunzione ma l’iniziale di un altro dio: Eric Clapton, uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi. Per Rolling Stone, il numero 2 dei 100 più grandi di sempre. Davanti a lui, solo Jimi Hendrix. Harrison è undicesimo. Clapton is God, si legge sui muri della swinging London. “È la lettera più appassionata che mi avessero mai scritto”, scriverà Pattie. Il corteggiamento si fa ogni giorno più insistente: una sfida a colpi di note e versi. “Sono in ginocchio per te, ti sto implorando: tesoro, non vuoi dar pace alla mia mente tormentata?”, canta Clapton in Layla. Lei resiste. Lui minaccia di farsi consolare dall’eroina. Così farà. Una discesa all’Inferno lunga tre anni. Lui in un abisso, lei in un altro: indifferenza, freddezza e continui tradimenti di George. E, così, Pattie volerà da un dio all’altro. La musica cambierà. Per loro, però, non per lei. E il nuovo abbraccio si rivelerà mortale quanto il primo. A cosa serve essere la musa di due grandi artisti, ispirare capolavori cantati da folle deliranti, sentirsi sussurrare Your’re Wonderful Tonight, se il tuo regno è la desolazione, e quello che credi il tuo castello non è altro che una prigione? E se non sono le altre donne, è la droga; se non è la droga, è l’alcol; se non è l’alcol, è il palco. E in quei rarissimi istanti nei quali queste cose sembrano dissolversi e ti illudi di avere il tuo amore tutto per te, ti ritrovi davanti il muro più alto e invalicabile di tutti: la musica. “Vanno a letto con Gilda e si risvegliano con me”, commentava, amaramente, Rita Hayworth. La tua stessa amarezza, Pattie imbronciata come la Kore di Euthydikos, che sei andata a letto col rock e ti sei svegliata accanto a un’altra parola di quattro lettere, ma infinitamente più dolorose: sola.

 

Brexit, gli industriali tedeschi chiudono la porta

Non se ne parla proprio. È questa, in sostanza, la risposta della Bdi, la confindustria tedesca, al tentativo del premier britannico Boris Johnson di ritrattare un nuovo accordo sulla Brexit nel corso della visita alla cancelliera Angela Merkel, ieri a Berlino. “La richiesta del premier britannico di riaprire l’accordo di uscita (della Gran Bretagna) è irresponsabile”, ha detto a chiare lettere la confindustria tedesca in un comunicato. Soprattutto su un punto la Bdi è irremovibile: rimettere in discussione la clausola del back-stop, il protocollo di salvaguardia per evitare un confine fisico tra Irlanda del Nord e Repubblica irlandese. “Solo la Commissione (europea) è in grado di assicurare in modo permanente il rispetto del mercato unico sul confine irlandese. E questo è possibile solo con il back-stop, che è nell’interesse dell’economia tedesca”, si legge nel comunicato della confederazione tedesca.

A risvegliare l’allarme era stata la lettera di qualche giorno fa del premier britannico al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, in cui si chiedeva di stralciare dall’accordo sulla Brexit la clausola sul back-stop in quanto “non democratico” e “incompatibile con la sovranità del Regno Unito”. Argomento che il premier ha ribadito anche ieri a Merkel. La clausola avrebbe l’effetto di mantenere il mercato unico in Irlanda ma anche di allontanare economicamente l’isola dalla Gran Bretagna. Tusk aveva risposto a Johnson, a breve giro, dicendo che “chi è contro il back-stop e non propone alternative realistiche, nei fatti sostiene la reintroduzione di una frontiera. Anche se non lo ammette”. E l’apertura delle frontiere tra le due Irlande – raggiunta nel 1999 – non è messa in discussione apertamente da nessuno. Al contrario è temuta, in primis dalla confindustria tedesca, che dopo l’incubo per la perdurante incertezza sulla Brexit vede allungarsi uno spettro anche sull’Irlanda.

“L’industria considera sbagliato aumentare le preoccupazioni dell’economia in una fase delicata come quella attuale” prosegue il comunicato della Bdi. Il messaggio è indirizzato alla politica tedesca, che ha ben chiaro il problema. Dopo i dati della settimana scorsa sulla contrazione del Pil in Germania dello 0,1 nel secondo trimestre, le previsioni negative della Bundesbank – che prospetta un’economia in recessione tecnica per il terzo trimestre, in un contesto di tensioni commerciali di portata mondiale tra Usa e Cina il governo Merkel non intende certo accogliere a braccia aperte richieste da Oltremanica che potrebbero aggravare le difficoltà economiche della Germania. “Dobbiamo combattere per la nostra crescita economica” ha infatti dichiarato la cancelliera, a poche ore dall’incontro con Johnson. Anche il capo dello Stato tedesco, Frank-Walter Steinmeier, è intervenuto sulla questione per ridimensionare le aspettative del brexiter: “Tutte le varianti che potrebbero essere proposte, sono state già oggetto di discussione” quindi considera “poco probabile che riprendano i negoziati su questa tema”. La confindustria tedesca intanto si prepara a una hard-Brexit senza accordo a partire dal 31 ottobre.

Il senso di Trump per gli ebrei: buoni solo se lo votano

Per Donald Trump, il buon ebreo americano ha una doppia lealtà, agli Stati Uniti e a Israele, e vota repubblicano. Anzi, “gli ebrei che votano democratico mostrano totale mancanza di consapevolezza o grande slealtà”. Utilizzando, forse senza rendersene conto, un luogo comune antisemita, che cioè gli ebrei sono quinte colonne di Israele nei loro Paesi, il magnate presidente scatena vivaci reazioni. Bernie Sanders, senatore del Vermont, candidato alla nomination democratica per Usa 2020, ebreo non osservante, dice: “Io sono orgoglioso d’essere ebreo e non ho remore a votare democratico; anzi, intendo votare perché un ebreo diventi il prossimo presidente degli Stati Uniti”. Trump è da giorni animato da una vis polemica più fervida del solito: solo nelle ultime ore, se l’è presa con la Danimarca, che non gli vuole vendere la Groenlandia, e con la Federal Reserve, che non abbassa il costo del denaro come lui desidera, mentre ha ‘lisciato’ la Russia, la Cina e la lobby delle armi, la Nra.

La sortita sugli ebrei nasce dall’ennesimo attacco alle due deputate democratiche musulmane, Rashida Tlaib e Ilhan Omar, che “odiano Israele” e “vogliono tagliargli gli aiuti”. “È questo – s’interroga il presidente – il nuovo volto del Partito democratico?”. Nei giorni scorsi, Trump aveva chiesto e ottenuto che le autorità israeliane impedissero a Tlaib e Omar di visitare la Cisgiordania. Elettoralmente, la carta può essere redditizia: il presidente sa che dove il voto ebreo è numeroso, specie a New York, lui comunque perde: il 70% degli ebrei americani votarono Hillary Clinton, nel 2016. Jonathan Greenblatt, leader della Anti-Defamation League, lobby ebraica conservatrice, e J Street, lobby ebraica progressista, sono per una volta allineati nel criticare il concetto della doppia lealtà. Ma J Street va oltre: “La grande maggioranza della nostra comunità aborre la xenofobia, il razzismo e l’estremismo di Trump e dei suoi alleati”. Halie Soifer, direttore esecutivo del Jewish Democratic Council of America aggiunge: “Se si tratta di ‘ebrei leali’ a lui, allora Trump ha bisogno di una verifica della realtà. Viviamo in una democrazia, e il sostegno ebraico al Partito repubblicano è stato dimezzato negli ultimi quattro anni”.

In procinto di partire per l’Europa, dove parteciperà al Vertice del G7 di Biarritz in Francia, e dove avrà molti bilaterali, il magnate ‘mette in castigo’ la Danimarca, che non gli vende la Groenlandia. Offeso dal prevedibile ‘no’ a quella che tutti credevano più una boutade che un progetto, Trump cancella la visita prevista dal 2 al 4 settembre: Mette Frederiksen, la premier danese, aveva definito l’idea della vendita della Groenlandia agli Stati Uniti “assurda”, dopo che il magnate aveva confermato l’intenzione di parlargliene. A riprova d’essersi ormai affezionato all’idea, il magnate aveva postato su Twitter un fotomontaggio con una Trump Tower nella campagna groenlandese e il messaggio “Prometto di non farlo”. I reali di Danimarca, che nei giorni scorsi erano stati più diplomatici della premier, ma ugualmente fermi, esprimono “sorpresa” per la visita annullata. La Fredriksen è “delusa”. Tweet dolci, invece, per la Cina – “Stiamo andando bene” – e per la Russia, che al G7 del 2020, negli Usa, potrebbe essere riammessa fra i Grandi. “L’unico problema che abbiamo – assicura Trump – è Jay Powell e la Fed”. E ancora: “Siamo in competizione con Paesi che hanno tassi di interesse decisamente più bassi. È ora che Powell e la Fed si sveglino”: parole dette prima dell’apertura a Jackson Hole, nel Wyoming, dell’annuale appuntamento informale fra rappresentanti delle banche centrali. Chi, al solito, si sottrae agli strali di Trump è la Nra, la lobby delle armi: la stretta dei controlli su chi acquista pistole, fucili, munizioni non si farà. Il presidente lo avrebbe garantito in una telefonata al leader dell’associazione Wayne LaPierre, preoccupato per la richiesta di norme più rigide dopo le stragi di El Paso e Dayton. Trump è già tornato alla sua posizione standard, che non sono le armi che uccidono, ma le persone cattive, o malate di mente, che le usano (a cui, comunque, continueranno a essere vendute).

Minsk, l’ultimo dittatore.Pianeta Lukashenko: dove c’è ancora il Kgb

Sotto il sole dello scorso luglio, nel monastero di Valaam, Russia del nord, i due leader più longevi dell’emisfero slavo hanno camminato sorridendo fianco a fianco tra le croci. Putin il credente è al potere da 20 anni, Lukashenko, per sua stessa definizione “ateo ortodosso”, festeggia questa estate il suo quarto di secolo ininterrotto al potere. Ma le discussioni delle passeggiate sul lago Lagoda dei due veterani sovietici non hanno riguardato dio, ma l’Unione delle tre sorelle (Russia, Bielorussia e Ucraina), un patto a cui il leader di Minsk aderì nel 1997, quando al potere c’era ancora Eltsin, un progetto che da allora è rimasto inattuato e sopravvive solo sulla carta e nei sogni di supremazia di Putin.

Lukashenko in questi anni si è mostrato sempre sfavorevole all’idea della fusione tra Minsk e Mosca, ma ha inviato comunque le sue truppe alle esercitazioni russe congiunte “Fratellanza slava 2019”, suscitando l’ira del bastione baltico al confine, frontiera più a est d’Europa.

Quello che oggi chiamano “l’ultimo dittatore d’Europa” era il ragazzino Aleksandr, che da adulto pensava di diventare un autista di trattori, fu abbandonato dal padre e preso in giro a scuola per le origini di un misterioso patronimico che non ha mai spiegato. Commissario politico nel reparto di frontiera del Kgb, poi direttore di una savkoz, fattoria collettiva sovietica fino al 1985, divenne presidente della commissione anticorruzione in Parlamento. Eletto nel 1990 deputato del Consiglio Supremo, fu l’unico a votare contro l’accordo di Belavezha che nel dicembre 1991, proprio nelle foreste bielorusse, mise fine all’Unione Sovietica e diede alla luce la CSI, Comunità Stati Indipendenti.

Eletto presidente nel 1994, nell’agosto di 25 anni fa diede il via alle riforme economiche in Bielorussia e un anno dopo ripristinò il russo come lingua ufficiale. Dall’unico paese al mondo dove esiste ancora il Kgb – l’apparato dei servizi segreti non è crollato insieme all’Unione – arrivano poche notizie su di lui se non quelle prodotte dall’apparato di propaganda di giornali e tv statali, che ritraggono Lukashenko mentre ispeziona fabbriche in tuta, si stira i baffetti neri sotto la testa lucida, sorride agli operai, raccoglie patate con il capo coperto di bianco, tra zolle di lande periferiche, panorami congelati in un’epoca precedente e contadini in giubilo.

Sono le messinscene che vuole batka, padre della patria, appellativo che ha scelto per se stesso come avevano fatto prima di lui gli zar e poi Stalin. Dal pantano bielorusso, dove sono immersi pochissimi giornalisti indipendenti, sono ancor meno le notizie neutre, verificabili, veritiere che giungono oltre confine. L’ultima reale però riguarda la centrale nucleare che Minsk ha intenzione di costruire e contro cui la Lituania sta già lottando, cercando di creare una coalizione internazionale per fermare il progetto.

Alleati Lukashenko ne ha pochi ma non solo russi. Salvò dei membri del governo di Saddam nel 2003 mentre cadevano bombe americane sull’Iraq. Il capo di Stato venezuelano, dopo aver firmato con lui accordi di scambio commerciale nel 2015, disse “Lukashenko ha un nuovo amico” e infatti il presidente slavo lo ha avuto, finché è rimasto vivo Chavez. In Bielorussia mancano cibo e libertà d’espressione, ma non metallo per produrre munizioni, armi e fucili che viaggiano in segreto verso il Libano fino a Teheran o alla Costa d’Avorio. Nonostante siano state prolungate le sanzioni europee fino al 2020 – soprattutto dopo le proteste di piazza del 2017 quando i cittadini in piazza a Minsk, Brest e Grodno, tentarono di ribellarsi alla sua autocrazia e furono arrestati in centinaia – Lukashenko non ha mai alleviato lo stato di repressione e soffocamento contro dissidenti e oppositori, come hanno ben documentato molti dossier di Amnesty.

Per il resto cosa fa batka lo dice ogni giorno solo la Belta, agenzia telegrafica bielorussa: “Il presidente visiterà villaggi remoti”, “Il presidente oggi loda i successi dell’export di cibo in Turkmenistan,”. Lukashenko ha mostrato di non temere i più grandi assassini del potenti: orgoglio e megalomania. Al ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle, apertamente gay, che lo chiamò dittatore nel 2012, rispose: “Meglio dittatore che gay”.

Mal mascherato estimatore di Hitler, perché “non tutto ciò che lo riguarda è un male”, è stato accusato di antisemitismo da Gerusalemme quando, in visita in una fattoria, ha accarezzato in diretta tv la testa pezzata di un vitello, ha definito le vacche animali sacri, e indignandosi per la sporcizia dei recinti dei bovini, ha urlato contro i suoi collaboratori timorosi dal capo chino: “Siete pazzi? Che cos’è questo? Auschwitz?”. E poi: “Preparate subito due decreti: licenzio subito tutti, dirigenti e governatore”. Il ragazzo sovietico che dirigeva la fattoria collettiva ha continuato a governare nello stesso modo un Paese intero, per 25 anni.

Il mito di Massud ormai fuori tempo

Ha suscitato grandi speranze il ritorno in Afghanistan, dopo 17 anni passati a studiare a Londra, del figlio di Ahmad Massud, il “Leone del Panshir” che ha sempre goduto di un’ottima reputazione in Occidente.

Il giovane Massud, che oggi ha trent’anni, si è ripresentato con queste parole: “Se mio padre fosse vivo, i talebani saprebbero di dover venire qui con le mani in alto, in segno di resa”.

Per capire quanto arroganti, ridicole ma anche pericolose siano le parole del giovane Massud bisogna rifare la storia del padre e, con essa, dell’Afghanistan degli ultimi trent’anni. Ahmad Massud è stato certamente un grande combattente, ma un coglione politico. Insieme agli altri “signori della guerra”, Hekmatyar, Dostum, Ismail Khan, era stato uno dei protagonisti della vittoria sui sovietici che avevano invaso l’Afghanistan nel 1979. Come Hekmatyar, Dostum, Ismail Khan era un capoclan, quello dei Tagiki, e un uomo di potere. Quando i sovietici si ritirano dall’Afghanistan, lasciando a Kabul un loro uomo di facciata, Najibullah, fra i “signori della guerra” si accese una feroce lotta per la conquista del potere. Il primo a cominciare è proprio Massud che occupa militarmente Kabul. Hekmatyar non ci sta e circonda la città. È l’inizio della guerra civile. I gloriosi combattenti e i loro sottopancia si trasformano in capibanda mafiosi che assassinano, stuprano, taglieggiano, sbattono fuori dalle case i legittimi proprietari per metterci i propri adepti e angariano a loro piacere la povera gente. Sarà questa situazione di totale arbitrio che susciterà la rivolta dei Talebani, i giovanissimi “studenti delle madrasse”, guidati dal Mullah Omar. Benché molto meno esperti e ancor peggio equipaggiati i Talebani sconfiggeranno i “signori della guerra”, perché hanno l’appoggio della popolazione che non ne può più di questa situazione.

Il 26 settembre 1996 i Talebani entrano a Kabul e diventano i padroni del Paese. Hekmatyar è fuggito in Iran, Dostum in Uzbekistan, Massud si è ritirato nell’enclave del Panshir (dove vige la sharia come nel resto del Paese). Massud, che non ha digerito la sconfitta, inizia a trafficare con gli americani i quali, dopo aver visto in un primo tempo con favore il governo di Omar, pensando che si sarebbe piegato docilmente ai loro voleri, hanno deciso da tempo di invadere l’Afghanistan. Ma non possono farlo solo con i bombardieri, hanno bisogno di forze sul terreno, i tagiki di Massud appunto (l’Alleanza del Nord). Ci sono incontri fra emissari del Mullah Omar e lo stesso Massud per cercare un accordo che tagli fuori gli americani. Il primo avviene fra la fine del 1999 e gli inizi del 2000 fra Zaeef, uomo di fiducia di Omar, e lo stesso Massud. Omar offre a Massud un ruolo di primissimo piano nel governo di Kabul. È un’offerta generosa perché i Talebani controllano quasi l’intero territorio afghano, Massud solo l’enclave del Panshir che ne rappresenta meno dell’un per cento. Massud voleva però condividere col Mullah Omar il potere militare. Omar pensava che fosse pericolosa una diarchia militare che avrebbe creato più problemi di quanti ne avrebbe risolti. L’incontro si concluse con un nulla di fatto, ce ne sarà un secondo nei primi mesi del 2001 in cui Massud, che non vi è andato personalmente, si dimostra molto più freddo. Ha ormai deciso di allearsi con gli americani. Ci sarà infine una telefonata tra Omar e Massud, l’unica volta in cui i due si sono parlati direttamente, in cui il capo dei Talebani avverte Massud: guarda che se fai entrare gli americani in Afghanistan non sarai tu a comandare, ma loro. Massud dice ancora di no e con questo no segnerà non solo la storia dei successivi 18 anni dell’Afghanistan ma anche la sua personale. Massud era infatti un afghano integrale e dopo l’intervento degli americani avrebbe detto loro: grazie per averci liberato dei nostri nemici, ma adesso tornatevene a casa vostra. Questo l’intelligence americana lo sapeva benissimo e decise di far fuori Massud con un attentato attribuito ad al Qaeda (ipotesi che non sta in piedi perché Massud aveva, storicamente, ottimi rapporti con Bin Laden che proprio lui aveva chiamato in Afghanistan perché lo aiutasse a combattere un altro “signore della guerra”, l’arcinemico Gulbuddin Hekmatyar) ma di pura marca yankee. Insomma è stato proprio Massud a consegnare l’Afghanistan agli americani.

E siamo all’oggi. Da mesi americani e talebani stanno trattando a Doha. L’ipotesi di accordo è questa: gli Stati Uniti ritirano le loro truppe e quelle dei loro alleati dall’Afghanistan (Trump non vuole spendere 45 miliardi l’anno per una guerra già persa), in compenso i talebani si impegnano a che sul loro territorio non allignino gruppi terroristi. Impegno scontato perché è almeno dal 2015 che i Talebani combattono l’Isis (cinque giorni fa gli uomini di Al Baghdadi si sono resi responsabili di un attacco kamikaze, durante un matrimonio, che ha fatto 63 morti e 182 feriti, attentato rivendicato dall’Isis, anche se non c’era bisogno di questa conferma perché i talebani non hanno mai attaccato obiettivi civili per la semplice ragione che è proprio sull’appoggio della popolazione che hanno potuto sostenere una resistenza che dura da 18 anni).

Qualcuno ricorderà, forse, che nel 2015 il Mullah Omar, in quello che è stato il suo ultimo atto pubblico, scrisse una ‘lettera aperta’ ad Al Baghdadi in cui gli intimava di non entrare in Afghanistan. Cosa che invece l’Isis ha potuto fare perché i Talebani dovevano combattere contemporaneamente sia gli occupanti stranieri sia i guerriglieri dell’Isis.

Ora la pacificazione afghana e l’indipendenza di questo Paese sono vicini sorge il problema di che cosa succederà dopo l’accordo talebano-americano. Se fosse ancora vivo il Mullah Omar, con la sua saggezza e la sua sostanziale moderazione, si potrebbe essere relativamente fiduciosi. Quando conquistò Kabul Omar fece eliminare il fantoccio sovietico Najibullah, ma il giorno dopo concesse un’amnistia generale che è durata per tutti i sei anni e mezzo del suo governo. Ma Omar adesso non c’è più e la situazione si è molto incancrenita. Per 18 anni i Talebani hanno dovuto combattere contro i loro connazionali dell’esercito ‘regolare’ afghano, ragazzi disperati che si arruolano solo per sfuggire alla fame. Inoltre ci sono tutti i corrotti, gli intellettuali, i giornalisti che in questi 18 anni hanno sostenuto prima il governo fantoccio dell’ultracorrotto e mercante di droga Hamid Karzai e adesso sostengono il governo altrettanto corrotto di Ashraf Ghani, che infatti i Talebani non hanno voluto al tavolo delle trattative. Il pericolo di un sanguinoso regolamento di conti esiste. E il ritorno del figlio di Massud, che svernava a Londra mentre i suoi connazionali, Talebani e non, versavano il sangue in Afghanistan, rischia di riaccendere conflitti interetnici e intertribali che prima il governo del Mullah Omar e adesso la conquista da parte dei Talebani dell’intero Paese avevano sopito. Il rampollo di Massud torni a studiare a Londra. Sarà meglio per tutti.

Siamo in grado di anticipare l’ultimissima proposta di Renzi

Come anche i più distratti avranno capito, Matteo Renzi non vuole andare a votare. I motivi che adduce in interviste e dichiarazioni sono i più vari: evitare che vinca Salvini, evitare che si diffonda un clima d’odio, evitare l’aumento dell’Iva, evitare l’uscita dall’euro, evitare quasi tutto. Nelle telefonate che compulsivamente rivolge a interlocutori politici e dei media si individua, va detto, anche un’altra ragione: evitare che Renzi esca dal Parlamento con famigli e amici a ruota. Questo almeno per qualche mese, perché poi uscirà comunque dal Pd, si farà il suo partitino e chiederà di andare alle urne: non ora però, giammai ora, assolutamente non ora. Stabilito il campo da gioco, la posizione di Renzi è in rapida evoluzione. Nella primavera 2018, si sa, era “pop corn” e #senzadime: “Mai coi cialtroni a 5 Stelle”. E così è rimasta fino all’8 agosto, quando ha capito che la crisi era proprio vera e si rischiava di votare. All’improvviso il nostro è passato a: “Governo istituzionale per fare la manovra ed evitare l’aumento dell’Iva” (fase #contutti). Dopo Ferragosto, capito che il resto del Pd voleva un governo più lungo, s’è spostato: “Conte via, ma Di Maio dovrebbe restare al governo con un posto di peso” (fase #coicialtroni). Capito che l’accordo s’è fatto ancor più complicato, martedì è passato a: “Bel discorso, Conte può restare” (fase #machedavero?). Ora, dovesse incontrare altre difficoltà, Il Fatto è in grado di anticipare l’ultimissima mossa di Renzi: l’appoggio a un governo Salvini per evitare il governo Salvini (fase #facciacomeilculo).

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Tav, “un’opera utile al Paese” “No, cara e dannosa”

Caro Travaglio, la Tav si farà, c.d.d., punto. Basta chiacchiere. Eppure… “Lo studio di Toninelli vale quanto le previsioni del Mago di Napoli”. Certo è solo la battuta di un politico che, quanto a comicità, se la vede con Beppe Grillo, tuttavia, il solo fatto che se la sia permessa, mi sollecita una riflessione. Voi no-Tav non potevate fare di più e di meglio per screditare la vostra tesi. In testa Toninelli, con tutta la sua goffaggine. I modi con i quali ha disposto l’analisi sono stati tali da far sì che fosse incredibile a prescindere dal suo esame, che del resto era interdetto alla stragrande maggioranza del pubblico. L’immagine era tutto, e l’immagine è stata pessima. Anche lei ha contribuito al suo affossamento con un memorabile scritto nel quale sosteneva che nessuno vi aveva potuto scovare un errore “di somma, sottrazione, moltiplicazione…”. Si sarebbe dovuto credere che degli esperti di fama internazionale non sapessero far di conto. Era troppo pretendere dalla sprovvedutezza della gente. Se poi, come per generosità ipotizzo, lei avesse voluto fare dell’ironia, l’ha fatta molto male. A seguire dichiarazioni sballate. Di Maio: “Votiamo no per non regalare soldi a Macron”. Ci facciamo i dispetti come all’asilo d’infanzia. Si aggiunga che vi siete associati un bel gruppetto di casseurs, puri teppisti. Mi perdoni per la durezza, ma io nei suoi confronti mi sento come la divina Saffo ci canta di Eros: dolce-aspro.

P.S. Mi risparmi la polemichetta sul genere di Tav. Ci sono ragioni per sostenere tanto il maschile quanto il femminile, io, come sempre, preferisco il secondo.

Giampiero Bonazzi

 

Gentile signora Giampiero, se a lei piace tanto che lo Stato butti i suoi soldi in un’opera inutile e dannosa, liberissima. A noi invece non garba per nulla e continueremo a batterci perché quello scempio (l’ennesimo) ci venga risparmiato.

M. Trav.

 

 

Governo sì, a condizione che il premier sia Conte

Spunterebbe il nome di Fico quale presidente del Consiglio. E già, Zingaretti dice che occorre discontinuità (gli conviene). Sarebbe un errore gravissimo per il M5S. Per un governo che porti a termine la legislatura, deve necessariamente porre la condizione che il presidente sia Giuseppe Conte. Altrimenti si faccia un governo a termine, con un presidente non di partito, e si vada a nuove elezioni, con Conte candidato premier per il M5S.

Fernando Mastursi e Annamaria Cerulo

 

 

Ok Corral del 1881: fate voi i paragoni con quei personaggi

Nella sfida all’Ok Corral del 1881 a Tombstone, Salvini ha fatto come Ike Clanton, rimasto illeso nella sparatoria a otto che ha lasciato sul terreno 3 morti e 3 feriti: si è dato “coraggiosamente” alla fuga. Si sostiene che Ike lo abbia fatto perché era disarmato, ma molti pensano che non abbia avuto il coraggio di affrontare i fratelli Earp e Doc Holliday. Fatto è che nelle bare finirono Billy Clanton, Frank e Tom McLaury. I feriti furono Doc Holliday, Virgil e Morgan Earp. Unico senza un graffio il mitico Wyatt Earp. Anche Billy “the Kid” Claimore (da non confondere con il famoso Billy the Kid McCarty, morto ammazzato 5 mesi prima), amico dei Clanton-McLaury, si salvò dandosela a gambe in un vicolo assieme al non certo intrepido sceriffo John Behan. Resta al Fatto Quotidiano trovare corrispondenza con i personaggi della crisi.

Luciano Ferrarese

 

 

Un uomo solo decide delle vite di molti migranti. E non paga

Non sono una persona colta ma volevo esporvi una piccola riflessione: le persone si indignano (o almeno, io mi indigno) quando guardo vecchi filmati in cui i nazisti giustificano le loro azioni dicendo che “semplicemente eseguivano gli ordini che venivano dall’alto”. Allora mi domando: perché nessuno si indigna vedendo quei poveri migranti fermi su una barca da 20 giorni perché un uomo (un solo uomo) ha il potere di decidere delle loro vite? Perché nessuno si indigna e invece di “eseguire gli ordini” prende coraggio e fa la cosa giusta? Perché un uomo che comanda e decide qualcosa di anticostituzionale non rischia il carcere e chi disobbedisce ai suoi ordini rischia il carcere? Se tutti stiamo agli ordini per la paura di disobbedire la Storia si ripete.

Silvia Berardi

 

 

Confidiamo in Mattarella: la politica è l’arte del possibile

Speriamo che il presidente della Repubblica riesca a far ragionare chi, nell’attuale difficile crisi politica, potrebbe contribuire a risolverla positivamente, evitando nuove elezioni che, a distanza di poco più di un anno di tempo, avrebbero l’effetto di svilire questo fondamentale strumento di democrazia. Il M5S ha avuto nel 2013 la sciagurata idea di umiliare Bersani invece di aiutarlo a formare allora un governo; Renzi ha a sua volta stoltamente impedito un’alleanza con loro all’inizio di questa legislatura, determinando così un esecutivo con la Lega, dissoltosi in questi giorni. La politica, pur con i suoi valori e ideali, è l’arte del possibile in un certo momento storico, tenuto conto degli interessi collettivi, e per questo motivo debbono essere messi al bando puntigli e ripicche tra le forze politiche.

Loris Parpinel

Tv in streaming. Apple, Disney, Netflix: sarà una guerra. A scapito della qualità?

 

Devo ammettere che non ci sto più dietro. Ho da anni un abbonamento Sky per vedere il cinema e le partite di calcio. Qualche mese fa, i miei figli mi hanno convinto a sottoscrivere un secondo abbonamento con Netflix, perché – dicono – le serie che si vedono lì sono di gran lunga migliori. Poi da Sky è nata la costola Dazn e ho dovuto pagare anche quella, altrimenti avrei saltato la visione di alcuni match della mia Roma. Quindi al momento ho tre abbonamenti attivi. Ieri ho letto che, dopo Disney, persino Apple sta investendo tanti soldi nello streaming, proprio per fare concorrenza a Netflix. Ecco, mi arrendo: ma quanti soldi dovremo pagare per poter accedere alle piattaforme? Rimpiango i tempi in cui c’era solo “Mamma Rai”.

Donato Lerose

 

Caro Donato, ha ragione: sono troppe e diventa sempre più difficile starci dietro. A dirla tutta, anche “Mamma Rai”, come nostalgicamente la chiama, si è evoluta: il servizio Rai Play, che permette di seguire online le dirette ma anche di rivedere tutti i programmi, è in continua crescita. Immagini quindi cosa sta succedendo nel mondo: la tv tradizionale è guardata sempre meno, o comunque saranno poche le generazioni che ancora se ne sentiranno legate, per lasciare spazio a offerte raggiungibili da smartphone e tablet. La rivoluzione è iniziata da anni, Netflix ha fatto da avanguardia e quando gli altri si sono accorti che il business funzionava, hanno deciso di inseguire per non lasciare ad altri guadagni che avrebbero potuto fare da soli. È il profitto che guida, non certo il buon senso. Apple, per dire, ha bisogno di monetizzare con i servizi perché gli iPhone vendono sempre meno: carte di credito, streaming Tv, musica. La diversificazione, così, fa crescere l’offerta mentre la possibilità di averla tutta in un unico pacchetto è lontana. Anzi. Queste grandi aziende del digitale si faranno una potentissima guerra di marketing al grido di “chi ha la serie più bella” o “l’offerta più conveniente” (la Disney, ad esempio, ha capito che le conveniva più vendere da sola i propri contenuti che appaltarli ad altri). Ma a noi, cosa cambierà? Forse nulla. Se gli abbonamenti saranno bassi, ci si potrà permettere di farne più di uno a un prezzo inferiore a quello di una Pay Tv. Se saranno elastici, si potranno attivare e disattivare a piacimento. Ma i contenuti? Qui c’è un rischio: la corsa per dare allo spettatore ciò che lo spettatore vuole potrebbe causare un appiattimento tematico e qualitativo di film e serie. A quel punto, non solo si rimpiangerà “Mamma Rai” ma anche il caro vecchio Blockbuster.

Virginia Della Sala

Non solo la “coppia dell’acido”: Musso era un pm valoroso

Si definiva “pm contadino”, Marcello Musso. Era un antieroe, un magistrato a cui piaceva lavorare tanto e in silenzio, senza i vezzi di protagonismo di qualche suo collega. È morto il 16 agosto, durante uno dei pochi giorni di vacanza che si concedeva, falciato da un’auto mentre andava in bicicletta sulla strada che collega Agliano e Costigliole d’Asti, nel suo Piemonte che gli aveva lasciato l’inflessione nel parlare e l’etica del dovere. Sguardo dolce e ironico, puntiglioso, preciso, scriveva disegnando la sua calligrafia minuziosa su mille post-it e appoggiando la penna a un piccolo righello. Amava la sua toga e il suo lavoro, tanto da passare più ore nel suo ufficio che nella sua casa milanese. Ora la sua porta, al quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, è segnata dai fiori dei colleghi e dai biglietti lasciati da chi gli voleva bene.

Non era un magistrato da dichiarazioni roboanti, da pose d’eroe. Era finito sui giornali per l’inchiesta sulla “coppia dell’acido”, Martina Levato e Alexander Boettcher, i due fidanzati che avevano preso a sfigurare tutti gli ex della ragazza. L’indagine finì a lui perché era di turno in quella notte di dicembre del 2014 in cui la polizia arrestò Boettcher che inseguiva la sua ultima vittima con un martello. Nei mesi seguenti, Musso si sentì amareggiato per l’interesse che giornali e giornalisti dimostravano per questa storia torbida, mentre così poca attenzione avevano concesso ad altre sue indagini, ben più pesanti, su organizzazioni mafiose e traffici di droga.

Sempre rigoroso, ma anche sempre umano. Ottenne condanne altissime per i due, ma quando seppe che Martina Levato aspettava un bambino, le regalò un paio di scarpette per il neonato. E poi si attivò perché il figlio, nato quando Martina era già in carcere, fosse affidato e adottato da una coppia che gli potesse garantire una vita serena.

Aveva scelto di fare il magistrato a Palermo, come ha ricordato ai suoi funerali l’allora procuratore Gian Carlo Caselli: “In quel tempo la democrazia italiana traballava per l’offensiva di Cosa Nostra e se ha retto è perché molte persone, tra magistrati, forze dell’ordine e società civile, hanno alzato un muro. Marcello è stato un caposaldo di quel muro”. Poi è passato alla Procura di Milano, dove per anni ha fatto il suo lavoro in silenzio. Ha condotto l’inchiesta “Pavone”, sul traffico di droga tra Quarto Oggiaro, la Brianza e Mariano Comense. Ha indagato sull’omicidio di Francesco Carvelli, figlio di uno dei boss di Quarto Oggiaro, ucciso nell’estate 2007, sul clan Crisafulli e sul latitante Francesco “Gianco” Castriotta. Ed è riuscito a chiudere – senza alcun clamore mediatico – un’indagine pesantissima su vecchi omicidi di mafia a Milano, ottenendo anche la condanna all’ergastolo di Totò Riina e di altri capi di Cosa Nostra.

“Era un lavoratore instancabile, non si fermava mai”, testimonia uno dei massimi magistrati antimafia di Milano, Alberto Nobili. Girava per il palazzo di giustizia quasi sempre in toga. “Quello era per lui il suo abito naturale”, ricorda l’ex procuratore di Torino Armando Spataro, che ha partecipato ai funerali insieme al procuratore di Milano Francesco Greco e ai colleghi Alberto Nobili, Laura Barbaini, Carmen Manfredda, Anna Maria Fiorillo. “È stato una grande persona, vissuta nel più assoluto e dignitoso anonimato”, ha ricordato il parroco di San Giacomo Maggiore di Agliano Terme, dove ancora vive la sua vecchia madre. Ci mancherà il sorriso ironico e mansueto con cui accoglieva i cronisti che bussavano alla porta del suo ufficio.