Nonostante i manifestanti abbiano lasciato l’aeroporto di Hong Kong, tornato operativo da ieri, e la compagnia di bandiera Cathay Pacific abbia licenziato l’amministratore delegato Rupert Hogg a causa del sostegno del personale alle proteste, la Cina continua ad ammassare mezzi e truppe a Shenzhen, al confine con l’ex colonia britannica. Pechino flette ancora di più i muscoli per incutere terrore con l’intento di bloccare le proteste in corso da mesi contro la governatrice Lam. Xi jinping, il presidente a vita cinese “non ha ancora deciso se intervenire con la forza per sedare la rivolta anche se questa opzione è chiaramente a disposizione”, avverte il Global Times, tabloid dell’organo ufficiale del Partito comunista cinese, che tuttavia assicura non si ripeterà la sanguinosa repressione di Piazza Tienanmen avvenuta 30 anni fa.
In realtà, ciò potrebbe accadere qualora il governo centrale ritenesse che l’integrità territoriale della Cina verrà messa concretamente in pericolo dai rivoltosi. Lo si evince anche dal discorso dell’ambasciatore cinese nel Regno Unito. Il diplomatico ha usato toni durissimi anche contro “gli agenti stranieri” colpevoli, secondo la nomenklatura cinese, “di fomentare la rivolta”. Non è un caso che il monito più esplicito nei confronti dell’Occidente sia stato diffuso dal diplomatico cinese basato a Londra. Il Regno Unito infatti ritiene che la clausola “uno stato, due sistemi” – stabilita con le autorità cinesi prima di riconsegnare loro Honk Kong, così come l’autonomia assicurata finora dallo status speciale di cui gode la città – stia cedendo per colpa della politica espansionista del Dragone. Timori espressi anche da John Bolton, consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale, dopo aver agitato l’ipotesi di “una nuova piazza Tienanmen”. Per mitigare le parole del proprio sottoposto, Trump ha “invitato Xi Jinping a recarsi a Hong Kong per confrontarsi direttamente con i manifestanti”, facendo infuriare ancora di più Pechino. Che, come ovvio, ha subito colto l’occasione per incolpare gli Stati Uniti di interferire negli affari interni di uno Stato Sovrano. In un editoriale dal titolo “Inutile per Washington giocare la carta Hong Kong”, il tabloid Quotidiano del Popolo, voce del Partito comunista cinese, assicura che gli Stati Uniti “non saranno in grado di intimidire la Cina attraverso l’evocazione dei tumulti di 30 anni fa. La Cina è molto più forte e più matura e la sua capacità di gestire situazioni complesse è fortemente cresciuta rispetto al passato”.
L’editoriale sottolinea inoltre che: “Se lo stato di diritto non potrà essere ripristinato e le rivolte si intensificheranno, allora sarà un imperativo per il governo centrale agire nel rispetto della Basic Law”, la Costituzione di Hong Kong. L’auspicio dell’autore ( leggasi gli addetti stampa del Partito ) è che la “società di Hong Kong possa riconoscere il tentativo di Washington di distruggere la città”. Ancora una volta l’intenzione di difendere i propri diritti da parte dei cittadini si è trasformata in un confronto tra le grandi potenze.
Infine, la protesta di Hong Kong coinvolge anche Hollywood. Liu Yifei, l’attrice nata in Cina ma naturalizzata cinese che la Disney ha scelto per il remake di Mulan, ha provocato un’ondata di polemiche postando su Weibo, il Twitter cinese, la sua solidarietà alla polizia dell’ex colonia britannica, accusata dai dimostranti di usare forza eccessiva nel contrastare le proteste. La risposta è stata l’hashtag #BoycottMulan con 40 mila tweet di sostegno al boicottaggio.