Ma che gentili: i capitalisti scoprono l’etica

Attorno al think tank “Business Roundtable” siedono i top manager di un paio di centinaia di affermate multinazionali statunitensi tra cui JP Morgan Chase, Apple, AT&T, Amazon, General Motors, BlackRock e così via. Ogni anno, dal 1978, l’associazione stila un rapporto sui principi che dovrebbero presiedere una avveduta gestione aziendale. Quest’anno, il loro rapporto sta facendo scalpore, poiché invita le imprese a non considerare più il solo profitto come lo scopo principale della loro attività, ma di includere anche la “protezione dell’ambiente” e la “dignità e il rispetto del lavoro”.

Gli azionisti – dice il rapporto – sono solo uno dei cinque stakeholders delle imprese, assieme ai consumatori, ai lavoratori, ai fornitori e alle comunità locali. Quanto basta al Financial Times (e agli altri commentatori di casa nostra) per proclamare la fine delle teorie economiche del capitalismo classico secondo le quali – Milton Friedman in primis – affermano che la responsabilità sociale delle imprese deve fermarsi all’aumentare i profitti. Il resto segue da solo grazie agli automatismi impersonali del mercato. L’evoluzione delle posizioni del pensatoio delle corporation americane esprimerebbe la grande capacità di autoriforma del capitalismo, di adattamento alle esigenze dello sviluppo umano. Mohamed El-Erian, chief economic adviser di Allianz, ha così commentato: “C’è una svolta etica importante e riflette un consenso emergente attorno all’importanza di un capitalismo più inclusivo”.

Altri, invece, – come Larry Summers, già ministro con l’Amministrazione Clinton – sono più scettici sulle vocazioni solidaristiche delle grandi imprese di capitale e temono che la retorica del Roundtable faccia parte di una strategia per neutralizzare le improcrastinabili riforme fiscali e regolamentazioni economiche. In altre parole, il grande capitalismo, capendo che le contraddizioni sociali e le crisi ambientali da esso stesso innescate non posso più essere negate, si accinge a presentarsi come il soggetto capace di risolverle, senza interventi esterni pubblici statali.

Le inedite attenzioni sociali e ambientali delle grandi corporation non risponderebbero nemmeno a una operazione di marketing (green washing) per rincorrere le crescenti sensibilità dei consumatori sempre più attenti alla sostenibilità (vedi il grande boom di tutte le forme di certificazione bio ed etiche), ma a un vero e proprio incameramento degli obiettivi sociali e ambientali (un tempo materia delle politiche pubbliche dello sviluppo) nelle strategie imprenditoriali.

Non è forse già così per gran parte delle politiche sociali e della cooperazione allo sviluppo? Non sono già ora le Fondazioni bancarie i principali finanziatori dei servizi di welfare alle persone lasciati al terzo settore e non sono le fondazioni filantropiche create dai super ricchi come Bill e Melinda Gates a determinare il tipo di “aiuti” da elargire ai Paesi più impoveriti?

Insomma, la “politicizzazione” del management non sembra mirare a riformare il capitalismo umanizzandolo, ma a capitalizzare il bios, a trasformare in valore di scambio anche i buoni sentimenti.

5Stelle-Pd, come fare i conti senza i tre osti

Se questo diario si permette di dubitare sulla reale possibilità di un patto di governo tra M5S e Pd, “rapido, solido e duraturo” (come gli aruspici quirinalizi non fanno che ripetere) è perché tale imprevedibile – fino all’altro giorno – novità confliggerebbe con la visione segretamente, ma neppure tanto, condivisa a destra e a sinistra, dopo i risultati del 26 maggio scorso. Ovvero, l’annientamento finale dei grillini.

Per carità, non coltiviamo alcuna idea complottista e ci limitiamo a osservare i fatti, che ci mostrano con implacabile evidenza come siano stati prima di tutto i Cinque Stelle a cospirare contro se stessi accettando supinamente l’abbraccio mortale di Matteo Salvini. Resta il fatto che dal boom elettorale del 2013, l’irrompere del Movimento sia stato vissuto dal preesistente sistema di potere (e dall’informazione mainstream) con lo stesso allarmato sbigottimento degli abitanti di Woking all’impatto dell’astronave marziana ne La guerra dei mondi di H.G. Wells.

È un tema, questo del corpo estraneo precipitato sull’Italia (con quelle loro stravaganti idee di legalità e lotta alle ingiustizie sociali), che affidiamo alle analisi di politologi e sociologi. Per cui ci limiteremo a osservare che nel post Europee non pochi nei palazzi romani ritenevano che fosse finalmente giunta l’occasione per rispedire l’astronave su Marte.

Del resto, visto che Salvini (che nel sistema dei partiti bivacca egregiamente dall’inizio degli anni 90) si era portato decisamente avanti col lavoro gonfiando di voti la Lega a spese dei Cinque Stelle, non restava che completare l’opera. Consistente nel ritorno a un sistema bipolare destra-Pd, abbastanza simile a quello dominante nel primo decennio di questo secolo. Per capirci: con Salvini nei panni di Silvio Berlusconi e con Nicola Zingaretti in quelli di Romano Prodi (senza offesa). Quanto ai discepoli di Beppe Grillo, tertium non datur, e quindi si sarebbero rassegnati all’estinzione nella irrilevanza. L’entusiasmo di Nicola Zingaretti per andare al voto subito si spiega soprattutto così. Purtroppo (o per fortuna) si sono fatti i conti senza tre osti.

Il primo, del tutto inconsapevole, si chiama Matteo Salvini. Che come in certe gag di Stanlio e Ollio ha azionato il congegno della dinamite troppo tardi (o troppo presto) finendo con l’essere investito dallo scoppio insieme all’intera Lega di governo (la faccia e i monosillabi di Giancarlo Giorgetti, martedì al Senato, non esprimevano esattamente entusiasmo per le gesta del malaccorto Capitano). Il secondo oste è Matteo Renzi che, dopo lungo e palloso esilio casalingo, appena Ollio si è fatto esplodere si è catapultato sulla scena e con un doppio salto mortale con avvitamento ha offerto un accordo agli odiati Cinque Stelle.

A cui lui per primo non crede, ma che gli è servito per riprendere il controllo sui gruppi parlamentari (appanicati dalla fine anticipata delle loro poltrone), e forse anche il Pd, alla faccia del fratello di Montalbano. Il terzo oste è Giuseppe Conte, la cui popolarità, dopo la lezione impartita a Salvini, è alle stelle.

E dunque non si comprende per quale motivo Zingaretti debba concludere un patto di governo con i grillini da cui tutto lo divide. Tranne una cospicua fetta di elettorato di confine che i due partiti sono impegnati a sottrarsi vicendevolmente. Ma soprattutto non si comprende perché mai, nel nome di una misteriosa “discontinuità” pretesa dal Nazareno, i Cinque Stelle dovrebbero rinunciare al frontman Conte per Palazzo Chigi. È come se la Juventus fosse costretta a tenere in panchina Ronaldo su disposizione della squadra avversaria.

Consiglio non richiesto: piuttosto che farsi logorare in una trattativa con le diverse tribù del Pd balcanizzato, non sarebbe meglio giocarsi la carta Conte in una campagna elettorale tutt’altro che decisa?

Dodicenne muore in ospedale, procura apre un’inchiesta

Aveva solo 12 anni, è morta in ospedale a Salerno dove era stata ricoverata per una febbre molto alta. Ancora non è chiaro quali siano state le cause della tragedia: la procura ha aperto un’inchiesta per capire le ragioni del decesso, e intanto ha iscritto tre persone nel registro degli indagati, due medici ed un infermiere dell’ospedale “Ruggi d’Aragona” dove si è verificata la tragedia. Ieri è stata eseguita l’autopsia che però non ha ancora sciolto i dubbi. La 12enne era giunta in ospedale, in condizioni già critiche, lo scorso 14 agosto. Da qualche giorno aveva febbre alta, poi il malore improvviso e la corsa in ospedale alla vigilia di ferragosto. Le condizioni della piccola sono peggiorate dopo il ricovero. La ragazzina, infatti, è morta poco dopo. “In merito al decesso della bimba di 12 anni – si legge in una nota dell’ospedale – non essendovi cause evidenti attribuibili a giustificazione dell’exitus, si è preferito, dal reparto di pediatria, fare comunicazione dell’evento all’autorità giudiziaria“. Il magistrato ha disposto il sequestro della salma, sospendendo i funerali.

L’irriducibile tra droga, boss e prigioni dorate

Lo Stato si è piegato e ha consentito l’omaggio a un signore della droga tra saluti romani, applausi e fumogeni. È successo ieri a Roma, dove si sono celebrati i funerali di Fabrizio Piscitelli, capo storico del tifo laziale, ma non solo, ucciso nel Parco degli Acquedotti il 7 agosto scorso. Piscitelli era indagato in una mega-inchiesta per droga e già condannato in passato.

Chi ha frequentato la curva ricorda il suo carisma e la sua personalità: “Gli Irriducibili sono il suo esercito, a lui sono legati e lo portano sempre in curva anche se a lui era vietato l’ingresso perché sottoposto a Daspo”. In curva, infatti, c’erano tre striscioni, uno dedicato a Diabolik, Fabrizio Piscitelli, uno dedicato a Marco Turchetta e un altro dedicato, a un sodale storico di Piscitelli, Zogu Arben, detto Riccardino, noto narcotrafficante, oggi in carcere. Anche Turchetta è detenuto, è stato arrestato lo scorso maggio in una operazione antidroga.

La rete di Diabolik era impressionante. Inizia la sua carriera criminale stringendo rapporti con Gennaro e il fratello Michele Senese, boss di camorra di stanza a Roma, narcotrafficante di primo piano sulla Capitale. Ma non c’è solo il boss Senese a raccontare i legami di Piscitelli, ci sono i rapporti con i Casamonica, con Salvatore Casamonica, detto do’, oggi in carcere per traffico internazionale di stupefacenti. E Casamonica Salvatore faceva affari proprio con gli albanesi, amici intimi, uomini di fiducia a disposizione di Piscitelli, come Zogu Arben, ma soprattutto Dorian Petoku quest’ultimo, arrestato proprio con Casamonica lo scorso gennaio. Erano pronti gli uomini di Piscitelli e i Casamonica a far arrivare diverse tonnellate di cocaina nella capitale, ormai città snodo internazionale del narcotraffico.

I Casamonica, i Senese, gli albanesi, ma anche i napoletani come i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, figli di Luigino, detto a’ nacchella, boss dell’alleanza di Secondigliano. Anche gli Esposito, padrini della droga a Roma e in ottimi rapporti con Piscitelli.

Per capire l’ascesa di Piscitelli basta leggere quanto diceva di lui un pregiudicato romano, intercettato nella famosa inchiesta mafia capitale: “Diabolik (…) non lo so come ha fatto? In questi quattro anni ha fatto una scalata che non vi rendete conto (…). i Napoletani e gli Albanesi è una cosa… Questa è gente di merda!! Questa è gente cattiva”. Non mancavano i buoni rapporti con il boss Massimo Carminati.

Un profilo criminale notevole che stava emergendo dall’indagine sulla droga che lo vedeva tra gli indagati e che raccontava la portata del personaggio oltre il territorio di Roma Nord dove era tra i padroni. “Chi l’ha ucciso è uno che se lo poteva permettere” sussurrano alcuni inquirenti, questo lascia pensare che ad ordinare l’omicidio possa essere stato un cartello o una potente organizzazione criminale. Ipotesi al momento, di certo c’è che alcuni suoi amici, negli ultimi giorni, non sono reperibili, forse, anche per paura, soggetti che potrebbero fornire informazioni importanti alle forze dell’ordine. Tra questi Fabrizio Fabietti, un altro signore della droga sulla Capitale, ma può essere utile parlare anche con un altro amico di Piscitelli che ha una società a Dubai e si occupa della vendita di cellulari satellitari, una società con esperienza nelle bonifiche ambientali, sempre un buon contatto per chi gestisce traffici di stupefacenti.

Piscitelli prima di tornare libero ha scontato la parte residua dell’ultima condanna in una casa di recupero per tossicodipendenti e alcolisti. A Roma il carcere è indigesto a molti boss che ottengono luoghi meno sgraziati dove trascorrere la detenzione. Nel centro che ha ospitato Piscitelli, in provincia di Roma, c’era anche una piscina gonfiabile. Si era fatto crescere la barba, era sempre isolato e tutti, compresi altri criminali ospiti del centro, lo rispettavano.

Un rispetto enorme per Diabolik, il signore della droga morto ammazzato e celebrato nella Capitale con striscioni, fumogeni e un funerale imponente.

Funerali Diabolik, gli ultrà comandano la cerimonia

Mentre nei palazzi del centro di Roma si discute, la periferia della Capitale diventa per due ore ostaggio dei tifosi presenti all’ultimo saluto al narcotrafficante ed ex leader degli “Irriducibili”, Fabrizio Piscitelli, il 53enne ucciso con un colpo di pistola alla testa il 7 agosto scorso. L’addio a “Diabolik”, dopo il rifiuto della famiglia di celebrarlo in forma blindata lo scorso 13 agosto, è uno show da stadio, una prova di forza della famiglia e della tifoseria. Fumogeni, cori, saluti romani e insulti ai cronisti. Di privato c’è solo la messa.

Poco prima delle 15 di ieri, il feretro arriva al Divino Amore sull’Ardeatina. Sfila in piazzale Terenzi dinanzi allo striscione che ricorda Califano: “È uno che per come lo conosco io, andrebbe solo a piedi al funerale suo”. Il boss raccoglie il primo omaggio corale. Perché Piscitelli non è solo il leader della tifoseria di estrema destra, ma controlla una parte del traffico di droga nella Capitale e siede ai tavoli con i clan che contano. Alla messa partecipano solo le 100 persone indicate dalla famiglia: durante la funzione, però, nel piazzale cresce la tensione.

I tifosi aumentano. Indossano maglie coi colori laziali o t-shirt nere con la scritta “Diablo” e l’insulto ai cronisti “sciacalli” che banchettano “sulle carcasse dei leoni” come Piscitelli. Tra i tanti, anche Cristiano Sandri, fratello di Gabriele ucciso nel novembre del 2007. Oppure il simpatizzante di CasaPound che urlò “Ti stupro” a una donna rom a Casal Bruciato. Ma anche tifosi “ospiti” come Luca Lucci, il capo ultrà del Milan, fotografato mentre stringeva la mano al ministro dell’Interno, Matteo Salvini. I giornalisti sono stipati in un’isola pedonale chiusa da transenne e controllata dai poliziotti. Un tifoso sfida i cronisti e agenti: “Sciacalli, infami, siete peggio delle guardie”.

Al termine della messa arrivano i familiari e gli amici che marciano con lo striscione e il braccio teso davanti alle telecamere. Nel piazzale sventola la bandiera con gli occhi del Diabolik dei fumetti. Intanto aumenta anche la presenza delle forze dell’ordine e la piazza urla “Rispetto! Rispetto!”: i finanzieri troppo vicini sono costretti a ritirarsi. Qualcuno piazza dei piedistalli davanti agli striscioni per posare la bara, ma la Questura blocca tutto. La moglie di Diabolik, Rita Corazza, si sbraccia contro i poliziotti ed è colta da un malore passeggero. Anche la figlia Giulia urla gli agenti “guardate che avete fatto”. Dopo la nuova trattativa i piedistalli scompaiono e altri poliziotti si allontanano.

Il feretro è accolto con “Fabrizio sempre con noi” e fumogeni biancocelesti. Per 15 minuti il piazzale è una camera ardente a cielo aperto: gli ultras circondano l’auto e la bara nera sui spiccano la scritta “Irriducibili” e gli occhi del Diabolik dei fumetti. L’ultimo tratto del piazzale è quasi una zona franca, lontano dagli occhi delle telecamere. Poi tutto finisce. La salma raggiunge il cimitero e a Roma Sud torna la pace.

Ora si attende il derby: quella sera la Nord ricorderà ancora il suo leader scomparso, ma a modo suo e senza alcuna trattativa.

Addio a Buttarelli, era il Garante della Privacy Ue

Giovanni Buttarelli, magistrato e Garante europeo della protezione dei dati (Gepd), è morto nella notte tra il 20 e il 21 agosto nell’ospedale San Raffaele di Milano, dove era ricoverato da qualche giorno. È stato tra i più grandi esperti mondiali di diritto delle nuove tecnologie, diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali. Dal 1997 al 2009 aveva ricoperto il ruolo di segretario generale dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e dal 2009 al 2014, su nomina del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea, aveva assunto la carica di Garante aggiunto presso il Garante europeo della protezione dei dati. Era stato poi nominato Garante europeo della protezione dei dati dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea nel 2014 per un mandato di cinque anni, che per poco non ha potuto portare a termine. Dal 1986 Buttarelli era magistrato della Cassazione. Recentemente era stato insignito di due prestigiosi premi da parte di organizzazioni internazionali: l’Iapp Privacy Leadership Award e l’Epic International Privacy Champion Award 2019, assegnati a coloro che dimostrano un continuo impegno nel promuovere i diritti fondamentali alla privacy.

Ci ha spronati tutti a scavare sempre

Giovanna è una delle donne più coraggiose e indomite che io abbia mai conosciuto. La mia casella di posta elettronica è piena di suoi messaggi, comunicati, incitamenti, suggerimenti, documenti, tutti con un solo obiettivo: squarciare il velo non solo di omertà, soprattutto istituzionale, ma anche di ipocrisia, disinformazione, connivenza e indifferenza che avvolge le stragi del ’93. Le meno mafiose e le più politiche fra le stragi mafiose.

In quella di Via dei Georgofili, Giovanna aveva perso il suo futuro genero Dario Capolicchio, che aveva 22 anni, studiava a Firenze e purtroppo viveva alla torre dei Pulci, accanto agli Uffizi: nella maledetta notte del 27 maggio di 26 anni fa, l’autobomba dei fratelli Graviano e dei loro mandanti occulti lo ustionò a morte, mentre la sua fidanzata Francesca Chelli (figlia di Giovanna) si salvò per miracolo, pur riportando ferite fisiche e morali indelebili.

Da allora Giovanna, con altri parenti delle vittime delle stragi di mafia, ha fondato e animato con tutte le forze che aveva (ed erano tante) un’associazione che si batte incessantemente per sapere la verità. Tutta. Non solo quella di comodo delle montagne di ergastoli ai mafiosi. Ma anche e soprattutto quella indicibile sulle complicità politico-affaristico-istituzionali. Per arrivarci, Giovanna si è battuta fino all’ultimo respiro con l’arma più efficace: quella della memoria, cioè della conoscenza minuziosa degli atti, delle carte, delle sentenze e delle ordinanze (purtroppo anche di troppo facili archiviazioni). Dei processi sulle stragi era una memoria storica vivente e preziosissima: leggeva e rileggeva verbali, notava incongruenze e lacune investigative, invocava supplementi di indagine. Fino all’ultimo giorno, ha lottato per ottenere un confronto fra gli stragisti mafiosi Brusca e Monticciolo, visto che il secondo parlò di un viaggio ad Arcore col primo. E ha sperato che l’indagine per strage riaperta a Firenze su Berlusconi e Dell’Utri completasse il mosaico di indizi e intuizioni iniziato a suo tempo da un altro grande dell’antimafia scomparso troppo presto: il pm Gabriele Chelazzi.

Giovanna organizzava convegni con magistrati, investigatori e giornalisti (è lì che ci siamo visti e rivisti) non solo per tenere viva l’attenzione su un tema oscurato da (quasi) tutti, ma anche per spronarli a fare di più, a riaprire piste troppo presto abbandonate, a non accontentarsi mai del poco che sappiamo. Se l’è portata via un brutto male, che la perseguitava da nove anni e che aveva sempre nascosto a tutti, con quell’aria fiera, austera e dignitosa da eroina della tragedia greca. Senza di lei, sarà tutto più difficile. Ma per fortuna non mancano le persone che raccoglieranno il suo testimone per andare avanti nella ricerca della verità.

Giovanna Maggiani Chelli, combattente per la verità

Se n’è andata in punta di piedi, lontano dai riflettori accesi sul clamore che le sue parole hanno più volte sollevato, sconfitta da un tumore che solo pochi, tra familiari e amici, conoscevano: Giovanna Maggiani Chelli, 75 anni, ha chiuso ieri gli occhi nella sua casa di La Spezia dopo una vita spesa per ottenere la verità sui mandanti occulti della strage di via Georgofili, a Firenze, del 27 maggio 1993. Quella notte, il suo futuro genero Dario Capolicchio, studente di 22 anni, venne trasformato dal botto in una torcia umana nel suo alloggio nella torre de Pulci. Accanto a lui la fidanzata, Francesca Chelli, figlia di Giovanna, si salvò subendo danni ancora oggi invalidanti.

Da allora iniziò a incalzare governi e commissioni parlamentari, magistrati e pentiti, trasformando ogni anniversario in un momento di memoria attiva, sottolineando omissioni e lacune senza fare sconti a nessuno: “La smettano di prendere in giro il Paese – diceva – certe volte penso che non aspettino altro che moriamo tutti per metterci una pietra sopra”. Era convinta che “nella storia dello stragismo d’Italia mai vi è stata una responsabilità morale così grande, così ampia, così vergognosa, come per la strage di via dei Georgofili, che si respira anche a livello istituzionale’’. Era una madre informata, seguiva i processi e la cronaca politica, spesso intrecciando gli eventi in una matassa logica che cercava di sciogliere da oltre un quarto di secolo. Chiese più volte un confronto tra Brusca e Monticciolo, per risolvere il mistero di un viaggio ad Arcore di cui aveva parlato il secondo: “Abbiamo sentito che (Brusca, ndr) ha parlato di quel che gli disse Messina Denaro sull’incontro di Graviano con Berlusconi e sull’orologio che l’ex premier avrebbe avuto al polso – disse nell’ultima intervista ad Antimafia 2000 nel febbraio scorso – se ricorda questi dettagli potrebbe dire anche altro su quel viaggio con Monticciolo in Lombardia’’.

Dei mafiosi condannati non si era mai accontentata e oltre quei corleonesi in trasferta nell’attacco allo Stato intravedeva altre responsabilità. Riina tentò di strumentalizzare la sua voglia di verità cercando di convincerla che lui con la Torre dei Pulci non c’entrava: “È una signora, accanita, che ha ragione di essere accanita, però, di Firenze, quella che gli hanno ucciso i bambini, figli – disse, parlando con il suo codetenuto, Alberto Lorusso – una giornata io gli ho detto: avvocato, glielo vuole dire a questa signora che io stavo in galera?”. Giovanna non abboccò: “Riina lancia il messaggio che i familiari delle vittime lo credono innocente e quindi mirano ad altri ed è vero, ma la mafia l’abbiamo sempre ritenuta colpevole”.

Non credeva a una nuova commissione sulle stragi (“non hanno mai risolto nulla”) e continuava a sperare nelle indagini: “Il procuratore di Firenze ha parlato di significativi indizi emersi sui mandanti esterni. Contiamo su questi affinché si arrivi finalmente alla verità, che è una e va trovata completa”. L’aula magna del polo universitario di Firenze era diventato il quartier generale del suo Forum Antimafia, rivolto soprattutto ai giovani. Tre anni fa si oppose alla destinazione a museo di un palazzo confiscato alla mafia in piazza della Signoria: “Fatene una scuola – disse – in un museo sulla strage di via dei Georgofili, per ora, gli unici reperti sono le archiviazioni sui più che probabili concorrenti nella strage oltre la mafia”.

Previti operato d’urgenza a Ischia, è fuori pericolo

L’ex senatore di Forza Italia e ministro della Difesa nel governo Berlusconi I, Cesare Previti, è stato operato d’urgenza nell’ospedale Rizzoli di Ischia per una occlusione intestinale. Secondo quanto si è appreso, l’85enne politico e avvocato si era sottoposto a intervento chirurgico per una appendicite acuta, due settimane fa a Roma; da qualche giorno si trovava in vacanza in barca e, giunto al largo dell’isola, ha avuto forti dolori addominali tali da consigliare lo sbarco e il ricovero nel nosocomio isolano.

È stato assistito inizialmente al Pronto Soccorso, poi trasferito nel reparto di Chirurgia; dopo un consulto con il suo medico di fiducia è stata quindi decisa l’operazione eseguita dall’equipe guidata dal primario Alberto Marvaso coadiuvato dal dottor Pizza, che ha inizialmente proceduto in laparoscopia per poi terminare l’intervento con tecnica open.

Se il decorso proseguirà senza complicazioni, domani Previti potrà essere dimesso e tornare nella sua abitazione in centro a Roma.

L’“eredità” di Simon Gautier: boom dell’app Where are U

“Sto in mezzo al nulla, lungo la costa”. Questa è l’unica indicazione che Simon Gautier è riuscito a fornire al 118 venerdì 9 agosto alle ore 8.57. L’escursionista francese di 27 anni è rimasto disperso per 9 giorni in Cilento sui sentieri montuosi del golfo di Policastro fino a domenica 18 agosto alle ore 19.30 quando il suo corpo, in avanzatissimo stato di decomposizione, è stato ritrovato in fondo a una scarpata. Una morte tragica e surreale su cui stanno indagando due procure, Vallo della Lucania e Lagonegro, e che ha riacceso il dibattito sulla mancata attivazione in Italia dei sistemi di geolocalizzazione in caso di chiamate di emergenza in assenza di rete Internet. A differenza di altre 15 Paesi (tra cui Stati Uniti, Austria, Belgio, Olanda, Regno Unito e Slovenia) l’Italia è, infatti, in ritardo sull’attivazione dei servizi Els (Emergency Location Service) e Aml (Advanced Mobile Location), rispettivamente presenti sui cellulari Android e iOS, il cui obbligo entrerà in vigore in tutta Europa soltanto il prossimo anno.

Una grave limitazioni che, nel frattempo, può essere arginata utilizzando un’applicazione che già esiste e che assicura a tutti di essere ritrovati, anche senza connessione dati: si chiama “112 Where Are U” (Dove sei, ndr) ed è l’app ufficiale del Nue 112, il numero unico di emergenza europeo. Il servizio, gestito dall’Areu, l’azienda regionale di emergenza-urgenza, consente lo scambio di informazioni con la centrale operativa che riceve istantaneamente una posizione puntuale della persona in pericolo. Tanto che negli ultimi 2 giorni sono aumentati in modo esponenziale i download dell’app. “A fronte di una media giornaliera che oscilla tra i 600 e gli 800 download (in agosto la media è in genere più bassa del resto dell’anno) – spiega l’Areu – nei giorni 18, 19 e 20 agosto i download sono stati rispettivamente 1.511, 12.080 e 18.966 e il trend è continuando così anche per la giornata di ieri. A alle 9 già erano stati registrati 1.617 download”.

Al momento, tuttavia, è possibile usare l’app solo in Lombardia, Liguria, Friuli Venezia Giulia, provincia di Roma, provincia di Trento, Bolzano, Agrigento, Catania, Caltagirone, Enna, Messina, Siracusa e Ragusa. Il meccanismo del soccorso è chiaro: al momento della chiamata, l’app determina la posizione sfruttando il Gps e la connessione dati. In questo modo, riesce a comunicare al sistema informativo della Centrale Unica di Risposta una precisa localizzazione. L’invio delle coordinate avviene o tramite rete dati, se la connessione lo permette, o tramite Sms che non ha bisogno di Internet per inviare i messaggini.

Proprio quello che è mancato durante il soccorso di Gautier. Il primo elicottero si è, infatti, alzato in volo 28 ore dopo la richiesta di aiuto lanciata dal ragazzo, mentre la macchina organizzativa non è mai stata in grado di individuare con precisione il punto da cui il ragazzo ha chiamato il 118 con il suo cellulare, nonostante per quasi 2 minuti e mezzo abbia cercato di spiegare all’operatore la dinamica dell’incidente e dove si trovasse. Questo perché l’escursionista non aveva il Gps e nei 45 minuti in cui è rimasto in vita non ha risposto al messaggio (Sms locator) che l’operatore del 118 gli ha inviato sul cellulare per attivare le operazioni di soccorso. Impossibile nel suo caso anche utilizzare le celle telefoniche, perché quella agganciata copriva un’area troppo vasta. Tanto che le indagini sono state circoscritte entro un’area di 143 chilometri quadrati, troppo approssimativa. Fatale.