Un governo dai molti padri: un’esclusiva del “Fatto”

Il riposo ferragostano potrebbe aver sottratto ai più la lettura di un ennesimo, rilevante endorsement al possibile esecutivo giallo-rosé. Quello di Vittorio Di Battista, padre di e militante dell’ala ortodossa, come si dice sui giornali, del M5S: “Un contratto, un altro contratto con altri contraenti. Un contratto con soli 4 o 5 punti”, invoca, comm’il faut, sul web. Il Fatto Quotidiano, però, è in grado di rivelare il parere di altri illustri padri della Terza Repubblica sul possibile nuovo esecutivo. Il signor Antonio Di Maio, ad esempio, è convinto che ci siano tutte le condizioni perché il suo pargolo, capo politico grillino, stringa un patto coi democratici: “Chi ha avuto avuto avuto, chi ha dato ha dato ha dato” ci dice, “e comunque di quella storia degli operai in nero Luigi non sapeva niente”. Gran fautore di un cambio di segno della legislatura è anche Tiziano Renzi, detto Babbo, che giudica l’intesa Pd-5 Stelle “una bella cosa”: “Gli insulti dei grillini? Son ragazzi… Io comunque in Consip parlavo della Madonna di Medjugorje e delle coop non sapevo nulla, il tempo è galantuomo”. A sorpresa accetta di rispondere anche un altro babbo di peso, Pier Luigi Boschi: “Io, come sapete, mi sono occupato anche di banche e dico che è importante dare un governo al Paese: il sistema rischia di finire sotto stress. Un consiglio? Ne avrei sulle fusioni e i salvataggi bancari. A proposito, non vedo l’ora che Paragone mi convochi in commissione d’inchiesta”. I governi, si sa, hanno sempre molti padri.

 

Simenon spiega che cos’è il Mare nostrum

“Nel Mediterraneo ci si incontra sempre”.

(da “Il Mediterraneo in barca” di Georges Simenon – Adelphi, 2019 – pag. 15)

Non basta certamente un libro, tantomeno una raccolta di reportage scritti ottantacinque anni fa, per smontare le mistificazioni della propaganda sovranista su un fenomeno epocale qual è a migrazione di massa che attraversa il Mediterraneo. Ma la firma di un grande autore come Georges Simenon può contribuire forse a neutralizzarle e a correggerle. E allora, in piena emergenza Open Arms, conviene leggere Il Mediterraneo in barca, un gradevole volumetto in cui Adelphi ha radunato gli articoli dello scrittore francese apparsi per la prima volta sul settimanale Marianne fra giugno e settembre del 1934. Un’antica consuetudine editoriale che i giornali farebbero bene a riprendere e coltivare per offrire una lettura a puntate, almeno nella stagione estiva quando la gente ha più tempo a disposizione ed è più incline a riflettere.

Il libro è il resoconto di una crociera nel Mediterraneo – da Porquerolles alla Tunisia, passando dall’isola d’Elba, Messina, Siracusa e Malta – a bordo di una goletta. Una lunga crociera durante la quale l’autore, che si era ripromesso di capire e descrivere il Mare nostrum, attinge alla sua vocazione di raccontare storie. Quest’opera finisce così per essere anche un saggio antropologico su uno spazio geografico, storico e culturale che accomuna popoli e razze diverse nella dimensione esistenziale di un’antica civiltà intessuta di usi e costumi, idee e valori.

Per la maggior parte delle persone, il Mediterraneo è un mare vastissimo. Ma lo scrittore francese contesta questa rappresentazione: “Tanto per cominciare, è piccolissimo. Non a caso viene definito bacino, ma faremmo meglio a chiamarlo córso. Ed è un córso, ve lo garantisco, che assomiglia più di quanto possiate immaginare alla strada principale di una città di provincia”.

Nel tentativo d’individuare una definizione del Mediterraneo, la penna di Simenon descrive una rete di relazioni, di scambi e di traffici tra i vari Paesi affacciati sulle sue coste: “Sono le uova in conserva che dalla Turchia vanno in Spagna e i granchi che dall’Italia vanno in Russia. Sono i mercanti ebrei, armeni e greci che hanno bottega un po’ dovunque, a Barcellona, a Tangeri, a Messina. A Corinto, ad Alessandria. Sono tutte le imbarcazioni malandate che pullulano al largo delle coste greche, con i loro equipaggi sordini ed eroici. Sono le isolette dalle pareti scoscese su cui cresce una vegetazione inaridita dal sole ma che diffonde nell’aria un profumo d’incenso. È la gente che muore di fame alle pendici del Partenone e gli imbecilli che si suicidano a Montecarlo” e così via.

Ma nel suo viaggio alla scoperta del Mare nostrum l’autore è interpellato soprattutto da una domanda: la cultura latina è in declino? Ed è un interrogativo tuttora attuale, nel confronto tra la cultura europea d’ispirazione cristiana e quella araba di matrice islamica. La risposta di Simenon è un’affermazione categorica: “La cultura latina è il Mediterraneo”.

A quell’epoca, lo scrittore francese non poteva prevedere che sarebbe diventato un mare di disperazione, di sangue e di morte com’è ai giorni nostri. Alla fine del libro ricorre quindi a un calembour, per definire il Mediterraneo “un campo…di golfi!”. E spiega: “Di golfi ce ne sono dovunque, sulle coste del Mediterraneo, e io comincio a conoscerli intimamente, dopo averli a lungo considerati, come chiunque altro, semplici entità geografiche”. Ma oggi, purtroppo, c’è chi pensa di risolvere il dramma dell’emigrazione chiudendo i porti e respingendo i rifugiati. Minori compresi.

Un terzo polo per contrastare il “sistema”

Voto subito o no? Ora che il governo gialloverde è ufficialmente arrivato a fine corsa, questo è il tema che occupa le prime pagine dei giornali. Alternative al voto subito? Ci sono e fioccano le etichette: “governo di scopo”, “governo istituzionale”, “governo del Presidente” e qualcuno azzarda perfino l’ipotesi meno probabile e certamente meno rispettosa dell’esito delle urne dell’anno passato, e cioè un governo “di legislatura” M5S-Pd. In tutto questo ci sono i due “Matteo Fracassa” della politica italiana, Salvini che, zampettando fra una spiaggia e l’altra, pretende che si vada al voto subito, disposto a lanciare il Paese nel baratro pur di diventarne il nuovo Padroncino, e Renzi, che cerca di inventarsene una al giorno e ne sbaglia almeno due al dì, come il maldestro tentativo di fondare un nuovo partito politico rubacchiando il nome ad “Azione Civile”, il Movimento politico che ho fondato e presiedo fin dal 2013, con tanto di Statuto e logo depositati.

Toccherà al capo dello Stato gestire la crisi, ma le elezioni anticipate sembrano comunque inevitabili, questione di tempo, mese più mese meno. Le vuole Salvini, per tradurre in seggi il consenso certificato dai sondaggi. Ma le vuole anche Zingaretti, per derenzizzare definitivamente il Pd, che almeno in Parlamento è ancora in mano al Matteo Fracassa bis, e per drenare un po’ di voti di sinistra al M5S nel suo momento di maggiore difficoltà dopo l’exploit del 2018. L’operazione di Zingaretti, poco preoccupata per le sorti del Paese, è soprattutto furba e stabilizzante, perché ha l’ambizione di fare del Pd il principale partito di opposizione nella prossima legislatura a trazione leghista, così da ristabilire la vecchia dialettica parlamentare destra-sinistra e ripristinare quel sistema sostanzialmente bipolare crollato con la potente ascesa elettorale del M5S. C’è un solo modo per opporsi a questo scenario, mettendo in conto che inevitabilmente si andrà al voto nei prossimi mesi: guardare avanti e al dopo. Costruire un “terzo” polo, alternativo a quelli tradizionali che abbia il M5S come cardine per un progetto di reale cambiamento del Paese, visto che – come giustamente scriveva Stefano Fassina su queste stesse colonne sabato scorso – il M5S rimane “l’unico partito anti-sistema” col quale solo una “sinistra di popolo” potrebbe allearsi. Si può fare? Sì, se il M5S riconosce finalmente che non può governare da solo e invece di guardare a destra, dove ha trovato il Salvini che tutti conoscevamo e di cui non ci si poteva e doveva fidare, si apre invece ai movimenti di base, sociali e civili, a quella grossa fetta di società che dopo una lunga fase di disimpegno è di nuovo pronta a mettersi in gioco, a fare la propria parte per evitare che la destra peggiore faccia dell’Italia un Paese neoliberista, autoritario, xenofobo, intollerante. È venuto il momento che il M5S, tornando alla sua matrice originaria, si apra ad un’allenza strategica, politica e non solo elettorale, al mondo che le è più vicino e simile, per non essere costretto a fare alleanze parlamentari con chi le è più lontano e diverso, come è accaduto con la Lega, come accadrebbe col Pd. L’appello è chiaramente rivolto allo stesso tempo a tutti i movimenti civici, nazionali e territoriali, alle associazioni ambientaliste, antimafia e anticorruzione, che si riconoscono nella Costituzione, affinché lavorino insieme alla costruzione di un coordinamento nazionale per un’alleanza per il cambiamento attraverso l’attuazione della Costituzione. Un’alleanza di prospettiva, da cui potrebbe nascere una coalizione, un “Fronte Popolare e Costituzionale per Onestà e Giustizia”, guidata dal candidato premier Conte, con una lista M5S al centro e una o più liste eminentemente civiche intorno. L’Italia è a un bivio pericoloso. È il momento di mettere da parte personalismi e divisioni e di lavorare uniti per impedire che il Paese scivoli in un abisso di cui non si vede il fondo.

In aula ci vorrebbe Nando De Napoli

Ripartiamo dal calcio, quello che in Italia è la metafora diventata realtà, oppure la miglior testimonianza di come va il Paese, Silvio Berlusconi docet. Nel 1992 l’ex Cavaliere ha Fabio Capello in panchina, un altro scudetto milanista da esibire, una formazione fortissima, riuscire a segnare a quei rossoneri era impossibile, spompavano polmoni, gambe e certezze agli avversari. A centrocampo una sfilza di muscoli e cervelli di prima grandezza, eppure, sempre l’ex Cavaliere, toglie dal mercato Nando De Napoli, idolo proprio a Napoli, e lo paga tra i sei e sette miliardi.

Mica pochi.

Nando De Napoli oltre a punto di riferimento per gli azzurri campani, lo era pure per gli Azzurri nazionali.

Nando De Napoli non ha quasi mai giocato con il Milan. Ha perso pure la Nazionale.

Nando De Napoli è diventato il primo vero campione da panchina, spesso anche da tribuna, perché il Milan di allora poteva schierare due squadre e mezzo di fenomeni, una follia per i tempi, invidia e raccapriccio per chi avrebbe voluto emulare ma non capiva o non riusciva.

Il Milan di allora, però, era ancor più solido ed efficace del Milan precedente, quello di Arrigo Sacchi, dove pochissimi giocatori si massacravano per seguire le direttive serrate del mago di Fusignano, Angelo Colombo lo sapeva bene.

Quindi due stili, due percorsi, due filosofie, risultati simili.

Questo è il punto.

Davvero l’Italia sarebbe un altro Paese, la svolta, con trecento e passa parlamentari in meno? Trecento e passa parlamentari a casa e i conti dello Stato si avviano verso una maggiore solidità, lo spread lo ribaltiamo noi alla Germania, gli insegnanti precari finalmente ottengono la sognata stabilizzazione, i leader si rimettono la maglietta al mare, basta tagli alla sanità, finalmente si può puntare sul trasporto su ferro e non su gomma, le infrastrutture ripartono e mai più un Morandi sulle nostre coscienze.

Averci pensato prima.

Con qualche dubbio.

La questione non è solo il numero di deputati e senatori, ma le qualità, le capacità, la preparazione, la serietà, la voglia di lavorare e soprattutto le condizioni per raggiungere un giusto obiettivo. In teoria e in pratica per risollevare o allontanare la morte di questo Paese, servirebbero ancor più forze delle attuali, non meno: se un ponte crolla (metafora purtroppo attuale), sulla carta sono meglio novecento e passa braccia, invece di seicento, per togliere i calcinacci e provare a recuperare vite.

Quel Milan di Berlusconi era una (gioiosa?) macchina da guerra perché ognuno aveva un suo ruolo, dentro il campo e fuori; ognuno sapeva quale risultato doveva consegnare al proprietario della squadra, ognuno si dannava per raggiungere l’obiettivo studiato e fissato; ognuno si dannava per restare, non subire un taglio: meglio una panchina (o tribuna) al Milan, strapagato, per carità, che titolare in qualunque altro club. Esattamente come recita la biografia di Nando De Napoli: mai polemico in quegli anni di emarginazione sportiva, dove in tanti si domandavano il perché di quella scelta.

Quindi vanno bene, anzi benissimo, i tagli ai parlamentari, ma solo se il lavoro è organizzato, politici obbligati a produrre, consegnare risultati. Risultati tangibili e valutabili.

Gli standard europei rispettati.

E con alle spalle un’opinione pubblica che non gli consente di passeggiare per il Parlamento appena due giorni e mezzo a settimana, ferie eccessive, fughe mascherate da missioni in posti improbabili, e una lunga serie di benefit ingiustificati.

Nessuna (sana) azienda potrebbe permetterselo, solo un doposcuola per bambini lavativi o un ente di beneficenza. E qui invece è da un po’ l’ora di mettersi a lavorare, tutti, e di allenarsi come Nando De Napoli.

Mail box

 

Lega-M5S erano inconciliabili, ma hanno finto di non capire

Tav sì, Tav no; reddito di cittadinanza sì, no; sbarco migranti sì, no; nuove elezioni sì, no. Ma che diamine! Quando all’inizio della convivenza le due forze politiche hanno elencato le loro priorità per diventare amiche, hanno fatto finta di non sapere o di non capire che l’una era l’opposto dell’altra? Se da una parte abbiamo l’inesperienza di un partito nuovo e dall’altra la furbizia stolta di un partito vecchio, cosa devono fare ora i 5S? Tentare un nuovo impasto con il Pd? Sì, direi io. Ma rischiano di essere fagocitati perché, per dirla con Ibsen, il M5S è un nemico del popolo!

Roberto Calò

 

Chissà se Salvini crede ancora alle promesse di Berlusconi

Berlusconi aveva promesso a Salvini che sarebbe stato il premier di una coalizione di centrodestra se avesse fatto cadere al più presto il governo con i 5 stelle. Sarà stata una promessa vera o Salvini c’è cascato? Non sarebbe strano che qualcuno abbocchi alle promesse di Berlusconi: lo hanno fatto tutti gli ex leader. Gli elettori della Lega però non ci stanno a questa presa in giro e, con o senza il consenso di Salvini, scrivono già in tanti al giornale francese Le Figaro : “L’Italia fuori dalla Ue”. Servirà per avvertire Salvini di non fare scelte sbagliate e prendere le distanze da Berlusconi?

Mario Corti

 

Ho fatto un sogno: la legge sul conflitto d’interessi

Nel suo, come sempre brillante, editoriale del 14 agosto, Marco Travaglio ha fatto fare a Salvini un sogno da incubo. Forse sula scia di quell’articolo, io, la notte seguente, ho fatto quest’altro sogno: formato il governo Pd-5 Stelle, Berlusconi, sfumata la possibilità di fare il ministro della Giustizia e successivamente il presidente della Repubblica dopo il settennato Mattarella, scatena le sue televisioni e i suoi giornali contro il governo. A quel punto, anche perchè pressato dai 5 Stelle, il Pd si accorge che forse qualcosa non va nel far detenere mezzi di comunicazione, addirittura in forma di quasi monopolio nella tv privata, a chi sceglie di far politica. Così, con 25 anni di ritardo, si vara finalmente, tra le inutili urla del centro destra, una breve legge di un solo articolo “chiunque detiene quote di partecipazione in società che gestiscono direttamente o indirettamente mezzi di comunicazione, non è candidabile ad alcun pubblico consesso”. A quel punto mi sveglio, e per non cadere nello sconforto che si era trattato soltanto di un sogno, porto alla mente una bella massima dello scrittore e filoso francese Paul Valery: il miglior modo di realizzare i propri sogni è svegliarsi.

Enzo Ciciliani

 

È la Costituzione a indicarci la strada da seguire

Il Fatto Quotidiano è nato con lo scopo di informare i cittadini, scegliendo come unico editore la Costituzione della Repubblica Italiana. I Padri costituenti, conoscendo il tarlo del popolo italiano, hanno impedito l’elezione diretta del presidente del Consiglio e cancellato la figura del capo del governo. Anche nella crisi di governo è la Costituzione che ci indica la strada da seguire. Ora che il cazzaro si è autoeliminato è tempo che la maggioranza naturale fra M5S-Pd-Leu formi il nuovo governo con Giuseppe Conte presidente del Consiglio perchè ha dimostrato di essere l’unico ad aver capito la differenza fra comandare e governare.

Giuseppe Ostellari

 

Greta è un esempio per tutti, anche per i detrattori

Greta Thunberg salpa per New York a bordo di una barca a emissioni zero, in vista del prossimo summit dell’Onu sul clima. Lo yacht da regata è salpato dal sud dell’Inghilterra ed è comandato dal principe Pierre Casiraghi. Ho letto molte speculazioni su questa nuova impresa di Greta, sui suoi presunti privilegi e di come sfrutta la propria popolarità per salire “a bordo di uno yacht di un miliardario”. E a queste persone, questi detrattori che si permettono di denigrare ciò che la Thunberg sta compiendo, vorrei chiedere: e voi cosa avete mai fatto per la salvaguardia del clima? La raccolta differenziata? Avete mai tenuto comizi pubblici per sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli dell’inquinamento? Greta Thunberg è un esempio e una ispirazione per tutti coloro che non vogliono accettare passivamente che l’uomo continui a inquinare e sporcare questo bellissimo pianeta che ci ospita.

Cristian Carbognani

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo “Quando gli ex padroni dell’Ilva volevano bloccare Nadia Toffa” a firma di Francesco Casula, pubblicato il 15 agosto su il Fatto, desidero precisare che non è mia abitudine dar corso a pressioni, vere o millantate (come in questo caso) di qualunque tipo per censurare le voci che compongono la polifonica informazione Mediaset. Ne è prova che i servizi in questione sono andati puntualmente in onda.

Mauro Crippa, Direttore Generale Informazione Mediaset

 

La replica di Crippa conferma quanto scritto dal Fatto: i Riva non riuscirono a bloccare il servizio de Le Iene. Non una parola di Crippa sulla ”svista” di Mediaset verso l’impegno di Nadia Toffa verso Taranto.

F.Ca.

Libri. Per Amazon Milano batte tutti. Peccato si leggano solo Totti e Saint-Exupéry

Amazon ha diffuso la top ten delle città appassionate di libri. Per il settimo anno consecutivo Milano si posiziona in testa, seguita da Padova (che ha surclassato Torino, scivolata al sesto posto) e da Pisa, la vera novità della classifica. Certo, questi dati corrispondono soltanto ai libri acquistati sul colosso della distribuzione – che se non erro concede anche sconti maggiori rispetto alle librerie. Scorrendo la lista, poi, noto con dispiacere che neanche una città del sud si è posizionata tra le prime dieci. Eppure, ogni volta che viene diffusa una notizia sulla lettura, mi viene da sperare che finalmente anche l’Italia stia ricominciando a sfogliare volumi. Perciò vi chiedo: è così? Come siamo messi rispetto agli altri Paesi europei?

Ottavia Sallustri

 

Gentile Ottavia, leggendo quella stessa lista cui lei fa riferimento, di primo acchito sono stato contento sia per Milano, che riconferma la sua bibliofilia, sia per il debutto di Padova e Pisa, così come per Roma che sale al quinto posto; meno, invece, lo debbo riconoscere, per Torino. Rimane la città del Salone Internazionale del libro e la notizia che sia rovinata dal secondo al sesto posto mette un po’ di mestizia. Certo, come lei rileva, purtroppo poco sud. Ma la questione della cultura nel Meridione passa anche attraverso i pochi luoghi in cui potersi rapportare a essa (librerie, teatri, musei). Ma a ben leggere quella lista, e qui vengo a uno dei suoi interrogativi, la contentezza mi ha in qualche modo abbandonato. Il primo libro cartaceo più acquistato è “Un capitano”, la biografia di Francesco Totti; la medaglia d’argento va a “Vivere 120 anni. La verità che nessuno vuole raccontarti” di Adriano Panzironi. Al terzo posto si piazza “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry. Riassumendo: un libro d’intrattenimento di un celebre sportivo e volto dello show-biz, un manuale di auto-aiuto che scade nel ricettario illuminato e un classico della “letteratura orizzontale” (chiamata così perché niente si solleva dal piano). Adesso siamo di fronte a un bivio: esser contenti purché si legga (e dunque qualsiasi cosa) o puntare alla qualità di quello che si legge? Io opto per la seconda, e le consiglio tre libri stranieri che nelle rispettive patrie (dove si legge molto più che in Italia) sono stati dei casi: “Cambiare l’acqua ai fiori” (e/o) di Valérie Perrin (Francia); “Le difese” (Bompiani) di Gabi Martínez (Spagna); “Ricordi del futuro” (Einaudi) di Siri Hustvedt (Usa).

Angelo Molica Franco

 

Così Il populista di governo diventa “sbiadito”

La difficoltà dei movimenti populisti di superare la prova del governo è nota da sempre a coloro che li hanno fatti oggetto di attenzione sul piano scientifico e non meramente polemico. Malgrado qualche isolato parere discorde, quasi tutti gli studiosi concordano nel constatare che, in Europa, ogni volta che uno di essi ha raggiunto posizioni di potere, le sue contraddizioni interne si sono accentuate e lo scarto fra le promesse sparse a piene mani e gli impegni effettivamente mantenuti è apparso così evidente da far calarne in breve tempo, spesso in misura vertiginosa, il consenso elettorale.

Di solito, queste prestazioni fallimentari sono state ricondotte a due cause principali. Da un lato, la subordinazione ad alleati più potenti ed esperti delle pratiche e dei sotterfugi amministrativi con cui erano stati costretti ad allearsi (ad oggi, se si esclude il controverso caso dell’Ungheria di Orbán, che appare molto più assimilabile al sovranismo, nessuna formazione populista è riuscita a conquistarsi una forza parlamentare sufficiente a governare da sola: tutte hanno dovuto puntare su coalizioni dove svolgevano un ruolo subalterno), che ha impedito ai populisti di varare le politiche sbandierate nei programmi elettorali e li ha posti di fronte alla secca alternativa fra l’accettare compromessi, anche pesanti, o tornare all’opposizione. Dall’altro, l’obbligo di dover indossare gli scomodi panni del formalismo istituzionale, rinunciando a quelle caratteristiche movimentistiche di linguaggio e comportamento, spesso chiassose e plateali, che avevano gettato le basi del loro successo presso i settori dell’elettorato più irritati verso l’establishment. Il connubio di questi fattori ha turbato, e il più delle volte condotto al naufragio, le esperienze ministeriali della Lista Pim Fortuyn in Olanda, della Fpö con e dopo Haider in Austria, della Lega Nord in Italia, dei Perussuomalaiset in Finlandia e di altri partiti della stessa famiglia nell’Europa orientale.

Il caso italiano scaturito dalle elezioni del 2018 è subito apparso come una duplice anomalia in questo panorama, perché metteva insieme due partiti da molti – anche se non da chi sta scrivendo queste righe, che ha sempre distinto il populismo allo stato puro di Grillo da molte delle opinioni e delle azioni dei suoi seguaci a Cinque stelle – descritti come populisti, senza l’impiccio di terzi incomodi, e perciò lasciava ad entrambi la libertà di mostrarsi per quello che ritenevano di essere, senza doversi piegare a ritualismi o genuflessioni al politicamente corretto. E in un primo tempo è sembrato (a chi non aveva pregiudiziali motivi di ostilità nei confronti dell’esecutivo giallo-verde) che l’esperimento potesse funzionare sulla base di una classica divisione dei compiti: mettendo da parte le questioni più scottanti, il “contratto” sottoscritto avrebbe potuto consentire sia al M5S sia alla Lega di puntare su provvedimenti adatti a sollecitare il consenso dei rispettivi elettori. Stando ai sondaggi, questa soddisfazione si è mantenuta nel tempo, tenendo sempre il governo Conte sopra il 55% dei pareri favorevoli. La lotta per la supremazia in vista delle elezioni europee ha però radicalmente modificato il quadro.

A sbagliare, in quella fase, sono stati – a parere di chi scrive – entrambi gli alleati/concorrenti. Di Maio e i suoi, prestando orecchio ad interessati suggeritori che li accusavano di tenere un profilo troppo basso di fronte al protagonismo di Salvini, invece di valorizzare i risultati ottenuti conformi ai loro programmi, hanno accresciuto di continuo le critiche e i distinguo nei confronti del partner, consentendo a quest’ultimo di assumere toni vittimistici e strumentalmente concilianti. Quel che più conta, fra le file ex-grilline ha preso piede una tentazione letale, quella di fare la parte della sinistra contro una destra, dimenticando che a gran parte degli elettori populisti (Cinque Stelle inclusi) il gioco bipolare appare insulso e superato. Risultato: come dimostrato dagli studi sui flussi, un terzo degli elettori M5S del 2018 ha preferito votare Lega poco più di un anno dopo. E invece di riflettere su questo dato e fare marcia indietro in fretta (come, fra le righe, ha fatto Di Battista al suo rientro sulla scena), alcuni big del movimento hanno ceduto ancor di più alla tentazione.

Il resto del danno al governo lo ha fatto la Lega. Che ha smesso quasi subito, di fronte alle prese di distanze degli alleati, di recitare la parte del coniuge inconsapevole e stupito dell’altrui tradimento e si è gettata a capofitto nella disfida, spesso più ad opera di altri esponenti che del suo segretario. Drogato dalle cifre dei sondaggi, Salvini si è via via spinto sul terreno dello scontro aperto e della “destrizzazione”, restringendo drasticamente il perimetro della sua “populismità” al binomio immigrazione-sicurezza e minimizzando, fino praticamente a cancellarli se non ad invertirli, i toni anti-corruzione, anti-casta, anti-globalizzazione e anti-poteri forti che erano sempre stati la sua bandiera dai tempi di Bossi in poi.

È fin troppo evidente che questa svolta è stata ispirata dalla convinzione di poter risucchiare la maggioranza degli elettori di Forza Italia e assicurarsi la collaborazione di Fratelli d’Italia in vista di un nuovo esecutivo dove esercitare la parte del leone. Ed è altrettanto chiaro che il desiderio di andare al più presto alle urne ha lo stesso motivo. Ma, a prescindere dalla tutt’altro che certa possibilità di raggiungere lo scopo, stanti i poteri e le volontà di Mattarella, le manovre in corso nel Pd e le sicure tentazioni di restare al proprio posto per un altro bel po’ di tempo di un bel gruzzolo di parlamentari, la mossa di Salvini rischia di dare frutti ben diversi da quelli attesi. Molti elettori hanno infatti scelto la Lega alle europee perché soddisfatti della sua decisione di contribuire alla nascita del governo Conte e per darle una maggiore capacità di influenza su di esso, non per vederla ritornare ai connubi con Berlusconi e soci. Questo è, con ogni probabilità, il caso di quei votanti strappati al M5S di cui prima accennavamo, e di parecchi altri fra coloro che, pur di fronte al non edificante spettacolo dei litigi continui fra “gialli” e “verdi”, hanno continuato ad esternare il loro apprezzamento nei confronti dell’esecutivo.

Il leader leghista pensa, probabilmente, di essere in grado di sostituire questi elettori fluttuanti, che potrebbero “tornare a casa” o astenersi, con i moderati e conservatori in uscita da Forza Italia. Detta in altre parole, di surrogare i populisti delusi con i neo-sovranisti. È un calcolo azzardato, che rischia di porre Salvini sotto l’ipoteca di futuri alleati non più affidabili dei Cinque Stelle, in quanto concorrenti diretti alla conquista futura del suo elettorato e, nel caso di Berlusconi e dei suoi, desiderosi di prendersi, non appena possibile, la rivincita sull’usurpatore. L’insuccesso del governo “populista” potrebbe quindi essere un boomerang per l’aspirante nuovo Uomo solo al comando.

Lavoratori malati o in congedo: saltano 23 treni in Liguria

Sono 23 i treni“saltati” in Liguria, durante il week end di ferragosto, a causa della mancanza di personale a bordo. La causa per Trenitalia è la “indisponibilità” di numerosi lavoratori a causa di congedi parentali per nascita di figli o per malattia. L’azienda ha provato ridurre i danni sostituendo i 23 convogli regionali con 10 autobus e aumentando il numero di fermate di altri treni, ma non potrà neutralizzare i disagi che centinaia di utenti dovranno subire in questi giorni.

Duro l’attacco della Cgil che ha sottolineato come non si tratti di “indisponibilità del personale”, ma di “disorganizzazione aziendale”. “Le carenze di personale – ha spiegato Cgil – più volte denunciate dal sindacato, a causa dell’inadeguatezza del coefficiente sostituzione assenti applicato ai turni, sono confermate dalle cancellazioni”. Grave disappunto dell’assessore regionale ai trasporti Gianni Berrino che ha scaricato su Trenitalia tutta la responsabilità per il grave danno patito da turisti e territorio: “Nessuna sanzione – ha detto Berrino – che commineremo a Trenitalia potrà ripagare del danno di immagine inferto”.

Il bazooka Bce (ri)spara da settembre

L’economia europea, quella tedesca in testa, crolla nella fase centrale dell’anno e difficilmente cambierà rotta nella seconda: tra guerra dei dazi e politiche deflattive che nessuno pare voler cambiare, la strada sembra segnata per una nuova recessione nel Vecchio Continente. Tradotto: la strada per un secondo Quantitative easing della Bce che spinga almeno un po’ più in là il redde rationem europeo è in discesa.

Per calmare definitivamente (almeno) i mercati, ora, servirebbe che anche la Fed americana – che il 31 luglio ha già smesso di distruggere liquidità – inaugurasse il suo quarto atto di politica monetaria espansiva dall’inizio della grande crisi seguendo i pressanti “consigli” di Donald Trump che vuole un dollaro più debole per riequilibrare la bilancia commerciale statunitense.

Per tranquillizzare tutti sul fatto che l’Europa farà il suo, ieri ha parlato – e sul Wall Street Journal – il governatore della banca centrale finlandese (e membro del board della Bce) Olli Rehn: il rallentamento dell’economia globale, ha detto, costringerà l’Eurotower a far partire un nuovo programma di acquisti “sostanziali e sufficienti” di obbligazioni (il nuovo Qe già annunciato a luglio per la metà di settembre) e ulteriori tagli dei tassi di interesse. Un pacchetto di stimoli, dice Rehn con parole scelte non a caso, “oltre le attese degli investitori”. Parole di miele per il sistema finanziario, un po’ meno per l’economia reale che non pare essersi giovata granché degli “easing” precedenti di Mario Draghi.

I mercati, però, hanno reagito esattamente come Rehn (e Draghi) si aspettavano: le Borse europee sono tornate in positivo dopo i tonfi prima di Ferragosto. Anche il mercato dei titoli di Stato, ammesso che sia una buona notizia, s’è mosso abbassando ulteriormente le richieste di rendimento: il Btp, il titolo decennale italiano, pagava ieri l’1,4%, come nel 2016, nonostante la pazza crisi di governo in atto; il Bund tedesco (lo spread ha chiuso poco sopra 200) flirtava ancora con un interesse negativo vicino allo 0,7%, un’enormità.

Almeno per ieri la “colomba” Rehn ha tenuto in piedi anche i corsi borsistici del settore bancario europeo. Non c’è molto da festeggiare, però: sulla testa della Bce aleggia ancora – e anche grazie ai tassi a zero che uccidono i margini delle banche – un possibile “Lehman moment” (cioè il crollo improvviso di un grande istituto di credito): non è ovviamente la sola a soffrire, ma durante la giornata di ieri – finita con un importante recupero a fine seduta – la più grande banca europea, Deutsche Bank, ha toccato di nuovo i suoi minimi storici in Borsa sotto i 5,8 euro per azione, quasi un livello di non ritorno.

“Il Pd più simile a noi della Lega. Ora si provi a fare un governo”

“Ora che Salvini ha fatto l’irresponsabile mettendo i suoi interessi davanti a quelli del Paese, dobbiamo provarci”.

A fare cosa?

“Un governo col Pd e con tutte le altre forze di sinistra (come LeU) con cui, per collocazione storico-politica, il M5S ha sempre avuto più cose in comune rispetto alla Lega”.

Il telefono squilla a vuoto, due volte. Poi Filippo Nogarin richiama: “Stavo sistemando una cassettiera, adesso ho più tempo da dedicare alla famiglia”. Ex sindaco di Livorno che a maggio ha mancato l’elezione all’Europarlamento, alterna giornate al mare nella sua Quercianella (“ci sono gli scogli più belli d’Italia”) alla scrittura di un libro sui cinque anni di governo cittadino. Ma non per questo ha smesso di parlare coi big nazionali dei 5 Stelle: da Grillo a Casaleggio passando per Di Maio, Di Battista e Fico.

Sta proponendo un governo con i vostri nemici storici?

Sì e il motivo è molto semplice: una delle caratteristiche del Movimento è quella per cui, quando si fa attività politica, mettiamo davanti a tutto l’interesse della collettività più che quello del Movimento stesso. E adesso che Salvini ci ha tradito per provare a capitalizzare il proprio consenso, tocca a noi fare gli interessi del Paese facendo accordi, anche scomodi, per evitare situazioni dannose gli italiani.

Per esempio?

Su tutte l’aumento dell’Iva, che ci porterebbe in recessione, e il rischio di una legge di Bilancio scritta in fretta e furia a dicembre con lo spettro dell’esercizio provvisorio.

Che tipo di governo dovrà essere quello M5S-Pd?

Facciamo un passo indietro: un anno e mezzo fa l’accordo è stato fatto con la Lega perché Renzi chiuse le porte, da segretario del Pd, a un esecutivo con noi. Il contratto di governo rispondeva all’esigenza di sintesi tra due forze politiche molto diverse tra loro che si assumevano la responsabilità di governare il Paese. Oggi possiamo fare la stessa cosa con la seconda forza politica del nostro Parlamento, il Pd. L’importante è che questo governo metta al centro alcuni temi fondamentali.

Quali?

L’ambiente prima di tutto, i temi del sociale (lavoro e welfare sulla falsariga del reddito di cittadinanza), il taglio dei parlamentari per ridurre i costi della politica e, me lo lasci dire perché mi sta a cuore, la sicurezza sulle nostre strade: ogni anno muoio centinaia di persone (spesso ragazzi) e questo tema non è mai entrato nell’agenda politica. Credo che su questi punti si possa trovare una convergenza programmatica con il Pd e le altre forze di sinistra.

E sarebbe un governo di “scopo” o di legislatura, come propongono i dem?

Non mi impicco alle formule, le scelte sono prerogativa del presidente della Repubblica Mattarella. Lasciamolo lavorare in pace. Certo, le riforme da fare potrebbero far pensare anche a un governo che duri più tempo.

Mi dica i primi provvedimenti che dovrebbe fare questo governo.

Oltre al taglio dei parlamentari, la riforma della giustizia sul modello di quella proposta da Alfonso Bonafede, una legge sul welfare come il salario minimo e la revisione dei decreti sicurezza voluti da Salvini, anche seguendo le indicazioni del Quirinale.

E come spiegherete ai vostri elettori un governo con Renzi e la Boschi?

Le rispondo con una provocazione: quando Beppe Grillo entrò in politica, nel 2009, tentò un’opa interna al Pd per riportare quel partito sulla strada giusta, tornando a combattere il nostro nemico comune: Silvio Berlusconi. Il Pd rifiutò la corsa di Beppe alle primarie ma oggi la storia ci ha dato ragione e il nemico resta quello, seppure con un altro nome e cognome: Matteo Salvini. Tante cose sono cambiate oggi e non mi sconvolgerei davanti alle possibili critiche dei nostri elettori: a me appassionano i risultati che un governo di questo tipo potrebbe portare.

Il segretario del Pd Zingaretti, però, potrebbe chiedere ai vostri big, Di Maio su tutti, di fare un passo indietro.

Per adesso è fantapolitica, vediamo cosa succede con la possibile sfiducia a Conte e con la Direzione nazionale del Pd il 21. Poi apriamo una trattativa…

E lei? Avrà un ruolo?

Tutti i giorni leggo di retroscena che mi vorrebbero presidente della Regione Toscana, ministro, sottosegretario, ma io adesso mi godo le vacanze. In futuro si vedrà: ma sono certo di poter dare ancora un grosso contributo al Movimento 5 Stelle dopo l’esperienza di governo che abbiamo fatto a Livorno negli ultimi cinque anni. Per quello ci sarà tempo.