Il “mansueto” premier che ha messo tutti in riga

 

”Il mansueto Giuseppe Conte l’ha accusato dì slealtà e ansia di potere”.

Gad Lerner a proposito di Matteo Salvini La Repubblica

 

Giuseppe Conte è così “mansueto” (aggettivo, dice il dizionario, che denota mitezza o docilità naturale o acquisita) che quando Matteo Salvini si presentò a Palazzo Chigi con aria padronale, per dire che ora basta, lui staccava la spina al governo pretendendo dal premier le dimissioni immediate per accelerare i tempi elettorali, il mansueto Conte gli rispose manco per niente. Anzi, quella sera stessa, invece di adoperarsi per salvare la poltrona, oppure averne un’altra in cambio tipo quella di commissario europeo come avrebbero fatto molti sui predecessori tutt’altro che mansueti, il docile presidente del Consiglio si presentò in tv per promettere agli italiani che per quanto lo riguardava quella provocata dal vicepremier leghista sarebbe stata “la crisi più trasparente che si ricordi”. Detto fatto. Perché se l’uomo che una settimana fa o giù di lì chiedeva “i pieni poteri per fare quello che dobbiamo fare”, adesso vaga piagnucolando pentito, con evidenti sintomi da dopo sbornia, il merito è del mite, mitissimo Conte.

Così come i Cinque Stelle è lui che devono ringraziare se per la prima volta dall’inizio della sciagurata alleanza gialloverde si godono l’ex (ci auguriamo) alleato bullo costretto nel ruolo del piazzista fallito disposto a inondarli di poltrone e sofà, (e a cedere “mio malgrado” sullo sbarco dei minori della Open Arms) pur di non perdere la sua di poltrona e quelle dei suoi ardimentosi manipoli.

E infatti se nel Carroccio si sta facendo strada l’idea che il famoso Capitano è in realtà un caporale da spiaggia che li sta portando alla rovina, il merito è sempre di questo strano premier, che tanti eminenti colleghi, forgiati evidentemente in qualche rude fight club, si sono divertiti a descrivere come un signor nessuno premiato dal Superenalotto sotto forma di Palazzo Chigi, uno smidollato politico, una marionetta, il vicepremier dei suoi vicepremier. Senza contare le fake news sui suoi falsi titoli accademici che nutrirono irridenti paginate, oltre che fieri editoriali schiumanti indignazione.

Forse perché, chissà, questa sua fissazione di rendere trasparente la crisi sta originando qualche problemuccio anche per lo stimatissimo (dagli indignati) Nicola Zingaretti che, dicono i maligni dalle parti di Rignano sull’Arno, già pregustava il nuovo ordine scaturito dal voto anticipato: a Salvini i pieni poteri, al Pd zingarato l’opposizione di sua maestà, ma soprattutto i grillini spazzati via. Evvai. Ma tu guarda un po’ che casino ti combina il mansueto avvocato da Volturara Appula.

A cui nel nostro piccolo non finiremo mai di dire grazie. Per avere ricondotto nel pieno rispetto della democrazia parlamentare una rissa da angiporto. Per ciò che avrà da riferirci sul conto dei guappi di cartone, martedì nell’aula del Senato. E per avere acceso la luce e, sorpresa sorpresa, averli beccati tutti quanti col sorcio in bocca.

Gesù annuncia il fuoco, segno di purificazione per giudicare l’umanità

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera” (Lc 12.49-53).

Arduo il Vangelo di questa ventesima domenica del tempo ordinario. Viene proposta una Parola che scuote, mette movimento, scombina gli assetti stabili e ripetitivi delle nostre esistenze, soprattutto le nostre relazioni vengono poste diversamente dall’ovvietà. Ci si chiede di prendere posizione! Sorprendono queste espressioni dal momento che vengono dalle labbra di Gesù. Se ripensiamo, però, alle parole del vecchio Simeone presente al tempio per la circoncisione del bambino Gesù, esse non ci sconvolgono: Egli – disse infatti l’anziano profeta – è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori (Lc 2, 34). Questo segno di contraddizione coinvolge la nostra stessa carne, penetra le nostre vite per trasformarle ed attrarle verso di sé. Questa “buona notizia” ci attira verso la novità che essa annuncia e compie dando coraggio contro il male. L’apparente contraddizione esistenziale, infatti, è motivata dall’Amore che svela il bisogno di vita del nostro cuore e avvicina l’uomo all’immagine e somiglianza che porta inscritta in sé. Icona, dalla prima lettura, è la vita del profeta Geremia, chiamato da Dio a destinare la propria esistenza totalmente all’annuncio del Regno di Dio. Missione sempre accompagnata dalla persecuzione, dall’opposizione e dall’incomprensione dei propri connazionali, tanto da portarlo a un passo dalla morte proprio per mano dei più vicini, dei destinatari della Parola di Dio. Bisogna lottare con la propria vita contro l’arroganza del male. Questo intende Gesù quando annuncia separazioni e lotte all’interno dei legami affettivi, forti e coinvolgenti. Non raramente, anche noi possiamo incontrare una certa freddezza nel momento in cui manifestiamo apertamente la nostra fede sul luogo di lavoro o a scuola, a volte anche all’interno delle nostre stesse famiglie e in società, negli ambiti della ricerca sul benessere della vita umana come nel concepire criteri per un’efficace e corretta integrazione tra migranti diversi. Il fuoco annunciato da Gesù indica purificazione per giudicare la nostra umanità. Si tratta della nostra stessa condotta illuminata dall’originalità del vangelo.

La predicazione e l’azione di Gesù suscitano una scelta necessaria, fatta per sempre e non più procrastinabile. La logica pasquale non ci permette di sottrarci al giudizio dell’amore di Dio che sana e purifica, che ci chiede accoglienza incondizionata, ma libera e creativa, del Suo progetto: immergerci totalmente (“battesimo”) nella volontà di Dio Padre. Solo questa immersione può donarci la gioia di mantenere vivo il fuoco della pace di Cristo, quella conquistata attraverso la fatica del discepolato, che è logica di contraddizione non certo irragionevole, ma sicuramente impegnativa e profetica, che promette un’umanizzazione dell’uomo sempre più compiuta, liberata dal male e dalla paura della morte.

 

Tutela del clima, non lasciamo soli i nostri ragazzi

Due nuovi rapporti sul clima elaborati dalle massime autorità scientifiche pubbliche internazionali, l’Intergovernmental Pannel on Climate Change (scritto da 107 scienziati di 52 paesi) e l’European Environmental Bureau (143 organizzazioni di 30 paesi), confermano che i sistemi economici sono ancora completamente fuori controllo rispetto all’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura terrestre. Lo Special Report dell’Ipcc, Climate Change and Land, presentato a Ginevra il 2 agosto, si occupa degli impatti del riscaldamento climatico sull’agricoltura e quindi sull’alimentazione confermando le previsioni più drammatiche in particolare per le popolazioni delle regioni tropicali e subtropicali. Perdita di fertilità dei suoli, deforestazioni, salinizzazione dei fiumi, crisi idriche e molteplici altri fattori di stress genereranno carestie, conflitti e sempre più pesanti migrazioni interne ed esterne ai paesi colpiti. Interessante è sapere che secondo l’Ipcc (in accordo in questo con la Fao) il 38% delle emissioni globali di gas serra di origine antropica è dovuto proprio al sistema alimentare industrializzato ipertrofico causato soprattutto dalla filiera della carne di allevamento di bovini e altri ruminanti. La zootecnia e l’agricoltura chimicizzata, che, secondo i fautori della “rivoluzione verde”, avrebbero dovuto risolvere la “fame nel mondo”, in realtà si rivelano una delle principali cause della distruzione dei sistemi socioeconomici locali e di sussistenza delle popolazioni contadine.

Ancora più esplicito, già nel titolo, lo studio dell’Eeb presentato 8 luglio: Decoupling Debunked. Why green growth is not enough. Ovvero, la ipotesi teorica sostenuta da tempo dai governi e dalle agenzie dell’Onu secondo cui lo sviluppo delle tecnologie “green” avrebbe consentito di “disaccoppiare” la crescita economica dai danni provocati agli ecosistemi naturali (inquinamenti e prelievi di risorse non rinnovabili) non si è rivelata vera, non regge alla prova dei fatti. Il Pil mondiale continua ad aumentare – è vero – ma non diminuisce affatto la pressione dei sistemi economici in atto. La “crescita verde”, insomma, è una chimera, si è rivelata per quello che è: un modo per fare aumentare i business delle imprese più avanzate (comprese quelle impegnate nelle energie rinnovabili) e i consumi delle persone più sensibili, ma non ha modificano i bilanci globali di materia e di energia impiegati nei cicli produttivi. Molto spesso – documenta il rapporto dell’Eeb – l’aumento di efficienza dei macchinari si traduce solamente in una aggiunta di merci immesse sul mercato. Altre volte si tratta solo di uno spostamento dei problemi da una matrice ambientale a un’altra, da una materia prima in esaurimento a un’altra ancora più rara, da una regione a un’altra attraverso l’esternalizzazione delle produzioni più sporche in paesi con minori protezioni ambientali. “Il disaccoppiamento – scrivono i ricercatori – ha fallito nel raggiungere la sostenibilità ecologica che aveva promesso”. Che fare, allora? Hanno ragione i ragazzi di Fridays for future, gli attivisti di Extintion rebellion, dei movimenti contrari alle grandi opere energivore e dannose e di quanti si battono per un cambiamento radicale del modello socieoeconomico che metta l’economia nei binari della salvaguardia ecologica e della giustizia umana. Il 27 settembre ci sarà una nuova giornata di sciopero mondiale per il clima. Non lasciamo i millennials da soli a fare i conti con il mondo che gli lasciamo! Se ci pensiamo bene, vedremo che i negazionisti del cambiamento climatico, alla Trump e Salvini, sono gli stessi che in campo sociale portano avanti politiche improntate sull’esclusione, sul disciplinamento di censo, sul sciovinismo nazionalista.

Il nuovo linguaggio di chi comanda (ora)

Il regime del “cambiamento” ha portato, come promesso, una rivoluzione. È una rivoluzione del linguaggio, è stata profonda, estesa e sarà difficile da sradicare persino se questa strana associazione di non valori dovesse davvero dissolversi.

Si tratta di una serie di variazioni della lingua che descrivono in modo alternativo la realtà (celebrazione della fine mai avvenuta della povertà, da un balcone di Palazzo Chigi) oppure interpretano in modo irreale gli eventi (quando tutto il governo si era dichiarato corresponsabile del “Sequestro di persona”, imputato a Salvini da una Procura della Repubblica, dopo il prolungato impedimento all’approdo della nave militare italiana Diciotti, che aveva salvato migranti in mare) mentre era noto e pubblico che Salvini non si era consultato con nessuno. Anche la dichiarazione “porti chiusi” è stata lasciata proclamare al ministro dell’Interno (che non ne ha da solo l’autorità), senza che alcuna istituzione notasse il furto di potere, di deleghe e la sovrapposizione arbitraria alle funzioni del presidente del Consiglio. Nessuno poi ha voluto notare l’arbitraria dichiarazione di chiusura dei porti come fatto legale e irreversibile in un Paese tutto mare, coste e porti, ovvero una decisione contro la natura e la storia del Paese, oltre che contro la Costituzione, le leggi e i trattati internazionali. Perché stiamo parlando non di visti, ma di soccorso in mare.

Un altro cambiamento radicale , che trasforma l’intero discorso politico, ma anche il lessico del normale parlare e spiegare, è lo scambio fra la parola “migrazione”, che vuol dire fuga per salvarsi, e “sicurezza”. Il cambio di parole significa che salvare non è aiuto per gli altri ma pericolo per noi, proprio mentre l’Italia è fornitrice di armi per le guerre che portano alla fuga, sponsor di un feroce e irrisolvibile conflitto in Libia, di cui siamo fornitori (di armi, di istruzioni militari, di motovedette anti-migranti), e siamo soci in affari (petrolio). Questo cambio di linguaggio che celebra il lasciar morire in mare, un atteggiamento che cancella la civiltà di un Paese (ma c’è anche chi esige senza vergogna l’affondamento immediato di una nave che ha salvato qualcuno) è uno sfregio alla storia italiana che, d’ora in poi, porterà su di sé il marchio di morte dei nuovi protagonisti e dei personaggi che, fra confusione e illegalità, tuttora governano, come il ministro ex ministro dell’Interno, come il suo capo che non condivide ma non lo dimette.

Qui vi rendete conto che avete a che fare con il linguaggio di una “legge” detta “Sicurezza Bis”. In essa tutto è falso nelle premesse (ovvero i fatti che giustificherebbero le misure giuridiche) e tutto è illegale, incostituzionale e opposto ai trattati che vincolano ogni Paese civile, incluso il nostro, quanto alle “disposizioni di legge”. Le punizioni sono talmente enormi (lo ha osservato con celata sorpresa il capo dello Stato) da far pensare a un tetro gioco della paura che non ha niente a che fare con le nostre istituzioni, ma rappresenta e scrupolosamente accetta con obbedienza le strane leggende sul complotto di Soros che organizza, attraverso persone pretenziose come Carola e probabili trafficanti di esseri umani come Medici senza Frontiere, la sostituzione de i bianchi operosi e attivi, con i negri dei vizi e degli stupri, che vengono mantenuti a “spese degli italiani”. Qui entra in scena uso mai avvenuto prima di parole chiave del discorso politico. Perché gli africani devono morire in mare prima di raggiungere le nostre coste?

Perché lo vogliono e lo chiedono gli italiani. Sì, ti dicono esattamente così: gli italiani. Coloro che sostengono la politica della eliminazione e della morte di coloro che pretenderebbero di diventare cittadini, sono gli italiani. Quali italiani? Tutti gli Italiani. Non li vedete sulle spiagge, dove gli italiani si radunano per festeggiare il capo orda, in tenuta da spiaggia (se non è in divisa da poliziotto) nelle feste dove si celebrano nuovi sgomberi, ovvero andare in forze, di notte, a buttar fuori di casa la gente senza casa così che, se non si è perduta in mare, si perda almeno nelle strade delle città che non li vogliono. Non dimenticate. Ogni cosa che fanno è al servizio e per ordine degli italiani. Si intende che chi si oppone è fuori, non è italiano, è anti-italiano, nemico degli italiani, nemico dei confini, dei porti chiusi, del blocco navale e dei complotti (dell’Europa, dell’euro, dell’ebreo George Soros) contro l’Italia che ha pronti tanti progetti e tanto lavoro, se l’immigrazione e tutto quello che spendiamo per gli stranieri non lo impedisse. Ricordate il bambino rom Rayane che portava un pacco di libri mentre lo cacciavano di casa a Primavalle, una notte di giugno? D’ora in poi, per tutti quelli di noi che non vogliono essere gli italiani di Salvini (leader della nazione dopo aver messo il tricolore nel cesso secondo il comando di Bossi) quel bambino deve diventare il simbolo di tutto ciò che resta di una devastata civiltà italiana.

Andrea è tornato in Sicilia: Teresa lo stava aspettando

Lo sapeva. Avrebbe trovato strade vuote e case chiuse, basolato bollente d’un sole che arma guerre senza trattativa e di caldo uccide, basilico secco nelle graste, rametti polverosi di rosmarino, l’eco dei suoi passi tra i vicoli, tanfo d’olio e vino in fuga dai dammusi.

E quello trovò.

Gli avevano detto: “Tornare lì a ferragosto? Ma sei pazzo?”. Gli avevano detto che la gente sarebbe stata via da oltre un mese, che vecchi a guardianìa non ce n’erano più, che le famiglie se ne sarebbero state a bivaccare sulle spiagge delle creme solari, delle paste al forno nelle borse termiche, del beach volley, delle fette d’anguria a lavarcisi muso e faccia. “Pure la farmacia chiude. E non c’è medico. Se ti piglia un colpo, hai voglia di morire!”. Quello trovò. Quello voleva trovare.

Camminava. La testa riparata dal cappello, il bastone in mano, il completo chiaro di lino, in tasca la forbice che andava sbattendo contro la chiave che un tempo aveva sfermato il portone di casa sua. Camminando contava la minutaglia di momenti che aveva vissuto tra quelle strade che irraggiavano vicoli storti come le rughe d’un vecchio. Le cicale, ora come allora, continuavano a sfinirsi nell’aria.

Si fermò. Poggiò le mani sul muro di quella che era stata la casa del dottore. Ricordò la volta in cui era venuto a farsi cucire il braccio dopo una caduta. La moglie del dottore era bellissima, ne erano tutti innamorati. Quando morì – giovane, d’infarto – la chiesa traboccò di folla, d’un silenzio attonito che chiuse le bocche pure ai contaballe. Poggiò le mani sulla porta di quella che era stata la putìa di Violetta. Gli parve di sentire le grida giocose dei carusiddi con cui aveva spartito pane e mortadella, limoni conditi con olio e peperoncino, la prima sigaretta, la prima scazzottata, il primo bacio (a Teresa che sapeva di limone e peperoncino), il corpo nudo di Violetta che si lavava (guardando con Santino dal buco della serratura, e ritrovandosi con le mutande allagate), la prima ubriacatura di un vino nero e denso, che non gli aveva dato ebbrezza ma solo nausea. Era venuto con l’intento preciso di trovare tutto ciò, e darci un taglio. Perciò la forbice. “Vada” gli aveva detto il dottore continentale a cui raccontava gl’incubi con cui non poteva più convivere, “recida le radici”.

Infilò la mano in tasca, il tocco del ferro gli provocò un gran sollievo. Quella in cui si trovava era una Sicilia aspra che nulla aveva dei cliché, non commissari, non buttane in offerta di sé, non caponate, peperonate, granite, brioche, gelati con la brioche. Una Sicilia che s’andava piangendo i morti di cui nessuno parlava, quelli che non furono eroi del bene o del male, quelli che disubbidirono e perciò morirono, quelli che dovettero lavorare fino a che il lavoro non li ammazzò. Una Sicilia masticata a pane e pietre quand’era bambino, e da cui era poi fuggito.

La forbice brillò nel sole.

Il primo a cadere fu un cordino che spenzolava da un davanzale: zac, un colpo e via. A quello erano legati tutti i baci di Teresa. Zac, via la canapa stinta a cui era appizzata la carezza che aveva ricevuto dalla moglie del dottore. Via la corda su cui sua madre aveva steso i panni nelle giornate di vento che le spaccava a sangue le mani. Via il cordone tra lui e sua nonna. Via il tuppo di sua nonna. Via il sorriso di Angela, la treccia di Elisa, gli occhi di Santino, il pugno, il grugno, il sale e il miele, via, via! Sforbiciate e colpi come pazzi contro i legni delle porte, contro le crepe dei muri in cui s’annidava l’erba di vento. E silenzio e cicale e denti di forbice a smozzico del tempo. Poi accadde.

Tutto insieme accadde: la campana che batte il mezzogiorno, il fracasso di una finestra che si apre, la secchiata d’acqua gelida addosso, la voce che dice: “A rifriscu di l’armuzzi do priatoriu”, la sua che controbatte: “Oggi è quindici. L’acqua a rifrisco delle anime del purgatorio si butta a mezzogiorno del quattordici”, una risata cristallina, lui che alza gli occhi e la vede. Teresa è lì. Che lo guarda e ride e: “Finalmente” dice.

Lui rabbrividisce nonostante il sole. Il cappello è rotolato in mezzo alla strada, il bastone è caduto di lato. Si guardano come quando lui se la mangiava con gli occhi e lei faceva finta di non vederlo. “Acchiana” fa lei. Il portone si apre con uno scatto. La scala è di pietra, semibuia, freschissima. In cima alla scala, vestita di bianco, la Teresa di sempre gli porge la mano. Lui fa per stendere la sua, ma lei: “La forbice” dice. “Cosa?”. “La forbice”.

Gliela porge. Lei si volta, apre la finestra che dà sull’orto. Nell’orto c’è un pozzo con la bocca sempre aperta. È lì che la butta. Lui non la vede cadere, sa esattamente, però, che vi finisce dentro, lo sa prima ancora di sentire lo splash dell’acqua che la riceve.

Poi, dopo un tempo che pare più lungo dei quarant’anni trascorsi lontano da lì: “Lo sapesse, Vossia, da quanto l’aspetto?” domanda lei. E siccome lui non apre bocca, “Lo sapesse, Vossia, da quanto tempo la chiamo?”.

Dovrebbe dirglielo al dottore continentale che quello fu canto di sirena e non incubo. Ma chi ci pensa, ormai, al dottore continentale?

Andrea piano piano ride. E il tempo si scòzzola, e ora e ieri si fanno cerchio intorno a un dito intanto che, nella camera che fu di Violetta, Teresa si spoglia.

Oltre il mito (e pure i Beatles): le 900 settimane degli Abba

Novecento settimane di presenza nella classifica della Gran Bretagna. Nessuno è mai riuscito a fare altrettanto, nemmeno i Beatles. Anzi, anche nella classifica di vendita degli album inglesi, il quartetto di Liverpool è stato scalzato dalla seconda posizione alla terza con un capolavoro chiamato Sgt. Peppers. L’impresa è riuscita all’album Gold, il Greatest Hits contenente tutti i successi del gruppo svedese degli Abba.

È la definitiva sentenza a sfavore di chi ha sempre sottovalutato il quartetto vincitore dell’Eurofestival del 1974 con la grintosa Waterloo, sempre derubricato in una sorta di limbo di easy listening. In realtà il tempo è stato galante con le due coppie Björn Ulvaeus e Agnetha Fältskog e Benny Andersson e Anni-Frid Lyngstad, facendo lievitare nell’arco di cinquant’anni – tanti quanti sono passati dalla loro nascita – il numero degli album venduti (stimati tra i 200 e i 400 milioni). Ma ancora più dei dischi venduti è il loro mito a essere cresciuto a dismisura sin dalla loro separazione, avvenuta nel dicembre 1982 (nella vita artistica e, prima ancora, in quella privata), soprattutto attraverso il musical Mamma Mia!, il più visto di tutti i tempi con oltre sessantuno milioni di spettatori. Il musical, apparso per la prima volta a Londra nel 1999 è diventato poi un film nel 2008, capace di far schizzare nuovamente la musica degli Abba in cima alle classifiche del mondo. Il film è anche il dvd più venduto di tutti i tempi (cinque milioni di copie). Alcuni autorevoli mensili inglesi hanno ribattezzato gli Abba i Beatles degli anni settanta, per la loro capacità di coinvolgere non solo attraverso la musica ma diventando icone pop alla stessa stregua di Elvis, Bowie, Queen e pochi altri.

Rispetto agli spunti intellettuali dei Beatles, gli Abba hanno fornito – per primi nello spettacolo – un compendio sviscerato delle relazioni sentimentali vissute in diretta sotto gli occhi del pubblico. Le foto in rete con Agnetha e Björn in cucina intenti a baciarsi sono diventate uno specchio dell’iconografia degli anni sessanta: ci sono immagini delle loro casette in campagna in Svezia portatrici di un linguaggio genuino e un po’ naïf di un amore vissuto generosamente, con lo stesso affiatamento nella vita artistica. L’immagine vincente è stata la coppia di ragazze bionda e rossa di Mamma Mia, i costumi glam rubati a Marc Bolan di Waterloo, i video con i canti di Fernando vicino a un falò su uno sfondo stellato – quasi una messa cantata –, i balli un po’ impacciati sulle note di Dancing Queen (a rappresentare non la star ma la gente comune), gli sguardi maturi di due coppie ormai compassate durante una partita a Ludo in The Name Of The Game, l’immagine “acqua e sapone” di Knowing Me Knowing You sino alla catarsi finale della loro carriera con la struggente ammissione di impotenza di Agneta sulle note di The Winners Takes It All, il più grande manifesto di incomunicabilità nella storia del pop. In ogni canzone del quartetto ci sono tutte le sfumature del sentimento, dalla gioia iniziale alla riflessione dolorosa della fine, il romanzo popolare è servito ed è mille volte più potente di un film perché è tratto non da una ma da due storie – sentimentali – vere. Sono stati pure fenomeno di massa e di costume: come dimenticare Take A Chance On Me, diventata inno nei club gay grazie all’eccentrico video originale e alla cover degli Erasure? L’apprezzamento della critica è iniziato solamente dopo l’uscita di S.o.s., la prima vera canzone fuori dall’immaginario del Mulino bianco tutto rose e fiori e dalla versione dal vivo degli U2 di Dancing Queen durante lo Zoo Tv Tour.

Oggi, dopo aver veicolato per cinquant’anni la stessa immagine degli esordi, esattamente come Mina e Battisti in Italia, i quattro hanno deciso di accontentare i fan e incidere due inediti: I Still Have Faith In You (quasi una sorta di sequel a The Winners Takes It All, questa volta più ragionevole) e Don’t Shut Me down. Le canzoni dovevano uscire già entro marzo di quest’anno ma Björn – vera mente compositiva del quartetto – ha deciso di fare un ulteriore rimissaggio dei brani e ha annunciato la pubblicazione delle nuove canzoni nel mese di novembre.

Inoltre è quasi in dirittura d’arrivo il primo tour multimediale degli avatar del gruppo – secondo i rumours avrà con una tecnologia innovativa mai vista – ideato da Simon Fuller (ex manager delle Spice Girls). Considerando che nel 1977 per prenotare i 5.272 biglietti alla Royal Albert Hall di Londra arrivarono 2,5 milioni di domande è facile prevedere il successo del prossimo futuristico show.

Placido Domingo, le vittime oggi sono i personaggi famosi

L’ultimo a essere pizzicato è Placido Domingo. Ottimo tenore, decenni fa; i miei sparuti lettori ben sanno quanto lo disistimi da quando, non rassegnandosi a por fine a un’onorevole carriera, ha tentato ridicolmente di trasformarsi in baritono e direttore d’orchestra. Il mio giudizio ha aumentato, se possibile, l’acerrima avversione che verso di me nutrono quei cretini che, alla francese, vengono chiamati “melomani”: errore giusto, perché i “musicofili” non sono “pazzi” (dalla radice “mane”) e possono persino essere persone intelligenti. Ma Domingo – ecco il punto – è stato espulso dal mondo musicale perché accusato di “molestie sessuali”: come sempre, risalenti a decenni fa. Ciò non rileva sul fatto artistico. Siamo nel 1984 di Orwell?

Uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi, James Levine, sebbene paralizzzato e costretto alla sedia a rotelle per il morbo di Parkinson onde è affetto, è stato ignominiosamente considerato un mostro indegno esercitare l’arte perché un tale, trent’anni fa ragazzo, gli ha imputato una relazione sessuale nata dal metus reverentialis dal grande Maestro esercitata nei suoi confronti. Questa è stata la più infame di tutte, considerato lo stato in cui il sommo musicista versa: lui, che ha fatto grande il Metropolitan, temo addirittura non ne abbia per molto. E, più indegna di tutto, il suo successore, omosessuale dichiarato, s’è “indignato“ accusando il predecessore e affermando che gli omosessuali debbono essere “perbene” e “sposati.” Una caricatura dell’impiegatuccio. I rapporti sessuali sul luogo di lavoro m’ispirano disgusto. C’è sempre un potere, più o meno osteso, esercitato dalla parte agente o incitante (chiamiamola così perché a definirla attiva, riderebbero miliardi di persone). Ma c’è un sottile potere avvolgente, fatto d’ingenuità, di invocati debolezza, timidezza, stato di necessità, coniugi dichiarati brutali o indifferenti, dall’altro lato. L’insidia della “parte debole” non è meno pericolosa. Oggi il fatto vale per: uomo su donna, donna su uomo, uomo su uomo, donna su donna, transgender su transgender. Sono finiti i tempi della segretaria insidiata dal capufficio. Sono finiti sui media: nella vita, il primario sulla dottoressa, il professore sull’aspirante “associat(o)a”, e così, sono sempre più frequenti e ripugnanti. E vale sempre più la “promessa lunga coll’attender corto” della “sistemazione” in carriera. Infine, c’è l’attrazione reciproca, nata dal desiderio di un mutuo piacere. A prescindere dall’età e da quel sentimento che chiamano amore – se c’è. Chi la condanna è un ipocrita. Il mondo rigurgita di situazioni alla Alberto Sordi. Tempo fa ho tentato invano di difendere la libertà erotica di un’insegnante che s’era innamorata di un ragazzo di quattordici anni e consumava. È l’altra faccia della mentalità calvinista oggi prevalente; laddove nei seminarî gli aspiranti sacerdoti, quasi tutti ricchioni, sono assai più accorti nelle loro relazioni pur se sempre più palesi.

Ripeto: le vittime sono oggi gli uomini famosi: calciatori, cuochi, cantanti, sarti, attori, e persino direttori d’orchestra. Levine, Kuhn, Harnoncourt, Dutoit, Gatti, e tanti altri, quale che sia il loro valore e la fondatezza dell’imputazione, la pagano amaramente. Un grande direttore, affetto da moglie che per gelosia si spinse a simulato suicidio, nei lunghi anni nei quali fu a capo alcuni dei più imporranti teatri lirici del mondo, ebbe relazioni con segretarie, addette stampa, cantanti, donne delle pulizie, “maschere” (donne, intendo: si vocifera, ma è certo una fandonia, che da una di costoro abbia avuto una felice, o infelice, paternità). Tutti tacquero, tacevano, tacciono, taceranno. Eppure la posizione professionale del grande Maestro non è così prestigiosa come vent’anni fa: in altre parole, non fa paura a nessuno. Egli, peraltro, non essendo napoletano, di San Gennaro non è adepto, e il suo patrono è di serie C. Ormai toccherà a lui.

La Polka è un mestiere da uomini. E va salvata

Potrebbe non capitare più che sotto i portici di Bologna due uomini, tenendosi fermamente abbracciati all’altezza dell’avambraccio, giusto sopra i gomiti, vortichino e mulinellino all’unisono come una trottola, tenendo le pupille ben fisse uno sull’altro e spostandosi come un sol corpo.

Ma attenzione, al netto delle pruderie e prima che Adinolfi si imporpori dalla rabbia, non è un flashmob della comunità LGBT della città emiliana, si tratta della storica – e ormai quasi del tutto scomparsa – polka chinata bolognese.

Nata agli inizi del ’900 nelle balere e sotto i portici della città, dov’era praticata solo dagli uomini quale rito di seduzione un po’ pavonesco per far colpo sulle donne, ad oggi viene ballata solo da due coppie (una delle quali è anche andata a “Italia’s got talent”). Questo allarme è suonato nella sensibile coscienza di Alessandro Sciarroni, artista coreutico e performativo di fama internazionale e Leone d’oro alla carriera per la Danza nel giugno 2019. Convinto che anche la danza concorra a scrivere quell’intellegibile e trasversale enciclopedia tribale che è la cultura popolare – non è un caso che questo ballo sia candidato dall’Unesco a divenire patrimonio immateriale dell’umanità – ha realizzato lo spettacolo “Save the last dance for me”, che andrà in scena mercoledì 21 agosto al festival B Motion-Operaestate di Bassano (Oratorio Ca’ Erizzo) al fine di mostrare lo sboccio di vitalità e dinamismo che è questo ballo a rischio di estinzione.

E per divulgarne maggiormente la conoscenza, ha anche organizzato alcuni workshop dal 21 al 25 agosto insieme ai due ballerini per instillare il suo enthousiasmos alla comunità del festival, ai turisti e ai cittadini di Bassano del Grappa e tenere in vita la Polka Chinata, affinché la danzino, tentino di disseppellirla dal dimenticatoio cui è destinata e custodirla in quello che per Sant’Agostino è il Palazzo della memoria collettiva.

In sé, la danza, è fisicamente impegnativa: richiede che i ballerini si pieghino (da qui, chinata) sulle ginocchia quasi fino a terra e orbitino su se stessi ripetutamente. È tradizionalmente eseguita solo da uomini sia perché, di per sé, richiede un notevole dispendio ginnico, sia perché agli inizi del ’900 le donne non frequentavano le balere e, quand’anche accadesse, dovevano limitarsi ad ammirare gli uomini esibirsi per loro, ma non era loro consentito di ballare con gli uomini, retaggio di quell’atavico controllo tutto maschile che si è sempre esercitato sul corpo muliebre. Basti pensare che, senza per forza indossare l’antico coturno greco, nel teatro elisabettiano (1558-1625) – lo sa bene l’appassionato lettore di Shakespeare – recitavano solo gli uomini. Il buon William, certo, era contento di questo uso, che tuttavia era una vera e propria regola, una legge. Nei ruoli femminili, infatti, veniva impiegato quello che in Antonio e Cleopatra è definito squeaking boy: un giovinetto imberbe en travesti che squittiva in pentametri giambici anche i versi più lacrimosi poiché alle donne era vietato l’atto di recitare, e dunque far parte di una compagnia, vivere in mezzo ad altri uomini, non avere insomma un focolare di cui esser l’angelo.

“Save the last dance for me è un’idea poetica,” spiega Sciarroni, “e salvaguardarla significa evitare che venga cancellata dalla memoria delle persone”.

Ragione e pentimento: guida alle vacanze di famiglia senza figli

Non entro del dibattito “figli sì, figli no” che divide la mia generazione in tifoserie opposte: da un lato la curva peterpanica, libertaria, viaggiatrice, debosciata, acciaccata dagli eccessi che a vent’anni reggi senza problemi e a quaranta no, dall’altro la coalizione del “voi non sapete che vi perdete”, “voi non sapete che fatica”, “voi non sapete punto”.

Né tantomeno indagherò il ruolo del padre del terzo millennio, fra i sensi di colpa per un atavico maschilismo, la tutela dell’emancipazione femminile e il terrorismo psicologico scandinavo che ci vorrebbe tutti mammi sexy. (Nessuna epoca in occidente aveva visto così tanti spingitori di passeggini come la nostra.)

Vorrei però affrontare un problema di carattere nazionale: chiunque abbia generato una prole – che lo Stato restituisce al mittente durante il periodo estivo per via della barbara usanza che prevede la chiusura delle scuole e degli asili pubblici – vede le ferie d’agosto come una corda tesa verso la riapertura settembrina. Per chi dunque non appartenga alla fazione dei genitori funamboli e in generale per chi non abbia alcun interesse per il tema tanti saluti, buone vacanze e come gli spettatori di Blackmirror potete saltare questo articolo e arrivare a più interessanti pagine del giornale. Invece resti qui chi annovera fra gli eroi moderni non soltanto Ulisse, simbolo della conoscenza, ma anche Enea (nella veste di immigrato, badante del padre e genitore single), ma soprattutto Bob Cratchit, lo sfruttato impiegato di Scrooge nel Canto di Natale: Dickens ce lo descrive con moglie e sei figli a carico e davvero pochi scellini a disposizione. Ultima premessa: la storia che segue appartiene al genere dell’autofiction, di solito noiosissimo racconto dei cazzi propri infiorettato da vanitose e saccenti pretese di universalità.

Allora, la squadra è formata da Nico, anni 4, Giona anno 1, Anna anni 38 (ma 25 per chi non la conosce) e dal sottoscritto. Per me e Anna il 2019 non è stato un anno semplice e per questo ho ascoltato con grande interesse la proposta che lei ha tirato fuori dal cappello ad aprile: “Ma se quest’anno andassimo in Trentino in uno di quei family hotel dove ti tengono anche i bambini?”. Come insegnava Mattia Torre in alcuni casi non c’è droga più potente di una babysitter. In Alto Adige te la fanno pagare come fosse cocaina purissima, ma non importa. È l’illusione, l’idea della libertà, di ritornare per qualche istante quello che saresti senza figli. Cioè immensamente diverso. Comunque, dopo uno sguardo complice fra noi, io e Anna fissiamo Nico che imita Capitan America lanciando uno scudo per il salone e Giona che ha appena frantumato in mille briciole l’ennesimo biscotto Plasmon e ci diciamo: Yes, we can.

Ogni rivoluzione però ha bisogno dei preparativi, ogni sogno necessita di alcune soluzioni pratiche. Come arriviamo in Trentino? La nostra auto, una Micra, è piccolina, ci metti dentro un passeggino, due seggiolini e hai fatto, è piena come un uovo. Per questo quando due mesi fa ho ricevuto una piccola eredità, l’11% della vendita della casa di mia nonna in Calabria, ho deciso che avremmo investito in una macchina, più grande. E abbiamo optato per un crossover di una ditta romena, abbastanza coatto, ma che sembrava adattissimo per un viaggio da Roma alle Alpi. Sembrava, visto che quell’automobile non ci è stata consegnata in tempo per la nostra partenza. Così tutti stipati nella nostra Micra siamo partiti. Il piano era sveglia verso le 4.30, e via direzione Bologna per una prima sosta. Nico e Giona però decidono che forse l’orario della partenza era troppo tardivo, sarà che hanno le antenne per captare le emozioni e le tensioni, insomma alle 3.30 sono entrambi pimpanti e pronti a fare colazione. A Bologna siamo a casa del mio migliore amico prima che lui vada al lavoro e crolliamo tutti e quattro per la stanchezza. In serata andiamo ad assistere alle prove della band della moglie; lei è una psicologa infantile e insieme con Paolo Bergonzoni, ex cestista della nazionale e ora psicologo, e due fisioterapisti hanno fondato un complesso che si chiama Theterapisti. Li amo, Giona un po’ meno per cui non possiamo ascoltarli a lungo.

Il giorno dopo ci concediamo una giornata in un posto dal nome poco invitante: “il Villaggio della salute più”, che invece è un parco acquatico fighissimo se non ci vai nel fine settimana. Una ventina di piscine, scivoli, zone all’ombra con dei materassoni di gran comodità. Voto: diesci! Almeno prima che qualcuno portasse via le Birkenstock nuove di Anna, lasciandole in cambio un paio ben più vecchie e di una misura più piccola. Ma noi Gallico abbiamo questa caratteristica, seminiamo oggetti lungo il percorso come Pollicino per poter riconoscere la via del ritorno. Infatti dimentichiamo una felpa e un altro paio di scarpe a Bologna, i maglioni del più piccolo li abbiamo proprio lasciati a Roma, io abbandono la mia palandrana antipioggia a Rovereto. Perdiamo pannolini, salviette, cibi, un appuntamento con Alessia Gazzola e le sue figlie a Verona, altri pezzi di noi fino all’arrivo a Schenna, provincia di Bolzano. Quando alla reception dell’hotel ci danno i mini pass per Nico e Giona, i fogli A4 che rappresentano la nostra libertà, io e Anna ci diamo un cinque come giocatori dell’Nba. Perché amiamo i nostri figli e vogliamo i migliori centri estivi del mondo per loro. Brindiamo mangiando una mela trentina. Ce la possiamo fare. Ce la potete fare tutti voi.

P.s. Scrivo questo pezzo in albergo, dopo che siamo stati a duemila metri, su una seggiovia mozzafiato. Giona gioca con delle costruzioni vicino ai miei piedi, Nico dorme sfiancato. Il miniclub qui sotto è aperto, li aspetta a braccia aperte, ma finirà che saremo sempre noi quattro: la banda Gallico.

“Come a Chernobyl, Mosca non dice la verità”

Cosa è accaduto durante l’incendio al poligono russo nella regione di Archangelsk l’8 agosto? Una chiave di lettura la offre Jeffrey Lewis, docente al Middlebury Institute of International studies e direttore del programma di non proliferazione americano; prima ancora è stato direttore del dipartimento di strategia nucleare della New America Foundation.

“La Russia stava compiendo test su un reattore nucleare. Dopo il test c’è stata un’esplosione su una piattaforma al largo della costa che ha ucciso almeno 5 persone e ha provocato un rilascio di radiazioni”.

Come sostiene l’intelligence americana è stato il missile Burevestnick, – quello che la NATO chiama Skyfall -, a scoppiare? Oppure un semplice motore, come ha riferito il Cremlino? E in entrambi i casi, di quali rischi stiamo parlando per i residenti dell’aerea?

Stiamo parlando probabilmente del motore collegato all’alimentazione del missile Skyfall o a un programma missilistico correlato. Un tale reattore, in questo caso, è molto piccolo e quindi non ci dovrebbero essere molti rischi per l’aerea circostante. Secondo me non c’è un rischio significativo per quanto riguarda le radiazioni, sebbene la piattaforma in cui è avvenuta l’esplosione è probabilmente contaminata.

Putin preferirebbe essere accusato di aver contaminato il suo popolo, piuttosto che ammettere che è esploso il motore del missile del Burevestnik, con cui minacciava gli Usa nel 2018 all’Assemblea generale?

Pur riconoscendo a malincuore che l’esplosione si è verificata, e che scienziati nucleari sono stati uccisi, i russi non hanno fornito una spiegazione dettagliata di quello che stavano facendo esattamente questi esperti. Sospetto che le autorità russe stiano tentando di proteggere proprio le informazioni e i dati riguardanti il funzionamento stesso del missile in questione.

Il New York Times l’ha definito “il peggior disastro dopo Chernobyl”. È paragonabile in qualche modo alla catastrofe del 1986 o solo la fila di silenzi sospetti e bugie malcelate della Rosatom, – agenzia atomica nucleare russa – , è simile?

Il paragone con Chernobyl è sicuramente inappropriato. Stiamo parlando di un evento molto, molto, più piccolo. L’unica vera somiglianza con la vicenda di Chernobyl sono le risposte lente e fuorvianti che sta fornendo Mosca. L’ha fatto allora e lo sta facendo oggi.

Almeno 14 persone sono morte in un sottomarino atomico russo a luglio. All’inizio di agosto un deposito militare ha preso fuoco a Krasnoyarsk. Ora c’è stata l’esplosione artica. Quali sono le conseguenze di questi eventi?

Il punto è che gli Stati Uniti e la Russia stanno tornando indietro verso la corsa agli armamenti. Sebbene le due superpotenze siano riuscite a sopravvivere alla Guerra fredda senza uno scontro nucleare, a volte ci dimentichiamo che questa politica ha comunque un costo da pagare, sia in termini umani che ambientali.

E quindi?

Mi aspetto in futuro un numero maggiore di disastri come questo. È facile capire perché: entrambi i lati stanno avanzando nella stessa direzione, cioè lo sviluppo di nuove armi nucleari.