Ora la crisi potrebbe “salvare” il pc di Siri: la Procura ha bisogno dell’ok per il sequestro

La crisi politica ha un lato B. Tutto giudiziario. La fine del governo Conte ha infatti un effetto immediato: rende impossibile al Parlamento dare il via libera ai magistrati che hanno chiesto di esaminare il computer dell’ex sottosegretario leghista Armando Siri.

La vicenda si è aperta nell’aprile scorso, quando si è saputo che Siri era indagato per corruzione, per una tangente da 30 mila euro promessi dall’ex deputato Paolo Arata in cambio di incentivi a favore dell’energia eolica da inserire nella manovra economica: un favore da fare a vantaggio di Vito Nicastri, imprenditore siciliano ritenuto tra i finanziatori della latitanza del boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro.

La storia si complica, perché su Siri – indagato dalla Procura di Palermo e poi da quella di Roma – si muove anche la Procura di Milano, che vuole vedere chiaro su un paio di finanziamenti allegri per oltre 1 milione di euro ricevuti da Siri senza garanzie da una banca di San Marino. Siri viene subito difeso da Matteo Salvini, ma attaccato duramente dai Cinquestelle. Alla fine di aspre polemiche, è il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’8 maggio, a revocargli le deleghe ed escluderlo dal governo. Ma Siri resta senatore, dunque protetto dall’immunità parlamentare che scatta quando una Procura vuole compiere un atto d’indagine come una perquisizione o chiederne addirittura l’arresto. Ebbene, la Procura di Milano il 31 luglio manda la Guardia di finanza a sequestrare un computer che secondo i pm Sergio Spadaro e Gaetano Ruta, coordinati dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, contiene dati utili per le inchieste.

Sequestro impossibile: appartiene a un parlamentare. Per portarlo via, è necessaria l’autorizzazione del Senato. La richiesta della Procura di Milano arriva a Palazzo Madama il 6 agosto. Da quel giorno, il senatore ha trenta giorni per presentare le sue controdeduzioni. Dal 5 settembre, dunque, la Giunta per le immunità del Senato potrebbe cominciare ad affrontare il caso, per decidere se concedere o no l’autorizzazione ad acquisire il computer. Qualche esponente Cinquestelle lo dice chiaro: “Salvini ha puntato alle elezioni, e dunque allo scioglimento delle Camere, anche per impedire che procedano le indagini su Siri”. Ora una crisi di governo, anche senza scioglimento delle Camere, ha comunque l’effetto di rimandare a chissà quando la decisione di consegnare ai magistrati il computer, che resta nelle mani di Siri. Il senatore intanto ha tutto il tempo per far sparire file imbarazzanti, se ce ne sono: sulle operazioni finanziarie con la Banca Agricola Commerciale di San Marino; ma forse anche sugli affari nel settore eolico realizzati da Arata e Nicastri. Sa però che qualunque intervento nel computer lascerebbe il segno e potrebbe essere scoperto dai tecnici informatici della Procura. Siri ha sempre dichiarato che i finanziamenti ricevuti sono regolari e che non ha mai incassato tangenti. Ma certo la pressione delle inchieste non fa piacere né a lui né a Salvini, che si era mostrato preoccupato della possibilità di una nuova “offensiva giudiziaria contro la Lega”. Ora di fatto bloccata.

L’Avv., gli studenti e Capitan Papeete: poi la messa è finita

All’inizio sembra una puntata di Ciao Darwin e le aspettative che tutto finisca in una caciara veramente straordinaria sono altissime. I leghisti rimasti senza poltrona si ficcano tra la Casellati e Giuseppe Conte. Per dire, la pancia di Durigon, il mastodonte sottosegretario al Lavoro pescato da Salvini a Latina, ammacca i riccioli di Barbara Lezzi, lei seduta perché cinquestelle. E Giulia Bongiorno, un corpicino di carta velina, è immessa al centro del distaccamento secessionista, nella fila dei pretoriani padani ora in rotta. In piedi, come per punizione, anche i ministri della Pubblica Istruzione, delle Autonomie, e una serie di altri militi affatto abbronzati. Nel governo irrompono e trovano posto solo i maschi di peso. Sgancia la sedia a Salvini il mite Bonafede. Una corpulenta collega che aveva da tempo prenotato la poltroncina centrale dei vice, ripiega a destra, perché Giancarlo Giorgetti decide anch’egli di sedere al posto d’onore.

L’avvocato del popolo, ora ex, si presenta vestito come sempre da avvocato. Grisaglia, pochette bianca, capelli corvini lucentissimi, cartellina in mano. Quando inizia a pestare Salvini il premier sembra quasi dispiaciuto. Parte già volitivo: gli dà del “pericoloso” alla prima curva. Un uomo pericoloso, e la testa di Matteo avanza in un pendolo infinito, un fantastico minuetto posturale. Alza e abbassa la testa, piega il tronco, mette via la pancia, mette avanti la pancia. Sorride, sta fermo. Fa no con la testa, fa sì con la testa. “Inefficace”, aggiunge l’avvocato. E iniziano i buu leghisti, già molto carichi, densi, esuberanti. La presidente: “Per favore colleghi”. Mestissima la pattuglia di Forza Italia, che da questa crisi teme di uscire a pancia vuota così come è entrata. Si nota un Ghedini particolarmente anemico. E che dire di Galliani, l’uomo del Milan che Berlusconi ha trasportato, per raggiunti limiti di età, nel Senato della Repubblica? Che potrà fare mai Gianni Letta in questo caos? I cinquestelle, travestiti per l’occasione da studenti modello, dopo la grande paura di Capitan Papeete, hanno da applaudire il capo. Oggi è Conte, non Di Maio. E loro applaudono anche quando non dovrebbero, e si scordano quando Conte li richiama: “prego, applausi”. Ha appena detto che Salvini è un “incosciente”, dirà anche che è un “opportunista”, e anche che tira in ballo la Madonna senza rispetto. Fa caciara con il rosario. Punto sul vivo, Salvini lo espone e lo bacia per confermare la fede in Cristo. Siamo alla prima mezz’ora ed è quello il tempo in cui anche il Pd prende coscienza che le cose sono cambiate. Si vede che il pomeriggio è in qualche modo da incorniciare quando Marcucci, il capogruppo renziano, applaude Conte. Lo fa lui e lo vorrebbe fare Matteo Renzi, oggi travestito da segretario del partito. Mette le mani sotto il tavolo e resiste. Conte richiama la supremazia della ragione, le regole dell’Istituzione, i codici, il rispetto, la prudenza, Federico di Sveva, la giornata italiana del folclore, le mirabilie di un governo bellissimo, di un anno bellissimo e pieno di cose. Ne dice così tante che nemmeno Toninelli ci crede. “Possibile che abbiamo fatto tutto questo?”, sembra chiedersi. I cinquestelle si sganasciano dagli applausi quando il premier, nell’ora delle dimissioni, istruisce il programma di un nuovo governo. Erano in ginocchio e Salvini li ha salvati. Come abbia fatto è davvero misterioso, però questa crisi resta senza movente e Salvini senza sedia quando Casellati gli dice che è meglio che torni da dove è venuto. Parli dai banchi della Lega. Verdini, nella veste di suocero, prima della seduta, l’aveva detto: “Sia lui che Berlusconi che Renzi non hanno ascoltato i miei consigli”. In effetti Matteo ondeggia, anche se il suo capo staff, Luca Morisi, l’uomo della cosiddetta Bestia, l’ufficio comunicazione, dirama ai parlamentari il verbo: “Discorso stratosferico del Capitano mentre Conte ha bollito una minestrina rancorosa”. Il Capitano: “Omnia vincit Amor”, dice proprio così e siamo in piena crisi mistica. Dice anche che raccomanda gli italiani alla Beata Vergine. “Facci vedere le stimmate”, chiede dice un’arguta senatrice del Pd. Renzi: “Suggerisco i versetti del Vangelo, ovviamente secondo Matteo”. Si fa vedere Scilipoti, lo ricordate? “Ora presiedo l’unione cristiana”. Amen.

“Conte mi ha tradito col Pd”. Triste, solitario y Salvini

Alle ore 19 e 33 minuti si compie l’ultimo atto della recita di Ferragosto: la Lega ritira la mozione di sfiducia a Giuseppe Conte mentre il premier è già sulla via del Quirinale.

Dopo aver provocato le sue dimissioni e preteso il ritorno al voto, Matteo Salvini vorrebbe far credere che il presidente del Consiglio se ne sia andato da solo, di sua sponte. È come nascondere l’arma del delitto subito dopo averlo trasmesso in diretta su Facebook: una sfida alla logica e all’intelligenza collettiva. Ma tant’è, al Capitano ormai non resta che il gioco del cerino: “Conte si è autolicenziato, magari aveva già un accordo sottobanco con il Pd”. Dopo aver fatto e disfatto tutto nell’arco di 10 giorni – dalla crisi alla marcia indietro – carte migliori non ne ha.

Alla resa dei conti del Senato, Salvini si siede alla destra del premier. È una scelta precisa: mentre Conte lo prende metaforicamente a bastonate, il leghista entra nelle inquadrature televisive per sfoggiare l’intero repertorio delle sue espressioni facciali. Sottolinea ogni frase del presidente dimissionario: sbuffa, alza gli occhi al cielo, sorseggia il caffè, ride, ironizza, s’indigna, scuote la testa, bacia il solito rosario. Quando tocca a lui, però, smette le vesti clownesche. Sale al suo seggio da senatore e affida ai Cinque Stelle l’ultimo languido appello, un’autentica mossa della disperazione: “Rifarei tutto quello che ho fatto. La via maestra è il voto ma siamo pronti ad andare avanti. Se volete tagliamo i parlamentari e poi andiamo alle urne. Ci siamo anche per fare una manovra economica coraggiosa e tagliare le tasse a milioni di italiani. Completiamo il programma e poi andiamo a votare”. In serata, a giochi fatti, esprime ancora una volta lo stesso malinconico concetto: “Ora faccio quello che dice il presidente della Repubblica, ma finché posso rimango a lavorare al Viminale. Non mi dimetto”. In aula invece cita le Bucoliche di Virgilio: “Omnia vincit amor”, l’amore vince su tutto. Non è questo il caso: al Senato si sta officiando la fine di un rapporto. La controreplica di Conte infatti è gelida: “La crisi ha la firma di Salvini, se non ha il coraggio politico, me lo assumo io”.

E allora avanti con la teoria del complotto, il nuovo mantra leghista: “Da Conte sono arrivati solo insulti. A giudicare dagli applausi del Pd, viene il dubbio che ci fosse già un disegno. Magari da settimane, forse mesi”.

La linea è la stessa ripetuta dai suoi zelanti senatori. Il capogruppo Massimiliano Romeo risponde a denti stretti: “Da Conte mi aspettavo un discorso più equilibrato, più che il premier sembrava un capo di partito”. Il sottosegretario Claudio Durigon si dice soddisfatto: “Oggi lo abbiamo stanato… Se Conte pensava quelle cose di Salvini da 14 mesi, si vede che la crisi era iniziata molto prima”. Il capo ripete il concetto, una, dieci, cento volte tra una diretta Facebook dal Viminale, un tweet e un capannello di giornalisti al Senato: “Ho scoperto che Conte non mi sopportava da mesi, da una vita… mi è dispiaciuto scoprirlo solo oggi. Mi viene come il dubbio che qualcuno stesse lavorando a un inciucio con il Pd da mesi. Stanno lavorando per riaprire i porti e far processare il ministro dell’Interno”. Ora può solo aspettare, sperare in Sergio Mattarella e soprattutto nel fallimento della trattativa tra dem e Cinque Stelle.

La Lega è con lui, senatori e ministri l’hanno riempito di applausi. Tutti tranne uno: Giancarlo Giorgetti.

Il numero 2 è l’unico che rimane impassibile durante tutto il discorso di Salvini. Inforca gli occhiali, si passa una mano sui capelli, tiene un’aria grave. Non un sorriso, né un cenno d’assenso.

Fuori dall’aula, mentre gli altri leghisti attaccano il premier dimissionario, Giorgetti invece è il più giocoso. Ha un colloquio serrato con i Cinque Stelle Buffagni e Patuanelli, scherza con Rocco Casalino, il portavoce di Conte: “È stato bello finché è durato”. Con il Movimento 5 Stelle, comunque, “ormai ogni discorso è chiuso”. Cosa succederà adesso? Stoccata a Salvini: “Con questi litigi continui, non era possibile andare avanti. Io per la verità l’avevo detto qualche mese prima…”. Poi un’altra: “La Lega è così, non c’è dibattito, non c’è democrazia. Decide un capo”. È un dato di fatto, ma certo dirlo oggi…

E comunque non gli manca il buonumore. Tiene sottobraccio Iva Garibaldi, portavoce sua e di Salvini, le fa ascoltare una vecchia ballata di Sergio Endrigo, Canzone per te. Il testo sembra scritto apposta per l’addio ai Cinque Stelle: “La festa cominciata è già finita, il cielo non è più con noi, il nostro amore era l’invidia di chi è solo”. Giorgetti sorride: “Non è perfetta?”.

Il selfie sessista della Boschi e la bizzarra accusa di sessismo a Tomaso Montanari

Il significato della foto in bikini della Boschi, negli effetti manifesti se non nelle intenzioni, è: “Non mi si può dire che sono brutta e vecchia” (come da diapositiva), non “nessuno si deve permettere di dire se sono brutta o bella”. Con la prova fotografica, Boschi difende la sua bellezza, non la dignità di tutte le donne offese dal maschilismo, di cui condivide il codice accettando, di fatto, di esporsi al giudizio estetico. Questo il semplicissimo, intuitivo nodo di principio che Tomaso Montanari ha cercato di spiegare inutilmente per giorni a chi ha dato (a lui!) del sessista e del talebano per aver fatto notare la leggera discrasia etica del rispondere con l’ostensione delle tette a chi è abituato a trattare le donne come oggetti.

Posto che, dando delle “mummie” a Boschi e Renzi, Salvini non aveva alluso manco per sogno al criterio estetico o anagrafico (ma Salvini è pur sempre quello della bambola gonfiabile portata sul palco come “sosia della Boldrini”), la Boschi – cogliendo al volo l’occasione per postare un selfie en déshabillé

– ha distrutto anni di legittimo impegno per tirarsi fuori dallo stereotipo che la voleva al governo e nella cerchia dei potenti toscani solo perché giovane e carina.

È stata lei, da costituzionalista in erba nonché ministra per le Pari opportunità (!), a dire di voler essere “giudicata per le riforme, non per le forme” (a nostro parere, includendo furbescamente il corpo nel discorso politico nel momento stesso in cui proclamava di volerlo da esso escludere). Prendiamo atto che adesso, coi barbari al governo, ed essendo la materia delle riforme risultata per lei proibitiva, è tempo di farsi giudicare per le forme (Ci sarebbe poi la questione delle pari opportunità delle politiche non belle; lasciamo la materia ai fantasiosi interpreti del femminismo di Twitter).

Meloni invoca le urne. “Cambiamento non è fare la prostituta”

Neanche il tempo di far finire a Conte il suo discorso in Senato e Giorgia Meloni è già scatenata su Facebook. La leader di Fratelli d’Italia, già all’opposizione dell’esecutivo gialloverde, è ancora più contraria all’ipotesi di un nuovo esecutivo formato da Movimento 5 stelle e Pd. E lo ha fatto capire chiaramente, con toni piuttosto coloriti. “Si sta mettendo d’accordo la gente che avrebbe perso le elezioni e ci fanno anche la morale: Cinquestelle cari… ma il cambiamento era questo? Fare la prostituta un po’ con la destra un po’ con la sinistra, a seconda di chi ti dà qualcosa di più?” Il riferimento è ovviamente alla trattativa con Matteo Renzi, “resuscitato”, il “vero burattinaio” della nuova maggioranza, secondo Meloni, che attacca direttamente il premier (ormai dimissionario): E ancora: “Conte resta abbarbicato alla poltrona e tutto quello che ha detto è solo per ingraziarsi il Pd, la Francia e la Germania. Cavolo, fa schifo parecchio questo cambiamento…”. La sua posizione, del resto, è facilmente intuibile: tornare subito alle urne per formare un nuovo governo di centrodestra in cui il suo partito potrebbe essere la prima stampella della Lega di Matteo Salvini. Così anche lei cavalca la tesi dell’“inciucio” già ventilata dal leader leghista nel corso del dibattito a Palazzo Madama: “Sono veramente stufa di dover assistere a questo teatrino ridicolo sulla pelle degli italiani: alleanze e inciuci per conservare la poltrona ed evitare il voto. Ora basta, la parola torni agli italiani”.

La gara per il posto tra i sottosegretari

Il potere logora, e spesso fa saltare i nervi. Soprattutto quando si parla di posti da occupare, e la regola almeno ieri è valsa anche per gli anti-casta per eccellenza, i Cinque Stelle. Sarà stata la voglia di farsi vedere in aula nel giorno decisivo, o il desiderio di abbracciare da molto vicino Giuseppe Conte. Oppure la curiosità di carpire voci e umori dalla trincea di governo dentro Palazzo Madama, di sentire e vedere tutto da un palmo.

Sta di fatto che ieri molti dei sottosegretari del Movimento si sono sfidati nell’occupare i posti ai banchi del governo, correndo sin dalla mattinata a occuparli con fogli, borse e oggetti alla bisogna. Una gara partita già poco dopo mezzogiorno, quattro ore prima del discorso del presidente del Consiglio. Con tanto di discussioni di contorno. “C’è chi ha litigato, anche ad alta voce” conferma con occhi severi un ministro del Movimento, che narra di parole al curaro volate tra tre sottosegretari. “Il leghista Giancarlo Giorgetti ha dovuto far alzare un 5Stelle, lo ha guardato malissimo” conferma un senatore del Pd. E d’altronde ieri l’Aula traboccava, come dimostra anche l’immagine di ministri e sottosegretari del Carroccio quasi ammassati pochi passi dietro il Conte che spiegava ragioni e dettagli della fine corsa del governo. Ma non solo, tutto Palazzo Madama scoppiava di persone, innanzitutto membri degli staff dell’esecutivo, incomprensibilmente preoccupati. “Hanno dovuto allestire schermi e aggiungere tavoli ovunque” racconta un funzionario. Anche nell’auletta della commissione Difesa ieri sono rimasti solo posti in piedi, mentre la buvette a metà pomeriggio era un budello di gente, con i commessi a fare faticosamente da vigili del traffico in entrata e in uscita.

Ma l’epicentro del caos è rimasta l’aula. E un sottosegretario del Movimento di fronte a un caffè sorride: “Mi sono distratto un attimo e sono rimasto fuori, non pensavo che l’ultimo atto di Conte lo avrei visto da fuori”. O meglio da un’altra sala. Vicina all’affollato e nervoso centro del potere.

Renzi e Zingaretti, la guerra intestina che blocca i dem

Il Pd è ora a un bivio. Perchè già nella direzione di oggi alle 11 al Nazareno si capirà l’aria che tira: al segretario dem, Nicola Zingaretti – è l’analisi condivisa da tutti – va conferito pieno mandato a gestire le consultazioni al Quirinale dopo le dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ci sono ancora, però, profonde divisioni su quali debbano essere le “condizioni di discontinuità” che il Movimento 5 Stelle dovrà garantire dopo la fine del governo di cui è stato parte fino a ieri insieme alla Lega e che saranno la base per il confronto con Sergio Mattarella.

Tra la notte di lunedì e martedì, per la prima volta Zingaretti e Luigi Di Maio si sono sentiti al telefono: un abboccamento a poche ore dalle comunicazioni di ieri al Senato di Conte che non è servito a risolvere il rebus della praticabilità di un progetto comune che scongiuri l’ipotesi di un ritorno alle urne. “Che sono ancora l’opzione più forte” dice Pier Ferdinando Casini, un decano delle aule parlamentari. E che però sa “quanto siano ancora importanti per il Pd voci come quella di Romano Prodi, che ha benedetto l’alleanza larga di salvezza nazionale” contro la deriva salviniana: “In un governo del genere vanno inclusi proprio i Di Maio che sono più pericolosi fuori che dentro un esecutivo che nasca in questa prospettiva”. E Giuseppe Conte? “Ha fatto un discorso da 9 e mezzo” chiosa Casini che fa eco ad altri senatori dem che si azzardano a definirlo “mattarelliano” e quindi per definizione assolutamente condivisibile.

Sono quelli però, la stragrande maggioranza tra renziani e franceschiniani, che vogliono che la nave delle trattative non si areni prima ancora di partire. Zingaretti invece, pur apprezzandone la grammatica istituzionale, ha giudicato il discorso di Conte “autoassolutorio” e la sua presa di distanze da Salvini, tardiva: “All’elenco delle cose fatte non può non seguire l’elenco dei disastri prodotti in economia, sul lavoro, sulla crescita, sullo sviluppo (competenze del ministro Di Maio, ndr). Questo è il vero motivo del pantano nel quale l’Italia è finita. Qualsiasi nuova fase politica non può non partire dal riconoscimento di questi limiti strutturali di quanto avvenuto in questi mesi” dice senza escludere la possibilità di verificare “se ci sono altre ipotesi di maggioranze”.

Ma chi deve rispondere alle sollecitazioni di Zingaretti? Per Massimiliano Smeriglio questo compito spetta a “Conte, come leader 5 Stelle più che come premier. Anche tenendo in considerazione, come fa Valeria Fedeli, altra voce nobile del Pd fedelissima del presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, che del discorso del presidente del Consiglio dimissionario “va apprezzato l’attaccamento all’Europa che invece Salvini considera come un padrone di cui liberarsi”. Tommaso Cerno che è diventato un idolo per i 5 Stelle dopo aver votato con loro la mozione no Tav, butta lì una soluzione pop: “Bisogna riportare le lancette dell’orologio al 4 marzo 2018 per fare un governo rock buono per una nuova stagione e non perchè ci sia da sostituire Salvini. Se no, meglio le urne”.

E Matteo Renzi? Fa Matteo Renzi: al Senato è intervenuto a nome del Pd dopo gli interventi di Conte e Salvini e si è speso per la causa di un governo istituzionale che disinneschi le emergenze economiche e poi tra qualche mese porti il Paese alle urne. Insomma ha continuato a dare la linea, forte di un gruppo parlamentare che è in gran parte di sua diretta espressione e che compattamente si spenderà per un governo di breve termine che fa a cazzotti con l’idea di Zingaretti, il quale ha già detto di essere disponibile a sedersi al tavolo delle trattative solo per dare vita a un governo di legislatura.

Ora la differenza di prospettiva del segretario e dell’ex (che è sospettato di voler comprare tempo per poi far saltare il banco non appena sarà pronto a spiccare il volo con un partito tutto suo e poi sfidare all’uno contro uno l’altro Matteo) non è di poco conto. E terrà banco nei conciliaboli di oggi al Nazareno specie dopo che Renzi a Palazzo Madama, oltre a dire che di entrare in un governo con i 5 Stelle non ci pensa minimamente, ha pure denunciato le “connivenze” all’interno del suo partito che favorirebbero il progetto salviniano di portare in questo momento il Paese alle urne. C’è chi come Francesco Boccia gli ha chiesto di scusarsi Ma lui, al solito, tira dritto per la sua strada.

Il pessimismo a 5 Stelle: “Alla fine andremo al voto”

La porta con i contraenti che non volevano chiamare alleati è chiusa, sigillata. Più o meno tutti nel M5S giurano che non si potrà riaprire e che con la Lega è davvero finita dopo il discorso di Giuseppe Conte in Senato, un rogo in sillabe del patto di governo tra i gialloverdi. Ma la via che porta a un accordo di governo tra Cinque Stelle e Pd non è affatto spianata, larga.

Al contrario, nel giorno dell’addio del premier pare un cunicolo disseminato di buche. “Andremo a elezioni” scuotono la testa big di rito diverso del Movimento dentro Palazzo Madama, affollato di curiosi e comprimari che vogliono fiutare l’odore del sangue (politico). Invece generali e ufficiali del M5S pensano già ad altro, cioè se è davvero possibile un governo di legislatura con il Pd.

Solo che l’ottimismo di molti di un paio di giorni fa si è già stinto in un diffuso pessimismo. Con Matteo Renzi che rimane la prima paura, il primo ostacolo. “Qui in Senato comanda tutto lui nel Pd e in questi giorni ha già violato alcuni accordi verbali con noi”, butta lì uno dei 5Stelle che tessono il filo della trattativa.

Ed è un problema per entrambi i lembi del filo, per il capo politico del M5S Luigi Di Maio come per il segretario dem Nicola Zingaretti. I due si sono sentiti lunedì, con Di Maio che ha chiamato il governatore del Lazio per sondarne l’umore e capire i margini di manovra. E Zingaretti ha giocato la carta della sincerità. “Non posso garantirvi un accordo di lunga durata, i gruppi parlamentari non li ho costruiti io e Matteo Renzi controlla la maggior parte degli eletti”, ha in sostanza spiegato il segretario dem, fautore del voto anticipato anche per cambiare le gerarchie in Parlamento.

Di sicuro Zingaretti non può per forza di numeri dare assicurazioni su un esecutivo stabile che arrivi a fine legislatura. E sa bene, come Di Maio, che un governo di breve respiro sarebbe solo un enorme favore a quello che resterebbe fuori, a Salvini. Il fatto che ieri Renzi abbia parlato per primo dai banchi del Pd in Senato ha poi alimentato i timori del Movimento. “Come possiamo fidarci se lui conta ancora così tanto?”, è l’ansia ricorrente. “Magari dovremmo tenere uno o due dei suoi nel governo, sarebbe un modo per legargli le mani” è la contro-obiezione dei fautori dell’accordo, in buon numero tra i membri di governo del M5S. “Un passo alla volta ce la faremo”, giura un sottosegretario. Ma è difficile. Anche perché per tenere compatto il Movimento sarebbe fondamentale tenere Conte a Palazzo Chigi. E se andasse diversamente, per i 5Stelle sarebbe un altro guaio: perché un vero nome alternativo da mettere sul tavolo al momento non lo hanno. In questo quadro, dal corpaccione del M5S tornano a proporre “un governo istituzionale nel segno di Mattarella”.

Tradotto, un esecutivo tecnico che dovrebbe fare da stanza di compensazione per alcuni mesi, prima di un eventuale accordo con il Pd. “Proponiamo quattro o cinque punti programmatici al Quirinale e poi vediamo”, è il ragionamento. Soluzione che potrebbe piacere a uno dei più contrari all’abbraccio con i dem, Alessandro Di Battista. “Come possiamo fare un accordo con il Pd, che è il partito più a destra d’Italia?”, ha ragionato in questi giorni il deputato romano con i suoi. Anche perché, ha osservato, “Denis Verdini parla con Renzi esattamente come e quanto parla con Salvini”. Ma Di Battista non vuole il voto, va precisato. “Andare a urne ad ottobre sarebbe ridicolo, le elezioni costano 380 milioni” lo hanno sentito dire. E la sua ostilità al voto in autunno è la stessa del padre fondatore Beppe Grillo. Che però a differenza dell’ex deputato romano spinge a tutta forza per un’intesa con i dem. Grillo è talmente coinvolto, assicurano, che sente quasi tutti i giorni emissari del segretario del Pd Nicola Zingaretti. “L’hanno cercato prima loro”, dicono dal Movimento.

Di certo il Garante predica l’accordo, anche perché lo ritiene l’unico antidoto a un voto che legge come un possibile baratro per il M5S. Una fonte di peso racconta: “Beppe è impegnato in prima persona nella trattativa. È convinto che il Movimento possa redimere quelli del Pd, che quello sia un terreno che si può concimare”.

Un concetto che in sostanza ha ripetuto più volte ai big radunati nella sua casa a Marina di Bibbona domenica scorsa, rievocando il suo tentativo di correre nelle primarie dem, giusto dieci anni fa. Due lustri dopo, il Parlamento è un altro mondo. Ma il Pd resta un osso duro. E il prossimo futuro del Movimento è una pagina che va interamente scritta.

Ineccepibili le critiche al vice, poteva solo evitare di dare del tu

La prima parte del discorso di Conte è ineccepibile nelle sue critiche a Salvini. Chi ha una certa sensibilità quelle cose le ha notate da tempo e non concordo con chi critica Conte per essersi “svegliato tardi”: come in ogni relazione umana anche in politica si ingurgita per un po’, si sopporta finché si può e poi quando si esplode si dice tutto. Semmai ho trovato soltanto fuori luogo il rivolgersi a Salvini dandogli del “tu”, dicendogli “Caro Matteo”. Mi sembra contraddittorio rispetto allo stile dello stesso premier, sempre piuttosto formale e consono all’aula in cui si trovava. Non credo poi che con la seconda parte del discorso, Conte volesse aprire la strada a un programma per una maggioranza alternativa: lui non ha futuro in questa legislatura, se mai ci sarà un altro governo – e non credo sia l’ipotesi più percorribile – difficilmente sarà un Conte bis. È stato comunque un modo legittimo per rivendicare le sue posizioni.

Se lo giudicassi solo dall’aula, l’avvocato sarebbe da 30 e lode

Se dovessi limitarmi a giudicare il discorso in Senato del premier Conte gli darei un 30 e lode. Ha fatto un discorso molto alto, da statista con un’altissima consapevolezza democratica e costituzionale, senza nessuna concessione alla retorica inutile e annunciando una serie di principi indiscutibili. Alla luce di questa giornata è un peccato che il suo percorso politico abbia delle macchie, che coincidono quasi tutte con le eccessive concessioni a Matteo Salvini. Su tutte, cito il caso della Diciotti, per cui la maggioranza ha salvato il ministro dal processo, e l’approvazione dei due decreti Sicurezza voluti dal leghista. Sono entrambe concessioni a quegli stessi vizi di Salvini che lo stesso presidente ha stigmatizzato in aula. Ma ripeto: si è sollevato molti metri sopra le due forze di governo di cui era a capo. Mi riferisco anche ai 5Stelle, perché un Di Maio non avrebbe mai potuto avere l’autorevolezza e la cultura politica che ha avuto Conte.