Il premier conta di restare, ma io non ne sarei così sicuro

Evidentemente Conte, forse confondendo il suo cognome con un titolo nobiliare, pensa di rimanere al suo posto quasi per motivi dinastici: c’è e quindi è legittimato a rimanere, così almeno pensa lui. Ma c’è di più. Molti in Parlamento, dopo la lunga e inaspettata dieta cui sono stati sottoposti, hanno maturato una fame da lupi e desiderano tornare sui seggioloni. Quindi è possibile, molto possibile, che in qualche modo in Parlamento si trovi una maggioranza per non andare a elezioni. Conte, naturalmente, confida di avere un ruolo. Può darsi, ma io fossi in lui non ne sarei certo: ragioni a fondo sulla riemersione di Romano Prodi di questi giorni. Quanto a Salvini, ieri ha detto il vero: è l’unico che non teme il voto. Penso che chi è favorevole a governi istituzionali, di solidarietà nazionale, di unità democratica, più o meno papocchi, non consideri l’ipotesi di rafforzare ulteriormente lui e Fratelli d’Italia. Ma d’altra parte, la fame fa brutti scherzi.

Scolastico e senza pathos, tranne sullo scandalo Rubli

Mi sembra che quello di Conte sia stato un discorso con poco pathos, ha fatto quel che mi aspettavo ma restando molto scolastico. Ha parlato di democrazia, di regole istituzionali. Tutto giusto, ma sempre molto da avvocato, più che da politico. Era una lezione tecnica by the book, un continuo “non ci si comporta così”, persino d’antan come sul passaggio relativo all’utilizzo dei social network. L’unico vero affondo politico interessante verso Salvini lo ha fatto quando ha parlato del caso Savoini, ricordandogli che sarebbe stato opportuno riferire in aula sullo scandalo. Da sottolineare è anche la seconda parte del discorso del premier, quando ha parlato per un quarto d’ora di ecologia, di diritti civili, delle difficoltà del Sud e dei giovani. Sembrava quasi una piattaforma per un Conte bis con il Pd, per quanto difficile sia che vada in porto. Più probabile che alla fine resti come una sorta di testamento politico da parte del presidente.

Sembrava una lezione di diritto e persino di buone maniere

“È la carica che fa conoscere l’uomo”, diceva Biante, uno dei sette sapienti dell’antica Grecia. E ieri se n’è accorto anche Matteo Salvini che del filosofo ellenico non sentiva più parlare dall’epoca lontana in cui sedeva sui banchi del Liceo Classico Manzoni di Milano. Come uno studente messo dietro la lavagna, ha dovuto sorbirsi la dotta reprimenda del suo professore, Giuseppe Conte, che gli impartiva lezioni di diritto costituzionale e di buone maniere (non solo dal punto di vista istituzionale). Risultato: in questo momento Conte è l’unico anti-Salvini presente sulla piazza. Popolare quanto e più del ministro dell’Interno, appare alle persone normali come il solo possibile capo di un eventuale futuro governo M5S-Pd-LeU in grado di contrastare mesi e mesi di cannoneggiamento da parte della Lega e dei suoi numerosissimi accoliti. Ma proprio per questo la riconferma di Conte parte in salita. La politica non è fatta di persone normali. Come questa folle crisi di governo ha plasticamente dimostrato a tutti gli elettori.

Il Capitano lo ricorderemo così, umiliato da metaforici ceffoni

Nella lunga storia delle crisi di governo, non ricordo una requisitoria di un premier così documentata, accurata e implacabile come quella pronunciata da Giuseppe Conte contro il proprio vicepremier Matteo Salvini. Che sedeva al suo fianco, a pochi centimetri, coinvolto fisicamente dalla durezza delle accuse. Il primo, con il linguaggio della parola, picchiava duro per nulla intimorito dalla vicinanza dell’altro, la cui tensione emotiva si manifestava col linguaggio del corpo, con la mimica dei finti sorrisi e delle faccette ora ironiche ora rassicuranti che non rassicuravano nessuno. Ed ecco il famoso Capitano, il sovranista che pretende i “pieni poteri”, l’uomo che ha conquistato pancia in fuori le italiche spiagge, subire una memorabile lezione di coerenza politica e di etica istituzionale (e parecchi metaforici ceffoni) da un signore perfido nel suo garbo. Una scena da non dimenticare. Da oggi lo ricorderemo umiliato davanti al Paese da un premier che a differenza sua non ha paura delle parole. Nessuno sa come finirà questa crisi. Ma sicuramente sappiamo meglio cosa è la dignità in politica. E cosa invece non è.

“Irresponsabile, sleale e opportunista”: così Conte scarica il leghista

Signor presidente del Senato, onorevoli senatrici e onorevoli senatori (…), ho sempre limpidamente sostenuto che, in caso di interruzione anticipata dell’azione di governo, sarei tornato qui, nella sede istituzionale dove inizialmente ho raccolto la fiducia. Tengo a precisare che questa iniziativa nasce dalla profonda convinzione che il confronto in quest’Aula, franco, trasparente, sia lo strumento più efficace per garantire il buon funzionamento di una democrazia parlamentare. (…)

Il giorno 8 agosto 2019 il ministro Salvini, dopo avermi anticipato la decisione nel corso di un lungo colloquio, ha diramato una nota, con la quale ha dichiarato che la Lega non era più disponibile a proseguire questa esperienza di governo e ha sollecitato l’immediato ritorno alle urne. A conferma di questa decisione, la Lega ha depositato in Parlamento una mozione di sfiducia e ne ha chiesto l’immediata calendarizzazione. Siamo al cospetto di una decisione oggettivamente grave, che comporta conseguenze molto rilevanti per la vita politica, economica e sociale del Paese. Ed è per questo che merita di essere chiarita in un pubblico dibattito che consenta trasparenti assunzioni di responsabilità da parte di tutti i protagonisti della crisi.

La politica dei nostri giorni si sviluppa, per buona parte, sul piano comunicativo, affidandosi, come sappiamo, al linguaggio semplificato. È un po’ il segno inesorabile dei tempi. Ma io (…) non posso permettere che questo passaggio istituzionale così rilevante possa consumarsi a mezzo di conciliaboli riservati, comunicazioni affidate ai social, dichiarazioni rilasciate per strada o nelle piazze (…). L’unica sede in cui il confronto pubblico può svolgersi in modo istituzionale, in modo trasparente, è il Parlamento, dove sedete voi, rappresentanti della nazione e dei cittadini. (…)

Innanzitutto, questa crisi interviene a interrompere un’azione di governo che procedeva operosamente (…).

Secondo punto: questo governo era nato per intercettare l’insoddisfazione dei cittadini che, con il voto del 4 marzo, avevano manifestato il desiderio di un cambio di passo (…) che ora viene bruscamente interrotto.

Terzo: questa decisione viola il solenne impegno che il leader della Lega aveva assunto sottoscrivendo il contratto di governo. (…).

Quarto: i tempi di questa decisione espongono a gravi rischi il nostro Paese. Una crisi in pieno agosto comporta potenzialmente elezioni anticipate in autunno (…). Il rischio di ritrovarsi in esercizio finanziario provvisorio è altamente probabile. (…) Il nuovo governo si ritroverebbe nelle difficoltà di contrastare l’aumento dell’Iva e con un sistema economico esposto a speculazioni finanziarie e agli sbalzi dello spread.

Quinto punto: aggiungo che questa crisi interviene in un momento delicato dell’interlocuzione con le Istituzioni europee. Siamo in avvio di legislatura e proprio in questi giorni si stanno per concludere le trattative per le nomine dei commissari. (…) È evidente che l’Italia corre ora il rischio di parteciparvi in condizioni di oggettiva difficoltà e debolezza.

Sono queste le ragioni che mi inducono a valutare come fortemente irresponsabile la decisione di innescare la crisi. Per questa via, il ministro dell’Interno ha mostrato di inseguire interessi personali e di partito. Considero pienamente legittimo per una formazione politica mirare a incrementare il proprio consenso elettorale. (…) Ma quando una forza politica valuta le proprie scelte esclusivamente secondo il metro della convenienza elettorale, finisce per compromettere l’interesse nazionale. (…) Far votare i cittadini è l’essenza della democrazia. Sollecitarli a votare ogni anno è irresponsabile (…).

Aprire la crisi in pieno agosto, quando ormai da molte settimane, certamente già all’esito delle elezioni europee era chiara l’insofferenza per la prosecuzione di un’esperienza di governo giudicata evidentemente ormai limitativa delle ambizioni politiche di chi ha chiaramente rivendicato pieni poteri per guidare il Paese (…) Peraltro, questa decisione è stata annunciata dal ministro dell’Interno subito dopo aver incassato l’approvazione, con la fiducia, del decreto Sicurezza-bis, con una coincidenza temporale che suggerisce opportunismo politico. Palesemente contraddittorio appare, infine, il comportamento di una forza politica che, pur dopo aver presentato al Parlamento una mozione di sfiducia nei confronti del governo, non ritiri i propri ministri. (…)

Amici della Lega, per preparare e giustificare la scelta di far ritorno alle urne elettorali avete tentato di accreditare – permettetemi, maldestramente – l’idea di un governo dei no, del non fare. (…) La verità è un’altra (…).

Caro ministro dell’Interno, caro Matteo, promuovendo questa crisi di governo ti sei assunto una grande responsabilità di fronte al Paese. L’hai annunciata chiedendo pieni poteri per governare il Paese e, ancora di recente, ti ho sentito invocare le piazze al tuo sostegno: questa tua concezione, permetti di dirlo, mi preoccupa. Innanzitutto, nel nostro ordinamento repubblicano le crisi di governo non si affrontano né regolano nelle piazze, ma nel Parlamento. In secondo luogo, il principio dei pesi e contrappesi è assolutamente fondamentale perché sia garantito il necessario equilibrio al nostro sistema democratico e siano precluse derive autoritarie.

Caro Matteo, ispiri la tua azione alle concezioni sovraniste (…). Permettimi allora di richiamare il pensiero di un sovrano illuminato lontano nel tempo, Federico II di Svevia: “Quantunque la nostra maestà sia sciolta da ogni legge, non si leva tuttavia essa al di sopra del giudizio della ragione, che è la madre del diritto”.

Non abbiamo bisogno di uomini con pieni poteri, ma di persone che abbiano cultura istituzionale e senso di responsabilità. (…) Ci sono stati molti episodi e molteplici atteggiamenti che ti ho sempre fatto notare riservatamente (e, purtroppo, a volte anche pubblicamente); (…) se avessi accettato di incontrare le parti sociali a Palazzo Chigi insieme a me e agli altri componenti di questo governo, avremmo senz’altro accreditato agli occhi del Paese maggior coesione della squadra di governo ed evitato che potesse essere compromessa l’efficacia dell’azione comune. Se tu avessi accettato di venire qui al Senato per riferire sulla vicenda russa, una vicenda che oggettivamente merita di essere chiarita anche per i riflessi sul piano internazionale, avresti evitato al tuo presidente del Consiglio di presentarsi al tuo posto, rifiutandoti per giunta di condividere con lui le informazioni di cui sei in possesso. In coincidenza dei più importanti Consigli europei a cui ho preso parte, non sei riuscito a contenere la foga comunicativa e hai reso pubbliche dichiarazioni creando una sorta di controcanto politico che ha rischiato di generare confusione, non ha giovato al tuo prestigio e certo non ha contribuito a rafforzare l’autorevolezza del nostro Paese. In molteplici occasioni hai invaso le competenze degli altri ministri (…). Hai criticato pubblicamente l’operato di singoli ministri (…) quando io stesso ti avevo pregato, all’indomani delle elezioni europee, di riferirmi riservatamente qualsiasi osservazione in ordine alla composizione della squadra di governo.

La cultura delle regole, il rispetto delle istituzioni certamente non si improvvisano, ma sono qualità fondamentali per aspirare al ruolo di ministro dell’Interno o anche di presidente del Consiglio (…).

Permettimi un’ultima osservazione. Questa in verità, lo ammetto, non te l’ho mai riferita: chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare, durante i comizi, di accostare agli slogan politici i simboli religiosi. Matteo, nella mia valutazione questi comportamenti non hanno nulla a che vedere con il principio di libertà di coscienza religiosa, piuttosto sono episodi di incoscienza religiosa, che rischiano di offendere il sentimento dei credenti e nello stesso tempo di oscurare il principio di laicità, tratto fondamentale dello Stato moderno. (…)

Signora Presidente, gentili senatrici e gentili senatori, la crisi in atto compromette inevitabilmente l’azione di questo governo, che qui si arresta. Ma c’è ancora molto da operare. (…).

All’inizio di quest’esperienza, quando il presidente della Repubblica mi conferì l’incarico, dichiarai che sarei stato l’avvocato del popolo, promettendo di difendere con il massimo impegno tutti i cittadini che da subito, pur non conoscendomi, mi hanno dato fiducia e per questo li ringrazio. Proprio in ragione di questo impegno devo oggi concludere. La decisione della Lega mi impone di interrompere qui questa esperienza di governo (…) Viva la nostra patria! Viva l’Italia!

I pontieri 5S-Pd al lavoro, ma l’accordo è difficile

L’inciucio delle poltrone di cui parla Matteo Salvini come cosa fatta è assai meno vicino di come sembra credere il leader leghista. Non che nelle due settimane passate dal momento in cui lo stesso ministro dell’Interno ha posto fine al governo gialloverde i contatti tra 5 Stelle e democratici siano mancati. Anzi, tutti parlano con tutti: ognuna delle cento correnti del Pd s’è affannata in questi giorni a trovare sponde affidabili nel magma grillino e, ovviamente, viceversa.

C’è il capogruppo M5S in Senato, Stefano Patuanelli, cercatissimo di recente pure dai leghisti, che ha avuto modo di scambiare opinioni sulla situazione con la vicesegretaria dem Paola De Micheli oltre ai colleghi senatori. Il sottosegretario Vincenzo Spadafora s’è imbattuto invece in Dario Franceschini, corrente mattarelliana del Pd. Il presidente della Camera, Roberto Fico, che è il pontiere naturale con la sinistra in Parlamento, ha ascoltato le accorate riflessioni, tra le altre, del capogruppo democratico a Montecitorio Graziano Delrio. Si dice che Matteo Renzi, tramite un amico imprenditore, abbia tentato di contattare addirittura Davide Casaleggio (non sappiamo se con successo). Persino Beppe Grillo, dopo aver indicato al Movimento la via del cambio di cavallo “a sinistra” pur di non votare, s’è fatto sentire nientemeno che con Nicola Zingaretti, indicato come unico interlocutore possibile contro “l’avvoltoio persuasore” Renzi.

Il segretario del Pd – che forse controlla il partito ma di certo non il gruppo dirigente o i parlamentari – aveva, com’è noto, assicurato a Salvini che non avrebbe offerto sponde ai 5 Stelle per non andare a votare, ma poi è stato costretto almeno a far finta di fare una trattativa: oltre al colloquio col “Garante” del Movimento, con cui ha parlato anche di un possibile ruolo centrale di Fico nella trattativa e nella il nostro lunedì s’è sobbarcato pure una telefonata con Luigi Di Maio. Non è stato un colloquio semplice e per più motivi.

Zingaretti è disposto a dare il suo infelice via libera a un accordo in presenza di alcune condizioni: che si tratti di un’intesa politica che duri almeno tre anni; che ci sia un totale ricambio delle facce (via Conte, che è una richiesta unanime del Pd, ma via anche lo stesso Di Maio e la maggior parte dei ministri); che l’autocritica della stagione gialloverde passi anche per l’abrogazione di alcune leggi, a partire da pezzi cospicui dei decreti Sicurezza di Salvini. Ecco, il colloquio s’è arenato già al punto 1: il segretario dem ha spiegato al capo politico grillino di non essere in grado di garantire un accordo triennale, perché è ovvio che Renzi – una volta avuto il tempo di fare la scissione che aveva già programmato per l’autunno – si metterebbe a ricattare il nuovo governo e potrebbe farlo cadere in ogni momento.

Ragionamento ineccepibile e contro cui c’è poco da discutere: tanto più che Di Maio, per legittime ambizioni personali e di cordata (il nostro non è disposto a sacrificare i suoi amici Bonafede e Fraccaro), non gradisce moltissimo la proposta del nuovo segretario democratico. Di fatto, un accordo il capo grillino lo stringerebbe più facilmente con Renzi, che è disposto a ingoiare quasi tutto per guadagnare sei mesi, ma non può farlo perché… è Renzi (e comunque Grillo glielo impedirebbe).

La situazione è ovviamente aperta e molto dipenderà dalle scelte di Sergio Mattarella, da ieri sera arbitro della situazione: una delle possibilità già vagliate in casa dem è che, vedendo una possibilità, il presidente della Repubblica – come fece solo in via “esplorativa” nel 2018 – affidi un incarico proprio a Roberto Fico, terza carica dello Stato. A quel punto starà anche a lui proporre soluzioni – e nomi – che tengano in piedi la trattativa per il governo politico. I vecchi navigatori del Transatlantico, però, dubitano che il “grillino di sinistra” abbia lo spessore e le capacità per portare a termine un compito del genere.

Per questo ieri sera era tornato sulla bocca di tutti il cosiddetto “governo istituzionale”, prima opzione di Renzi, che faccia la manovra e accompagni il Paese al voto all’inizio del 2020. A quel punto, però, non sarebbero più i partiti a dare le carte: l’uomo del Quirinale ha già fatto sapere che, in quel caso, sarebbe lui a gestire tutto.

“Ormai il premier è fuori: tocca a Di Maio e Zingaretti”

L’esecutivo gialloverde dell’Avvocato del Popolo alias Giuseppe Conte finisce alle nove di sera, nelle mani del capo dello Stato come prevede la Costituzione. Il premier dimissionario sale al Quirinale per l’ultimo atto di questi quattordici mesi della maggioranza grilloleghista. The end. Un colloquio breve e informale è il sigillo tombale al primo governo populista della Repubblica. Un incontro in cui Conte ha ribadito la sua “gratitudine” a Sergio Mattarella, già espressa nell’aula di Palazzo Madama durante le “comunicazioni” del primo pomeriggio. Nulla di più, come filtra dal Colle. In pratica, il presidente ha accettato le dimissioni del premier, pregandolo di rimanere per espletare gli affari correnti fino al prossimo esecutivo. Chi paventa, dalle parti di Salvini e non solo, un eventuale accordo già benedetto da Mattarella per un Conte bis in salsa demogrillina sbaglia di grosso. Per un semplice motivo, riassunto da una frase che trapela in queste ore dal Quirinale: “Oramai Conte è fuori, adesso aspettiamo Zingaretti e Di Maio”. Ossia, rispettivamente, il segretario del Pd e l’ancora capo politico del M5S.

Solo loro due, infatti, potranno dire al capo dello Stato se ci sono le condizioni, nonché gli uomini e il programma, per fare un governo tra Pd e Cinquestelle. E dovranno dirlo prestissimo, nelle consultazioni lampo che cominceranno oggi, per finire domani, nel tradizionale studio alla Vetrata del Quirinale. “Aspettiamo Zingaretti e Di Maio”, dunque. Sembra lo stesso refrain della maieutica mattarelliana nella primavera del 2018. Solo che al posto di Zingaretti c’era Salvini e l’arte ostetrica del presidente attese pazientemente 90 giorni prima di estrarre il pargolo gialloverde da Lega e M5S. Ma stavolta tutto questo tempo non sarà concesso, se non altro perché il Colle ha l’incubo dell’esercizio provvisorio del bilancio e vuole un governo in carica per la manovra. Tradotto vuol dire: niente incarichi esplorativi, niente creatività nella fantasiosa prassi delle consultazioni. Al massimo un fine settimana di “riflessione”, indi un altro giro all’inizio della prossima settimana. Al Colle, in merito al successo di un’eventuale maggioranza giallorossa, non si sbilanciano. Prudenza, prudenza e ancora prudenza. Le divisioni tra le due forze sono storicamente tante. Ma il primo scoglio sarà quello del nome del presidente del Consiglio. Da un lato c’è Zingaretti che chiede “discontinuità” – non Conte quindi – dall’altro i grillini che invece fanno scudo proprio al loro premier uscente. Basteranno pochi giorni – questa la domanda – per sciogliere tutti questi nodi?

In ogni caso, seppur balneare per nascita, Mattarella chiederà a Pd e M5S un governo politico a tutto tondo. E saranno sempre Di Maio e Zingaretti a indicare con quale prospettiva. Altrimenti, di fronte alla debolezza e alle divisioni (anche interne, si pensi al Pd) non resterà che un governo di garanzia per portare il Paese alle elezioni in autunno.

Da oggi, allora, toccherà all’arbitro del Colle risolvere il nuovo rebus del tripolarismo partorito dalle urne del 4 marzo 2018. Tutti “confidano nella sua saggezza”, persino quel Salvini che ha aperto la crisi tra il 7 e 8 agosto dopo aver chiesto garanzie sul voto anticipato allo stesso Colle, tramite il fedelissimo Giancarlo Giorgetti. Chissà cosa aveva capito il proconsole leghista.

Conte affonda Salvini e dice addio ai gialloverdi

APalazzo Chigi ha già salutato tutti. Prima di pronunciare il suo j’accuse contro Matteo Salvini e di annunciare all’aula del Senato l’intenzione di dimettersi, Giuseppe Conte ha voluto accomiatarsi da chi ha lavorato con lui alla Presidenza del Consiglio. “Si sono commossi”, racconta chi c’era. “E soprattutto gli hanno chiesto: ma davvero non torna più?”.

Quella che nelle previsioni della vigilia doveva essere solo la chiusura del primo round, ieri è diventata molto più simile a un testamento politico. Una presa d’atto perfino feroce dei 14 mesi trascorsi alla guida del governo gialloverde, una rassegna delle buone intenzioni che la crisi di governo ha lasciato incompiute e una dichiarazione di guerra alla Lega che, alla fine, ha preferito ritirare la mozione di sfiducia nei suoi confronti: “Se non avete il coraggio, non c’è problema: me la assumo io la responsabilità, credo sia l’unica conclusione. Vi ringrazio tanto, vado dal presidente della Repubblica”.

Sono le 20:25: cinque ore e mezza, tanto è durato il dibattito sulla crisi in Parlamento. Ma per farsi un’idea della giornata bastava fermarsi alla prima metà dell’intervento di Conte: quella, in estrema sintesi (ampi stralci del discorso li trovate a pag. 4 e 5, ndr) in cui il presidente del Consiglio dimissionario ha accusato il leader della Lega di un’infinità di scorrettezze e malefatte, fatta eccezione forse solo dell’abuso di mojito in riva al mare.

Conte è impietoso e ha personalmente voluto affondare contro il suo vice. “Gliele ho già dette tutte in privato – è stato il suo ragionamento – non ha senso andare per il sottile”. E così, giù con la “preoccupazione” per un leader di partito che “chiede pieni poteri e invoca le piazze”, giù con “l’irresponsabilità” di chi pensa si possa andare a votare una volta l’anno, giù con chi “non ha cultura istituzionale”, chi “segue i propri interessi personali” ed è “incosciente” anche quando agita rosario e crocifisso. Parla di “responsabilità” Conte, a cominciare da quella di non lasciare senza governo un Paese prima della legge di Bilancio. “Merkel! Vai con la Merkel!”, è il ritornello che gli lanciano dai banchi del Carroccio. “Maestrina! Non fare il professore!”, lo irridono, mentre lui fa l’elenco delle cose fatte. “Questo è anche il vostro lavoro”, li gela lui, che fino all’altroieri si fidava degli “amici della Lega”. Ma adesso a Conte ritornano in mente la marea di cose che ha dovuto ingoiare in silenzio (“leale collaborazione – dirà nella replica finale – significa anche che il presidente del Consiglio non entra nella polemica politica quotidiana”): dalla convocazione dei sindacati al Viminale fino alla fuga dal Parlamento sul caso Metropol, dal mancato rimpasto al “controcanto” che Salvini gli ha fatto in occasione di ogni appuntamento europeo.

“Tra un po’ cita anche i 49 milioni…!”: gli scranni della Lega sono ormai una curva da stadio. Matteo Salvini finge di volerli calmare, seduto al banco di governo che ha ostentatamente occupato nonostante i Cinque Stelle non glielo avessero fatto trovare libero. Poi però, quando Conte finisce di parlare e lui sale al suo posto da senatore per rispondergli a nome del Carroccio, è il ministro dell’Interno ad aizzare cori e tifosi, contro chi “a tavolino, da settimane se non da mesi, pensava a un cambio di alleanza”. Non fa cenno alla mozione di sfiducia che ha firmato: “Avete scelto il bersaglio, eccomi”, tuona come se la vittima fosse lui. Il socialista Nencini, dalla parte opposta dell’emiciclo, lo accontenta: “Facci vedere le stimmate!”.

È tutto piuttosto surreale, compreso l’intervento di Matteo Renzi, subito dopo, che ha passato il tempo a chattare al cellulare e adesso dichiara serissimo che “prima vengono le istituzioni e poi i risentimenti personali”. Gira per Palazzo Madama come il capo dei responsabili. Ma Conte sa che non è lui quello che vuole salvare. E i suoi hanno già capito che aria tira: “Il Pd non lo può accettare. E nemmeno lui ha voglia di finire in mezzo ai giochetti. Tutti danno per scontato che lui voglia fare il bis: ma, semmai, lo dovranno pregare”. Vista da qui, non sembra proprio che ci sarà la fila.

Chi ha paura di Conte

Rivedendo la nostra copertina sulla sfida all’Ok Corral e parafrasando Clint Eastwood, possiamo tranquillamente dire che quando un pistola incontra un uomo col fucile, il pistola è un uomo morto. Ieri Conte ha sottoposto Salvini al trattamento dell’asfaltatura completa, aiutato dall’ennesimo harakiri mediatico del Cazzaro Verde che si è piazzato al suo fianco sperando di spaventarlo e poi riducendosi a fargli le faccette: solo che era seduto sotto, in posizione di minorità rispetto al premier in piedi che lo prendeva a sberle dall’alto al basso, con una lezione di politica, democrazia, diritto parlamentare e costituzionale, ma anche di dignità e di stile allo scolaretto bullo e somaro. Il quale ha raddoppiato l’autogol parlando subito dopo e rendendo ancor più evidente l’abisso morale, intellettuale e dialettico che lo separa dal premier, con un discorso sgangherato, senza capo né coda: doveva almeno spiegare la crisi più pazza del mondo, invece se n’è scordato o non sapeva che dire. Meglio sbaciucchiare rosari e sacri cuori, fra gli applausi dei leghisti più pii, tipo Calderoli che si sposò col rito celtico davanti al druido.

Il confronto ravvicinato fra quei due modelli politico-antropologici crea, agli occhi degl’italiani, un nuovo bipolarismo tutto nel campo “populista”. Conte, a dispetto della doppia propaganda leghista e sinistrista, non è uomo dell’establishment né del vecchio centrosinistra. È l’interprete più apprezzato di un populismo-sovranismo dal volto umano che ottiene risultati in Italia e in Europa, diversamente da quello parolaio, inconcludente e dannoso delle destre. Perciò, oltreché per capitalizzare i sondaggi e liberarsi delle indagini, Salvini ha rovesciato il governo: Conte stava crescendo troppo per lasciargli altro campo libero da fiore all’occhiello del M5S. È lo stesso timore che anima Zingaretti e Renzi, divisi su tutto fuorché sull’ostilità a Conte, tanto comprensibile per ragioni di bottega quanto miope per gli interessi dell’Italia: se mai nascesse un governo M5S-Pd, l’unica speranza di renderlo popolare sarebbe di affidarlo all’“avvocato del popolo”. Ieri è bastato sentirlo parlare, in un dibattito parlamentare di livello infimo, per instillare in tutti una domanda spontanea: ma perché uno così deve dimettersi? E perché non lo rincorrono tutti per affidargli il nuovo governo? Se non per convinzione, almeno per convenienza, essendo Conte da mesi l’unico leader che batte Salvini nei sondaggi. Figurarsi dopo ieri. Ora il Cazzaro è al punto più basso della sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui.

Il cielo dell’Istria: vedi Pola e poi piove

Siamo arrivati da poco più di 12 ore e il cielo è già nuvolo. Da buona meridionale, decido lo stesso di andare al mare. Siamo venuti fino a Rakalj (400 anime, un alimentari e un pub) per scoprire le meraviglie dei golfi istriani: mica possiamo farci abbattere da qualche nuvola. Subito dopo pranzo, però, la situazione non migliora, anzi. Parte la proposta: “Ragazzi, andiamo a visitare Pola!”. Mugugni tra i figli, ma alla fine ok: doccetta e di nuovo in auto (siamo reduci da otto ore di autostrada il giorno prima). Bellissima città, Pola, lasciata un tantino abbandonata: spettacoli di finti centurioni nell’Arena (e poi ci lamentiamo dei figuranti al Colosseo…), un anfiteatro romano abbandonato con scritte in cirillico e di fronte le tubature idrauliche di un palazzo in costruzione, vicoli presi d’assalto dai tavolini selvaggi e una lunga schiera di antichi cannoni sopra i quali i maleducati passeggiano indisturbati. Ma vabbè, niente ha potuto rovinare questo pomeriggio da turisti. E infatti, una volta ripresa la macchina, mia figlia mi chiama entusiasta: “Mamma, guarda che cielo!”.

Uno spettacolo: metà azzurro striato, metà nero pece. Incredibile la natura qui in Croazia. Soprattutto quando quella pece si trasforma nella peggiore bufera di vento e pioggia che io abbia mai visto – anzi, subìto – in vita mia. Guidando. Per percorrere 30 km ci mettiamo un’ora e mezza. Non si vede nulla. Il vento spazza gli alberi ai lati della strada, piove talmente tanto che sembra di stare sotto lo scroscio del lavaggio rapido. Provo a fermarmi, ma un palo che oscilla pericolosamente mi sussurra che è meglio ripartire. I bambini sono terrorizzati, io pure e nella mia mente – sono pur sempre una signora – tiro giù delle parolacce che neanche a Bari Vecchia. Alla fine arriviamo sani e salvi, ci chiudiamo in casa e aspettiamo il domani. Tanto pioverà di nuovo.