“Noi ci siamo”: Di Maio oggi dà il primo via al Quirinale

Se vuoi la pace prepara la guerra. Così alla vigilia della visita al Quirinale per le consultazioni Luigi Di Maio riunisce tutti i capigruppo delle commissioni dei 5Stelle e si fa consegnare temi e proposte da rilanciare “in campagna elettorale”.

Lo dice più volte il capo politico nelle riunioni, e mentre parla di urne in testa ha la voglia di provare a stringere l’accordo con il Pd e un solo nome per Palazzo Chigi, Giuseppe Conte. Il premier uscente, da cui il Movimento non può prescindere: perché è popolarissimo tra i parlamentari e nella base, un collante ormai indispensabile. E perché un nome alternativo al momento i 5Stelle non lo hanno. Perciò si insisterà sull’avvocato: “ma con prudenza” spiegano fonti di peso. La certezza è che oggi Di Maio e i capigruppo Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva manifesteranno al presidente della Repubblica la disponibilità all’intesa con i dem. La condizione affinché la trattativa entri davvero nel vivo, rispettando le consegne del Colle, che vuole tempi stretti per la chiusura della partita: in un senso o nell’altro. Ma l’ordine di scuderia nel Movimento è non mostrarsi troppo ansiosi di abbracciare il Pd. Ecco perché dal M5S fanno filtrare di essere pronti a nuove elezioni. E non è casuale che sulle agenzie spunti la email dell’associazione Rousseau ai parlamentari, invitati a mettersi in regola con i versamenti alla piattaforma web “in vista di eventuali nuove elezioni”. E il senso lo riassume un big: “Dobbiamo far capire che non andiamo a trattare con il cappello con in mano”. Mosse e calcoli che non cancellano la consapevolezza di un percorso irto di ostacoli. Perché Matteo Renzi in Parlamento ha i numeri per indirizzare la partita, certo, e questo non potrà mai lasciare tranquilli i 5Stelle.

Ma c’è anche il tema di Nicola Zingaretti, un segretario che pare assediato a molti del Movimento. E poi ci sono nodi importanti. A partire dal ruolo di Conte, che anche in caso di un via libera del Pd andrebbe comunque convinto a un eventuale nuovo mandato. E non è affatto scontato che accetti. Infine il capo, Di Maio: a cui chiederanno di restare fuori dal governo. E sarà complicato rispondere.

 

Le Frattocchie renziane con 224 ragazzi ma senza social

“Ma davvero non possiamo usare né telefoni, né social?”. Lo spaesamento iniziale è evidente: i ragazzi e le ragazze arrivati al “Ciocco” da tutta Italia non si interrogano sui “5 punti” del Pd per trattare coi 5 Stelle, sugli ospiti “vip” che arriveranno nei prossimi giorni (per ora tenuti nascosti) o sul discorso inaugurale che farà Matteo Renzi da lì a pochi minuti. La prima preoccupazione è se potranno o meno usare gli smartphone per twittare o fare storie su Instagram. Da ieri sera, e fino a sabato, i 224 ragazzi e ragazze iscritti a “Meritare l’Italia”, la scuola di formazione politica dell’ex segretario Pd, saranno chiusi nel “bunker” della campagna lucchese senza possibilità di comunicare con l’esterno. “I telefoni saranno tolti ai ragazzi”, ha detto ieri l’organizzatrice dell’evento e presidente dei comitati “Azione civile”, Elena Bonetti. I giovani, divisi equamente tra maschi e femmine e scelti in base a curriculum e colloqui, parteciperanno a quattro giorni di studio, confronto e anche prove pratiche di amministrazione.

“Per me è un’occasione per imparare a fare politica – dice Costanza Strumenti, 21 anni di Pistoia e orgogliosamente iscritta al Pd – e questo lo posso fare grazie a Renzi che ha sempre creduto nei giovani”. Il programma delle “nuove Frattocchie” è molto fitto: la giornata di ieri è stata aperta con l’intervento di Isabella Conti, sindaco di San Lazzaro che nel 2014 fece bloccare un maxi-insediamento edilizio nel suo paese, e dal padrone di casa Andrea Marcucci, proprietario del resort. Renzi, che riunirà il Giglio Magico per studiare le mosse di un possibile governo col M5S, è arrivato solo all’ora di cena. Nei prossimi giorni qui arriveranno anche la senatrice Teresa Bellanova, Maria Elena Boschi e probabilmente il sindaco di Firenze, Dario Nardella.

“Il leghista forse non ricorda che il Cicerone che non voleva padroni poi se ne scelse uno”

“Però non mi chieda della fata turchina”. Luciano Canfora, storico dell’antichità e professore emerito dell’Università di Bari, esordisce così quando gli chiediamo un commento sulle numerose (e variopinte) citazioni tratte dai “discorsi della crisi”. Si va dagli scrittori latini fino ai francofortesi, passando per papi e apostoli.

Professore, che diciamo del passo di Cicerone ripreso da Salvini? “La libertà non consiste nell’avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno”.

È tratto dal De Republica. Cicerone tenta spesso una definizione del concetto di libertas, in riferimento ad altro però. Per esempio rispetto all’equilibrio dei poteri, un tema che non mi pare carissimo al ministro che invoca i pieni poteri. Cicerone finché è stato un leader politico ha riflettuto sul tema. Nella cultura politica romana la liberta è cosa diversa da eleutheria greca: per i latini Atene peccava di eccesso di eleutheria. E libertas corrisponde a un minimo di diritti, è un concetto che nasce dopo la cacciata dei re. Per i romani rex e regnum sono parole offensive, libertas è non aver nessun dominus.

Sembra ci sia un però…

Infatti: nell’anno 43, che per Cicerone finisce tragicamente perché viene da proscritto ucciso, egli adotta una sorta di machiavellismo, cioè servirsi del giovanissimo Ottaviano per colpire Marco Antonio, succeduto a Cesare a capo dei cesariani. Bruto, cesaricida, detesta Ottaviano, è molto amico di Marco Antonio e rimprovera a Cicerone questa debolezza per Ottaviano. Gli scrive una cosa tremenda: tu non vuoi la libertas, tu vuoi un padrone buono e smentisci te stesso.

Ha citato anche Virgilio.

Qui dobbiamo segnalare un errore rosso nella traduzione: Omnia vincit amor non vuol dire che l’amore vince sempre, ma che vince su ogni ostacolo. Piccola imprecisione.

Non poteva mancare l’intramontabile Manzoni.

Quella definizione di Don Abbondio, “se uno il coraggio non ce l’ha mica se lo può dare”, resta impressa nella memoria di tutti.

Il ministro dell’Interno ha utilizzato anche una frase di Giovanni Paolo II.

È il Papa che ha abbattuto il blocco sovietico: diciamo che forse gli piace più dell’attuale pontefice che si occupa di migranti. Ognuno ha le sue preferenze.

Evangelico il senatore Renzi: “Avevo freddo e mi avete accolto, avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere”. Naturalmente il Vangelo secondo Matteo.

Ma se lo ricorderà che fu Marco Minniti il ministro che per primo proclamò la chiusura dei porti, in quel discorso scervellato sul rischio per la nostra democrazia, di cui Maurizio Crozza fece una parodia memorabile? La chiusura dei porti è una pensata del Pd prima della sconfitta, di cui Renzi era segretario.

Il premier Conte ha citato Federico II. “Quantunque la nostra maestà sia svincolata da ogni legge, non si leva tuttavia essa al di sopra del giudizio della ragione, che è la madre del diritto”.

Non conosco il premier, so che è un bravo professore di diritto. E che è nato nel Meridione, in un paese in provincia di Foggia. Questo lo dico perché Foggia è a due passi da Castel del Monte, uno dei manieri di Federico II. C’è una tradizione meridionalista di studi federiciani, penso a Lo stato ghibellino un famoso libro di Gabriele Pepe, storico del Medioevo. Immagino che il premier abbia un debole per Federico II, in quanto sovrano ghibellino meridionale.

E poi Habermas e Buber.

Il primo non mi ha stupito: lo citano tutti, anche quelli che magari non lo hanno letto. Mentre Martin Buber è stato un filosofo di grande spicco della cultura ebraica. Prendo atto che ha messo insieme tre pensatori tra loro piuttosto lontani.

Renzi dice sì a Conte: “Io farò lo sminatore”

Matteo Renzi, pur di far nascere il governo M5S-Pd, è disposto a trasformarsi da “rottamatore” in “sminatore”. Nel giorno in cui Nicola Zingaretti mette il veto sul ritorno di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, l’ex presidente del Consiglio ancora una volta rischia di rubargli la scena. E prima che Zingaretti giri per sempre la chiave per serrare la strada del ritorno dell’avvocato, mette un piede nella porta che si sta per chiudere: “Non ho nessuna preclusione verso il Conte bis”, è quello che ha confidato ieri l’ex premier ai suoi.

Al Fatto risulta che il ragionamento fatto da Renzi ai suoi (diametralmente opposto a quello ascoltato dagli stessi interlocutori la settimana scorsa) sia questo: “Non ci possiamo permettere di far saltare questa delicatissima operazione politica per i nomi. Ormai è tutto noto: il Paese sa del nostro tentativo di formare una nuova maggioranza con il M5S. Sarebbe da idioti farne una questione di poltrone. Salvini ci distruggerebbe nelle urne. Siamo a metà del guado, non possiamo fermarci. Questo governo deve nascere e durare almeno due anni”. Renzi ai suoi ha spiegato così il ruolo che vuole disegnarsi: “Gli altri sminestrano, noi sminiamo”. Renzi vuole il Giglio magico fuori dai ministeri e preferisce togliere questo e altri ostacoli sulla via del governo giallo-rosso.

La metamorfosi è anomala e repentina come questa crisi. Appena cinque giorni fa, Renzi era un fiero sostenitore del veto a Conte. Ieri così spiegava la sua inversione a U: “Resto dell’idea che il M5S avrebbe dovuto proporre un premier diverso per una maggioranza diversa, però ho apprezzato il suo discorso e se la conferma di Conte diventa il problema sul quale salta tutto, sono disposto a votarlo”.

La prima scelta a Palazzo Chigi, per lui, sarebbe Raffaele Cantone, ma crede che sbagli chiunque si irrigidisca sul nome. Sia chi mantiene il veto nel Pd sia chi, come alcuni M5S, dice “o Conte o morte”. Un atteggiamento, secondo Renzi, figlio dell’euforia eccessiva seguita alla corrida di martedì al Senato. “Io e Conte abbiamo fatto nero Salvini – ha detto Renzi ai suoi – ma attenzione: non è finito. Sarebbe un’illusione scambiare il Senato per l’Italia. Lo abbiamo umiliato ma nella piazza è un altro film. Per uccidere ‘la Bestia’ ci vogliono due anni”.

L’ex premier teme che il Pd e il M5S non abbiano compreso il livello della sfida: “Dobbiamo avere un uomo forte al ministero dell’Interno”, ha detto Renzi ai suoi, ricordando la capacità comunicativa e operativa dell’attuale capo della Polizia, Franco Gabrielli. La ‘trimurti’, come la chiama Renzi, che dovrebbe reggere l’urto dell’onda di ritorno del sovranismo cacciato dal Viminale, è composta da Raffaele Cantone (ministro, se non premier), Nicola Gratteri alla Giustizia e Gabrielli appunto al Viminale, al posto di Salvini.

E il premier? Renzi vuole così tanto il governo da essere di manica larga: “Si parla dell’ex ministro Paola Severino o di altri professori universitari con esperienza di governo. Mi va bene tutto. Sono disponibile – ha spiegato senza ironia Renzi – ad accettare anche un professore che ha detto no al mio referendum, purché si faccia questo governo”. Su Roberto Fico, molto gradito all’ala che fa capo a Franceschini, Renzi non chiude del tutto ma dubita dell’autorevolezza internazionale.

Comunque una cosa è chiara. Il governo se sarà, sarà politico. Nessun appoggio esterno: “Ci vogliono persone in grado di andare in Europa a trattare. Abbiamo bisogno di una Finanziaria espansiva nel 2021”. Il ministro dell’Economia? Renzi, come il M5S, boccia Tria, che è gradito al Quirinale. Molto meglio un politico del Pd. Non un renziano ma un uomo di Nicola Zingaretti. L’europarlamentare Roberto Gualtieri potrebbe essere l’uomo giusto. Per Renzi.

Zingaretti alza il tiro col M5S. Ma il Pd lo lascia subito solo

Nicola Zingaretti è pronto ad alzare l’asticella per far nascere “un esecutivo di legislatura” al punto da rendere le condizioni quasi impossibili da accettare per i Cinque Stelle. Per il segretario del Pd, le elezioni restano l’approdo migliore. Non si fida dei Cinque Stelle, non si fida di Matteo Renzi. Vede tutta la complessità dell’operazione, con il rischio incluso che il Pd ne esca distrutto. E allora, è pronto a fissare 5 punti programmatici chiari, primo tra tutti quello sulla democrazia rappresentativa contro la democrazia diretta, predicata dal Movimento. E a partire dal veto sul nome di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Mentre Luigi Di Maio “se vuole, può fare il ministro dell’Agricoltura”, come sintetizzano i suoi.

Ma nel Pd la sua posizione è piuttosto isolata: non solo Zingaretti è assediato da Renzi, ma pure accerchiato dai suoi. Se Goffredo Bettini e Massimiliano Smeriglio sono dall’inizio su posizioni più morbide del segretario, dal Nazareno raccontano che Piero Fassino vada spiegando a tutti quanto è importante fare il governo (con l’obiettivo di diventare ministro degli Esteri), mentre sia Dario Franceschini a convincere il segretario a cambiare posizione: oggi sta perorando la causa di Conte, pur di far nascere l’esecutivo. In molti vedono tipo miraggio un posto da ministro o da Sottosegretario.

Di certo, il Pd zingarettiano chiederà al presidente della Repubblica almeno un po’ di tempo: se alla fine il governo dovesse nascere, dovrà essere su solide basi, su un programma vero e condiviso.

“Per far nascere un nuovo governo, bisognerà dare vita a una maggioranza nuova, un’offerta in discontinuità con larga base parlamentare”. È questo il passaggio chiave della relazione di Zingaretti che in direzione si guadagna cinque minuti di applausi, il mandato pieno a trattare e l’approvazione dell’ordine del giorno per acclamazione. Nessun altro intervento ed entusiasmo esibito anche da “antagonisti” tipo Roberto Giachetti e Luciano Nobili. Renzi, in perfetto stile, non c’è. Dietro l’acclamazione, però, in genere si nascondono i guai: fu approvata così pure la proposta di Pier Luigi Bersani di votare Romano Prodi al Colle nel 2013, poi affossata dai 101 traditori. Uno dei traumi fondativi della fase politica che venne poi.

Per adesso, un voto ancora non c’è, ma ci sono trattative e posizionamenti. Stamattina, Zingaretti, accompagnato da Andrea Marcucci, Graziano Delrio e probabilmente anche Paolo Gentiloni, andrà al Quirinale a dare la disponibilità del partito a costruire un governo di legislatura, nel segno, appunto, della “discontinuità”. Di programma, ma anche di nomi. E appoggiato da una larga maggioranza: Cinque Stelle, Pd, LeU, gruppo misto e autonomie non bastano, serve anche parte di Forza Italia. Ed è sull’interpretazione della parola “discontinuità” che cominciano i problemi. Per il segretario, il veto a un Conte bis parte insormontabile. Per i renziani (rappresentati al Colle da Marcucci) non esiste un veto né su Conte, né su Di Maio. E pure Delrio è dell’idea che il ministro del Lavoro debba essere dentro l’eventuale operazione. Non solo: che il premier debba indicarlo il Movimento, in quanto forza più numerosa. Tre interlocutori, tre posizioni. Pure se Mattarella vuole ascoltare Zingaretti. Il quale nomi non ne farà, né per proporli, né per stopparli. Per il premier, il nome “nel cassetto” per Palazzo Chigi è Pier Carlo Padoan. Ma non verrà certo tirato fuori durante le consultazioni di oggi.

Zingaretti batterà sui 5 punti: “L’impegno e l’appartenenza leale all’Ue”; “il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa”; “l’investimento su una diversa stagione della crescita fondata sulla sostenibilità ambientale e su un nuovo modello di sviluppo”; “una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori”; l’ “evitare l’inasprimento della pressione fiscale a partire dalla necessità di bloccare il previsto aumento dell’Iva”.

Nel frattempo, il segretario si sta costruendo un’interlocuzione diretta con il Movimento: ha parlato con Luigi Di Maio, poi con Roberto Fico. A trattare a largo campo è prima di tutto Delrio. Non solo con il M5S, ma con tutto l’arco parlamentare di centrosinistra. Ma poi ognuno porta avanti pezzi di trattative. Renzi prima di tutto. “Ma quello ormai è un altro partito”, sintetizzano gli uomini del segretario. Ancora no, ma la scissione resta dietro l’angolo: l’ex segretario non ha mai smesso di lavorare a logo e simbolo del partito che (prima o poi) verrà e che “peserà” sul governo.

5 punti di sutura

Un lettore ci scrive: “Un governo M5S-Pd sarebbe la peggiore sciagura”. Vero, ma con una piccola aggiunta: “Dopo un governo monocolore Salvini”. Che seguirebbe inesorabilmente a: elezioni anticipate in ottobre; un governo tecnico con tutti dentro (tipo Monti) o nessuno dentro (tipo Cottarelli) fino a primavera; un governicchio M5S-Pd che passi il tempo a vivacchiare e litigare, per sfasciarsi dopo qualche mese, magari quando Renzi avrà pronto il suo sfavillante partito del 3%. Quindi o nasce un governo serio e blindato, o è meglio votare subito, prima che Salvini si riabbia dalle sbornie e dalle sberle estive. Un governo serio non può partire dai veti, ma da una trattativa su poche cose da fare nei primi mesi (poi, se funziona, si procede). Invece Zingaretti (subito smentito da Renzi) parte dai veti: “Discontinuità” rispetto a Conte (troppo popolare?) e agli ex ministri (solo dell’ultimo governo o anche dei capolavori di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni?). Quanto al programma, presenta 5 punti. Di sutura. “Appartenenza leale all’Ue”: slurp. “Democrazia rappresentativa, a partire dalla centralità del Parlamento”: mecojoni. “Sviluppo basato sulla sostenibilità ambientale”: gnamm. “Cambio nella gestione dei flussi migratori”: perbacco. “Ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”: apperò. Vasto programma, direbbe De Gaulle. Ma così vago e vacuo che, con qualche distinguo, potrebbe starci pure Salvini. E persino CasaPound. B. ci sta sicuro, con Dell’Utri dai domiciliari e Previti dalla clinica.

Ora si attende la lista dei “discontinui” del Pd, noto vivaio di teneri virgulti: Gentiloni? Franceschini? Prodi? Veltroni? Napolitano? Letta? Lotti? Martina? Pinotti? Fedeli? Madia? Lorenzin? Padoan? Troppo continui. Però restano altre garanzie di efficacia e soprattutto serietà: Orfini, Morani, Ascani, Gozi (se Macron ce lo presta), mai stati ministri per ovvi motivi. Senza dimenticare Cantone, che si porta su tutto. Tutti carneadi oltre la frontiera di Chiasso. Messi come siamo, col poco tempo che darà Mattarella, di tutto c’è bisogno fuorché di trovatine nuoviste tipo Corrida dei dilettanti allo sbaraglio. Serve gente che sappia subito dove metter le mani, non per rubare ma per fare. Chi ha avuto un buon ministro dell’Interno come Minniti o degli Esteri tipo Gentiloni dovrebbe rinviare la discontinuità a tempi migliori e far fuoco con la legna che ha. Idem per il M5S che, a parte 4-5 uomini di governo (Conte, Di Maio, Bonafede, Fraccaro, Bonisoli), ha la panchina corta. Sennò tanto vale lasciar perdere subito e votare: prima comincia il monocolore Salvini, prima finisce.

Toro-Wolverhampton: l’arbitro lusitano in campo non avrà problemi a farsi capire

Tutto esaurito domani sera al Grande Torino per l’andata dei playoff per accedere ai gironi di Europa League. Ci si gioca un bel pezzo di stagione e di fronte al Torino c’è un signor avversario: il Wolverhampton, i Wolves tifati da George Best e da Robert Plant, vocalist dei Led Zeppelin. Una squadra dal passato glorioso (tre titoli negli anni 50) ma che fino a pochi anni fa bazzicava tra la B e la C inglese. Poi, nel 2016, ecco l’uomo che ti cambia la vita: il portoghese Jorge Mendes, potentissimo procuratore sportivo (ha in scuderia il connazionale Cristiano Ronaldo) che in un attimo trova compratori cinesi e nel giro di due anni costruisce una squadra in grado di affacciarsi ai piani alti della Premier League. E per la stagione appena iniziata ha speso quasi 100 milioni per rafforzare la squadra.

Mendes ha pescato soprattutto in patria, dall’allenatore Nuno Espírito Santo (assistito da Mendes) a ben sette giocatori lusitani (Diogo Jota, Rubén Neves, Joao Moutinho, Rui Patricio, Vinagre, Jordao e Neto, ovviamemnte tutti della sua scuderia).

Insomma, il Torino se vorrà tornare nell’Europa che conta dovrà compiere qualcosa di simile a un’impresa. Manca dalle competizioni dal 2014 e tra gli anni 70 e i primi 90 le delusioni europee, spesso condite da reali o immaginarie ingiustizie subìte, sono state troppe: pali, traverse, autoreti al 121’, clamorosi rigori negati, partite giocate in 9, sospetti di doping al contrario… Ma basta con il vittimismo, i tempi sono cambiati.

Ah, per la cronaca, l’arbitro designato (designato) per il match d’andata a Torino è il signor Artur Soares Dias. Sì, si chiama proprio Soares. È portoghese.

Un gioiello per pochi: la valle dell’Orfento

Uno spicchio di paradiso che non ti aspetti. A due ore d’auto da Roma c’è la valle dell’Orfento, una gola scavata in milioni di anni dove un torrente salta tra le rocce, forma pozze e cascatelle d’acqua gelida e cristallina che tolgono il fiato per la bellezza. Siamo nel parco della Majella, in provincia di Pescara. Si scende da Caramanico terme (le terme sono chiuse, per ricordare che siamo in Italia). Da quel paese partono decine di sentieri che salgono in vetta o affondano nella boscaglia per costeggiare il torrente. Sentiero che si biforca: saliamo fino a Decontra, piccolo borgo che in inverno ospita due famiglie e qualche anziano che non molla (una trentina di persone). Casette in pietra, fonti d’acqua cristallina, cinghiali, cervi, caprioli e lupi che, specie di notte, ti passano davanti. Un paesaggio vario: dal bosco si sale per un meraviglioso altipiano battuto dai rapaci. Poi si riscende per la valle Giumentina (comune di Roccamorice) fino all’eremo di san Bartolomeo, tre stanzette scavate nella roccia. L’eremo è antecedente all’XI secolo e venne restaurato da Pietro dal Morrone, futuro papa Celestino V, intorno al 1250. Risalendo la vallata spicca l’enorme falesia attrezzata per l’arrampicata, una delle più vecchie palestre di roccia con circa 250 vie. Sempre in zona troviamo l’eremo di Santo Spirito a Majella che è più un complesso monastico che un eremo vero e proprio, dato che solo il pronao è incastonato nella roccia, con un percorso stretto da attraversare.

Da Caramanico si sale, passando per sant’Eufemia, fino a Roccacaramanico un piccolo gioiello tra il monte Amaro e il Morrone, terra dei camosci. D’estate una vista mozzafiato. D’inverno zona perfetta per lo sci alpinismo, lo sci da fondo e le passeggiate con le ciaspole. Insomma tanta natura a prezzi veramente contenuti.

Tremate, tremate: le tette son tornate (ma non in Italia)

Capezzoli al vento e genitali disegnati in corrispondenza del cinto per denunciare la repressione che ancora viene esercitata sul corpo delle donne in molte parti del mondo. Il GoTopless Day, inaugurato negli Stati Uniti nel 2007, anche quest’anno ravviverà le strade di New York e di decine di città del mondo. Per il 25 agosto si attendono migliaia di partecipanti, dagli Usa al Canada, fino ad arrivare in Francia e Germania. La data non è casuale: l’iniziativa si svolgerà domenica anticipando di un giorno la “Giornata dell’uguaglianza delle donne”, istituita dal Congresso americano nel 1971 per celebrare il 26 agosto 1920, quando cioè le donne americane ottennero il diritto al voto. Quest’anno il GoTopless Day coincide anche con il vertice del G7, che si svolgerà in Francia a Biarritz dal 24 al 26.

“Il diritto al topless è stato privilegio esclusivo degli uomini per oltre 80 anni! È giunto il momento che i capi di Stato occidentali denuncino il fatto che i diritti umani sono rigorosamente dettati in base alla vulva o al pene”, ha dichiarato Nadine Gary, presidente dell’organizzazione fondata da Claude Maurice Marcel Vorilhon, noto come Räel, in quanto guida spirituale del movimento raeliano. “Libera i tuoi seni! Libera la tua mente!” è lo slogan con cui gli attivisti propugnano un cambiamento culturale fondato sull’uguaglianza di genere. “Una legge che criminalizza unilateralmente le donne perché in topless genera violenza sessuale”, spiegano sul profilo Facebook, chiarendo che occorre desessualizzare il corpo femminile. Nonostante siano 35 gli Stati americani in cui il topless è legale, spesso – denunciano le attiviste – la legge non viene applicata. Toronto, Montreal, Denver, Los Angeles, New York non saranno le sole città in cui si sfilerà per strada coi seni scoperti. L’iniziativa è prevista anche a Cartagena de Indias, in Colombia. E a Lione, Parigi e Friburgo. In Italia al momento non è stata annunciata alcuna adesione, sebbene il dibattito sul corpo delle donne anche nel nostro Paese abbia raggiunto toni accesi in questi ultimi mesi. Oggetto di discussione sono state, infatti, le ordinanze comunali, emesse da Nord a Sud, che vietano il bikini in città nel nome del pubblico decoro. La giunta leghista di Trieste un mese fa è stata aspramente criticata per aver invitato la cittadinanza a “un abbigliamento adeguato”. Anche le contestazioni mosse alla capitana della Sea Watch, Carola Rackete, per essersi presentata in Procura con una maglietta senza indossare il reggiseno non sono passate inosservate. Due ragazze torinesi, infatti, Nicoletta Nobile e Giulia Trivero con l’hashtag #freenipplesday hanno indetto il 27 luglio una giornata di solidarietà nei suoi confronti, invitando le donne a non indossare il reggiseno per sensibilizzare la società civile sulla “necessità di un dibattito fondato su argomenti concreti e non su atti di prevaricazione sul corpo femminile”. A Massa, in Toscana, qualche giorno fa, c’è stata una rivendicazione del collettivo femminista Kall, contro il regolamento urbano che vieta abiti provocanti, approvato dal Comune a guida leghista. Così, una serie di reggiseni attorno a uno striscione sono stati appesi sotto il palazzo comunale nel corso della notte tra sabato e domenica scorsi. “Libere di vestirci come vogliamo, di mendicare, ammiccare, radunarci e protestare”, hanno ribadito le attiviste. Nulla di diverso da ciò che a seno scoperto verrà reclamato in occasione del GoTopless Day in decine di città del mondo.

Chi di spada perisce: la condanna fatale di “Amore tossico”

Non mancarono gli elogi. Per Segnocinema, “quasi un esempio di cinema-verità sui giovani delle borgate romane in epoca post-pasoliniana”. Tullio Kezich isolò “il risultato più notevole, quello di creare intorno ai personaggi, pur accettati nella loro brutale naturalità, un clima di comprensione e addirittura simpatia”. E, concluse su Panorama, “l’opera prima di Caligari ha il merito di non addolcire la pillola”. Anche perché in Amore tossico non era tema di pasticche, ma di spade, ovvero siringhe: eroina, e “’ndo s’annamo a spertusà a venazza?”.

Fu anche di linguaggio, desunto da carcere, borgata, droga e plasmato ad libitum, l’invenzione di Claudio Caligari, esordiente – dopo complicata gestazione – nel 1983 sotto l’egida di Marco Ferreri: un nuovo modo di vedere, un nuovo modo di parlare. È la soglia di accesso a una realtà altra, è un’esplicita richiesta di traduzione: ci sono le dosi, ossia gli schizzi; gli scippi, altrimenti detti strappi; i furti, che diventano chiusure. E, poi, in una scena che da icona s’è fatta meme, l’ineffabile Enzo (Di Benedetto): “Ma come, dovemo svortà e te piji er gelato?”. Ecco, svoltare che qui non è il gergalismo romanesco di “avere successo”, ma il più particolare, sempre romanesco però tossico, “rimediare la roba”.

Come Ostia ha attecchito nell’immaginario collettivo con Amore tossico, non c’è Suburra che tenga: Cesare (Ferretti), Michela (Mioni), Enzo, Ciopper (Roberto Stani) si mettono sulla faglia tra anni Settanta e anni Ottanta, eversione ed evasione, e fanno di endovena inedito e inaudito, scandalo senza redenzione né assoluzione.

In carnet qualche documentario sul Movimento, La parte bassa e La follia della rivoluzione, Caligari battezza “il film di fiction” buttando la determinazione oltre l’ostacolo, la scena oltre l’osceno: Loredana si infila l’ago nella giugulare, Patrizia (Vicinelli, già poetessa nel Gruppo ’63) schizza sangue su tela, Cesare recensisce: “Questo sì che ‘n quadro vero. Fatto de vita. Fatto de morte. Fatto de sangue, de sangue nostro”.

Il regista sabota il Neorealismo, scardina Pasolini o, comunque, il pasolinismo e fa deragliare lo stesso Ferreri, giacché l’omicidio-suicidio non ha più l’elevazione borghese del Michel Piccoli di Dillinger è morto, ma l’affondo sottoproletario di Cesare.

Amore tossico viene presentato alla quarantesima Mostra di Venezia: vince il premio De Sica, ma in una sezione marginale, eppure – frustano i francesi – “un festival che ha paura degli scandali ha paura anche del cinema”. Ferreri, che lo porta al Lido, scazza con il critico Tatti Sanguineti in conferenza stampa e lo difende, dall’Ugo Pirro di Giudicatelo voi, in tv: “Oggi Accattone non potrebbe avere la forza che può avere questo film… questo film è Accattone dei nostri giorni”. Gli vaticina anche “una barca di soldi”, e si sbaglia di grosso: esce nel gennaio del 1984 in 15 copie, la domanda dell’esercizio supera l’offerta distributiva, però non basta.

Arriveranno le stimmate – sempre buchi sono – del cult, ma fuori tempo massimo: per l’opera seconda, L’odore della notte (1998), a Claudio Caligari serviranno 15 anni, per la terza Non essere cattivo, uscita postuma nel 2015, 17. Non si uccidono così anche i cavalli di razza?

No future il suo orizzonte; no future quello di Michela: “Non c’è più niente da scoprì, io c’ho voglia de cose nuove, è un po’ che ce penso, stamo tutto il giorno a sbattese a rovinasse ‘a vita e se perdemo tutto er resto, vivemo a du’ metri dar mare e ‘st’anno è ‘a prima volta che ce venimo”; no future quello di Cesare: “A Michè, ma ste cose te vengono in mente solo dopo che te sei fatta, er mare er sole, ‘na bella pera, mettece du’ violini…”.

Gli accordi sono del De profundis: con la consulenza scientifica del sociologo Guido Blumir, Caligari ha voluto per interpreti tossici – presenti o passati – veri, le iniezioni sono autentiche, le crisi d’astinenza reali. Ne ferisce più la spada? Comunque sia, cadono (quasi) tutti: Cesare Ferretti muore il 17 marzo del 1989, due anni più tardi Patrizia Vicinelli, entrambi di Aids; Loredana Ferrara nel 1991; Roberto Stani, di malaria in Africa, nel 2011; Faliero Ballarin (Capellone) nel 2014; Enzo Di Benedetto il 21 febbraio di quest’anno, a causa di una broncopolmonite.

C’è chi s’è perso, c’è chi ha perso, e come l’ha detto Valerio Mastandrea, attore ne L’odore della notte e produttore di Non essere cattivo: “Claudio ha perso ai rigori, che si sappia questo. E ai rigori non è mai una sconfitta reale”.