Macri prova a riprendersi la classe media (e i mercati)

“Voglio scusarmi pubblicamente per la conferenza stampa di lunedì”. Il presidente argentino Mauricio Macri – riapparso in un discorso alla nazione ancora frastornato per la batosta elettorale subita nelle primarie – ha voluto rettificare le accuse rivolta al popolo argentino per aver votato male. A voltargli le spalle è stata la classe media, spina dorsale del risultato elettorale che nel 2015 lo portò alla Casa Rosada. Molte famiglie difatti non arrivano a fine mese a causa dei rincari dovuti alle decisioni del suo governo e a un’inflazione che è arrivata a cifre importanti. Per questo il presidente ha varato ieri misure di emergenza che prevedono cambiamenti ecomici importanti, come l’aumento della quota entro la quale scatta l’imposta al guadagno, che è salita del 20%, di cui beneficeranno 2 milioni di persone.

Inoltre i lavoratori dipendenti fino a novembre saranno esentati dai contributi, che gravano l’11% sugli stipendi, le partite Iva non pagheranno l’imposta nel mese di settembre, mentre i disoccupati riceveranno mille pesos. Macri ha previsto anche l’aumento del salario minimo, mentre le piccole e medie imprese avranno tempo 10 anni per saldare i loro debiti contributivi. Inoltre, i prezzi del carburante rimarranno congelati per 90 giorni, mentre il sussidio per gli studenti viene aumentato del 40%. Si vedrà come reagiranno i mercati a questo piano di emergenza governativo dopo che la debacle elettorale macrista aveva provocato un rialzo del cambio col dollaro, arrivato a superare i 60 pesos, e aveva provocato il crollo in Borsa dei titoli delle imprese argentine all’estero. La paura è che – se il 27 ottobre le elezioni confermassero il ritorno del peronismo – si aggraverebbe ulteriormente la situazione. Per non parlare del timore che in poco tempo il potere passerebbe dalle mani del candidato Alberto Fernandez a quelle di Cristina Fernandez de Kirchner.

I soldati di ventura di Putin sbarcano pure in Centrafrica

Da qualche anno sul palcoscenico dei conflitti in atto nel mondo è entrato un nuovo attore: il Wagner Group, un’organizzazione di mercenari dell’ex impero sovietico. I suoi paramilitari hanno giocato un ruolo strategico nell’Ucraina orientale (soprattutto quando la Crimea è stata invasa dalle truppe russe nel 2014) e in Siria, a difesa del dittatore Bashar al-Assad. Ma la loro espansione in Africa si è sviluppata soprattutto nella Repubblica Centrafricana e più discretamente in Libia e in Sudan.

Nell’ex colonia francese la loro presenza è massiccia, anche se nascosta dietro quella più pubblica e politica della Russia che si manifesta persino nei poster per le strade dove si propaganda enfaticamente l’amicizia tra il gigante europeo e il Paese subsahariano. Il gruppo Wagner può essere considerato l’avamposto della politica estera del Cremlino, che fino a poco tempo fa pareva poco interessato a sfruttare le favolose risorse minerarie africane, avendone a sufficienza in patria. Invece con l’emorragia delle repubbliche sovietiche asiatiche la Russia si è accorta di essersi impoverita e quindi si è lanciata, al pari degli occidentali (storicamente presenti in Africa) e dei cinesi, alla conquista del continente nero. Ma mentre i primi hanno un minimo di controllo sociale e i loro governi non possono permettersi operazioni troppo spregiudicate, Mosca e Pechino possono avere comportamenti disinvolti e, talvolta, sfacciatamente poco onesti.

Del Gruppo Wagner si sa poco. Il loro impiego come mercenari viene sfrontatamente negato (in Russia è un’attività illegale) e ufficialmente i suoi uomini vengono utilizzati per la protezione di impianti petroliferi. Nel caso della Repubblica Centrafrica “proteggono” le miniere d’oro, di diamanti e le foreste di legno pregiato. Quando Putin ha deciso il coinvolgimento in Siria, ha pensato a un intervento diverso da quello sovietico in Afghanistan e in Cecenia che ha causato decine di morti e, essendo molto impopolare, ha provocato un’emorragia di consensi al regime. Ha quindi inviato in Asia un gruppo di paramilitari, ufficialmente privati. Regolarmente quando spuntavano vittime russe il Cremlino continuava a ripetere di non saperne niente, negando un coinvolgimento diretto. Secondo Ruslan Leviev, la cui società di intelligence sui conflitti, il Conflict Intelligence Team, ha studiato il coinvolgimento segreto russo in Siria, il Wagner “anche se sembra un gruppo privato è invece il braccio non ufficiale del Ministero della Difesa russo”. A capo della società c’è Yevgeny Prigozhin, un oligarca molto vicino a Vladimir Putin. La Evro Polis, una società collegata a Prigozhin, ha raggiunto un accordo con la statale siriana Petroleum Corp. che cede al gruppo Wagner il 25 per cento dei proventi della produzione di petrolio e gas nei campi catturati e messi in sicurezza dai suoi uomini. Nella Repubblica Centrafricana, secondo fonti giornalistiche, la società russa ha raggiunto vari accordi con il governo per avere ragguardevoli provvigioni sui diamanti e sull’oro che viene estratto laggiù. Comunque niente di nuovo nel mondo dei soldati di ventura. Fino a una decina di anni fa la Branch Energy, una società che faceva capo al famigerato gruppo sudafricano “Executive Outcames”, diretto da Eeben Barlow, e che ha rifornito di mercenari i dittatori dei due Congo (Kinshasa e Brazzaville) aveva raggiunto accordi dello stesso tenore oltre che con i governi congolesi anche con Sierra Leone, Angola. Degli Executives facevano parte anche mercenari italiani, individuati anche in Somalia. La società americana Halliburton, che faceva capo al vicepresidente americano Cheney, forniva logistica e sicurezza ai militari Usa in missione in Somalia.

Ora quindi alle compagnie di contractor americane, sudafricane e francesi si sono affiancati i russi che in Centrafrica godono della benevola protezione delle Nazioni Unite, impegnate con molte difficoltà a contenere la guerra civile, con massacri e pulizie etniche. Nella sua missione militare l’Onu ha imbarcato anche la Russia. Ovviamente i suoi mercenari non indossano il casco blu, ma sono coinvolti direttamente nelle società russe che nell’ex colonia francese sono incaricate di sviluppare le industrie di diamanti e di minerali pregiati. “Inoltre – spiega sempre Ruslan Leviev – gli istruttori russi sono in realtà mercenari di Wagner”.

A Salvini gli ha detto suo cugino che la gente non vogliono lavorare

Icampi sono vuoti: nessuno raccoglie i frutti dell’aratro. I ristoranti, invece, sono pieni, ma nessuno mangia: mancano i cuochi e i camerieri e in tavola non arriva nulla. Negli alberghi, poi, c’è folla alla reception, ma le camere sono vuote: non c’è traccia di concierge, addetti alle pulizie e facchini. Il Paese “fa fatica”: troppo lavoro e nessuno lo vuole, pensa te. Qualcuno potrebbe pensare si tratti di una bufala, ma quest’informazione è di prima mano. A Matteo Salvini pare che glielo abbia detto un suo cugino di Orbetello e pure un amico suo di Milano Marittima che ha uno stabilimento e lui lo ha riferito al Corriere della Sera, che giustamente ne dà conto: quando a Palazzo Chigi ci sarà lui, nel senso di Salvini, “sarà doveroso verificare il reddito di cittadinanza. Ci arrivano centinaia di segnalazioni, molte delle quali a me personalmente, da parte di imprenditori che quest’anno non riescono ad assumere i lavoratori che avevano l’anno scorso”. Il cronista è intuitivo: “La gente – domanda – intasca il reddito e poi s’arrangia con i lavoretti?”. “Appunto – risponde Salvini – Fanno fatica i ristoranti, fanno fatica in agricoltura, fanno fatica in moltissimi…”. La gente, signora mia, sono sfaticata e non hanno voglia di lavorare: meglio il sussidio e i lavoretti, ma non nei ristoranti e in agricoltura, dove – com’è noto – lavoretti non ce ne sono e il nero è sconosciuto. Certe volte bastano poche parole per ricordarsi quale squallido classismo alligna nella destra italiana. E che sia destra non c’è dubbio: basti dire che sono le stesse, identiche cose che dice mezzo Pd.

Quanta retorica. Un vip muore come la “gente comune”

L’enfasi di tutte le televisioni, di tutti i giornali, di molti personaggi dello spettacolo sulla morte per cancro di Nadia Toffa la trovo oltraggiosa nei confronti delle centinaia di migliaia di ammalati di tumore che non hanno un nome e un cognome famosi. A parte questa discriminazione sociale fra Vip, o presunti tali, e quella che, senza accorgersi dello sprezzo, viene chiamata “gente comune”, il fatto è che noi non siamo più capaci di accettare quelli che i filosofi, quando esistevano ancora, chiamavano “i nuclei tragici dell’esistenza”, il dolore, la vecchiaia, la morte. E cerchiamo di coprire questi che ci sembrano degli “scandali”, mentre sono eventi naturali della vita, con la retorica. Scrive Alberto Savinio in “Sorte dell’Europa”: “La retorica è un male endemico nel nostro paese, è il male che inquina la nostra vita, la nostra politica, la nostra letteratura e una delle cause principali, se non addirittura la principale, delle nostre sciagure”.

Migranti: chi ruba fa più notizia delle morti bianche

Nella Milano semideserta e ancora un poco afosa di metà agosto sono successi, in 48 ore, due fatti di cronaca che è utile leggere insieme. Lunedì 12, una donna è stata aggredita in largo La Foppa, uno dei centri della movida milanese, da un trentenne originario del Bangladesh che l’ha quasi sgozzata con un coccio di bottiglia. Martedì 13, una colf filippina di 55 anni è morta precipitando sulla strada dalla finestra del quarto piano di cui stava pulendo i vetri.

Il primo fatto ha occupato le pagine dei giornali, i servizi dei telegiornali e le pagine del web. Michela, una signora milanese che aveva appena comprato il pane in un negozio di largo La Foppa, è stata all’improvviso assalita alle spalle da Rinku Chandra Deb, senza alcun motivo. Scelta a caso tra la gente. Massacrata con una bottiglia rotta.

Sono stati i passanti a salvarla: hanno bloccato Rinku e chiamato autoambulanza e polizia. L’uomo è regolare, ha residenza in Italia, è incensurato. Non stava tentando uno scippo. È stato colto da un raptus violento. Già nelle ore precedenti aveva avuto uno scontro con un giovane eritreo ed era stato portato prima in questura e poi all’ospedale Fatebenefratelli per un controllo medico che però aveva rifiutato.

Reazioni immediate della destra milanese: “L’aggressione è l’apice di una lunga serie di pesanti fatti di cronaca con protagonisti gli stranieri. Ormai tutti i quartieri della città sono insicuri”, protesta Silvia Sardone, ex pasionaria di Forza Italia e ora europarlamentare della Lega. “Dal centro alle periferie, c’è da avere paura. L’episodio è sintomatico della sfrontatezza che ormai gli immigrati hanno a Milano. Gli stranieri stanno facendo sprofondare la città nel caos”, aggiunge Riccardo De Corato, Fratelli d’Italia.

Pochi articoli e nessun servizio tv, invece, per Marilou Reyes, venuta dalle Filippine a lavorare a Milano. Era da anni la collaboratrice domestica della famiglia di un avvocato che abita davanti al palazzo di Giustizia milanese. Mandava i soldi alla famiglia nel suo Paese d’origine. Era salita su una scaletta a tre gradini per lavare i vetri di una finestra. Forse non si è accorta che le ante erano solo accostate, di certo ha perso l’equilibrio ed è precipitata sul marciapiede, dopo un volo di oltre dieci metri. Sul davanzale, lassù, è restato il flacone del detersivo.

Marilou è morta sul lavoro, è una delle tante vittime di quel fenomeno pudicamente chiamato delle “morti bianche” che non fanno scandalo, non fanno neppure notizia. Poco importa che fosse nata nelle Filippine e non in Italia: a chi muore sul lavoro non si rimprovera né si premia l’origine o la nazionalità. Di certo, senza la moltitudine di stranieri e straniere che lavorano nelle nostre case, fanno le pulizie nei nostri uffici, le baby sitter ai nostri bambini, le badanti ai nostri vecchi, Milano, il Nord, l’Italia intera si fermerebbe.

Al folle del Bangladesh, invece, si rimprovera eccome l’origine. La sua pazzia improvvisa – che sarebbe stata verosimilmente allo stesso modo drammatica e criminale anche se fosse stato un cittadino italiano – diventa motivo di campagna politica contro gli stranieri, contro la “sfrontatezza degli immigrati”, contro l’insicurezza che fa “sprofondare la città nel caos”.

Due pesi e due misure: per i politici che fanno propaganda e cercano di trasformare la paura in voti; e anche per l’informazione, che batte il tamburo sulle aggressioni e non vede le morti tanto “bianche” da essere invisibili.

Ponte Morandi, la ferita sanguina ancora

La memoria ha una stretta relazione con le emozioni, ricordiamo quello che ci ha emozionato oltre a essere importante. Questa è oramai una constatazione su cui resta ben poco da discutere.

Se rievochiamo il passato trasformando le emozioni in rigidi cerimoniali, senza passione, significa che abbiamo trovato il modo per rimuovere, sotto una specie di controllo ipnotico, quello che è successo. Le emozioni si congelano nelle espressioni identiche a quelle di Spock degli officianti istituzionali (il personaggio extraterrestre di Star Trek con le orecchie a punta, incapace di provare e riconoscere la paura, la gioia e qualunque altra forma di passione).

I giorni della memoria sono come le tecniche di decondizionamento dalla paura nel caso delle fobie, ripetute esposizioni a quello che la scatena che viene solo rappresentato e meno possibile vissuto.

Le emozioni sono le ultime vittime di ogni tragedia e di ogni gioia, eppure sono l’essenza di ogni ricordo autentico. Come siamo attoniti e straniti dal fatto che il “ricordo di un amore viaggia nella testa” e poco nel cuore così, mentre ci raccogliamo in cerimonie anemiche, sentiamo soltanto amarezza.

La mia solidarietà e vicinanza più assolute vanno al capo dello Stato, che ha scelto di non dire nulla, e alle famiglie delle vittime, che hanno saputo imporsi e far allontanare gli innominabili (ma solo per oggi). La voragine che ha sostituito il ponte Morandi è ancora lì, non è un ricordo da cui decondizionarsi in stolide cerimonie.

La ferita sanguina ancora, il corpo che la ha subita ha mostrato ancora tutto il suo carattere, Genova ci ricorda ancora la forma e il contenuto del suo carattere: l’unica città italiana che ha davvero cacciato gli oppressori, e continuerà a farlo.

La presenza di Atlantia e Autostrade alla commemorazione di Genova era l’equivalente di Casapound oppure i nazisti dell’Illinois al memoriale di Sant’Anna di Stazzema.

I calcoli elettorali dei soliti gattopardi

“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”: le parole che Tomasi di Lampedusa pone in bocca al suo Tancredi son passate in proverbio, diventate motto quasi-araldico d’ogni trasformismo, e parole come gattopardesco sono entrate nel lessico politico anche fuori d’Italia. “Che tutto cambi!” fu il motto del governo “del cambiamento”, ora negli spasimi di una prevedibile agonia. Qualcosa, infatti, cambiò: le facce e le appartenenze di uomini e donne al governo. Molto altro, invece, rimase e rimane com’era. Per esempio, il vizio di mutare le etichette (i nomi delle cose) e non la sostanza. Per farsi prendere sul serio, i gialloverdi escogitarono il “contratto” di governo, come se chiamarlo, secondo l’uso, “programma” fosse già denunciarne l’inania; e intanto fingevano di ignorare l’ovvio precedente, il “contratto con gli italiani” firmato da Berlusconi nel 2001 a Porta a porta davanti al notaio Bruno Vespa.

Giuseppe Conte, nel suo discorso d’investitura, citò la Costituzione cinque volte, ma ben nove volte il “contratto di governo”, presentandosi come “garante dell’attuazione del contratto per il governo del cambiamento”. Da questo e altri infortuni (Il Fatto, 8 giugno 2018) Conte si riscatterà se, come è da sperare, persisterà nell’intenzione, costituzionalmente impeccabile, di portare in Parlamento la crisi innescata da Salvini. Questo sì che sarebbe un cambiamento, rispetto alla pretesa di Salvini di imporre a Conte le dimissioni senza passare per un voto di sfiducia, cioè facendo proprio “tutto com’era”, cioè come quando Enrico Letta si dimise senza presentarsi alle Camere, su mera ingiunzione di Renzi.

Tutto “rimane com’è” anche su un punto essenziale del costume politico, la furbesca opzione per promesse vaghe, dizioni ambigue e sfuggenti, pure mediazioni verbali tra posizioni inconciliabili, con lo scopo non di accordarsi sul bene comune del Paese, non di concordare un reale compromesso, ma di rimandare il più possibile, senza risolverlo, il pubblico emergere di un sostanziale contrasto. Tale è il caso del Tav, dove la ribadita fedeltà dei 5S al loro punto di vista ha di fatto innescato la crisi. Ma che cosa mai voleva dire il “contratto”, proclamando “nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia, ci impegniamo a sospendere i lavori esecutivi e ridiscuterne integralmente il progetto”? Pesate col bilancino, queste parole (come quelle di un oracolo delfico) dicono tutto e il contrario di tutto. “Funzionano” finché il nodo non viene al pettine, poi tutto salta. E sarebbe facile rileggere sotto questa prospettiva l’intero “contratto”, spigolandone altri esempi. O ponendosi una domanda più radicale: quando vi siano insanabili contrasti fra due alleati di governo, davvero la miglior soluzione è “una cosa a te, una cosa a me”? Per esempio, a te il reddito di cittadinanza, a me il decreto Sicurezza? O invece questo modo di affrontare i problemi del Paese ricalca il vecchio, invincibile cerchiobottismo che da decenni, senza alcun cambiamento, affligge la nostra politica?

Ma nel Gattopardo non c’è solo quella frase sul cambiamento che non cambia nulla. Ce ne sono altre, meno famose ma non meno penetranti, per esempio questa: “La voluttà di gridare lo avevo detto è la più forte che creatura umana possa godere” (III capitolo). E a questa tentazione, confesso, io non so resistere, anche se so benissimo che, su questi temi, molti altri possono “gridare lo avevo detto”. Sul Fatto dello scorso 20 luglio scrivevo che M5S e Pd stavano per spiaccicarsi insieme come moscerini contro il parabrezza della Lega: un matrimonio forzato, in articulo mortis. Facile profezia, d’accordo. Ma della stessa ipotesi, vista invece come la ricerca di un accordo programmatico, avevo parlato all’indomani delle elezioni (sul Fatto del 10 marzo 2018), invocando l’unico vero cambiamento di cui il Paese abbia bisogno, una rigorosa attuazione della Costituzione. La stessa banale idea, esplorare la possibilità di un accordo programmatico tra sinistra e M5S, avevo proposto in due articoli all’indomani delle elezioni politiche del 2013, sulla Repubblica del 3 marzo e del 25 marzo 2013, oltre che in un appello del 9 marzo firmato anche da Barbara Spinelli, Tomaso Montanari, Roberta De Monticelli, Remo Bodei, Antonio Padoa Schioppa, e poi da decine di migliaia di persone.

L’effetto fu men che nullo: silenzio del Pd, Beppe Grillo che irrideva “gli intellettuali” accusandoli di vanità e servilismo (il sarcasmo di Grillo contro gli “intellettuali” ha molto in comune con quello di Renzi contro i “professoroni”). Adesso, con solo sei anni di ritardo, Renzi auspica, come fosse un’idea sua, l’alleanza (che ha sempre vietato) fra i frantumi del Pd (che ha devastato) e il M5S (che ha insultato); ma la vede come un’alleanza strumentale, mirata non a governare bene il Paese sulla base di un trasparente programma di governo ispirato alla Costituzione, ma solo ad arginare la frana di chi ha perso le Europee e lo strapotere di chi le ha vinte. Miope progetto, che nasconde lo stesso identico fine della Lega di Salvini: stringere alleanze per frodare l’alleato, metterlo all’angolo, strappargli pezzi di elettorato. A prescindere da qualsiasi accordo o disaccordo programmatico.

Simmetricamente, Zingaretti prova a dare una mano a Salvini non sulla base di una trasparente intesa di programma, ma per un calcolo elettorale al buio, ulteriormente avvelenato da faide di partito. Questo, sotto la retorica del cambiamento, sembra essere il codice genetico che governa la politica nostrana. Da un lato capi politici che cambiano per non cambiare, e dunque spingono il loro sguardo al massimo fino a domani (ma non a dopodomani), dall’altro ormai solo qualche cittadino che prova a guardare lontano immaginando qualche meta, qualche idea d’Italia, e a cui resta solo la magra soddisfazione di sussurrare ogni tanto “l’avevo detto”.

Mail box

 

Il centrodestra e la paura del nemico, Sallustio insegna

Prima ancora della definitiva caduta del governo Conte, è giusto fare la massima chiarezza su cosa dobbiamo aspettarci nel caso della formazione di un governo composto dalla coalizione di centrodestra (Lega, FdI, FI), dal momento che questa sembra essere l’alternativa più probabile. Lasciando da parte Berlusconi che, come ha ampiamente dimostrato in tanti anni di governo, non ha idee politiche ma solo interessi, per comprendere cosa accomuna le altre due forze politiche, è possibile ricavare un’ottima lezione dal mondo classico, ovvero dalla storiografia di Sallustio. Essa infatti individua come elemento di coesione tra Senato e popolo il metus hostilis (paura del nemico), incarnato nella Roma repubblicana da Cartagine. Se salisse al potere l’attuale coalizione di centrodestra, l’ideologia politica prevalente sarebbe quella del populismo di destra, che si basa sull’esistenza di un “nemico” da combattere, così da fare leva sulla paura delle persone e ottenere il loro consenso.

Jacopo Ruggeri

 

La passione per le fattucchiere di Bossi. E Salvini?

Hitler aveva il suo gruppo di maghi che avrebbero dovuto dirgli il futuro. Peccato che non gli previdero la fine per suicidio dopo la sconfitta del suo impero. Anche Bossi, nel suo piccolo, si serviva di una fattucchiera, un’amica della moglie Manuela Marrone, che gli diceva che mosse fare perché era in contatto con gli alieni del pianeta Orione. Ed è stata la stessa fattucchiera a suggerire a Bossi i simboli e i riti della Lega: il dio Po, il rito dell’ampolla, la discendenza dai Galli Boi, il matrimonio celtico, il colore verde e le altre menate di cui si è pasciuta la povera mente dei leghisti. Bossi, appassionato di occultismo, si diceva che non facesse un passo senza sentire questa Adriana Sossi, “la maga” assunta anche al Pirellone con il compito di realizzare la rassegna stampa quotidiana. Cartomante, sedicente sensitiva e medium, nota per il suo “contatto” con un extraterrestre della galassia di Orione, la Sossi (che dichiarò di aver parlato anche con la buonanima di Michael Jackson) è un’altra carta necessaria a svelare in quali acque hanno navigato, per decenni, i leghisti, tra alambicchi, riti propiziatori, benedizioni del dio Po e così via, tanto che su radio Padania c’era una trasmissione fissa dedicata agli alieni e a Bruxelles venne fatta richiesta di fare un osservatorio sui dischi volanti. I leghisti, ovviamente, hanno sempre creduto a queste fesserie, come ora credono alle fesserie di Salvini. Altro che il ciarpame di cui si circondava Berlusconi! Chissà se anche

Salvini si è fatto consigliare dalla fattucchiera per il suo scombiccherato tentativo di colpo di Stato. “Orione, rispondi!”. Ahimè, non ci sono più i contatti intrastellari di una volta!

Viviana Vivarelli

 

Disarmo nucleare: l’Italia chiarisca la sua posizione

Siamo naturalmente tutti felici di vedere che i giovani, su impulso di Greta Thunberg, abbiano preso a cuore le sorti del nostro Pianeta manifestando contro l’inquinamento e chiedendo oramai improcrastinabili decisioni da parte dei governanti. Ma bisogna anche ricordare che esiste un pericolo altrettanto incombente e potenzialmente più devastante che deriva dalle circa 15mila testate nucleari, la maggior parte in possesso di Usa e Russia, ma anche di ancor meno affidabili Stati; un pericolo che potrebbe essere in concreto più facile da risolvere, con l’adesione ad esempio al Trattato sul divieto delle armi nucleari approvato dall’Assemblea dell’Onu il 17 luglio 2017, a cui hanno aderito 122 Paesi. Stranamente ed incongruamente non ha aderito l’Italia, considerato l’art. 11 della nostra splendida Costituzione che, nel ripudiare la guerra come strumento di offesa degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, impone al nostro Paese un concreto impegno a favore della pace. Poiché tra gli impegni degli Stati aderenti a detto Trattato vi è anche quello di dichiarare se nel proprio territorio vi siano armamenti nucleari detenuti, posseduti o controllati da un altro Stato, si potrebbe giungere alla conclusione che il comportamento dell’Italia sia dovuto all’effettiva presenza di ordigni nucleari nel nostro Paese. Diverse fonti di stampa hanno parlato, anche in tempi recenti, della presenza di un certo numero di bombe nucleari presso alcune basi Usa. Ho scritto una lettera al ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, m non ho avuto alcuna risposta. Un rappresentante istituzionale non può sottrarsi a render conto dell’operato del proprio Paese su un tema così delicato. Purtroppo questo silenzio conferma l’idea che il nostro Paese continui a non avere autonomia ed indipendenza per ciò che riguarda un vero futuro di pace, in un momento storico caratterizzato da numerosi conflitti militari locali e dalla continua corsa agli armamenti, anche quelli nucleari, a cui vengono destinate risorse esorbitanti, che potrebbero avere ben altro proficuo e pacifico impiego.

Loris Parpinel, preisidente Anpi provinciale Pordenone

Pil e felicità “Meglio gli Usa delle dittature”. “Ma il liberismo sfrenato miete altre vittime”

 

L’articolo di Pino Arlacchi di domenica suscita a dir poco gravi perplessità. Riassumo, in modo certo di parte: molti grandi Paesi emergenti, grazie a regimi che li difendono dalla globalizzazione, vedono diminuire l’infelicità, mentre negli Usa questa aumenta. Il tutto misurato dal tasso di suicidi, dalla violenza, e dal consumo di droghe. Cioè l’eccesso di ricchezza materiale ottenuta dallo sviluppo capitalistico delle democrazie liberali porta infelicità. Era esattamente lo slogan propagandistico sovietico. Sembra anche avere qualche connotazione antidemocratica, in favore di regimi dittatoriali che si autodefiniscono ipocritamente “democrazie guidate” (Putin firmerebbe). Non è piuttosto più verosimile l’ipotesi che nei Paesi in questione sia l’aumento del benessere, generato proprio dalla globalizzazione capitalistica a cui quei regimi dopo decenni di fallimenti hanno dovuto cedere, che ha diminuito i tassi di suicidio tra i più poveri? Come dimenticare che 50 anni fa eravamo quattro miliardi di cui due sottonutriti, e oggi siamo otto miliardi di cui meno di uno sottonutrito? La fame influisce parecchio sulla qualità della vita, dopo tutto.

Marco Ponti

 

Temo che Ponti non abbia proprio capito il senso della mia analisi sulla diminuzione generale dei suicidi e l’eccezione statunitense. Non ho parlato di regimi dittatoriali e di democrazie, perché la distinzione non aiuta. La flessione è globale, e include quindi l’Europa occidentale, l’India e altre democrazie. Nonché regimi non capitalistici o non liberali. La variabile cruciale, facilmente deducibile dal testo ma sfuggita a Ponti, è la presenza del capitalismo neoliberale senza protezione sociale e con vocazione guerresca che domina gli Stati Uniti. Non so dove Ponti abbia trovato, inoltre, una mia valutazione circa un eccesso di ricchezza materiale creato dal capitalismo delle democrazie liberali che abbia prodotto infelicità. Non nel pezzo criticato e nemmeno da altre parti, visto che penso esattamente l’opposto, nel senso che questo eccesso non esiste, e che l’infelicità americana è dovuta al degrado fisico ed economico della popolazione legato alle abnormi spese militari e alle politiche neoliberali estreme che hanno acuito le disuguaglianze. Dove sono stati posti argini a questo tipo di capitalismo – dall’Europa alla Russia, dalla Cina all’India – si sono verificate le diminuzioni della povertà e dell’infelicità più rilevanti. La globalizzazione, la democrazia liberale, la tirannia o la semitirannia, perciò, c’entrano assai poco. E sono i luoghi comuni che sembrano ispirare il ragionamento di Ponti. Non capisco, infine, cosa c’entri con tutto questo il propagandistico sovietico. Si troverà sempre una frase di Gesù, Marx, Hitler o Woody Allen per screditare o rafforzare un qualunque argomento.

Pino Arlacchi

Trenitalia vince gara con la FirstGroup per gli Intercity inglesi

La società controllata al 100% da Trenitalia (Gruppo Fs), Trenitalia Uk, e FirstGroup si sono aggiudicati il franchise ferroviario della costa occidentale inglese (durata 2019-2031) che comprende i collegamenti Intercity fra Londra, Manchester, Chester, Liverpool, Preston, Edimburgo e Glasgow; oltre allo sviluppo e l’introduzione a partire dal 2026 dei nuovi servizi sulla nuova linea ad alta velocità da Londra a Birmingham (160 km). I servizi InterCity da Londra a Edimburgo/Glasgow trasportano ogni anno 39 milioni di passeggeri con 76 treni che garantiscono 300 collegamenti giornalieri. I ricavi nell’ultimo anno sono stati di oltre 1,25 miliardi di euro con previsione di crescita nei prossimi anni. La nuova partnership tra Trenitalia Uk e FirstGroup, si legge in una nota, prevede l’ammodernamento dell’intera flotta di 56 treni Pendolino con 25mila nuovi posti per i passeggeri. Entro il 2022 verranno inoltre offerti più di 260 servizi aggiuntivi alla settimana introducendo dieci nuovi treni elettrici e 13 treni bi-modali, anche in sostituzione dei diesel ancora utilizzati con una riduzione delle emissioni di CO2 del 61 per cento.