Non mancarono gli elogi. Per Segnocinema, “quasi un esempio di cinema-verità sui giovani delle borgate romane in epoca post-pasoliniana”. Tullio Kezich isolò “il risultato più notevole, quello di creare intorno ai personaggi, pur accettati nella loro brutale naturalità, un clima di comprensione e addirittura simpatia”. E, concluse su Panorama, “l’opera prima di Caligari ha il merito di non addolcire la pillola”. Anche perché in Amore tossico non era tema di pasticche, ma di spade, ovvero siringhe: eroina, e “’ndo s’annamo a spertusà a venazza?”.
Fu anche di linguaggio, desunto da carcere, borgata, droga e plasmato ad libitum, l’invenzione di Claudio Caligari, esordiente – dopo complicata gestazione – nel 1983 sotto l’egida di Marco Ferreri: un nuovo modo di vedere, un nuovo modo di parlare. È la soglia di accesso a una realtà altra, è un’esplicita richiesta di traduzione: ci sono le dosi, ossia gli schizzi; gli scippi, altrimenti detti strappi; i furti, che diventano chiusure. E, poi, in una scena che da icona s’è fatta meme, l’ineffabile Enzo (Di Benedetto): “Ma come, dovemo svortà e te piji er gelato?”. Ecco, svoltare che qui non è il gergalismo romanesco di “avere successo”, ma il più particolare, sempre romanesco però tossico, “rimediare la roba”.
Come Ostia ha attecchito nell’immaginario collettivo con Amore tossico, non c’è Suburra che tenga: Cesare (Ferretti), Michela (Mioni), Enzo, Ciopper (Roberto Stani) si mettono sulla faglia tra anni Settanta e anni Ottanta, eversione ed evasione, e fanno di endovena inedito e inaudito, scandalo senza redenzione né assoluzione.
In carnet qualche documentario sul Movimento, La parte bassa e La follia della rivoluzione, Caligari battezza “il film di fiction” buttando la determinazione oltre l’ostacolo, la scena oltre l’osceno: Loredana si infila l’ago nella giugulare, Patrizia (Vicinelli, già poetessa nel Gruppo ’63) schizza sangue su tela, Cesare recensisce: “Questo sì che ‘n quadro vero. Fatto de vita. Fatto de morte. Fatto de sangue, de sangue nostro”.
Il regista sabota il Neorealismo, scardina Pasolini o, comunque, il pasolinismo e fa deragliare lo stesso Ferreri, giacché l’omicidio-suicidio non ha più l’elevazione borghese del Michel Piccoli di Dillinger è morto, ma l’affondo sottoproletario di Cesare.
Amore tossico viene presentato alla quarantesima Mostra di Venezia: vince il premio De Sica, ma in una sezione marginale, eppure – frustano i francesi – “un festival che ha paura degli scandali ha paura anche del cinema”. Ferreri, che lo porta al Lido, scazza con il critico Tatti Sanguineti in conferenza stampa e lo difende, dall’Ugo Pirro di Giudicatelo voi, in tv: “Oggi Accattone non potrebbe avere la forza che può avere questo film… questo film è Accattone dei nostri giorni”. Gli vaticina anche “una barca di soldi”, e si sbaglia di grosso: esce nel gennaio del 1984 in 15 copie, la domanda dell’esercizio supera l’offerta distributiva, però non basta.
Arriveranno le stimmate – sempre buchi sono – del cult, ma fuori tempo massimo: per l’opera seconda, L’odore della notte (1998), a Claudio Caligari serviranno 15 anni, per la terza Non essere cattivo, uscita postuma nel 2015, 17. Non si uccidono così anche i cavalli di razza?
No future il suo orizzonte; no future quello di Michela: “Non c’è più niente da scoprì, io c’ho voglia de cose nuove, è un po’ che ce penso, stamo tutto il giorno a sbattese a rovinasse ‘a vita e se perdemo tutto er resto, vivemo a du’ metri dar mare e ‘st’anno è ‘a prima volta che ce venimo”; no future quello di Cesare: “A Michè, ma ste cose te vengono in mente solo dopo che te sei fatta, er mare er sole, ‘na bella pera, mettece du’ violini…”.
Gli accordi sono del De profundis: con la consulenza scientifica del sociologo Guido Blumir, Caligari ha voluto per interpreti tossici – presenti o passati – veri, le iniezioni sono autentiche, le crisi d’astinenza reali. Ne ferisce più la spada? Comunque sia, cadono (quasi) tutti: Cesare Ferretti muore il 17 marzo del 1989, due anni più tardi Patrizia Vicinelli, entrambi di Aids; Loredana Ferrara nel 1991; Roberto Stani, di malaria in Africa, nel 2011; Faliero Ballarin (Capellone) nel 2014; Enzo Di Benedetto il 21 febbraio di quest’anno, a causa di una broncopolmonite.
C’è chi s’è perso, c’è chi ha perso, e come l’ha detto Valerio Mastandrea, attore ne L’odore della notte e produttore di Non essere cattivo: “Claudio ha perso ai rigori, che si sappia questo. E ai rigori non è mai una sconfitta reale”.