Lo spettro di Tienanmen sulle proteste di Hong Kong

Nonostante i manifestanti abbiano lasciato l’aeroporto di Hong Kong, tornato operativo da ieri, e la compagnia di bandiera Cathay Pacific abbia licenziato l’amministratore delegato Rupert Hogg a causa del sostegno del personale alle proteste, la Cina continua ad ammassare mezzi e truppe a Shenzhen, al confine con l’ex colonia britannica. Pechino flette ancora di più i muscoli per incutere terrore con l’intento di bloccare le proteste in corso da mesi contro la governatrice Lam. Xi jinping, il presidente a vita cinese “non ha ancora deciso se intervenire con la forza per sedare la rivolta anche se questa opzione è chiaramente a disposizione”, avverte il Global Times, tabloid dell’organo ufficiale del Partito comunista cinese, che tuttavia assicura non si ripeterà la sanguinosa repressione di Piazza Tienanmen avvenuta 30 anni fa.

In realtà, ciò potrebbe accadere qualora il governo centrale ritenesse che l’integrità territoriale della Cina verrà messa concretamente in pericolo dai rivoltosi. Lo si evince anche dal discorso dell’ambasciatore cinese nel Regno Unito. Il diplomatico ha usato toni durissimi anche contro “gli agenti stranieri” colpevoli, secondo la nomenklatura cinese, “di fomentare la rivolta”. Non è un caso che il monito più esplicito nei confronti dell’Occidente sia stato diffuso dal diplomatico cinese basato a Londra. Il Regno Unito infatti ritiene che la clausola “uno stato, due sistemi” – stabilita con le autorità cinesi prima di riconsegnare loro Honk Kong, così come l’autonomia assicurata finora dallo status speciale di cui gode la città – stia cedendo per colpa della politica espansionista del Dragone. Timori espressi anche da John Bolton, consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale, dopo aver agitato l’ipotesi di “una nuova piazza Tienanmen”. Per mitigare le parole del proprio sottoposto, Trump ha “invitato Xi Jinping a recarsi a Hong Kong per confrontarsi direttamente con i manifestanti”, facendo infuriare ancora di più Pechino. Che, come ovvio, ha subito colto l’occasione per incolpare gli Stati Uniti di interferire negli affari interni di uno Stato Sovrano. In un editoriale dal titolo “Inutile per Washington giocare la carta Hong Kong”, il tabloid Quotidiano del Popolo, voce del Partito comunista cinese, assicura che gli Stati Uniti “non saranno in grado di intimidire la Cina attraverso l’evocazione dei tumulti di 30 anni fa. La Cina è molto più forte e più matura e la sua capacità di gestire situazioni complesse è fortemente cresciuta rispetto al passato”.

L’editoriale sottolinea inoltre che: “Se lo stato di diritto non potrà essere ripristinato e le rivolte si intensificheranno, allora sarà un imperativo per il governo centrale agire nel rispetto della Basic Law”, la Costituzione di Hong Kong. L’auspicio dell’autore ( leggasi gli addetti stampa del Partito ) è che la “società di Hong Kong possa riconoscere il tentativo di Washington di distruggere la città”. Ancora una volta l’intenzione di difendere i propri diritti da parte dei cittadini si è trasformata in un confronto tra le grandi potenze.

Infine, la protesta di Hong Kong coinvolge anche Hollywood. Liu Yifei, l’attrice nata in Cina ma naturalizzata cinese che la Disney ha scelto per il remake di Mulan, ha provocato un’ondata di polemiche postando su Weibo, il Twitter cinese, la sua solidarietà alla polizia dell’ex colonia britannica, accusata dai dimostranti di usare forza eccessiva nel contrastare le proteste. La risposta è stata l’hashtag #BoycottMulan con 40 mila tweet di sostegno al boicottaggio.

Israele nega ingresso alle deputate Usa pro Palestina

La visita in Israele, che non si farà, di due delle ‘deputate terribili’ della Camera degli Stati Uniti, Ilhan Omar e Rashida Tlaib (nella foto), diventa un affare di Stato: Donald Trump quasi impartisce l’ordine, via Twitter, a Benjamin Netanyahu di non lasciarle entrare; e il premier d’Israele le blocca. Per farlo, Netanyahu applica una legge recentemente approvata che gli consente di tenere al bando “chi nega la legittimità di Israele” e ne appoggia il boicottaggio: una norma del 2017 mai applicata verso cittadini statunitensi, ma già contro almeno sette europei. Poi, il premier di Israele, forse messo in imbarazzo dalle polemiche innescate, fa un mezzo passo indietro: autorizza l’ingresso di Tlaib, per “motivi umanitari, così che possa visitare la nonna”, che ha 90 anni e vive nei Territori. Tlaib, indica una nota del ministero dell’Interno israeliano, si sarebbe impegnata a “non promuovere la causa del boicottaggio contro Israele durante il suo soggiorno”. Ma la deputata del Michigan – lei e la Omar sono le prime deputate musulmane nella Camera dell’Unione – non ci sta: “Ho deciso che fare visita a mia nonna in queste circostanze oppressive è contrario a tutto quello in cui credo, ovvero combattere contro il razzismo, l’oppressione e l’ingiustizia”. Omar e Tlaib compongono, insieme a Alexandria Ocasio-Cortez, di origine portoricane, e Ayanna Presley, afro-americana, the squad, il quartetto di deputate democratiche non bianche, progressiste e d’ispirazione socialista, che si sono distinte per l’aggressività nei confronti di Trump e per le critiche alla politica di Israele verso i palestinesi. Nel tweet per Netanyahu, Trump sosteneva che Israele avrebbe mostrato “grande debolezza” se avesse autorizzato la visita: “Loro odiano Israele e tutti gli ebrei e non c’è nulla che possa esser detto o fatto per far cambiar loro idea”. L’intervento di un presidente contro membri del proprio Congresso è un fatto quasi senza precedenti, nella politica statunitense.

La Groenlandia non si scioglie davanti ai dollari di Trump

Fatte salve le guerre indiane, gli Stati Uniti non hanno conquistato militarmente neppure un palmo del loro territorio. E quasi la metà se lo sono comperato: dalla Francia di Napoleone Bonaparte nel 1803, quando fecero l’ ‘acquisto della Louisiana’ – era un territorio molto più grande dell’attuale Stato, oltre due milioni di kmq – e dalla Russia degli Zar, nel 1867, quando acquisirono l’Alaska, 1.600.000 kmq. Insieme, i due affari sono valsi all’Unione quasi i due quinti della sua attuale superficie.

Adesso Donald Trump ha in mente un altro colpo, nelle sue corde da imprenditore immobiliare: comperare la Groenlandia, l’isola di ghiaccio tra l’Europa e l’America da cui è probabile che, intorno all’Anno Mille, i vichinghi di Erik il Rosso, banditi dall’Islanda, salparono per la loro scoperta dell’America: occasionale e involontaria, come quella di Cristoforo Colombo, ma meno gravida di conseguenze.

Comperarla, per farne che? Oggi, la Groenlandia, oltre due milioni di kmq e solo 55 mila abitanti, quasi 9 su 10 d’origine inuit – è l’isola più grande al Mondo e lo Stato meno densamente popolato – , potrebbe diventare una formidabile ‘base militare’ nel mezzo dell’Atlantico e darebbe il controllo dell’Artico, dove Russia e Cina avanzano pretese e fanno sentire la loro presenza. Senza contare che il riscaldamento globale – ma Trump non ci crede – potrebbe renderla più fertile e accogliente. Difficilmente i progetti di Trump, di cui dava ieri notizia il Wall Street Journal, andranno in porto, perché la Danimarca, che ha la sovranità sulla Groenlandia, ha già detto che l’isola non è in vendita. Ma i groenlandesi sanno fare di testa loro: nel 1985, furono i primi, e finora unici, finché Brexit non avvenga, a uscire dall’allora Comunità economica europea, che, così, perse d’un colpo solo la metà dell’allora suo territorio (era la Cee a 10). Non fu però una botta dura: bastò negoziare un accordo di pesca con la Groenlandia perché tutto fosse come prima. Il commissario all’energia Guido Brunner, tedesco, tenne nel cassetto il progetto di trasferire in Groenlandia le eccedenze di burro all’epoca prodotte dalla Comunità: lì, si sarebbero conservate senza spendere un ecu. La Groenlandia gode, rispetto alla Danimarca, di notevoli prerogative: se il capo dello Stato è il re, ha un premier e un Parlamento propri (e manda due deputati al Folketing, il Parlamento danese).

Nel 2008 un referendum ha ulteriormente rafforzato l’autonomia: al diritto all’autodeterminazione e al riconoscimento come popolo, s’è aggiunto il diritto di gestire le risorse, soprattutto ittiche.

Secondo il WSJ, Trump avrebbe ripetutamente sollecitato i suoi consiglieri a sondare la possibilità di comperare la Groenlandia, che già ospita la più settentrionale delle basi militari degli Stati Uniti, la Thule Air Base, non lontana dal Circolo polare artico, i cui sistemi di early warning penetrano per migliaia di chilometri in territorio russo e possono captare il lancio di missili intercontinentali. Gli americani hanno pure avuto nel tempo stazioni meteo e postazioni militari risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. La Cina s’interessa da tempo dell’isola: l’anno scorso, vi voleva finanziare e installare aeroporti, un tentativo che il Pentagono ha intercettato e mandato a vuoto. A innescare la curiosità di Trump sarebbe stato un collaboratore che, a una cena in primavera, gli avrebbe detto che la Danimarca fatica a pagare il sussidio di circa 457 milioni di euro che ogni anno invia al suo territorio. Ma il New York Times ricorda che nel 1946 l’allora presidente Harry Truman offrì alla Danimarca 100 milioni di dollari per la Groenlandia (1,3 miliardi di dollari il valore attuale), ma si sentì rispondere di no. E, nel 1867, al momento dell’acquisto dell’Alaska, il Dipartimento di Stato studiò l’idea di comperare pure Groenlandia e Islanda. Anche ora, il governo danese chiude la porta: “La Groenlandia non è in vendita”, fa sapere. Ma uno spiraglio c’è: “Siamo aperti a fare affari”, dice il ministero degli Esteri di Copenaghen. Se son rose, in quel clima difficilmente fioriranno. Ma Trump, se lo vorrà, ne potrà parlare con la premier danese Mette Frederiksen, quando sarà a Copenaghen fra un paio di settimane, subito dopo il G7 in Francia.

La banda dello spray “sapeva di creare scompiglio in piazza”

”Miravano a creare scompiglio tra la gente”. È uno dei passaggi con cui il gup Maria Francesca Abenavoli ha motivato la condanna per omicidio preterintenzionale dei quattro rapinatori della “banda dello spray” che la sera del 3 giugno 2017, a Torino, provocò il panico tra la folla (la giudice stima più di 30 mila persone) presente in piazza San Carlo per la proiezione su maxi schermo della finale di Champions League Juve-Real. Il fuggi fuggi produsse numerosi feriti (il capo d’accusa ne elenca 1.673) e, in seguito, la morte di due donne, Erika Pioletti e Marisa Amato. La giudice afferma che i quattro – tutti giovani di origini marocchine – “sapevano perfettamente che la diffusione dello spray avrebbe creato scompiglio e movimenti incontrollabili”. Questo, sulla base degli ultimi orientamenti della giurisprudenza, è sufficiente per arrivare alla condanna per omicidio preterintenzionale. A tre imputati sono stati inflitti 10 anni, 4 mesi e 20 giorni di reclusione, al quarto 10 anni, 3 mesi e 24 giorni. Nelle motivazioni è anche raccontato che i 4 ragazzi attraverso scritte sui muri delle celle e il disegno di una mappa di piazza San Carlo avevano poi provato anche a concordare una versione.

Addio Felice Gimondi ultimo mito italiano del ciclismo epico

Soffriva di cuore Felice Gimondi, classe 1942 (29 settembre), e noi amici che lo sapevamo ci chiedevamo come facesse a lavorare ancora così tanto, anche a 76 anni: come dirigente della Bianchi e delle organizzazioni ciclistiche, col suo lavoro di assicuratore (la Gimondi assicurazioni con sede a Bergamo), sempre disponibile per i raduni, le corse amatoriali, le presentazioni del Giro. “Il ciclismo è la mia vita, mi ha dato tanto, gli devo tanto – mi ha detto l’ultima volta che l’ho incontrato – non mi posso lamentare della mia vita”. Ma lo sguardo lo tradiva: si portava dentro il rammarico e il dolore profondo di avere incontrato sulle strade delle sue corse il più forte e disumano corridore della storia del ciclismo, il Cannibale che non lasciava briciole a nessuno. Solo Gimondi riusciva a metterlo in difficoltà, e a batterlo. Due avversari legati dallo stesso carattere taciturno: la loro grandezza era ancora più importante in misura dei loro silenzi, o delle poche, ma pesanti parole che stimolarono i racconti delle loro glorie. E ieri l’amico Merckx lo ha omaggiato con sentimento: “Stavolta perdo io. Perdo prima di tutto un amico e poi l’avversario di una vita. L’avevo sentito due settimane fa così come capitava ogni tanto. Che dire, sono distrutto. Felice è stato prima di tutto un grande uomo, un grande campione”.

Felice restava sempre un uomo che ti dava l’impressione d’essere una quercia, resistente all’usura del tempo. E dei tempi. Magari scossa dai brutti ineluttabili venti della vecchiaia e della malattia, ma pur sempre capace di affrontarle con coraggio e fermezza, come quando sapeva rintuzzare i poderosi attacchi del “suo” grande rivale Eddy. Ora il suo rivale era dentro di lui.

Così, quando ieri sera ha fatto irruzione, come un fulmine a ciel sereno, la notizia che il grande cuore di Felice aveva ceduto mentre stava nuotando nelle acque dei Giardini di Naxos, a Taormina, è stato come se l’infarto che ha ucciso Felice avesse colpito una parte di noi, della nostra memoria. La storia di Gimondi ci appartiene, infatti, perché ci appartengono i ricordi che il suo nome rievoca. Stagioni di epopea sportiva, ma non solo: il ciclismo è un esercizio spirituale.

Felice era in vacanza con la famiglia. Come quasi tutti noi. Felice era orgoglioso della figlia avvocato che si occupava di problematiche legate al ciclismo professionale. Ha sempre avuto il senso della famiglia patriarcale, da buon cristiano, da vero cristiano, mica come certa gente che impugna rosari, invoca la madonna, e strepita contro i più deboli. Gimondi, che pure è stato il più forte corridore italiano dopo Coppi e Bartali, stava dalla parte dei più deboli.

Ma non era un remissivo. Anzi. Aveva una fortissima volontà. Celata sotto un atteggiamento montanaro. Riservato. Sapeva cogliere tuttavia le occasioni. E quando succedeva, non ce n’era per nessuno. Almeno, all’inizio della sua grande carriera. Che cominciò in modo sorprendente, come mi ha ricordato Vittorio Adorni qualche settimana fa. “Era il 1965, io ero il capitano alla grande Salvarani diretta da Luciano Pezzi, un grande stratega delle corse, Felice non aveva ancora ventitré anni, aveva ottenuto un secondo posto alla Freccia Vallone e mi era stato di grande aiuto al Giro d’Italia che vinsi mentre lui si piazzò ottimo terzo. L’anno prima aveva vinto da dilettante il Tour de l’Avenir, che a quei tempi consacrava i futuri campioni del ciclismo professionista. Insomma, pareva la storia di Bartali e Coppi, fatte le debite differenze…”, sorrise Adorni che a differenza di Gimondi è sempre stato un affabulatore.

“Poche settimane dopo il Giro, ricevetti una telefonata dal mio amico Jacques Anquetil. Vittorio, mi disse, io non posso andare al Tour, ma vorrei che tu impedissi a Raymond Poulidor di vincerlo in mia assenza”. La rivalità tra i due “galli” del ciclismo francese era diventata proverbiale. Adorni decise di portare Gimondi al Tour, in sostituzione di un suo gregario (mi pare si chiamasse Babini, ndr). Ma Felice era stanco e riluttante. Adorni lo convinse offrendogli un nuovo ingaggio, tre volte quello che stava percependo. Felice accettò. Non solo tenne a bada Poulidor per conto di Adorni, ma già al terzo giorno s’impossessò della maglia gialla, vincendo a Rouen. La conservò sino alla fine, se si esclude un paio di giorni. Resistette ai furibondi e disperati attacchi di Pou-Pou sul terribile mont Ventoux, tenne duro sulle Alpi, vinse addirittura la cronoscalata di Mont Revard e la crono finale da Versailles a Parigi.

Era il figlio della postina di Sedrina, un paese della Val Brembana. Da ragazzino aveva aiutato la madre a consegnare le lettere. Aveva cominciato a gareggiare a sedici anni e mezzo, e conquistato la sua prima vittoria il primo maggio del 1960. Una coincidenza non casuale, quella data. Perché Felice era in fondo un proletario in bicicletta: le salite erano il pane quotidiano. Leggevi sul suo volto da valligiano la fatica e i sacrifici. Parlava poco, il suo riserbo – forse timidezza, certamente il carattere di persona concreta e sobria – era il racconto di una generazione che si stava estinguendo. Lo fece in modo straordinario: vinse l’anno dopo la Parigi-Roubaix e la Parigi-Bruxelles, poi, nonostante Merckx, divenne campione mondiale nel 1973 a Barcellona (battendo anche Merckx), conquistò tre Giri d’Italia, il primo nel 1967 l’ultimo nel 1976 e una Vuelta, in totale, dicono le statistiche, vinse 118 volte, vittorie pesanti e pensanti, come una Milano-Sanremo e due Giri di Lombardia. Merckx lo surclassò talvolta. Ma non fu longevo come lui e capace di restare ai vertici del ciclismo sino all’ultimo giorno. Scese dal piedistallo dell’agonismo ma rimase su quello del ciclismo. Scompare un mese prima del centenario di Coppi, il suo idolo.

Tutor, la Cassazione: “Nessuna violazione, attivi in autostrade”

Sarannopresto riattivati su tutta la rete autostradale i sistemi “Tutor” per il monitoraggio della velocità.

La Corte di Cassazione ha infatti chiuso il procedimento sulla proprietà intellettuale del sistema e, ribaltando la sentenza di Appello, ha definitivamente chiarito che Autostrade per l’Italia non ha commesso alcuna violazione nei confronti della società Craft.

Era stata la Corte d’appello di Roma, il 10 aprile 2018, a sancire che Aspi avesse violato le norme sui brevetti: da allora la Polizia stradale, che aveva in comodato d’uso il sistema, ha fatto ricorso a una tecnologia alternativa per controllare una parte dei 2500 km coperti dal sistema. La decisione della Suprema Corte, quindi, consente ora la riattivazione dei Tutor su tutta la rete, proprio nei giorni in cui si avvicina il contro esodo dalle vacanze estive.

Esulta il Codacons che in una nota ha ricordato il contributo importante offerto dal Tutor per la riduzione del 50% gli incidenti mortali e ha chiesto “di estendere immediatamente il sistema Tutor a tutte le tratte autostradali” per regolare i massicci spostamenti previsti sulle autostrade nei prossimi giorni.

Più popolo che vip per Nadia Toffa. Centinaia a Brescia da tutta Italia

Da Taranto a Napoli, da Trento a Bologna. Dalle mamme dei bambini morti nella Terra dei Fuochi, ai lavoratori dell’ex Ilva. Centinaia le persone arrivate a Brescia da ogni parte d’Italia per l’ultimo saluto a Nadia Toffa, la conduttrice de Le Iene morta a 40 anni a causa del cancro. “Mi aspettavo così tanto affetto perché lo ha meritato fino all’ultimo” ha detto Matteo Viviani, collega di conduzione al bancone della trasmissione Mediaset.

Tra i pochi volti noti proprio quelli dei colleghi e degli autori delle Iene: assente il mondo dello spettacolo che in questi giorni aveva riempito i social. È stato un funerale popolare quello di Nadia Toffa, “amata per la sua sete di verità, perché ha saputo fare del suo lavoro una missione e perché è stata autentica, cocciuta perseverante, tosta” come ha ricordato padre Maurizio Patriciello, prete della Terra dei Fuochi scelto proprio dalla presentatrice per il suo funerale.

Nella Cattedrale di Brescia gremita, a lato della bara chiara, c’era la “macchia” nero-rosa degli amici del “Minibar” del rione Tamburi di Taranto, arrivati in pullman con la maglietta nera e la scritta rosa “Ie jesche pacce pe te!”, in tarantino “esco pazzo per te”. È il progetto benefico nato da un’idea di Nadia divenuta poi un simbolo per i tarantini nella loro battaglia sull’Ilva.

Commossi il boss delle Iene Davide Parenti, che ha deposto sulla bara la cravatta nera de Le Iene, e l’autore Max che in lacrime ha detto: “Mi aveva convinto che ce l’avrebbe fatta nonostante sapesse che il male era incurabile. Convinceva tutti”.

Prima di lui ha preso la parola la nipote Alice, 15 anni: “Mi ripeteva sempre di essere forte e di sorridere alla vita perché è sempre bella e io lo farò per lei”. Occhi lucidi anche per l’ex collega Enrico Lucci: “Nadia non faceva tutto questo per mettersi in mostra. Era una rompicoglioni terribile che non staccava mai e detestava davvero le ingiustizie”.

Assunzioni, ambiente, indotto: le promesse mancate all’ex Ilva

Assunzioni contestate, promesse non mantenute, ricatti. In meno di un anno ArcelorMittal, il gruppo indiano ora padrone dell’acciaio di Taranto, ha già dato prova di non essere troppo diverso dai predecessori. L’accordo firmato con il ministero dello Sviluppo economico il 6 settembre 2018, quando l’impresa è entrata in possesso degli impianti, prevedeva che Arcelor assorbisse 10.700 lavoratori di cui 8.200 a Taranto. Gli oltre 2.500 lavoratori in esubero, invece, sono rimasti in cassa integrazione in carico a Ilva in Amministrazione Straordinaria. Tra gli esclusi, soprattutto alcuni operai più in vista per il loro attivismo in fabbrica.

Il 22 marzo 2019,infatti, il tribunale di Taranto ha accolto un ricorso del sindacato Usb e ha condannato ArcelorMittal per il mancato rispetto di alcuni punti dell’accordo. Secondo il giudice, la società non ha comunicato “le competenze professionali necessarie atte ad individuare i lavoratori da assumere” e nemmeno “i criteri oggettivi adottati”. L’azienda è stata così costretta a rendere pubbliche le graduatorie: per il sindacato sono “parziali” perché “compaiono criteri aggiuntivi non previsti dall’accordo” e in alcuni casi “completamente errate” perché includono nelle liste i lavoratori che hanno accettato gli incentivi e sono oramai fuori dall’acciaieria. Usb stima tra i 200 e i 300 i cassintegrati che avrebbero diritto ad essere riassunti.

Il 28 maggio il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha annunciato l’avvio delle procedure di riesame per “introdurre eventuali condizioni aggiuntive motivate da ragioni sanitarie”. La richiesta era arrivata dal sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, dopo che Arpa Puglia aveva dipinto un quadro sanitario “ancora critico”, tanto da richiedere di imporre ad ArcelorMittal “condizioni di esercizio più severe”. Per l’azienda, una volta attuato il piano di risanamento degli impianti, potrebbe così sfumare l’ipotesi di tornare a produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio l’anno. Il gruppo indiano prima si è detto disponibile a collaborare con il ministro per rivedere l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), ma ai primi d’agosto ha annunciato il ricorso al Tar contro il decreto ministeriale, pur definendolo “precauzionale” e con “finalità meramente cautelative” e assicurando “piena e attiva collaborazione con le autorità competenti”.

Ma non finisce qui. Il 5 giugno Arcelor, a sorpresa, ha annunciato la Cassa integrazione ordinaria per 1400 dipendenti. Una “decisione difficile” e temporanea, ha detto l’ad Matthieu Jehl, dovuta a condizioni del mercato “davvero critiche in tutta Europa”. Qualche tempo prima, Arcelor aveva ridotto la produzione in Europa da 6 a 5 milioni di tonnellate, rassicurando i sindacati su eventuali contraccolpi a Taranto. Non è andata così. E c’è chi ritiene che in realtà il ricorso alla Cassa sia la risposta alla richiesta di riesame dell’Aia voluto da Costa.

Altre promesse disattese non riguardano i dipendenti diretti. Nell’addendum al contratto, firmato con il vice premier Luigi Di Maio, Arcelor si è impegnata a tutelare e promuovere le aziende pugliesi che forniscono servizi all’acciaieria. Le rassicurazioni sono state più volte ribadite. Ma poi, dal 3 giugno, la gestione del traffico marittimo in arrivo è stata affidata a una multinazionale con sede nelle Antille, a discapito delle agenzie marittime del posto. Inoltre i contratti in scadenza il 30 settembre per le pulizie industriali, con molta probabilità, non verranno rinnovati. Uno degli imprenditori esclusi ha svelato al Fatto che gli è stato chiesto di ridurre del 40% il costo del lavoro. Il 20-25% dell’indotto dovrebbe essere affidato all’Alliance Group Services con sede in Lussemburgo, società guidata da Emmanuel Rodriguez che è anche direttore acquisti di ArcelorMittal Italia. Un altro degli amministratori è Philippe Ligier de Laprade, general manager di Arcelor. Tutto in famiglia, insomma. Ad Ags potrebbero essere assegnate anche le bonifiche interne alla fabbrica e, secondo le stime, sono circa un migliaio i lavoratori a rischio licenziamento.

L’ultima bufera è scoppiata l’11 agosto, quando i sindacati hanno denunciato che Arcelor avrebbe assegnato fino a 500 euro di premio ai dipendenti che non hanno scioperato dopo la morte del gruista Cosimo Massaro. Alcuni dei capi turno avevano preso il posto degli operai in sciopero senza averne le competenze, ma sono stati poi bloccati dagli Ispettori del lavoro.

Resta intanto il braccio di ferro col governo sull’immunità penale: il M5s sperava di cancellarla, ma Arcelor ha minacciato di mollare tutto. E ha vinto. Lo scudo, ridimensionato e collegato ai tempi di risanamento, è inserito nel decreto Imprese varato dal governo gialloverde poco prima della crisi. Un provvedimento “salvo intese” che ora rischia di rimanere sospeso. Come il fiato dei tarantini e degli operai in fabbrica.

La Regione Sicilia, chiude la “spiaggia bianca” di Lipari

Vietato alla sosta e al traffico di persone e veicoli, l’ultimo tratto di spiaggia bianca di pomice a Lipari. L’ordinanza, emessa dall’assessorato regionale del territorio e dell’ambiente ed eseguita dalla Guardia costiera, impedirà che isolani e turisti accedano all’area di Porticello in cui è stato accertato il dissesto idrogeologico. I militari e i tecnici del Comune hanno posizionato i cartelli di divieto nell’area demaniale che si trova dinanzi al pontile bloccando così “la sosta ed il transito di persone ed autoveicoli ed ogni altra attività incompatibile con lo stato del dissesto accertato o esistente”. Negli ultimi anni la spiaggia si è ristretta notevolmente, soprattutto dopo la chiusura della società Pumex che lavorava la pietra vulcanica esportata in tutto il mondo. La cessazione era motivata dalla trasformazione delle Eolie in Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco che ha stoppato le lavorazioni lungo la montagna che alimentava la spiaggia. Il sindaco di Lipari, Marco Giorgianni, è fiducioso: “tra i nostri progetti vi è il recupero della spiaggia di pomice. Abbiamo avviato l’iter per riqualificare l’area di Porticello”. Ma da tempo tutta la montagna è diventata a rischio.

Francese di 27 anni sparisce in Cilento. “Soccorsi in ritardo”

La mattina del 9 agosto alle 9.30 circa un turista francese in gita nel Cilento chiama il 118. Si chiama Simon Gautier, ha 27 anni, vive a Roma da due anni per scrivere una tesi di storia dell’arte ed ha la passione dell’escursionismo estremo: dorme in tenda ed è esperto nel muoversi a piedi lungo i sentieri più impervi, zaino in spalla e pochi viveri, come ha già fatto diverse volte in passato.

Simon parla un buon italiano e si lamenta: dice di essere caduto in un dirupo e di essersi fratturato entrambe le gambe. Il ragazzo non sa, non riesce a spiegare bene dove si trova, ed è comprensibile: il dolore, l’agitazione, la paura di uno straniero da solo in terra sconosciuta. Si sta muovendo lungo un sentiero montano che unisce le coste di Policastro Bussentino e Scario e riesce a dire che stava “andando a piedi verso Napoli”. L’operatrice del 118 gli consiglia di tenere il cellulare libero e acceso, così lo geolocalizzeranno. Seguirà – riferiscono fonti contattate dal Fatto Quotidiano – una seconda telefonata coi carabinieri di Sapri. Il cellulare di Simon resta acceso fino alle 19, poi si spegne.

È trascorsa una settimana, Simon non è stato ancora rintracciato, e le speranze di salvarlo si affievoliscono di ora in ora. Sul perché i soccorritori non siano riusciti a ritrovarlo, si moltiplicano le spiegazioni e le recriminazioni. L’area rocciosa del golfo di Policastro è molto ampia e si dipana attraverso sentieri particolarmente pericolosi. Alle operazioni, coordinate dalla Prefettura, stanno partecipando i carabinieri di Sapri, i volontari della Protezione Civile, i vigili del Fuoco di Policastro, unità cinofile di Caserta e Matera, gli elicotteri del nucleo di Pontecagnano, amici italiani e francesi del ragazzo arrivati apposta per dare una mano. Ma il primo elicottero si è alzato in volo solo 28 ore dopo l’allarme e la prima giornata sarebbe stata impiegata con ricerche orientate verso Maratea. In direzione opposta a quella dove il ragazzo si sarebbe invece diretto.

Sulla mancata geolocalizzazione del cellulare, prova a dare una spiegazione il sindaco di Policastro, Giovanni Fortunato: “Ci sono due ponti, uno su Maratea e uno sulla costa cilentana, non è chiaro su quale si fosse agganciato il telefonino”. Esistono però dei software, in dotazione ai reparti d’eccellenza dei carabinieri, che grazie al sistema Gsx sono in grado di dialogare coi satelliti e individuare al millimetro la posizione di uno smartphone, anche spento, purché non siano trascorse più di otto ore dallo spegnimento. Non è chiaro se siano stati usati e non abbiano funzionato, o se siano stati adoperati quando il cellulare era spento da troppo tempo.

Dal 14 agosto è a Policastro la mamma di Simon, la signora Delphine Godard. Intervistata da Biagina Grippo della testata web Trekking Tv, la signora Godard ha lanciato un appello a moltiplicare gli sforzi e il numero dei volontari, evitando per il momento di alimentare polemiche su presunti errori e ritardi nelle ricerche. Ma pare evidente che qualcosa nella macchina dei soccorsi non ha funzionato al meglio.

Per diversi giorni il caso del turista francese disperso tra i monti del golfo di Policastro non ha oltrepassato la soglia di qualche testata locale. Fino a ieri pomeriggio, quando la notizia del connazionale disperso in Italia ha aperto per qualche ora il sito di Le Figaro. Ora il caso, dopo gli appelli della signora Godard, investe i governi italiano e francese.

Il procuratore capo di Lagonegro (Potenza), Gianfranco Donadio, già sostituto procuratore nazionale antimafia e poi consulente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, ha interrotto le ferie ed è tornato ieri in ufficio per affrontare personalmente la situazione. Contattato dal Fatto, il dottor Donadio ha opposto un garbato silenzio. Sulla sua scrivania potrebbero essere arrivati alcuni fotogrammi del sistema di videosorveglianza del comune di Policastro, passato ieri al setaccio dai vigili urbani. Ritraggono un giovane con barbetta che pare essere Gautier (non è certo che sia lui), in canottiera scura, shorts e scarpe da trekking, arrivare alla stazione alle 16.11 dell’8 agosto e poi dirigersi a piedi verso una rotonda. Un giorno prima dell’incidente. Gautier avrebbe quindi dormito all’aperto nella notte tra l’8 e il 9 agosto, perché non ci sono tracce negli alberghi e nessun amico lo ha ospitato.

L’informazione può servire a capire quanti chilometri potrebbe aver percorso la mattina del 9 agosto. Forse aveva iniziato la sua escursione la notte prima. “Era molto sportivo e organizzato, e aveva preparato il suo viaggio”, sostiene un amico francese “aveva sicuramente acqua e cibo per alcuni giorni, ma non per una settimana”. Quella che è scaduta ieri, invano.