Accattonaggio molesto

È falso che Salvini abbia offerto a Di Maio di fare il premier: gli ha proposto la presidenza della Repubblica. Di Maio, dall’altro capo del filo, ha obiettato che bisogna aver compiuto 50 anni e lui ne ha 33. E Salvini, pronto: “Cambiamo la Costituzione. O eleggiamo tuo padre. Comunque avevi ragione: la Tav è una boiata. Fammi sapere, il mio telefono è sempre acceso”. Di Maio non ha più chiamato nè risposto. Allora Salvini gli ha telefonato da numero sconosciuto facendo l’accento svedese: “Pronti? Sono Giorgetti. Dice Matteo che Conte può restare premier e tu vicepremier unico. Lui si fa da parte. Per l’Interno pensava a Toninelli, che è un ragazzo sveglio, da lui sempre apprezzato come ministro dei sì. Non è una gran rinuncia, tanto lui al Viminale non ci andava mai”. Clic. A quel punto ha provato con Conte: “Presidentissimo! No, per quell’equivoco della crisi, ecco, ero un po’ su di giri per i mojito, ma mi sto disintossicando. Martedì ti diamo la fiducia e poi ti veneriamo per quattro anni. Santissimo Conte, quanto ci piaci a noi leghisti! Noi siamo personcine perbene che non farebbero male nemmeno a una mosca, figuriamoci a un santone come te, anzi varrai più di una mosca? Ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi senza chiederti nemmeno di stare fermo: puoi muoverti quanto ti pare e piace, e noi zitti sotto”. Clic. Poi ha chiamato Di Battista: “Ehilà Dibba! Ho appena finito il tuo libro: capolavoro! E il tuo reportage dal Sudamerica, io e la Francesca non riusciamo a smettere di riguardarlo. Pure mio figlio, io gli dico sempre ‘Fatti un giro sull’acquascooter della Polizia’. Ma lui niente, solo il tuo reportage!”. Clic.

Allora ha tentato con Fico: “Compagno Roberto, parla il comunista padano! Buona questa. Ma lo sai che non ne sbagli una? Quella sul 2 giugno dedicato ai rom m’ha commosso! E l’uscita dall’aula per quella cagata del Sicurezza bis (che non so a chi è venuto in mente: dev’essere lo stesso fenomeno della Flat Tax, della legittima difesa e delle autonomie): uno spettacolo! Sai che mi sto fidanzando con Carola?”. Clic. Ultimo tentativo con Bonafede: “Grande Alfonso! Allora siamo d’accordo: prescrizione abolita già dalle indagini, ergastolo per l’abuso d’ufficio, sequestro preventivo del Papeete, Siri e Savoini al gabbio. Ok?”. Clic. In attesa di essere ricevuto da qualcuno, s’è seduto sul marciapiede sotto Palazzo Chigi fra due cartoni, cappello in mano e cartello al collo: “Rovinato dalla crisi. Fino a 10 giorni fa ero il padrone dell’Italia”. Ma è subito arrivata la polizia: “Lei è in arresto per accattonaggio molesto, ai sensi dei decreti Sicurezza uno e bis”. E l’ha portato via.

Un tuffo dove l’acqua è più blu: il mare “brontolone” di Michelet

Sepolto e obliato ormai anche in patria, il nome dello scrittore francese Jules Michelet (1798- 1874) rischia di dire poco al lettore estivo, preso com’è a scegliere il giallo da mettere nella borsa della villeggiatura ferragostana. Basti dire che, di lui – in un bellissimo testo dal titolo Michelet par lui-même, che nessun editore ha oggi l’ardire di ripubblicare – Roland Barthes, che ha il potere di legittimare qualsiasi cosa tocchi, ha scritto “Michelet bruca la storia, la percorre e la inghiotte”. E se si parla di Storia, e a ragione, è perché il caro Jules è soprattutto l’autore di due opere fondamentali (e lunghissime): Storia della Francia (diciannove volumi) e Storia della rivoluzione francese (sette volumi), le cui ricostruzioni liberali gli valsero la sospensione, in epoca napoleonica, dei suoi corsi al Collège de France, a cagione dello sguardo rivoluzionario rivolto alle questioni nazionali.

Prolifico narratore delle mitologie che caratterizzano il quotidiano, Michelet è colui che ha dato avvio a un’etnologia della Francia attraverso l’interrogazione degli oggetti ritenuti più naturali quali il cibo, i visi o i vestiti. Per realizzare le sue opere più importanti e auscultare da vicino il polso degli svariati oggetti del suo studio, viaggiò in lungo e in largo per tutta la nazione, applicando la sua bibliofilia anche all’osservazione della natura. Dall’innamoramento per quest’ultima, nasce un parallelo filone della sua produzione, consacrato alla storia naturale. Ne fanno parte, L’insecte, L’Oiseau, La Montagne e Il mare, quest’ultimo riproposto oggi dall’editore Elliot (traduzione di Valerio Auresi, pp. 240, euro 20), che inizia in medias res, così: “Un coraggioso marinaio olandese, calmo e freddo osservatore, una vita trascorsa sul mare, ammette francamente che la prima sensazione che questo ci trasmette è la paura”.

Scritto nel 1861, in pieno fervore romantico, l’autore trasmette subito ciò che eccita la sua immaginazione: il senso dell’infinito di fronte all’immensità del mare e insieme la paura dell’uomo impotente nella sua piccolezza al cospetto della vastità distruttrice marina.

E di eccitamento, Jules, se ne intende. Nel suo Journal annota che l’idea di come iniziare il libro gli è venuta una sera proprio alla fine di un amplesso con la sua seconda moglie (di molto più giovane), Athénaïs che lo segue o lo aiuta nelle ricerche, ancora fresco di orgasmo. Dal 1851 al 1860 i coniugi soggiornano in diverse località per osservare e compilare annotazioni per il libro.

Considerato un classico della letteratura e un testo di riferimento, il libro restituisce uno sguardo multiplo sul soggetto marino e gioca come uno zoom (ma prima che lo zoom sia inventato) ad avvicinare il lettore di volta in volta, o meglio di capitolo in capitolo, al mare. Si procede da osservazioni di tipo oceanografico e fisico nelle prime due parti – Uno sguardo sui mari e La genesi del mare – sulle spiagge, le falesie, le tempeste, la vita delle balene, che definisce “tenere madri”. Per poi addivenire a una lettura antropologica e culturale del mare nelle restanti due parti: Conquista del mare, La rinascita attraverso il mare, in cui Michelet avviticchia alle leggende delle sirene e dei fondali marini il senso della curiosità umana.

Ciò approssima il mare quale elemento familiare poiché riesce all’autore pagina dopo pagina, storia dopo storia, di raccontare un innamoramento per la distesa marina che aureola a “amica, madre e nutrimento per gli esseri umani”.

Una filosofia del mare, dunque, che insegna a non limitarci a guardarlo da riva, ma spinge a tuffarci e ascoltarlo dato che “L’Oceano parla. L’Oceano è una voce. Parla agli astri lontani, risponde ai suoi movimenti nella sua lingua grave e solenne.” scrive sul finale Michelet, che conclude riposizionando al centro della sua lirica ed emozionata divagazione sul mare e la sua natura, l’uomo, a cui il mare soprattutto si rivolge.

Cosa gli dice? È Michelet a rispondere: “Il mare dice la vita… dice l’immortalità… dice la solidarietà…”.

Il mercato cresce grazie a Spotify. Ma si arricchisce solo Spotify

È un pozzo avvelenato, ma tutti continuano a buttarcisi dentro. Lo streaming musicale induce gli addetti ai lavori a giubilare per percentuali di ricavi che, a prima vista, paiono boccate d’ossigeno per un’industria cronicamente in crisi. Intanto, sotto traccia, si uccide la creatività inducendo alla resa gli artisti meno protetti.

Giorni fa, la Fimi (l’associazione delle etichette discografiche di peso in Italia) esultava per un consuntivo semestrale da 86 milioni di euro, +5% rispetto al 2018. Occhio: la filiera nazionale è alimentata per tre quarti, ormai, dal consumo digitale, mentre i prodotti “fisici” hanno subìto un ulteriore calo. Ma il nostro è solo il dodicesimo mercato sullo scacchiere mondiale. Pochi spiccioli: il Global Music Report diffuso in aprile dalla Ifpi (International Federation of Phonographic Industry) sottolineava una crescita complessiva del settore per il quarto anno consecutivo, con introiti per 19,1 miliardi di dollari (+9,7%) e lo streaming a doppiare il fisico, in una marcia inarrestabile verso la prossima dittatura tecnologica: quella dove scomparirà anche il download a pagamento, mentre già chiudono le fabbriche di stampaggio dei cd, e l’unico possibile ribaltone di nicchia resta quello del vinile.

Nel magico caleidoscopio dove roteano numeri e bilanci, il dominio planetario è nelle mani dei satanassi svedesi che hanno inventato Spotify. L’utente clicca e accede a un’inesauribile miniera di note. Si sofferma su una raccolta di brani preconfezionata, e in un attimo diventa cliente a sua insaputa. Perché se naviga gratis lì dentro, una diavoleria di nome Puma (Playlist Usage Monitoring Analisys) lo inonderà di pubblicità ad hoc. Se invece opterà per un abbonamento premium si salverà dalla iattura degli spot su misura, ma pagherà i suoi 9,99 euro senza di fatto scegliere tra milioni di brani che non ascolterà mai, permettendo però a Spotify di pagare i diritti soprattutto agli artisti e alle case discografiche in evidenza sulle playlist. E per gli altri, gli illusi dell’autoproduzione? Briciole: qualcosa come 0,004 centesimi ad ascolto, un’elemosina insultante, destinata a spezzare sul nascere i sogni di chi voglia inventare musica che si discosti da quella “urban”, pop o trap dominante, destinata soprattutto ai teenager. Con buona pace dell’utopia di internet: puoi sì pubblicare musica sul web, ma di te non si accorgerà nessuno. Presto, ti mancheranno le risorse per crederci ancora. Una selezione naturale che taglia fuori non solo i talenti squattrinati dell’alternative rock, ma anche i campioni del jazz o della musica colta. Attenti: i padroni del pozzo avvelenato non sono solo quelli di Spotify, ma anche i signorotti di Apple, che hanno buttato a mare il non più redditizio iTunes dei download per concentrarsi sullo streaming, e che hanno comprato Shazam per “riconoscere” in tuo nome i brani che ascolti al supermercato, propinandoteli poi in astute playlist.

L’unica, romantica speranza di rovesciare il tavolo è una ben più solida rinascita del vinile. Ma occorrono coraggio e investimenti. Vendendo appena 100 long-playing, un musicista guadagnerebbe la stessa cifra per la quale servirebbero 368mila ascolti su Spotify o due milioni e mezzo di visualizzazioni su Youtube. Dovremmo tutti innamorarci di nuovo, grandi e piccini, del Dio Disco: quello che si poteva ascoltare solo a casa e non in movimento, su un impianto di alta fedeltà, rigirandoci tra le mani la copertina con una devozione da adepti. Oggi il mondo procede in direzione opposta: dopo la morte di cassetta, cd, mp3 e download i padroni del pozzo ci invitano ad avvicinarci a quel buco nero dove la prima cosa che vedi è la silhouette di Sfera Ebbasta.

Guerra senza pace e Moby Dick s’è estinto

Quel che Greta Thunberg, l’Onu e gli amici Verdi si sono dimenticati di dire – e di valutare – è l’impatto del cambiamento climatico sulla letteratura: questa sì, una vera catastrofe. Ispirato dal recente rapporto (Ipcc) delle Nazioni Unite, ecco un elenco di classici da riscrivere o addirittura in via d’estinzione a causa del riscaldamento globale e altre sciagure in corso. Poco male: meno libri, meno carta, meno alberi abbattuti. E tanti applausi dagli amici green.

CALDO ESTREMO VS SICCITÀ. Nel 2030 si stima un aumento delle temperature di 1,5° C con bizzarrie meteorologiche varie: freddo al Sud e caldo al Nord. Che triste sarà il Canto di Natale con clima primaverile: i poveri da sfamare rimarranno sempre, ma senza il fascino della neve non se li filerà più nessuno. Dovremmo accontentarci della Bella estate perenne o del Sogno di una notte di mezza estate che si replica tutto l’anno: una noia mortale. “L’invero del nostro scontento – altro Shakespeare: già sapeva – s’è fatto estate sfolgorante”; perciò non lamentiamoci. Come consolazione, rileggere Ghiaccio nove; oggi suona apocalittico, domani ci sembrerà una favola per bambini: avercela una sana glaciazione.

DESERTIFICAZIONE. Mentre i ghiacciai si sciolgono, le isole vengono sommerse e le spiagge erose. Chi farà più la Gita al faro se l’oceano s’è inghiottito il faro? Ciao anche agli atolli belli, e meno belli: L’isola del tesoro; L’isola di Arturo (Procida); gli scogli del Conte di Montecristo; Robinson Crusoe e naufraghi vari. Con loro se vanno pure le Lettere da Capri e i Quaderni di Lanzarote, a meno che qualcuno, previdentemente, non li abbia prima imbottigliati e affidati ai flutti. Tra i flutti è sparita anche una città: più che Morte a Venezia è morta Venezia. Ma si sapeva. L’unico felice, dell’avanzata di acque e sabbie, è Il piccolo principe: dal deserto non se ne andrà più, anche perché è tutto deserto. Gli farà compagnia quell’altra svalvolata, la Dorothy del Meraviglioso mago di Oz: i tornadi sono la sua passione e, col tempo che fa, potrà viaggiare in uragano a giorni alterni.

DISBOSCAMENTO. Con l’imminente crisi agricola non sarà difficile trovare le Anime morte, alias servi della gleba del feudalesimo ripristinato ad hoc. Addio monti: Il monte analogo, La montagna incantata e Le otto montagne, o forse quelle otto reggeranno all’erosione e alle frane. Per non sbriciolare ulteriormente la terra bisognerà rinunciare alle bonifiche: sono perniciose, sostiene l’Onu, citando il risanamento delle paludi in Indonesia e Malesia. Dalle nostre parti toccherà piantar lì il Canale Mussolini: le grandi opere hanno rotto.

DIETA VEGETARIANA.Il mondo, dicono, sarà diviso in due: di qua le carestie e la fame, di là lo spreco alimentare e l’obesità. Nel dubbio, consiglia sempre l’Onu, tenersi nel mezzo: una dieta parca e bilanciata, meglio se vegetariana. Bene, dunque, si comportano I mangia a poco, anche se dovrebbero ridurre il consumo di carne rossa. Bocciati, invece, i crapuloni del Satyricon: mangiano e bevono troppo. E l’alcol verrà presto bandito.

EMISSIONI ZERO. Prendere l’aereo sarà vietato: nessuno potrà più provare l’ebbrezza degli amplessi in alta quota come Emmanuele. Sconsigliata anche l’auto: si potrà viaggiare On the road solo di notte e in autostop. Mezzi del futuro saranno le imbarcazioni a remi senza toilette a bordo: Greta docet, sicuramente ispirata dall’umorismo di Tre uomini in barca. Chi odia spostarsi e preferisce poltrire al paese suo non se la passerà meglio: le Città invisibili sono diventate invivibili.

ESTINZIONI. Flora e fauna saranno le prime vittime: La signora delle camelie dovrà fare a meno delle camelie e Il giardino dei ciliegi dovrà fare a meno dei ciliegi. Ma anche del giardino. Quanto agli altri animali cechoviani – gabbiano, cigno, orso… –, morti tutti. Come Moby Dick, Zanna Bianca e il lupo di Cappuccetto rosso: la piccolina nel bosco si annoierà un poco, molto poco. Poi il bosco sparirà. E con esso le farfalle, tanto care a Nabokov. Che goduria, però, per Il signore delle mosche.

MIGRAZIONI DI MASSA. Gente in Aspromonte non ce n’è più e La mia Africa è deserta: sono rimasti solo gli antropologi. La tempesta sarà riscritta come tragedia di naufraghi e Lo straniero sarà di nazionalità francese.

PIÙ CONFLITTI. Il caldo esacerba la violenza e l’aggressività, persino di virus e batteri. La Guerra sarà senza pace e il Delitto senza castigo: anche la Siberia non è più quella di una volta.

Il carretto passava e quell’uomo gridava gelati: è Podolski sugli spalti

Quando si intraprendono da giovani delle carriere atletiche o basate sul corpo – tanto la modella quanto lo sportivo, così come pure la ballerina o l’escort – avere bene in tasca e in testa un piano b per quando il corpo vuoi o non vuoi cederà è un obbligo. Delle volte capita di diventare maestri o allenatori, si insegna cioè quello che si è praticato tutta la vita, altre volte ci si lancia nel business e si diviene imprenditori, sfruttando la popolarità e il denaro ottenuti.

Lukas Podolski ha fattocosì: calciatore tedesco classe 1984, in questi giorni ha firmato un contratto con la squadra del Colonia per rifornire lo stadio di gelati con la sua gelateria “Ice Cream United”.

Un ritorno gradito per lui, ma anche se il Colonia è il club del suo cuore – è infatti quello in cui ha esordito con le serie maggiori, ma ha giocato anche nel Bayern Monaco, nell’Arsenal e nell’Inter –, non si metterà mica a venderli lui personalmente. Che peccato!

Eppure, ora che si trova alla sera della sua carriera e aspetta di svernare dando gli ultimi calci al pallone nella Vissel Kobe in Giappone, starebbe bene vestito tutto di bianco con cappellino e carretto. Non dimentichiamoci, infatti, che con la Nazionale tedesca ha vinto i Mondiali del 2014, e che nel 2013 durante un’amichevole con l’Equador ha impiegato solo sei secondi a fare un gol dal fischio d’inizio. Quanto ci metterà mai a fare un cono?

Il ferroviere anti-Tav ha l’edicola votiva del FQ

Un’edicola votiva, è il caso di dire. Luciano Donatelli ha 63 anni e vende giornali nel centro di Pescocostanzo, borgo di origine medievale in provincia dell’Aquila, tra i più belli d’Italia. La sua edicola è una vera cappella laica intitolata al Fatto Quotidiano. Dietro il bancone, spicca la copertina del nostro quotidiano dedicata alla morte di Dario Fo. “Vota Fo”. Era il 14 ottobre 2016. Poi, in ordine sparso, esposti al pubblico: una copia della Costituzione con “un intervento di Marco Travaglio”; una tazza del FQ; un biglietto d’ingresso per Slurp, spettacolo del 2016 di Travaglio; tre testatine del Fatto attaccate a un filo sopra il bancone. Luciano, infine, accoglie il cliente con un berretto del FQ e finanche bretelle tricolori. “Ho pure uno striscione del Fatto, vorrei appenderlo fuori da parte a parte”. Impossibile staccare dal lavoro, per chi scrive! “Ma i lettori degli altri giornali non ti dicono nulla?”. “E che devono dire, lo sanno tutti qui che sono un vostro fan”.

Donatelli ha partecipato a varie edizioni della Versiliana e il suo sogno è una festa del Fatto sulla neve, tra Pescocostanzo, Roccaraso e Rivisindoli. Siamo a milletrecento metri d’altezza. Dice: “Prima ero per Di Pietro e i Cinque Stelle, come lui stesso ha detto, sono figli suoi. Io sono per la legalità, l’acqua pubblica, contro il partito del cemento”. Natìo di Pescocostanzo, Luciano ha fatto il ferroviere, era macchinista, a Torino e poi a Bologna: “Il Tav non serve, le merci sono pochissime, te lo dico per esperienza”. Qui è tornato da pensionato, nel 2012. Si apre la porta ed entra una signora coi capelli bianchi. Si chiama Antonia Boschini ed è di Varese. Luciano le porge in automatico una copia del Fatto. L’ultima rimasta. “Oggi se ne avessi avute cinquanta le avrei vendute tutte”.

Piselli dal sottosuolo: miniere e grotte riconvertite in serre

Se avete dimestichezza con semi e prodotti di campo, vi piace lavorare in squadra e soprattutto non soffrite di claustrofobia, l’annuncio di lavoro del Growing Undeground di Londra fa per voi. “Benvenuto nella rivoluzione agricola!” è la frase che campeggia in apertura del sito, dove compare anche l’offerta di lavoro.

E sì perché questo orto sotterraneo coltivato a 33 metri di profondità – sotto la trafficata Clapham Street – consente ai proprietari di dormire sonni tranquilli: niente paura dei cambi improvvisi di tempo, di grandinate improvvide o aridità: lampade a led per dare luce e coltivazione idroponica (ovvero fuori suolo) consentono a diversi prodotti – tra cui piselli, senape, ravanelli, prezzemolo, coriandolo e rucola, distribuiti a chilometro zero solo a Londra – di crescere indipendentemente dalle stagioni nei tunnel utilizzati come rifugi antiaerei della Seconda Guerra Mondiale. Impatto sull’ambiente? Quasi zero, energia da fonti rinnovabili, niente pesticidi e pochissima acqua, il 70 per cento in meno di una coltivazione tradizionale.

“Sotto è meglio” è senz’altro anche lo slogan dei gestori della più profonda miniera d’oro d’Europa – a Pyhäjärvi, in Finlandia – che hanno deciso di riconvertire gli spazi a 660 metri sottoterra per coltivare a una temperatura costante di 17-20 gradi. Nelle gallerie sono sistemati gli orti – luppolo, patate, avocado e presto anche un allevamento di insetti – illuminati anche qui a tecnologia led e irrigati da acqua pompata dalla superficie e depurata.

Ma anche alle nostre latitudini qualche caso simile c’è: ad esempio a Napoli si coltiva il basilico – ma anche il rosmarino, la pianta da cui derivano le bacche di Goji, fragole e melograno – nel buio del sottosuolo, a oltre 35 metri di profondità. Si chiamano gli Orti Ipogei, e sono all’interno del suggestivo percorso della “Napoli Sotterranea”. Niente piogge acide, niente polveri sottili e smog. La luce qui è emessa da speciali lampade che garantiscono la trasformazione delle molecole di anidride carbonica e di acqua in glucosio ed ossigeno. Gli Orti sono studiati da ricercatori universitari e botanici e hanno suscitato l’interesse persino della Nasa, che si occupa di come far attecchire forme di vita all’infuori del nostro pianeta.

Che la parola d’ordine oggi – quando eventi estremi di poche ore possono distruggere raccolti – sia coprire (invece che esporre) lo dimostra anche la maggior diffusione di serre, anch’esse sempre più ecologiche. La più grande d’Italia è hi-tech e si chiama Sfera Agricola, una sfera idroponica di 13 ettari a Gavarrano, in provincia di Grosseto. Si tratta di una serra in grado di adattare in tempo reale il suo clima per far sì che la crescita di ortaggi avvenga sempre in condizioni ottimali, al di là delle condizione meteorologiche. Il recupero delle acque piovane e il ciclo di coltivazione chiuso permettono di accumulare acqua nei mesi piovosi e impiegarla durante quelli di siccità, con un risparmio idrico del 90 per cento.

Ma in fondo risponde allo stesso principio del proteggere e nascondere anche la semplice piacciamatura: una tecnica agricola antica che consiste nel coprire i campi con un telo in genere biodegradabile. Alcune aziende agricole la stanno utilizzando per produrre riso e mais risparmiando la metà dell’acqua – il telo riduce le perdite per evaporazione – ed evitando l’attacco di funghi e parassiti. Insomma, il tempo del “nudismo” agricolo è finito. Chiuso è meglio, sotterraneo ancor di più. Dove un tempo ci si occultava dai nemici, oggi si nascondono le piante dall’avversario clima. Come cambiano i tempi.

Che menzogna e sortilegio tra Elsa e il suo Luchino

Cara Elsa, (…) vorrei veramente poterti dire qualche cosa che ti consolasse ma mi rendo conto che è impossibile, anche perché, al solito, le ragioni della tua infelicità sono oscure e oscuramente espresse. Ad ogni modo, se ho ben capito, il viaggio a Roma non ha fatto che aggravare la tua situazione. Quale sia poi il misterioso incidente che ha turbato i tuoi rapporti con L.V. non lo capisco ma immagino che, come sempre, non sia cosa irreparabile. Ahimé è difficile dire che non sembrino superficiali in questi casi, perciò ti basti sapere che ti voglio veramente tanto bene e che desidero che tu sia felice. (…) Arrivederci a presto ti abbraccio. Alberto.

È il 7 agosto 1950, un lento lunedì di fine estate sullo Stelvio. Lo scrittore Alberto Moravia si siede alla scrivania della sua stanza, afferra la carta intestata del Grand Hotel Solda (Bolzano) e prova a scardinare a parole l’infelicità cronica e tutta romana di Elsa Morante, inasprita – evidentemente – da “un incidente” con l’amato-amante, il regista Luchino Visconti.

Non di puro triangolo si tratta, per la verità. Quella dell’autrice dell’Isola di Arturo è piuttosto una malattia. “Vorrei poter lavorare davvero, o amare davvero, e sarei felice di dare a qualcuno o a qualche cosa tutto quello che posso, purché la mia vita fosse compiuta finalmente e trovassi il riposo del cuore”, confessa al marito. L’autore de La noia di certo non si tedia con sua moglie, la cui esistenza fu costellata da amori tormentati. “A difficili amori io nacqui”, recita l’autrice in Avventura. Ti prego di capire adesso che io qui non parlo davvero di amore. Prima di tutto, devo dirti con molta semplicità che, nemmeno quando ero più bella, io non sono stata mai amata da nessuno, e quindi non ho mai pensato seriamente che tu potessi amarmi, scrive Morante in una missiva indirizzata al regista che sta per portare sul grande schermo Bellissima. E “bellissimo” lo ritenevano entrambi i coniugi. Moravia lo conosce nel 1939 e lo descrive come “un personaggio della grande pittura del Rinascimento”. La “relazione” con Morante segue e al matrimonio con lo scrittore si intreccia dieci anni dopo, dal 1949 al 1952. Ma Luchino probabilmente nasce nella testa della scrittrice. Scrive Carlo Cecchi che nient’altro sarebbe che lo specchio di Menzogna e sortilegio. A influire fu, a detta dell’amico fiorentino ,“il fatto che Elsa venisse da quella lunga e totalizzante esperienza (…) che fu la scrittura (del romanzo, ndr), dove molto importante è il complesso, e in gran parte unilaterale, amore di Anna per l’ambiguo Edoardo (…)”. Ma unilaterale quanto? Quanto Visconti amò Morante? In una lettera chiarificatrice datata 1953 – quando cioè la storia tra i due sarebbe già conclusa – lei prova a spiegarsi. È una passione folgorante ma astratta, un’ossessione. C’è stato un tempo in cui desideravo, se tu lo avessi voluto, essere la persona più vicina a te nella vita. Anche fuori della tua volontà, ci furono allora delle altre cause per cui io dovetti levarmi dalla mente certe speranze e pensieri. Da principio mi era difficile riuscirci, e forse, per questo, in quel periodo il mio carattere ti sarà sembrato anche peggiore del solito. (…) Se tu mi avessi frequentato di più, in questo periodo, avresti potuto capirlo. Io, a ogni modo, ho cercato di fartelo capire. E anzi, dopo averne sofferto, ero contenta che fra noi non ci fossero più motivi di confusione, e che tu non dovessi più sospettare di me come di una persona che desiderava di entrare nella tua vita e di limitare la tua libertà in nessun modo (…), scrive Morante. Dunque di “ricambiare” il regista del Gattopardo non pare dare grossi segni, o sì. Questo è il lato del triangolo che – a distanza di 67 anni – ancora manca. Qui ci si addentra nel romanzo, quello che narra di una passione travolgente, altroché se corrisposta: “Scendevo dal treno, alla stazione Termini, e lo incrocio nella hall, l’avevo certamente già visto con Alberto, due o tre volte, un saluto, niente di più, fatta eccezione per quella sua particolare maniera di ridere da gatto siamese che, quella sera, alla stazione di Roma, mi ha fatto sciogliere d’amore… È stato, in un fulmine, il mio idolo e lo desiderai con tutto il mio essere… Abitava in via Salaria, ha fatto una deviazione per il Pincio e, pur continuando a guidare la sua grossa auto, mi ha presa, senza una parola, per il collo e ha forzato la mia testa contro la sua patta… Questo fu il nostro primo incontro d’amore…”.

Così Elsa Morante raccontò il sortilegio dell’uomo che un giorno sbadatamente aveva definito “cattivo” e volgare”. Se però è menzogna non è dato saperlo. Il narratore dei fatti è Jean-Noël Schifano, anche lui scrittore, giovane e adoratore della fascinosa Elsa la quale gli avrebbe confidato quella passione mai spenta. A distanza di 30 anni, pare, Visconti continuava a chiamarla anche alle 3 di notte perché si masturbasse al telefono, mentre “Alberto dormiva o fingeva, non l’ho mai saputo”.

E quante altre volte ancora Moravia si finse addormentato. Finché nel 1967 la supplicò di non separarsi da lui; lei ancora in lutto per il suicidio del suo amante newyorkese Bill Morrow: Non ho che te, te e le scrittura e adesso entrambe mi lasciate. Ma non servirà. Da qualche tempo la mia vita ha perduto come si dice il baricentro e se ne va di qua e di là come una trottola impazzita. Spero solo di poter dire in un romanzo che genere di vita è, le scrive lui disperato. E forse quel romanzo non lo abbiamo mai letto.

Dopo l’embargo Usa, Maduro rimpasta il governo

Fine del dialogo con l’opposizione, cancellata l’immunità parlamentare di quattro deputati e possibili elezioni anticipate. Le risposte di Nicolás Maduro all’ampliamento delle sanzioni imposte da Trump non hanno tardato ad arrivare. Il 5 agosto il presidente Usa ha annunciato l’embargo economico totale nei confronti di Caracas, congelando le attività del governo chavista e degli enti associati e vietando le transazioni con il paese latinoamericano. In una lettera al Congresso, Trump ha motivato la sua scelta dicendo che “è necessario bloccare la proprietà del governo del Venezuela alla luce della continua usurpazione del potere da parte del regime illegittimo di Nicolás Maduro, nonché le violazioni dei diritti umani da parte del regime, gli arresti arbitrari e i continui tentativi di indebolire il presidente ad interim Juan Guaidó e l’Assemblea nazionale eletta democraticamente”. La risposta di Bruxelles, temendo un coinvolgimento delle società europee che lavorano in Venezuela, è stata immediata: “Ci opponiamo all’applicazione extraterritoriale delle misure unilaterali”. Da quel momento, con l’hashtag #NomoreTrump, è montata la polemica sui social e per le strade. Il 10 agosto, nella Giornata mondiale della protesta, in migliaia hanno manifestato a Caracas per esprimere dissenso contro il “terrorismo economico” statunitense, considerato un “crimine contro il popolo”. “Basta con il blocco criminale imperialista – ha detto Maduro – dobbiamo vincere contro il potere economico dell’impero gringo”. La Repubblica bolivariana, secondo il successore di Chávez, “sono vent’anni che vive nella totale indipendenza” e tale deve restare. Il botta e risposta con gli Usa, inevitabilmente, passa per le tensioni interne. Il giorno dopo l’annuncio di Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente a gennaio, di voler nominare i membri del suo gabinetto ad interim, Maduro ha cambiato sei ministri (Agricoltura urbana, Sviluppo minerario ecologico, Pari opportunità, Educazione universitaria, Ecosocialismo e Opere pubbliche) e ha creato il Ministero del turismo e del commercio estero. Nel frattempo sono state raccolte 13 milioni di firme, da inviare all’Onu per chiedere la sospensione delle sanzioni Usa. Il ministro della Difesa, Vladimir Padrino López, qualche giorno fa, ha invitato “la minoranza politica codarda sostenuta dall’impero più potente dell’umanità a una lezione di patriottismo”.

I negoziati tra le parti politiche, mediati dalla Norvegia, sono in una fase di stallo. Maduro ha interrotto le comunicazioni con l’opposizione, rea di appoggiare gli Stati Uniti, e l’Assemblea Costituente ha sospeso l’immunità parlamentare di quattro deputati dell’opposizione. Rafael Guzmán, Juan Pablo García, Tomás Guanipa y José Guerra sono accusati di alto tradimento, ribellione civile e cospirazione per aver appoggiato Guaidó, sostenuto dalla maggior parte dei paesi occidentali e dagli stessi Usa. Secondo il leader dell’opposizione venezuelana, Maduro sta preparando le elezioni parlamentari anticipate, che causeranno un “disastro”. Il rinnovo dell’Assemblea nazionale, controllato dall’opposizione, è fissato per dicembre 2020. L’Assemblea Costituente, guidata da Maduro, invece, vorrebbe anticiparle, mettendo a rischio i piani di Guaidò di diventare il prossimo presidente. Per ora le maniere forti di Trump non hanno fatto altro che peggiorare ulteriormente le cose.

Le vittime fanno i conti: Epstein, prima causa civile

Jennifer Araoz, 32 anni, è la prima vittima di Jeffrey Epstein a intentare un’azione legale civile, chiedendo un indennizzo: bionda, capelli lunghi, la donna sostiene che il finanziere, suicidatosi sabato in cella, abusò di lei e la violentò quando aveva 15 anni, dopo che era stata adescata all’uscita da scuola quando di anni ne aveva solo 14.

Al tribunale di New York, la Araoz, che ha già raccontato la sua storia alle tv Usa, chiede una fetta del patrimonio di Epstein, stimato a 550 milioni di dollari. La causa della Araoz, che accusa pure l’ex fidanzata e complice del finanziere Ghislaine Maxwell e altre tre donne, apre la strada a decine di azioni legali analoghe.

Nelle residenze di Epstein, a Manhattan, ma anche in Florida, a Palm Beach, e a Little St. James, l’isola dei Caraibi che il finanziere possedeva, l’‘isola della pedofilia’, o l’‘isola delle orge’, ma anche a Parigi in Avenue Général Foch, si cercano tracce delle complicità e delle connivenze di cui il pedofilo godeva.

In queste ore, gli agenti dell’Fbi stanno scandagliando la lussuosa villa nell’isola privata di Epstein, nelle Virgin Islands americane, a caccia di prove sui festini che il finanziere organizzava con amici e minorenni. Immagini riprese con un drone dai media americani, mostrano che i federali, che si muovono su vetture da golf, hanno trovato e sequestrato computer e altro materiale. Si vocifera d’una cassaforte d’acciaio, ma non si hanno conferme. Qui, gli ospiti erano molti e la discrezione massima.

Ci vorrà del tempo, per ricostruire la rete di contatti e attribuire le responsabilità. Vanno più svelte le inchieste sulle responsabilità nella morte di Epstein, che non fu ben sorvegliato nel Manhattan Correctional Center, nonostante avesse già tentato di uccidersi a luglio. Il segretario alla Giustizia William Barr ha temporaneamente sospeso la direttrice della prigione federale e due delle guardie che dovevano vigilare sul finanziere sono state messe in congedo, in attesa che la vicenda sia chiara.

Il New York Times scrive che le due guardie carcerarie – una era in prova – si sono addormentate lasciando la cella del finanziere senza controlli per almeno 3 ore, e avrebbero poi falsificato il rapporto per nascondere l’errore.

Già travolto dalle accuse di abusi su minori e di sfruttamento della prostituzione minorile, Epstein non nascondeva di avere informazioni imbarazzanti e compromettenti sulle inclinazioni sessuali e sull’uso di droghe da parte di personalità della politica, dello spettacolo, della moda, della finanza, un mondo che ruotava attorno ai party e ai festini organizzati nelle sue lussuose dimore.

Gli inquirenti scorrono il ‘black book’ di Epstein: una rubrica di contatti già pubblicata nel 2015 e rubata al finanziere da un dipendente che tentò invano di venderla. Dentro – riferisce il New York Magazine – ci sono centinaia di nomi: contatti di lavoro e sociali, ma anche vittime e complici. Zeppo di ‘ricchi e famosi’ pure il registro di volo dell’aereo privato di Epstein, il “Lolita Express” con cui portava i suoi amici sulla sua isola.

Naturalmente, figurare nel ‘black book’ non significa essere colpevoli. Ma l’elenco, lunghissimo, dà l’idea di quanto fitti, trasversali, bipartisan fossero i collegamenti del finanziere: il che gli permise di sopravvivere per decenni ad accuse pesanti nella totale impunità e mantenendo un’alta credibilità. Ci sono personaggi del mondo del cinema, come Woody Allen, Kevin Spacey, Bill Cosby, tutti già toccati da scandali sessuali; star della musica, come Mick Jagger; figure della monarchia britannica come il principe Andrea, amico di Epstein, e la sua ex moglie Sarah Ferguson, cui il finanziere avrebbe prestato 18 mila dollari per estinguere un debito. C’è Bill Clinton, più volte ai Caraibi con il Boeing di Epstein; e c’è Donald Trump, con personaggi a lui molto legati, Steve Bannon e il miliardario Tom Barrack. Trump, Barrack ed Epstein, nel jet set degli Anni 80 e 90, erano “i tre moschettieri”.