Non solo Modugno: tutti quelli che… “sono io tuo figlio”

Rimarranno indimenticabili i duetti virtuali di Manuela Villa con suo padre Claudio durante le soirée televisive di Paolo Limiti in quel programma simbolo degli anni ’90 che era il Paolo Limiti Show, acmé di una succosa cultura popolare ormai scomparsa e non viziata dal monstrum ingombrante e fascinoso del trash. Padre e figlia, lui in un filmato d’epoca in bianco e nero e lei vestita in grande toletta, cantavano a momenti alternati Un amore così grande. Se rinverdiamo oggi quella pantomima della paternità (così il conduttore aiutava Manuela nella sua battaglia), è perché in questi giorni è stata diffusa la notizia del riconoscimento di Fabio Camilli come il figlio naturale di Domenico Modugno (post mortem), certo più per la celebrità mai spenta del cantante di Polignano, che per la notorietà del figlio. Ma a ben avvoltolare i ricordi, una storiografia volontaria della casistica è possibile.

Il confine del riconoscimento genitoriale per i figli da parte dei padri non è obolo contemporaneo ma risale, come il mondo, alla notte dei tempi. Nell’antica Roma, per esempio, non bastava venire al mondo in una famiglia romana per avere la certezza di venirvi allevati: appena uscito dal grembo materno, il neonato veniva posto dalla levatrice sul suolo di casa davanti al pater familias. Se era maschio, figlio della moglie legittima e sano (cioè non deforme, in tal caso poteva anche essere soffocato), il padre lo sollevava da terra; questo gesto, che ha un che di teatrale – di cui la ritualistica famigliare tanto romana quanto greca è piena – significava riconoscerlo e al contempo stabilire dei diritti su di lui, in pratica fino alla sua maggiore età gli apparteneva. Se decideva di non tenerlo, esso veniva esposto (da qui, probabilmente è derivato fino a oggi il cognome “Esposito”) sulla porta di casa: non gli apparteneva. E si fece spazio, proprio in quell’epoca, il brocardo “mater semper certa est”, che assimila la donna che ha partorito con la madre del minore, su cui si fonda ancora oggi il principio codicistico italiano, che pure ha superato la differenza tra figli legittimi e illegittimi (però solo negli anni ’70).

Senza scomodare, però, Ottaviano che nel 39 a.C. ripudia la moglie Scribonia per avergli dato una figlia femmina, Giulia, che non riconosce, o Picasso che – crudele con le mogli e compagne – diede invece il proprio cognome a ogni nato dalle sue molte relazioni, o ancora Guy Erminio, che solo alla morte del padre e per testamento (si legga pentimento) scoprì d’esser figlio del pittore Giovanni Boldini, il caso di Camilli è solo l’ultimo in ordine di tempo.

Prima di lui, Pippo Baudo riconobbe il figlio Alessandro (nato nel 1972 dalla relazione con Mirella Adinolfi) soltanto nel ’96; Vasco Rossi nel 2003 il figlio Lorenzo, che poi ha presentato al pubblico tramite i giornali con una boutade: “Scusate il ritardo, questo è Lorenzo”; il calciatore Paulo Roberto Falcao ha lungamente negato di essere il padre di Giuseppe (1981) anche in tribunale, che però nel ’99 sentenziò a suo sfavore. E ancora il caso di Maradona (padre assai prolifico) che nel suo periodo napoletano ha avuto una relazione con Cristiana Sinagra da cui è nato nel 1986 Diego Maradona Jr., che il campione ha riconosciuto solo nel ’93 e dopo lotte legali e mediatiche; come quelle che hanno costretto/convinto l’attore americano Jude Law a prendersi le responsabilità sulla figlia Sophie. Molti anni trascorrono anche affinché Cristiana (nata nel ’76) possa utilizzare il cognome Calone (Massimo Ranieri). Strano a dirsi, più pacato è Vittorio Sgarbi che dei suoi tre figli (un maschio e due femmine), tutti riconosciuti pacificamente, si proclama “genitore” (che dunque ha generato) e non “padre” (che ha cresciuto).

Certo, quanto la questione confini con l’amore filiale e il desiderio di pronunciare la parola tanto primordiale come ovvia “papà” e quanto, invece, abbia a che fare con il torbido denaro, con l’eredità e il tornaconto, è un interrogativo che non può avere una risposta (o una sola risposta).

Tuttavia, a noi basta ricordare cosa Honoré de Balzac scrive in Fisiologia del matrimonio: “Nell’amore di una moglie per un marito, e dei figli per il loro padre, il denaro non dovrebbe entrare”.

Da Soderbergh a Joker: Venezia chiama Hollywood

Dalla A(merica) alla Z(eroZeroZero), l’abbecedario della 76ª Mostra del Cinema di Venezia, che inaugura il prossimo 28 agosto.

America. Onori e oneri dell’apertura quest’anno non competono più agli States, ma la pattuglia stelle & strisce è nutrita assai: Steven Soderbergh (The Laundromat), Noah Baumbach (Marriage Story), James Gray (Ad Astra) e il Joker di Todd Phillips in lizza per il Leone, una pletora di star, da Brad Pitt a Scarlett Johansson, sul red carpet e altri titoli ancora. Si scrive Venezia, si legge Venice.

Baratta, Paolo & Barbera, Alberto. Sic stantibus rebus, il presidente della Biennale è in scadenza, il direttore della Mostra gli sopravvivrebbe un anno: sequel in vista?

Carriera, Leoni alla. L’attrice Julie Andrews e il regista Pedro Almodóvar, volti e sguardi di un cinema super partes: Mary Poppins può semplicemente bearsene, per lo spagnolo c’è di più, la meritata gloria dopo qualche dolor cannense.

Donne, Due. Un paio di registe, ventuno titoli: il passivo di genere femminile in Concorso dà nell’occhio, e (più di) qualcuno ha sparato a, ehm, palle incatenate contro Barbera e i selezionatori. Problema, non si rappezza a valle (festival) la disparità (registi/registe) a monte, a meno di non applicare all’Arte le quote rosa.

Estasi. 1934, seconda edizione della Mostra: Extase del cecoslovacco Gustav Machaty turba per il nudo integrale – il primo in un film non porno – della bellissima 19enne Hedwig Eva Maria Kiesler, poi star hollywoodiana con il nome d’arte Hedy Lamarr. L’arcivescovo di Venezia si straccia le vesti, papa Pio XII condanna, Mussolini sanziona. Restaurato, pre-apre il 27 agosto.

Ferragni, Chiara. Agli Sconfini la influencer in documentario: il titolo, Unposted, lascerebbe pensare si tratti di un film sul nulla.

Grande, Canal. Per gli autoctoni Canalasso, per gli happy few la dorsale delle feste.

Hotel. Il Lido non è più quello di una volta, e gli hotel negli undici giorni della Mostra devono far stagione: prezzi proibitivi ne fanno un sogno proibito ai più, per fortuna si dorme in sala.

Irréversible. L’Inversion intégrale del film-scandalo di Gaspar Noé, quello del 2002 con Vincent Cassel e Monica Bellucci stuprata: per chi ne sentisse la mancanza, il regista l’ha rimontato cronologicamente. Per gli altri, l’opportunità di rivedere Monica e Vincent insieme, almeno sul tappeto rosso.

La vérité. Inaugura il primo film europeo del giapponese Kore-eda Hirokazu, starring Catherine Deneuve, Juliette Binoche e Ethan Hawke: il cast è ghiotto, la trasferta potrebbe esserlo assai meno. Si veda alla voce Asghar Farhadi.

Martel, Lucrecia. Alzi la mano chi ha visto un suo film: sono quattro, La ciénaga, La niña santa, La mujer sin cabeza e il più recente Zama, e bastano – ed evidentemente avanzano – per fare della regista argentina la presidente della giuria principale. Lo Zeitgeist? Aiuta.

New Pope, The. Presto dirigerà Jennifer Lawrence in Mob Girl, per ora Paolo Sorrentino ritrova Jude Law – new entry John Malkovich – nella seconda serie papalina. Perseverare non è diabolico?

Oscar. La Laguna s’è fatta trampolino per l’award season americana, e a rosicare sono in tanti: anche quest’anno sarà così? Barbera tocca ferro, gli Studios pure.

Polanski, Roman. C’è chi ancora lo bolla “stupratore”, lui risponde con un film: J’accuse. L’affaire è Dreyfus, il riverbero personale? Ne dicono assai bene.

Quo vado? (A mangiare). Primum vivere deinde philosophari, ma al Lido mica è facile: ristoranti sotto coprifuoco, panini al costo di lingotti, digiuno spacciato per cinefilia.

Rockstar. Mick Jagger (The Burnt Orange Heresy di Giuseppe Capotondi) e Roger Waters (il concert movie Us + Them) in Laguna, e quando ci ricapita?

Scorsese, Martin. Il cartellone di Venezia 76. è lussureggiante, solo non si vede l’unicorno, Martin Scorsese con l’atteso The Irishman: aprirà il New York Film Festival del sodale Kent Jones il 27 settembre, nemmeno venti giorni dopo la fine della Mostra. Una ferita non da poco inferta a Barbera da Netflix, che produce. E sì che i detrattori tacciavano il Lido di “Netflix party”. L’Oscar al miglior film mancato da Roma spiega qualcosa?

TotoLeone. Leone d’Oro a Ema di Pablo Larraín; d’Argento (regia) a About Endlessness di Roy Andersson; d’Argento (Gran Premio) a The Perfect Candidate di Haifaa Al-Mansour; Coppe Volpi a Joaquin Phoenix (Joker) e Letizia Battaglia (La mafia non è più quella di una volta).

Usato (sicuro). Andarci è una garanzia, dunque Venezia Classici, restaurati come nuovi: un doppio Bertolucci (La commare secca e Strategia del ragno), Crash di Cronenberg, Lo sceicco bianco di Fellini e Eyes Wide Shut di Kubrick, che fu apertura al Lido nel 1999.

VR (Virtual Reality). Se la realtà – comprensibilmente – vi fa schifo, emendate con quella virtuale: nell’amena location del Lazzaretto Vecchio, un’evasione nel futuro.

ZeroZeroZero. Non ditelo a Salvini, ma Saviano c’è: suo il libro da cui viene la serie (co-)diretta da Stefano Sollima, stupefacente per tema, per fattura vedremo.

La “promessa” del ministro a Bibi: nessuna incriminazione

Un fatto è certo: da oggi al 17 settembre, giorno delle elezioni, il premier uscente israeliano Benjamin Netanyahu dovrà lavorare sodo per non perdere la leadership e la libertà. A metterlo in crisi non sono solo le aspre divisioni – causa della mancata formazione di una coalizione di governo e motivo del ritorno alle urne – all’interno della compagine di destra di cui è stato finora il leader più longevo, ma anche i guai giudiziari in cui è coinvolto. Proprio per tentare di scongiurare una condanna per corruzione, Bibi Netanyahu avrebbe stipulato un accordo sottobanco con l’attuale ministra della giustizia, Ayelet Shaked, sua assistente nel 2012 quando era una delle più giovani dirigenti del Likud, il partito di cui Bibi è ancora segretario. Poi l’ambiziosa Ayelet si dimise contribuendo a fondare l’oggi estinta Casa Ebraica, partito di estrema destra-religioso pro coloni, e poco tempo dopo fu nominata al vertice del dicastero della Giustizia. Il probabile accordo è stato reso noto dal quotidiano Haaretz secondo cui, per fare pressioni sull’Avvocato generale dello stato, Avichai Mandelblit, la ministra avrebbe chiesto in cambio posti sicuri nella lista del Likud alle prossime elezioni. Haaretz sostiene che emissari di Shaked avrebbero promesso al premier che la ministra userà tutta la propria influenza su Mandelblit per evitare una possibile incriminazione dopo l’audizione di garanzia prevista per i primi di ottobre, proprio quando saranno in corso le trattative per la formazione di un nuovo governo. Shaked (che non è stata rieletta alla Knesset nelle elezioni dello scorso aprile) ha detto di essere all’oscuro di tutta la vicenda e di non aver mai autorizzato una proposta di questo tipo.

Francia, il poliziotto è solo e si punta la pistola alla testa

Sono 46 i poliziotti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno in Francia. Erano stati 21 in tutto il 2018, 19 nel 2017, 23 nel 2016. Lo scorso aprile, quando il ministro dell’Interno, Christophe Castaner, aveva annunciato la creazione di “un’unità di prevenzione del suicidio” nelle forze dell’ordine, diventato subito operativo, il macabro conto era a 28. Ma da allora il numero di suicidi continua a crescere. I sindacati, che denunciano da tempo il degrado delle condizioni di lavoro, si stanno organizzando. Preparano delle “marce bianche” per settembre. Ma annunciano anche una manifestazione per venerdì prossimo, 23 agosto, proprio mentre alla vigilia del G7 di Biarritz. Nel fine settimana e fino a lunedì, la città basca sarà una specie di bunker. Il centro sarà “zona rossa”. Da Biarritz, il ministro Castaner, più volte criticato per la cattiva gestione della crisi dei Gilet gialli, ha annunciato ieri l’enorme dispositivo di sicurezza per fare fronte a eventuali rischi di disordini dovuti a black bloc e “ultrà gialli”, i Gilet gialli radicali, oltre che alla minaccia terroristica, sempre presente.

Si dovrà gestire anche il contro-summit organizzato dalle Ong alla frontiera franco-spagnola, tra Hendaye in Francia e Irun in Spagna. In tutto 13.200 agenti, tra poliziotti e gendarmi, saranno mobilitati (appoggiati dai colleghi spagnoli). Laurent Nunez, braccio destro di Castaner, è stato rassicurante: “È vero che da novembre le forze dell’ordine sono state molto impegnate nella gestione di manifestazioni che sono spesso degenerate. Ma i nostri agenti stanno bene, sono preparati e pronti a intervenire se necessario”. Ma dal 2015, con la minaccia terroristica, fino alla recente crisi dei Gilet gialli, le forze dell’ordine si ritrovano spesso in prima linea. E da molto tempo i sindacati denunciano la carenza dei mezzi e del personale, il sovraccarico di lavoro, gli straordinari che si accumulano e non vengono remunerati. Tutto questo ha un peso. Ieri Le Parisien ha pubblicato i dati della Direzione generale della polizia (Dgpn), che da 1997 censisce il numero di suicidi nella polizia nazionale. Dal 1997 a oggi, ne sono stati registrati 1.026. Nel 2019 i casi sono già più del doppio di quelli censiti lo scorso anno. In media un poliziotto si uccide ogni cinque giorni. Nel 54% dei casi è stata usata la pistola del lavoro e nel 35% il suicidio si è consumato tra le mura di casa. Solo nel 5% sul luogo di lavoro. Un rapporto del 2018 sul malessere delle forze dell’ordine, indicava che il tasso di suicidi tra i poliziotti è superiore del 36% a quello del resto della popolazione. La Dgpn ha stilato una lista di fattori che potrebbero essere all’origine del gesto: separazione o divorzio, litigi in famiglia, depressione o malattia. Dei piani per far fronte al problema sono stati tentati negli anni dai diversi governi e molto è stato fatto sul piano medico-psicologico, ma esperti e sindacati ritengono che non sia sufficiente. “Come i suoi predecessori, Castaner insiste sull’aspetto psicologico del problema invece di ripensare le condizioni di lavoro – ha detto a Le Parisien il sociologo Marc Loriol – si trattano cioè le conseguenze e non le cause, che riguardano la natura e l’organizzazione del lavoro. Bisogna ripensare la politica del risultato, la gestione degli effettivi e delle carriere”.

“È urgente curare le ferite invisibili”, ha detto Frédéric Galea del sindacato Alliance. Da settembre una nuova griglia di orari “dovrebbe permettere di articolare meglio vita privata e professionale”, ha spiegato il ministero. Negli ultimi anni le forze dell’ordine si sono ritrovate anche a diventare loro stesse bersagli, dei terroristi prima, dei casseurs poi. Contro di loro nei cortei e sui social sono stati indirizzati messaggi di odio: “Suicidatevi”. Ieri cinque persone vicine ai gruppi anarchici sono state fermate per aver lanciato l’appello sul web a “dare fuoco” agli alberghi che ospiteranno le forze dell’ordine durante il G7. Una donna ieri era ancora in stato di fermo.

Salario minimo, tutti i timori e le bugie dei suoi detrattori

La composita schiera di oppositori del salario minimo legale che è riuscita a stoppare, almeno per ora, l’importante progetto 658 in Senato (sen. Catalfo), si articola in due gruppi: chi continua a propalare notizie false e critiche infondate e chi indica “vie diverse” per rimediare all’ingiustizia dei “lavoratori poveri” e agita lo slogan del cosiddetto taglio del “cuneo fiscale” (e contributivo).

La leadership del primo gruppo è stata assunta da Matteo Salvini che ha dichiarato, come riportato dalla stampa, che con il salario minimo “si scatenerebbe una fuga dai contratti collettivi, con il risultato che per aiutare qualcuno si ridurrebbe la tutela a milioni di lavoratori”. Questo è spudoratamente falso, perché il progetto 658 in primo luogo estende a tutti i lavoratori i trattamenti economico-normativi previsti dai contratti collettivi, sottoscritti dai sindacati più rappresentativi, e solo in un secondo luogo e ove necessario, integra fino al valore di 9 euro lordi orari anche le paghe tabellari delle qualifiche più basse. Altro che “fughe dai contratti collettivi”! Il loro ombrello diventa assolutamente generale a protezione di tutti i lavoratori.

Veniamo al secondo gruppo di oppositori, certo più avveduto, e comprensivo dei sindacati datoriali e, ahimé, anche di quelli dei lavoratori che propugnano la via alternativa del taglio del “cuneo fiscale”. È legittimo sospettare che non amino l’obiettiva implacabile “radiografia” cui sarebbero assoggettati, con l’applicazione del salario minimo legale, i contratti collettivi da loro firmati, specie nel terziario. Intendiamoci: i contratti collettivi nazionali sono e restano l’insostituibile colonna portante del nostro sistema di relazioni industriali e di tutela del lavoro, ma come nella criniera di un cavallo di razza può annidarsi qualche pidocchio, anche nei contratti collettivi, specie nei settori “deboli” possono esser previsti minimi retributivi assolutamente miseri nelle qualifiche più basse.

Gli esempi sono i migliori maestri: ricordiamo subito che il salario minimo proposto di 9 euro corrisponde a uno stipendio mensile lordo di 1.548 euro (172 ore lavorative) e basta esaminare la “scala” delle qualifiche di un contratto collettivo con relative retribuzioni minime e vedere dove “passa la linea” dei 1.548 euro. I minimi retributivi delle qualifiche che restano sotto la linea dovrebbero essere integrati per la legge del salario minimo. Prendiamo un Ccnl appena rinnovato, quello del turismo e alberghi: sono sotto la linea o a “pelo dell’acqua” il 7° e ultimo livello con una paga minima tariffaria di 1.291 euro lordi, il 6° con un minimo di 1.378, il 6° super un minimo di 1.398, e il 5° con un minimo di 1.454, sempre lordi. Con il 4° livello che ha un minimo retributivo di 1.550 si alza finalmente la testa “fuori dal pelo dell’acqua”, poi si sale fino al minimo tariffario al 1.906 del primo livello e di 2.285 per il quadro A.

Dopo aver segnalato che nel 7°, 6° super, 6° e 5° livello c’è il grosso della manodopera alberghiera (facchini, camerieri, addetti di portineria ecc.), basterà fare la differenza tra il livello del salario minimo di 1.548 e l’importo del minimo tariffario di qualifica per trovare la differenza retributiva che, con la legge in discussione, andrebbe riconosciuta al lavoratore. Ad esempio, per il “lavoratore povero” inquadrato al 7° livello si tratterebbe di 252 euro lordi mensili, circa 172 netti.

È naturale che questa sorta di vivisezione dei contratti collettivi del terziario (nel settore industriale il fenomeno è marginale) non piaccia alle parti che li hanno stipulati.

Esaminiamo, dunque, la loro proposta alternativa di taglio del “cuneo fiscale”: ricordiamo che per cuneo fiscale (e contributivo), s’intende la differenza tra salario netto che perviene al lavoratore e il suo costo per il datore, che si ottiene sommando tre fattori: l’aliquota contributiva a carico del lavoratore (9%), la quota contributiva a carico del datore (23%) e l’aliquota fiscale a carico dei lavoratori (23%), cui vengono applicate infatti una trattenuta fiscale e una previdenziale.

Di conseguenza, data una retribuzione tabellare di 1.291 euro lordi (7° livello lavoratori alberghieri), il costo del lavoro sarebbe di 1.587, ma il netto per il lavoratore si aggirerebbe sui 900 euro netti e la differenza di oltre 600 euro sarebbe appunto il “cuneo fiscale” (e contributivo). L’idea propugnata da questo secondo gruppo di oppositori è che riducendo le aliquote, cioè tagliando il “cuneo” il salario netto del lavoratore aumenterebbe comunque, come se il suo datore di lavoro gli aumentasse la paga in ossequio a un’eventuale legge sul salario minimo legale.

Ma dove tagliare il “cuneo”? Quale aliquota ridurre? Si potrebbe – come vuole Confindustria – tagliare l’onere contributivo a carico del datore (23%)? Questo però non porterebbe alcun aumento al lavoratore e peggiorerebbe la sua situazione contributivo-previdenziale. Per altro verso, tagliando l’aliquota contributiva a carico del lavoratore (9%), aumenterebbe un pochino il salario netto ma con pregiudizio per la posizione previdenziale. Resta la possibilità di riduzione dell’aliquota fiscale, e certamente, in linea di principio questo aumenta il “netto in busta”. Ma ci sono due questioni ostative: la prima è che una riduzione dell’aliquota fiscale si dovrebbe applicare nella stessa misura a tutti i lavoratori, anche a quelli “benestanti”. La seconda è che per portare il salario netto di 900 euro, del lavoratore del 7° del nostro esempio al netto di 1.200 (corrispondente al lordo di 1.548 del salario legale minimo), occorrerebbe addirittura azzerare l’intera aliquota fiscale o ridurla a pochissimi punti, e l’ipotesi farlo per tutti i lavoratori, poveri e benestanti, è evidentemente impraticabile. Il taglio del “cuneo fiscale” come alternativa alla legge sul salario minimo legale è quindi solo uno slogan strumentale.

Ma questoesame non sarebbe completo se non ci figurassimo una misura diversa, che nulla ha a che fare con le aliquote e con la loro riduzione (o taglio del cuneo fiscale): accordare ai soli lavoratori “poveri” che percepiscono meno di 1.548 euro lordi al mese una detrazione o “bonus fiscale” che porti il salario netto al livello che avrebbero se percepissero 1.548 lordi. Sarebbe un intervento oneroso per l’erario (oltre 5 miliardi di euro annui), ma politicamente non accettabile perché significherebbe far pagare a tutti i cittadini quelle integrazioni che, invece, dovrebbe far carico ai datori che utilizzano a quattro soldi il lavoratore “povero”.

La crisi di governo, voluta da Salvini, avrà l’effetto di bloccare il ddl 658, ma gli argomenti resteranno sempre attuali, perché il salario minimo legale è un istituto riguardante la dignità del lavoro, presente in tutti i Paesi europei e non potrà non essere introdotto anche in Italia.

Cassazione a Fiat: “Non fa cessare i contratti uscire da Confindustria”

Chi esce da Confindustria non può disdettare, prima della scadenza, i contratti di lavoro sottoscritti dando vita a nuovi accordi. A sancirlo è la Cassazione che ha condiviso un ricorso della Cgil contro la stipula di un nuovo contratto del settore automotive, siglato dopo l’uscita di Fiat da Confindustria nel 2012 con un scelta dell’allora ad Sergio Marchionne che fece a lungo discutere. La durata dei contratti “vincola tutti i destinatari del contratto stesso sino alla scadenza del termine pattuito” e – spiega la Cassazione – nessuno “può sciogliersi da tale vincolo unilateralmente prima della scadenza, neppure dissociandosi dall’organizzazione sindacale di appartenenza”. In particolare, il sindacato Filtem Cgil – si legge nel verdetto – ha contestato l’estensione a tutti i dipendenti della Plastic Component ad Modules Automotive (Pcma) (una società allora controllata da Magneti Marelli che a sua volta era del gruppo Fiat) del nuovo contratto collettivo di lavoro del 29 dicembre 2011 concluso con Fim Cisl, Uilm, Fismic, Ugl ed Associazione Quadri e Capi Fiat in vista dell’uscita di Fiat da Confindustria. Ma se secondo la Corte di Appello di Torino, “a partire dal primo gennaio 2012, la Pcma – per effetto del recesso dal sistema confindustriale esercitato dal gruppo Fiat – non era tenuta più a rispettare le intese sindacali sottoscritte dall’associazione del settore”, per la Suprema Corte, invece, “nel contratto collettivo di lavoro la possibilità di disdetta spetta unicamente alle parti stipulanti, ossia alle associazioni sindacali e datoriali che di norma provvedono anche a disciplinare le conseguenze della disdetta; al singolo datore di lavoro, pertanto, non è consentito recedere unilateralmente dal contratto collettivo, neppure adducendo l’eccessiva onerosità dello stesso”, conseguente “ad una propria situazione di difficoltà economica”.

Ora la Corte di Appello di Torino, la cui sentenza è stata annullata con rinvio, dovrà fare un bel passo indietro seguendo i principi indicati dalla Cassazione.

Non solo il Jova Beach: così gli eventi sfruttano i volontari

“I concerti in spiaggia di Jovanotti? Nulla di nuovo: è dall’inizio degli anni 90 che i grandi eventi usano i volontari. Questa volta almeno se n’è parlato”. Chi parla è un operatore culturale impegnato nella battaglia contro le manifestazioni musicali, sportive, letterarie e artistiche che usano collaboratori non retribuiti per i compiti più disparati: accoglienza, logistica, servizio d’ordine o marketing. Per qualcuno non c’è alcun problema: il volontariato è un modo per partecipare alla vita pubblica, è utile a chi lo fa e alla comunità. Ma quali attività possono essere rimesse ai volontari e quali, invece, necessitano di un lavoratore regolarmente inquadrato? Osservando gli annunci con i quali gli enti organizzatori cercano collaboratori pro-bono sembra che viga la liberalizzazione totale. E benché si tratti di personale da non pagare, spesso le competenze richieste sono alte. Dallo sport alla cultura alla pubblica amministrazione sono svariati i casi in cui vengono coinvolti i volontari, come quelli segnalati dal gruppo Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali.

Il Campionato europeo di calcio 2020 sarà un’edizione molto particolare. Le partite si giocheranno in diversi Paesi. All’Italia toccherà la gara inaugurale, in programma a giugno all’Olimpico di Roma. La Figc sta cercando oltre mille volontari per una marea di mansioni: la gestione dei flussi, le funzioni amministrative, l’informazione agli spettatori, la distribuzione dei dispositivi di accesso, l’assistenza agli sponsor, le traduzioni, la preparazione degli spogliatoi. Ma se il meglio del calcio europeo muoverà quantità notevoli di denaro, non ci sarà nessuna ricompensa in denaro per i volontari che si dovranno accontentare di una divisa dell’Adidas, cibo durante le attività, incontri di formazione, trasporto pubblico gratis e ingresso gratuito alla festa finale dell’evento.

Anche le Universiadi che si sono svolte a Napoli hanno impiegato tanti volontari: oltre 3 mila. Dagli accrediti al front office, dall’accoglienza ai trasporti, passando per il marketing e i social media: è in questi ambiti che hanno contribuito alla riuscita della manifestazione. C’è chi si è lamentato, parlando col sito Fanpage, ma senza apparire perché il regolamento non prevedeva la possibilità di interloquire con i giornalisti. In questo caso, però, c’è stato un piccolo rimborso spese tra i 3/4 euro l’ora a seconda della durata del turno. E anche qui a completare la gratificazione divisa ufficiale, pasti e pullman gratis.

Matera Capitale europea della Cultura 2019 impiega 80 lavoratori e circa 1400 volontari. “Accolgono e accompagnano artisti, scuole, visitatori – spiegano dalla Fondazione Matera Basilicata 2019 – partecipano all’accoglienza di delegazioni in aeroporti e luoghi di rappresentanza, pubblicizzano gli eventi tramite il volantinaggio, svolgono attività di supporto fotografico e di traduzioni”. Ma – chiariscono – si tratta “di attività di supporto e mai sostitutive dei dipendenti”. Non ci sono rimborsi spese tranne che per anticipazioni di pranzi, cene e viaggi.

Festivaletteratura di Mantova ha, invece, dieci dipendenti a tempo indeterminato e poco meno di 700 volontari. Si occupano di “redazione web e documentazione audio e video, accoglienza autori, supporto dell’archivio del festival, biglietteria, gestione dei luoghi degli eventi, punti informativi e assistenza agli allestimenti”, spiegano dall’organizzazione. I non mantovani vengono ospitati gratuitamente, per gli altri c’è solo l’ingresso gratuito agli eventi e alla mensa. Il comitato organizzatore ricorda che non riceve compensi perché si tratta di un ente non profit.

Paratissima 2019, la fiera d’arte contemporanea di Torino, fa lavorare 60 professionisti e impegna 120 volontari. La maggior parte sono anziani di un gruppo nato con le Olimpiadi del 2006, poi ci sono 30 ragazzi che vengono selezionati tramite un bando che richiede specifiche competenze. “Quasi l’80% dello staff retribuito di Paratissima lo abbiamo conosciuto attraverso questo meccanismo. Non succederà mai che una persona fa per due volte il volontario”, assicura il fondatore Lorenzo Germak. È un’esperienza e può aprire le porte in futuro, ma il problema per gli operatori è proprio questo: oggi si è disposti a farlo gratis per entrare nell’ambiente, domani si pretenderà di essere pagati, ma nel frattempo saranno arrivati altri, più giovani, pronti a offrirsi da volontari; un circuito che si autoalimenta.

Il Polo Museale dell’Emilia Romagna lo ha scritto in un bando: “La carenza di personale rende necessario il ricorso a forme di supporto del personale di sorveglianza e vigilanza in organico. È quindi opportuno ed economicamente conveniente ricorrere ad associazioni di volontariato che garantiscono forme flessibili di collaborazione”.

Il trucchetto del part-time: boom di lavoratori ma per meno tempo

Quando si parla di occupazione e mercato del lavoro è bene fare attenzione ai numeri. Anche perché i dati influenzano scelte generali di politica economica e anche le scelte dei banchieri centrali, come dimostra l’ossessione Usa per il tasso di disoccupazione quando si tratta di fissare il livello dei tassi di interesse in chiave anti-inflazione. E la lotta all’inflazione, del resto, costituisce la mission centrale della Bce, contenuta nel suo mandato. Fare attenzione significa però saper “pesare” i dati occupazionali perché ormai – questa è una caratteristica strutturale del mercato del lavoro – dire occupati non significa che tutti sono occupati allo stesso modo. E dire che i posti di lavoro aumentano non significa che aumenti il tasso di attività di quelli compresi tra i 18 e i 64 anni.

Un elemento disturbatore, ad esempio, è il part-time: formalmente designa un lavoratore o una lavoratrice occupati, ma la sua espansione corre accanto alla stagnazione dei salari complessivi e la sua incidenza sul monte ore lavorate è ovviamente importante. Tra le ragioni della riduzione progressiva dei contratti a tempo indeterminato – che viene ribadita anche dall’ultimo rapporto annuale dell’Inps – c’è il fatto che le altre tipologie contrattuali aumentano. “Infatti nel 2017 – scrive l’Inps – quasi il 20% delle giornate lavorate nel settore dipendente privato risulta afferente ai rapporti di lavoro diversi dal tempo indeterminato classico”. L’incidenza del tempo determinato sul totale “è passata dal 9,9% del 2016 all’11,8% del 2017, l’apprendistato dal 3% al 3,2%, il somministrato dal 2% al 2,4%, lo stagionale dall’1,1% all’1,2%, l’intermittente dallo 0,4% allo 0,6%”.

I dipendenti coinvolti in rapporti di lavoro a tempo determinato e di apprendistato, quindi, “sono aumentati significativamente, passando da 3,7 milioni a 4,6 milioni (quasi un milione di dipendenti in più, +24%)”. E poi c’è il part-time il cui peso è salito “dal 27,4% del 2016 al 28,1% del 2017”. Ma se “si restringe l’osservazione al contratto standard tempo indeterminato-full time verifichiamo che esso assorbe nel 2017 il 59,3% della quantità di lavoro contro il 61,4% del 2016”. Quindi il 40% delle giornate lavorate “è inquadrato con rapporti di lavoro a termine e/o a part-time”.

Nel suo rapporto, l’Inps elabora una misura omogenea del tasso di occupazione, prendendo come unità soltanto la giornata lavorativa e la tipologia di contratto. In tal modo, costruendo una tabella basata sugli “anni-uomo” permette di vedere esattamente l’andamento del mercato del lavoro tra il 2016 e il 2017. Il tempo indeterminato si riduce sia nel full time (-0,7%) che nel part-time (-0,6%), ma il tempo determinato cresce del 15,5% nel full time e, addirittura, del 35,5% nel part-time raggiungendo il 40% degli “anni-uomo” di quella categoria. Forte crescita anche nel settore stagionale dove il part-time cresce del 21% contro un +9,6% per il full time. Mentre solo il lavoro intermittente, che cresce del 49,8%, lo batte.

Si tratta di una rivoluzione lenta ma progressiva del mercato del lavoro e spiega chiaramente perché la curva dei salari sia stabile da almeno 25 anni a questa parte e perché nonostante la formale riduzione della disoccupazione – gli ultimi dati la stimano al 9% – non si verifichi un miglioramento percepibile delle condizioni di vita. Il fenomeno dell’emigrazione dei giovani italiani continua e l’ingresso nel mercato del lavoro continua ad avvenire in forme lentissime e con contratti, come abbiamo visto, sempre meno garantiti.

L’incidenza del part-time, spiega l’Inps, “non risulta tanto correlata al grado di terziarizzazione quanto a configurazioni territoriali dell’attività produttiva”.Così è Prato la provincia con la massima incidenza del part-time nel settore manifatturiero: “Il 40% contro un valore medio nazionale del 12,4%”. I livelli più bassi, invece, si riscontrano in alcune province piemontesi e lombarde: “Il minimo si raggiunge a Vercelli (meno del 7%) ma anche a Milano l’incidenza del part-time nel settore manifatturiero è molto contenuta (meno del 9%)”.

Secondo l’Inps, questa differenza così rilevante del grado di incidenza è indicativa sia di una “diversa vulnerabilità delle strutture produttive”, ma anche dei rischi di irregolarità: “Non di rado, infatti, il part-time è la formula preferita per organizzare il lavoro secondo modalità solo parzialmente regolari”. Tutto ciò, poi, si scarica sulle retribuzioni complessive. L’Inps indica quattro ragioni che spiegano la riduzione o il mancato incremento della retribuzione annua: la quantità di giornate lavorate; la retribuzione media giornaliera; le variazioni nell’orario di lavoro (passaggi da part-time a full time e viceversa); la continuità di prestazione con la medesima azienda. La causa principale delle riduzioni di retribuzione è la contrazione della retribuzione media giornaliera. Ma quasi un milione di lavoratori nel 2017 hanno lavorato meno e percepito una retribuzione media giornaliera inferiore a quella del 2014: “Tra essi il 51% ha cambiato azienda e poco meno della metà lavora a part-time”.

I dati sull’occupazione, scomposti e ricanalizzati alla luce delle effettive dinamiche, sono più che utili per cogliere le tendenze generali dell’economia. Negli Stati Uniti, ad esempio, la Borsa, la Fed e lo stesso governo, prendono la riduzione consistente della disoccupazione come un dato di grande forza economica. Ma se si guarda al tasso di attività, cioè delle persone che sono davvero al lavoro, si nota che il tasso americano, nel 2018 al 62,8%, è ancora più basso di quello del 2007 che era al 63%. Quindi ci sono meno persone al lavoro e ci sono più lavoretti, più situazioni frammentate, sacche di marginalità e di sottoccupazione.

La stessa cosa si può rilevare in Italia, dove l’occupazione sembra aumentare, ma succede con più lavoro parziale, più lavoro intermittente e meno contratti a tempo indeterminato. Poi dice che non si cresce.

Carige e la fine del credito cooperativo

Il salvataggio di Carige segna un primo passo verso la fine del credito cooperativo come lo conosciamo: una novità dirompente, ma relegata a polemica di settore. Gli ultimi accorsi hanno chiuso l’accordo per evitare il default dell’istituto ligure, in crisi da un decennio. La Bce ha benedetto l’intesa: aumento di capitale da 700 milioni, il quarto dopo i tre che dal 2014 hanno polverizzato 2 miliardi in mano, soprattutto, a decine di migliaia di piccoli soci. Una parte rilevante l’avrà la trentina Cassa centrale banca, una delle due capogruppo (assieme a Iccrea) che racchiudono le banche di credito cooperative italiane, nate dopo la riforma renziana del 2015. Ccb ha deciso un impegno da 60 milioni per rilevare il 9,9% del capitale (con l’obiettivo finale di una fusione) senza nessun dibattito interno, eccetto una riunione con i dg e i presidenti delle Bcc aderenti (non tutti), che hanno sottoscritto un accordo di riservatezza. Diversi istituti hanno storto il naso. È una scelta fuori dal perimetro del credito cooperativo, che ha finalità mutualistiche (tutelate dalla Costituzione). Per i critici è stata la conferma dei veri effetti di una riforma (non l’unica) calata dall’alto con lo spauracchio della imminente fine del mondo. Nel 2015, sotto dettatura di Bankitalia, Renzi ha imposto alle Bcc italiane l’adesione a una holding in forma di Spa, pena la perdita della licenza bancaria. Si è detto che questa mossa di stampo sovietico era l’unica possibile, perché molti piccoli istituti erano in crisi. In realtà si sono perpetuati conflitti di interessi e faide locali in una holding che ha il ruolo di “direzione e coordinamento” delle Bcc aderenti, con facoltà di emanare disposizioni vincolanti”. Bankitalia si è raccomandata di agire sempre “con finalità mutualistiche”, che con la remunerazione del capitale hanno poco a che fare. L’emergenza è sparita, ma sembra essere servita per consegnare un pezzo rilevante del credito italiano alle logiche delle Spa, cioè al mercato. Oggi le holding puntano a espandersi, domani potranno essere prede.

Emergenza plastica. Neanche il Far East vuole più i nostri rifiuti

Dopo undicimila chilometri, i 69 container arrivano al Global container terminal del Roberts Bank Port, vicino Vancouver, mettendo fine a una asprissima controversia internazionale. Il loro è un viaggio di ritorno: partiti dal Canada cinque anni fa con documenti doganali che ne classificavano il contenuto come plastica riciclabile, avevano portato invece nelle Filippine rifiuti impossibili da trattare. Sulle prime il Canada cerca di ignorare le proprie responsabilità e far finta di niente, ma quando il presidente filippino Rodrigo Duterte richiama l’ambasciatore e promette di affondare i container nelle acque canadesi, Ottawa cede.

Le Filippine sono solo il primo Paese in ordine di tempo a ribellarsi al colonialismo dei rifiuti con cui le nazioni più ricche scaricano, letteralmente, su quelle più povere i frutti malati del proprio sviluppo.

Tutto iniziacirca due anni fa (il Il Fatto ne ha dato conto) quando la Cina comunica al Wto nuove norme, in vigore dal gennaio 2018, per vietare l’import di rifiuti teoricamente riciclabili ma di bassissima qualità (tra cui carta e plastica). E così, per ragioni ambientali, ma anche per valorizzare la raccolta domestica, l’import scende da 50 milioni di tonnellate l’anno (per un valore stimato attorno ai 20 miliardi di dollari) a 23 milioni (fonte ministero dell’Ambiente cinese). Con l’intenzione, l’annuncio è di luglio, di ridurre a zero l’import entro il 2020.

L’Occidente non ha saputo, in pochi mesi, correggere l’handicap di un sistema che fonda il suo sviluppo sulla produzione crescente di spazzatura e sulla disponibilità di “Paesi discarica”. E per molte imprese è stata crisi: quello che prima era un prodotto di bassa qualità venduto alla Cina ora diventava un rifiuto da smaltire pagando. Col bando cinese il mercato si satura di materie il cui valore scivola in basso con gravi ripercussioni sulle imprese del riciclo: il prezzo della carta macero, ad esempio, frana dai circa 100 euro/tonnellata del marzo 2017 ai 40 di maggio scorso (fonte Unirima – Unione nazionale imprese recupero e riciclo maceri). Si cercano così nuove destinazioni per i rifiuti: soprattutto – come raccontano Guardian, Cnn, Deutsche Welle – Paesi del sud-est asiatico come Malesia, Thailandia, Vietnam, Indonesia, India, ma anche Turchia. Paesi dove le norme sulle importazioni, quelle ambientali, sono decisamente meno rigide e i controlli evanescenti.

Se, con Greenpeace (report Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica, aprile 2019), mettiamo sotto la lente uno degli aspetti più spinosi della questione, appunto quello dei rifiuti plastici, vediamo il grande flusso inquinante spostarsi. Seguendo le tracce del codice doganale 3915 (“cascami, ritagli, avanzi di materie plastiche”) osserviamo che il ruolo che la Cina aveva prima del 2018 (importava il 56% di tutti i rifiuti plastici, secondo Un Comtrade) hanno iniziato a dividerselo Malesia (15,7%), Thailandia (8,1%), Vietnam (7,6%) e Hong Kong (6,8%).

Questo tsunami di scarti ha innescato nei Paesi che ne sono stati vittime una reazione a catena inattesa, una sorta di rabbioso scatto d’orgoglio. Da fine maggio migliaia di tonnellate di scarti entrati in Malesia sotto mentite spoglie sono stati rispediti verso Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia, Giappone, Francia e Canada . “La Malesia non sarà la discarica del mondo”, ha protestato il ministro dell’Ambiente Yeo Bee Yin. All’inizio di luglio l’Indonesia ha rispedito in Australia e Francia 50 container di rifiuti di carta contaminati con materiale elettronico, cannucce di plastica, olio esausto. A metà luglio la Cambogia fa sapere che rimanderà negli Stati Uniti e in Canada 1.600 tonnellate di rifiuti plastici (83 container) spacciati alla dogana per prodotti riciclabili. Sulla scorta della Cina, poi, Thailandia, Malesia e Vietnam hanno introdotto norme per imporre restrizioni all’import. Alla luce di queste vicende, poi, è stata aggiornata la Convenzione di Basilea, principale trattato internazionale per la regolamentazione del movimento dei rifiuti pericolosi: dal 2020 verranno regolati dalla convenzione anche alcuni rifiuti plastici, e chi vorrà esportarli in altri Paesi dovrà avere il benestare del destinatario.

La plastica è un caso emblematico di tutto l’universo rifiuti. Negli anni 60 se ne producevano 15 milioni di tonnellate (stime Plastic Europe), nel 2016 i milioni sono diventati 355, con una raddoppio di produzione previsto nei prossimi 20 anni (fonte Corepla, Green Economy Report). Non esistono dati sul destino dell’insieme della plastica prodotta, ma degli imballaggi sì: oggi nel mondo solo il 14% degli imballaggi plastici viene riciclato; un altro 14% finisce negli inceneritori, il 40% in discarica e del restante 32% si perdono addirittura le tracce (fonte Ellen MacArthur Foundation).

Rispetto al resto del mondo l’Europa è un po’ un paradiso, con una media di riciclo del 40,3% (2015), con l’Italia al 43,4% (2017). “Per i rifiuti e per la plastica in particolare – dice Giuseppe Ungherese di Greenpeace – servono misure stringenti per prevenire la produzione. Specialmente di quelli in plastica usa e getta, la frazione più superflua che rappresenta il 40% della produzione. La Direttiva Ue che mette al bando alcuni prodotti usa e getta dal 2021, che pure non è risolutiva, è certamente un primo importante segnale. Per lungo tempo l’uomo è vissuto senza tutta questa plastica monouso, possiamo tornare a farlo”.