Da Alitalia a Ilva: appesi al destino del governo oltre 200mila lavoratori

Non c’è un’aria distesa nelle sedi dei sindacati italiani: in mezzo a questa crisi di governo ci sono almeno 150 tavoli aperti che coinvolgono circa 200mila lavoratori. Soprattutto, ci sono i dossier più grossi, per i quali ai primi di settembre sono previsti gli incontri al ministero dello Sviluppo (da Alitalia all’ ex Ilva, passando per Whirlpool e Almaviva) e che ora navigano nell’incertezza. “Bisogna comunque garantire un governo, in modo da affrontare le situazioni in una piena assunzione di responsabilità”, dice la segretaria Fiom Francesca Re David. Ma per Luigi Di Maio evitare di lasciare partite ancora irrisolte è un’impresa complicata.

Alitalia. Il crono-programma è ancora lungo e questo apre anche a possibili ribaltoni. A metà luglio, su spinta di M5S, è stato ufficializzato il consorzio chiamato a salvare la compagnia aerea: Ferrovie, il ministero dell’Economia, l’america Delta e Atlantia (su cui pesa l’incognita della revoca delle concessioni autostradali). Entro metà settembre la cordata presenterà il piano industriale. Ancora nulla di certo, ma si rincorrono voci su 2.800 possibili esuberi su un totale di circa 11 mila lavoratori. Poi, dopo il 15 settembre partiranno anche le trattative con i sindacati. E potrebbe servire anche altro tempo se l’Antitrust chiedesse delle compensazioni alla concorrenza che si perderebbe tra treno ed aereo sulle tratte domestiche integrando Alitalia e Trenitalia sotto il cappello Fs. In pratica, si arriverà al 2020.

Ilva. Quella dello stabilimento siderurgico di Taranto è stata definita da Rocco Palombella, segretario dei metalmeccanici Uil, una “bomba sociale”. Il 6 settembre cadrà l’immunità penale per Arcelor Mittal e sarà sostituita da una serie di tutele a tempo e legate al rispetto del piano di risanamento. Questo, però, è contenuto nel decreto approvato “salvo intese” la scorsa settimana e che deve ancora essere convertito dal Parlamento altrimenti lo scudo cadrà del tutto e Arcelor Mittal potrebbe valutare seriamente di chiudere, causando la perdita del lavoro per i quasi 11 mila assorbiti dalla nuova proprietà. La crisi di governo porta con sé molta incertezza. Di fatto, l’unica forza politica convintamente contraria all’immunità penale, sebbene disposta a trovare una soluzione condivisa è M5S. Le posizioni di Pd e Lega vanno in favore di Arcelor Mittal. A quest’ultima, quindi, potrebbe convenire aspettare che si delinei il nuovo scenario.

Almaviva. Chi non attenderà nemmeno un attimo è il gruppo delle telecomunicazioni, pronto al secondo grande licenziamento: questa volta a Palermo, dove andrebbero a casa in 1.600. “Aspettiamo una convocazione per i primi di settembre”, dice Riccardo Saccone della Slc Cgil. La situazione è questa: la società vuole aprire la procedura dopo le ferie per tagliare effettivamente il personale a novembre, i rappresentanti dei lavoratori vorrebbero che si usasse ancora il fondo di integrazione salariale per evitare i licenziamenti. La trattativa durerà due mesi e mezzo e il rischio è che a mediare tra sindacati e azienda sia un governo sfiduciato e con una minore forza persuasiva. “Siamo preoccupati a prescindere – aggiunge Saccone – Una cosa così grossa a Palermo sarebbe drammatica”.

Whirlpool. Da Napoli trapela cauto ottimismo. La decisione, comunicata a giugno, di vendere lo stabilimento è ormai stata revocata dalla multinazionale americana che ora sembra propensa a presentare soluzioni per rinnovare la missione di quella fabbrica, senza chiudere né prevedere esuberi. Ci si vedrà a settembre, la strada è avviata ma anche qui c’è la necessità di trasformare in legge il decreto di inizio agosto, che riporta anche misure in favore dell’azienda di elettrodomestici.

Grande distribuzione. Nel delicato passaggio di Auchan nelle mani di Conad – 18 mila addetti coinvolti – bisognerà garantire che non vi siano tagli all’occupazione. Più complicato è invece il tentativo di rilancio di Mercatone Uno: entro il 31 ottobre arriveranno le offerte vincolanti per l’acquisto della società.

Le altre sorelle. Per Blutec, l’Industria italiana Autobus e l’ex Alcoa ci sono ammortizzatori sociali in scadenza e stalli da sbloccare, alcuni dei quali connessi sempre al decreto legge.

Pil, Germania va in rosso. L’industria italiana trema

Proprio mentre la notizia di uno slittamento dell’entrata in vigore dei nuovi dazi statunitensi sui prodotti cinesi sembrava aver ridato un poco di fiato al commercio mondiale, arriva una nuova doccia fredda sugli spaventati mercati finanziari. Le borse europee ieri hanno fatto un balzo indietro di sei mesi. La Borsa di Milano ha chiuso in forte calo (-2,53%) ma da inizio anno ha fatto meglio di quella di Francoforte, nonostante il salto del debito pubblico italiano al livello record di 2.386 miliardi di euro. Le curve di rendimento dei richiestissimi titoli di Stato dei Paesi core si sono capovolte in Usa e Regno Unito, segnale che solitamente anticipa una recessione. Anche gli interessi dei bund tedeschi sono precipitati a meno 0,65%. Di conseguenza fatica a restringersi lo spread con i Btp italiani a 10 anni, sceso a quota 218. Brutte notizie anche dall’economia reale. Il Pil della Germania è sceso tra aprile e giugno dello 0,1%. Un dato che se si replicasse nel trimestre in corso equivarrebbe a una recessione tecnica. Rallenta nel secondo trimestre anche la crescita dell’intera Ue con il Pil dell’area euro a +0,2% rispetto ai primi tre mesi dell’anno. Crolla la produzione industriale a giugno: nella zona euro, comunica Eurostat, è scesa dell’1,6% e nella Ue-28 di 1,5%. A maggio era aumentata di 0,8% e 0,9%. In Italia il calo è di appena 0,2%, in Germania dell’1,8%. I timori dei risparmiatori si sono tradotti in una richiesta di beni rifugio come l’oro, tornato ai massimi storici del 2013, ma anche di obbligazioni a scapito di quello azionario.

A incidere sulle difficoltà dell’economia tedesca è la flessione delle esportazioni, dovuta al rallentamento della domanda a causa della guerra tra Cina-Usa. E non è una buona notizia per l’Italia.

Il giro d’affari delle prime dieci aziende tedesche è di 800 miliardi di euro, la metà del Pil italiano. La loro capitalizzazione supera quella dell’intera Borsa milanese. Ogni anno 40 tonnellate di merci prendono la via del Brennero. Molte di più di quante ne transitino sui valichi svizzeri e francesi. La vecchia A22 boccheggia in attesa del futuro tunnel ferroviario, il grande gate del corridoio Scandinavia Mediterraneo che dovrà trasferire gran parte del traffico nord-sud sulle rotaie dal 2028. Si parla di 400 treni al giorno, più lunghi e veloci dei 240 attuali. E l’export italiano è in costante aumento. Lo scorso anno le esportazioni italiane destinate ai tedeschi hanno toccato i 58,1 miliardi di euro (+3,8% rispetto al 2017), soprattutto semilavorati e componentistica per il settore dell’auto. Mentre il valore delle importazioni si è attestato a 70,3 miliardi di euro (+6,8% rispetto al 2017). Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna si ritagliano da sole circa 90 miliardi dell’interscambio. I due sistemi sono molto integrati. Molti posti di lavoro in Italia dipendono dallo stato di salute delle imprese tedesche.

Il manager di Tuodì morto in barca: colpa di un’esalazione di gas

L’autopsia sul corpo di Eugenio Vinci, il manager dei supermercati Tuodì morto mentre era in vacanza su una barca a vela in Croazia, ha confermato che ad essere fatale sono stati i gas esalati dall’imbarcazione. Nessuna intossicazione alimentare, dunque, come si era inizialmente pensato, ma un vero e proprio avvelenamento da monossido di carbonio. Fatale al 57enne, e purtroppo non solo: sono in gravi condizioni anche i suoi figli, di cinque e undici anni, ricoverati all’ospedale di Spalato, mentre è stabile la moglie. Stando ai racconti degli altri quattro turisti italiani, due coppie di coniugi di Sant’Agata di Militello, tra cui il sindaco della cittadina nel messinese Bruno Mancuso, Vinci è morto nel bagno dell’imbarcazione perché è svenuto e ha sbattuto la testa contro la vasca. “Alle dieci di mattina i nostri amici, che stavano bene, hanno notato che noi altri stavamo ancora dormendo, e sono entrati nelle cabine per svegliarci”, ha raccontato Mancuso alla emittente tv croata Nova. “Nel bagno hanno trovato Eugenio con la testa insanguinata, hanno poi svegliato tutti tranne i due bambini che erano già in coma.”

Eredità Todini: la Corte dà ragione alla figlia

Denunciata per stalking dalla madre, Luisa Todini ha 20 milioni di buone ragioni per brindare alla vittoria. I legali della madre hanno perso la battaglia, ma l’anziana potrà consolarsi con mille euro al giorno per il resto della vita.

La saga Todini, raccontata dal Fatto tre mesi fa, è arrivata a un punto di svolta e potrebbe rivelare altre sorprese. La Corte d’Appello di Roma, ribaltando il giudizio di primo grado, il 12 agosto ha accolto il ricorso con cui l’imprenditrice umbra chiedeva a tutela della madre un amministratore di sostegno che gestisse, sotto la vigilanza di un giudice, l’ingente patrimonio ereditato da Franco Todini. Nel 2001, alla morte del costruttore, la parte della vedova Maria Rita Clementi era superiore a 65 milioni di euro: oggi ne resta un quarto circa tra immobili, fondi e partecipazioni. Un tesoro conteso a suon di avvocati, denunce e perizie in tribunale tra l’imprenditrice, la madre stessa, il fratello Stefano e i loro legali.

A gennaio il giudice tutelare aveva respinto la richiesta presentata nel 2017 ritenendo che in capo alla vedova, all’epoca 78 anni, non sussistesse uno stato di decadimento mentale tale da giustificare misure di protezione e che fosse dunque pienamente capace di amministrare il patrimonio. Nel reclamo depositato a febbraio dagli avvocati Federico Vecchio e Federico Lucarelli, la Todini ha chiesto di rivalutare le perizie medico legali, anche quelle disposte dal giudice penale, e ha puntato il dito contro i legali della madre – l’avvocato Alessandro Sammarco e il consulente Giuseppe Ciaccheri – perché mentre la sottraevano alle perizie disposte dal giudice, la portavano a costituire un trust nel quale indicava i due figli come beneficiari ma loro stessi come amministratori, con un compenso di 40 mila euro l’anno ciascuno per dieci anni. La signora Clementi si è costituita nuovamente, sostenendo che la figlia abbia intrapreso l’azione al solo scopo di disporre del patrimonio personalmente.

La sezione famiglia della Corte d’Appello di Roma ha messo ora una pietra tombale sulla parte civile della saga, stabilendo che la “valutazione espressa dal primo giudice non sia adeguata ai riscontri che gli atti processuali consentono in merito alla condizione di infermità di mente della Clementi, condizione ulteriormente confermata dalla consulenza tecnica svolta dal Pubblico Ministero in sede di indagini penali, depositata in questa fase dalla reclamante”. Il provvedimento stabilisce dei punti fermi. Il patrimonio resta in capo alla signora, che potrà spendere fino a 30mila euro al mese. La signora Clementi ha bisogno del sostegno e non da oggi, ma anche all’epoca della prima istanza della Todini, quando veniva condotta dai propri consulenti legali a costituire il trust (31 luglio 2018) in una condizione ormai certa di ridotte capacità. L’amministratore nominato, dice il decreto, non dovrà stabilire solo se il trust è valido e revocabile, ma anche verificare se gli amministratori hanno operato nell’interesse esclusivo della signora e senza arrecarle pregiudizio. Un punto delicatissimo.

Tali verifiche, infatti, potrebbero impattare sull’aspetto penale ancora aperto dalla denuncia per stalking della madre contro la figlia. La Procura di Roma ha avviato l’indagine a carico della Todini, ma proprio la pronuncia della Corte d’Appello sottrae fondatezza all’esposto, laddove indica con certezza l’incapacità dell’anziana e, neanche troppo velatamente, anticipa la necessità di chiarire come sia stato gestito il patrimonio. Al punto 9 dispone che il tutore segnali al giudice “eventuali situazioni di gestione patrimoniale pregressa e tuttora produttiva di effetti, con particolare riguardo all’atto di conferimento in Trust, ove pregiudizievole per la beneficiaria, con indicazione di eventuali azioni da intraprendere a tutela della medesima”. Adombrando il sospetto che l’anziana sia stata vittima di circonvenzione, come la Todini denuncia da tempo.

Enjoy, gli utenti in rivolta: “Per 15 minuti presi 50 euro”

Pochi minuti di noleggio che, però, costano cari. È quanto accaduto a centinaia di clienti Enjoy che il 1° agosto hanno utilizzato l’utilitaria a Milano, Roma, Torino, Firenze e Bologna. Qualche chilometro e, senza alcun preavviso, sin son visti scalare dal conto 50 euro. Il costo giornaliero. Niente fattura di fine noleggio, né alcuna comunicazione. “Un errore di sistema”, secondo il servizio clienti del car sharing di Eni, che ha liquidato i reclami con un vago “stiamo procedendo alle verifiche, non conosciamo le tempistiche del rimborso, invieremo il sollecito”.

Il copione si è ripetuto identico per tutti. Infatti molti hanno denunciato l’accaduto sul profilo Facebook di Enjoy. Stefano, il 1° agosto, si trovava alla stazione Termini e doveva raggiungere il Foro Italico. Il noleggio è durato una quindicina di minuti. La vettura si è chiusa regolarmente. Ma in serata si è accorto che erano stati scalati 100 euro dal suo conto. Ha chiamato Enjoy e ha saputo così dell’errore di sistema. Nell’arco di poche ore ha riutilizzato Enjoy e nuovamente la società ha tentato di addebitargli altri 50 euro. Non ci è riuscita, perché non c’erano. A quel punto gli è stato pure bloccato l’account per una settimana. “I soldi mi sono stati restituiti il 12 agosto dopo aver tempestato la pagina Facebook di commenti negativi”- dice, rammaricato per la “noncuranza dell’assistenza clienti”. Secondo lui, “chi non ha guardato l’estratto conto, ancora non lo sa”. Anche Nelud, a Milano, il 1° agosto ha utilizzato Enjoy per una decina di minuti. Al costo di 50 euro. A Edoardo, Alberto, Violetta, Claudio e molti altri è accaduta la stessa cosa.

Ma di blackout del sistema ce ne sono stati altri. Rocco il 20 giugno ha prenotato l’Enjoy cargo. La vettura non è mai partita per un problema al motore. Il servizio clienti lo ha rassicurato che i 25 euro gli sarebbero stati rimborsati, ma il giorno seguente ha scoperto che gliene mancavano altri 55, come se avesse utilizzato l’auto per 5 ore di fila. Da allora attende 80 euro. Di casi andando a ritroso nel tempo ne emergono altri. A febbraio, tra i malcapitati, c’era Daniele. Venti minuti di noleggio, 150 euro. A ottobre 2018, Fernando. Franco dopo 4 mesi ha riavuto 100 euro. Quella di Elena, invece, è una storia a parte: dopo aver sbagliato la pompa di benzina, senza però immettere il carburante nel serbatoio, si è vista scalare 1000 euro. Ha dovuto farsi assistere da un legale, ritardare l’arredo di casa e, dopo un mese, ha ricevuto l’accredito. Eni, che conta su una flotta di 2.500 veicoli distribuiti su 5 città italiane, rassicura: “I casi di eccesso di addebito e i disguidi collegati, limitati a poche decine di episodi rispetto a oltre 12 mila noleggi medi giornalieri effettuati, sono derivati prevalentemente da problematiche fisiologiche collegate alla comunicazione sulle reti cellulari”. L’aggiornamento migliorativo dei sistemi operativi – avverte la società – “ha causato un picco di alcune centinaia di casi, altrettanto fisiologici rispetto alla fase di avvio di nuove piattaforme”.

Tuttavia, “tali disservizi sono già stati gestiti con priorità assoluta e in buona parte risolti, mentre i rimanenti sono in fase di risoluzione”. Tiene anche a precisare che “non ha alcuna causa legale in corso e non ne ha avute in passato, a dimostrazione del fatto che tutte le segnalazioni sono state opportunamente gestite”. Per i casi di particolare disagio, annuncia un’offerta di noleggio addizionale e promette di adoperarsi “per velocizzare la gestione dei rimborsi ancora in fase di verifica”. E poi, anche se finora non sono pervenute, Enjoy al Fatto ribadisce le proprie scuse ai clienti coinvolti. Meglio tardi che mai.

Annullati i domiciliari per il sindaco di Apricena (Foggia)

I giudici del Tribunale del Riesame di Bari hanno annullato gli arresti domiciliari a carico di Antonio Potenza, sindaco sospeso di Apricena (Foggia). Il primo cittadino era stato arrestato a fine luglio con l’accusa di peculato, abuso d’ufficio e concussione: per la Procura di Foggia avrebbe costretto una sua collaboratrice, vincitrice di un concorso pubblico, a cedere il posto in graduatoria ad un suo conoscente, risultato vincitore della selezione. Non solo: al sindaco Potenza veniva contestato anche l’utilizzo dell’auto del Comune per svolgere commissioni private. L’ordinanza di custodia cautelare era stata disposta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Foggia, ma il Riesame si è pronunciato diversamente: per i magistrati del capoluogo non ci sono gravi indizi di colpevolezza e quindi esigenze cautelari. Nel procedimento sono coinvolti anche l’assessore comunale al verde pubblico e ai servizi cimiteriali, Ivan Augelli, e l’imprenditore Matteo Bianchi, per cui la decisione è attesa nei prossimi giorni.

Quando gli ex padroni dell’Ilva volevano bloccare Nadia Toffa

Le parole su Nadia Toffa, poche ore dopo la sua morte, sono state tante, tantissime. I ricordi sinceri, gli omaggi doverosi, riconoscimenti meritati. Anche Mediaset, sul suo sito ufficiale, ha dato ampio spazio ai coraggiosi servizi della Iena più irriverente e solare che si ricordi. Nell’home page del sito di Mediaset Play, oltre alla foto di Nadia e al ricordo dei colleghi, è stato inserito uno spazio virtuale intitolato “Il meglio dei servizi di Nadia Toffa”. Cambiamento climatico, pedofilia, malasanità. C’era il servizio sulle malattie respiratorie a Borgotaro (Parma) e l’inquinamento “dell’altra Ilva”. Già, “l’altra”, la Ferriera di Trieste. Invece l’Ilva originale, quella di Taranto, su cui Nadia ha concentrato la sua battaglia professionale e umana, non c’era. Eppure su Taranto e sui problemi dei tarantini, Nadia Toffa aveva fatto tanto, tantissimo. Al punto che qualche mese fa le era stata conferita la cittadinanza onoraria del capoluogo ionico.

Una svista? Forse. Ma comunque imbarazzante. L’impegno di Nadia, come detto, è andato ben oltre il racconto della tragedia ambientale e sanitaria. Si è spinto in iniziative che hanno permesso di raccogliere ben 500 mila euro donati al reparto pediatrico dell’ospedale ionico per l’acquisto di macchinari e per il pagamento degli stipendi dei medici specialisti per due anni. Si chiama “Ie Jesche Pacce Pe Te” che in dialetto tarantino significa “io divento pazzo per te”. Nadia non era solo la testimonial di una campagna, era il simbolo della lotta conto l’inquinamento e le malattie prodotte dalla fabbrica. Fino all’ultimo ha dichiarato il suo amore per Taranto, la sua gente, il suo mare. Eppure di tutto questo sul sito ufficiale del Gruppo Mediaset non c’è traccia.

Del resto l’azienda berlusconiana sulla questione Ilva è sempre stata su posizioni opposte a quelle di Nadia Toffa. Il governo guidato da Silvio Berlusconi, nel lontano 2010, per consentire alla famiglia Riva di uscire dall’emergenza sulle emissioni di benzoapirene, un inquinante estremamente cancerogeno, varò il decreto che consentiva l’innalzamento dei limiti di legge. In cambio ottenne la partecipazione della famiglia industriale nel primo salvataggio Alitalia con una quota di 120 milioni di euro. I Riva e il loro staff sapevano di poter contare un alleato fedele. E così, proprio quando Le Iene stanno per mandare in onda un servizio sulla questione Ilva, chiedono aiuto. I finanzieri che in quell’ottobre 2010 stanno indagando sulle relazioni della famiglia Riva, scoprono che uno degli avvocati dell’azienda ha provato a bloccare la messa in onda. Per neutralizzare il servizio sui fumi sparati durante la notte dai camini del siderurgico, l’avvocato Franco Perli incontra Mauro Crippa, braccio destro di Fedele Confalonieri. Il legale lo racconta ad altri indagati, ma poi scopre che alla redazione è stata spedita una raccomandata su ordine dell’ex patron Emilio Riva. Quella nuova strada è scivolosa. Perli lo sa e così si tira indietro. “Io qui mi fermo – dice al telefono a Fabio Riva – perché questa è una dichiarazione di guerra” e “se questi si incazzano ci mollano!”.

La manovra, però, non riesce: il servizio va in onda. I Riva tentano una difficile controffensiva, ma sono ormai a un passo dal baratro. Due anni dopo l’inchiesta “ambiente svenduto” travolgerà tutto e tutti. Le Iene, come pochi altri in Italia, lo avevano capito in anticipo. Hanno continuato a raccontare quel dramma per anni. Però oggi Mediaset, ricordando il volto più noto de Le Iene, preferisce ignorarlo.

Chioggia, Tar riapre la spiaggia chiusa per “razzismo”

Il Tar ha stabilito la riapertura della spiaggia veneta palcoscenico della recente vicenda di razzismo in cui il protagonista, un ragazzo di 18 anni italiano ma di origine etiope, era stato respinto all’ingresso perchè nero. “Siamo tornati!” l’annuncio pubblicato su Facebook dai proprietari del Cayo Blanco di Sottomarina che ieri ha dunque riaperto. Il Tar aveva respinto la richiesta di sospensione del provvedimento di chiusura emesso dal questore di Venezia Maurizio Masciopinto ma il nuovo decreto, ha stabilito la riapertura. La motivazione è abbastanza curiosa per la verità, “gli eventi erano già programmati e il danno economico che avrebbe causato la chiusura nelle due settimane centrali della stagione sarebbe stato altissimo”. Per il Questore la chiusura era stata motivata con una serie di episodi tra cui risse e un pestaggio ma i documenti presentati dal legale del proprietario hanno convinto i giudici che la perdita economica derivante dalla chiusura sarebbe stata troppo ingente rispetto al resto. L’udienza per la sentenza sul ricorso è fissata per l’11 settembre. Il Tar ha considerato peraltro come il provvedimento di sospensione “abbia già avuto esecuzione per circa la metà della sua durata”.

Soldi pubblici e cemento: così Toti sfrutta l’emergenza

Le guance di Giovanni Toti erano ancora umide il Ferragosto di un anno fa, ma l’intuito del governatore della Liguria s’era già attivato. Le macerie del Morandi erano una tragedia, ma dal punto di vista politico anche l’occasione per arrivare dritto alla riconferma alla guida della Regione, nella primavera del 2020. E, da lì, magari, ad altri più ambiziosi lidi, come le cronache degli ultimi giorni ventilano.

La narrazione della città in ginocchio – che Toti, fattosi nominare commissario all’emergenza, ha condotto col supporto delle categorie produttive, Camera di Commercio in primis, oltre che con quello di Marco Bucci, sindaco e poi commissario alla ricostruzione, e Edoardo Rixi, suo ex assessore e allora viceministro – ha versato su Genova un fiume di risorse eccezionali, fra decreto apposito e finanziaria. Che il governatore ha preteso di elargire nel modo più largo possibile, ottenendo quasi carta bianca sull’apertura al fumoso criterio del danno indiretto e sulle demarcazioni territoriali. Ad esempio, per il caso delle risorse, sovrabbondanti, per la Zona Franca Urbana. Già i 42 milioni stanziati per la prima emergenza non furono spesi tutti. E la stessa Camera di Commercio a novembre riferiva che solo il 30% delle aziende presuntivamente colpite aveva denunziato danni.

Ma il vero capolavoro, in termini di strategia del “danno diffuso”, è stato fatto col porto. Dopo il crollo, in Parlamento, quando si discuteva delle risorse da assegnare, Toti e il presidente dell’Autorità Portuale, il fedele Paolo Signorini, parlarono di un 2018 che rischiava di chiudersi a -10% di traffico. L’anno invece terminò a +0,3%. Il trend discendente – che oggi vede il semestre chiuso a -3,7% – iniziò a giugno, due mesi prima del crollo, ed è proseguito fino ad oggi. Perfettamente in linea con l’economia italiana che ristagna dal secondo trimestre 2018 (le oscillazioni nei traffici portuali sono maggiori di quelle dell’intero sistema economico, in entrambi i sensi).

Il Morandi senz’altro non ha aiutato, ma la correlazione è bassa, lo indicano molti fattori. I cali di traffico – mese su mese – non sono infatti concentrati a ridosso dell’incidente, l’andamento è al ribasso ma fluttuante. L’analisi dei singoli terminal mostra poi che i risultati peggiori sono arrivati dal bacino portuale di Voltri (quello logisticamente meno toccato) e dai terminal petroliferi che lavorano principalmente via oleodotto. Nei primi 6 mesi dell’anno, inoltre, un porto come Venezia, gemello di Genova per la parte orientale del settentrione, ha registrato un -7,2% che mostra (Venezia copre un mercato più manifatturiero di quello di Genova) come il calo genovese si inserisca in un quadro congiunturale definito, su cui il ponte ha effetti relativi.

Va dato atto ai due commissari, a inizio ottobre i collegamenti ferroviari erano ripristinati e di lì a poco sarebbe stata aperta la strada che ha sopperito al Morandi nei flussi fra i due bacini portuali genovesi. I soldi dello Stato ottenuti per il solo porto (oltre 400 milioni), però, lo abbiamo raccontato sul Fatto più volte negli ultimi 12 mesi, hanno aiutato le amministrazioni a risolvere o tamponare diverse grane pregresse. È il caso, fra gli altri, dei fondi per la Culmv, la Compagnia dei camalli in crisi economica, e di quelli per l’autotrasporto in fibrillazione. O sono serviti a saldare rapporti (gara Uirnet e gli sconti ai canoni dei concessionari portuali) o rappezzare progetti urbanistici dimostratisi fuori mercato (Waterfront).

Senza dimenticare il colpo grosso, i 200 milioni e le deroghe al codice degli appalti, ottenuti per puntellare un programma di infrastrutture che l’Autorità Portuale si trascina da più di 10 anni insieme all’endemica incapacità di spesa, su cui svetta il megaprogetto (1 miliardo di euro) della nuova diga foranea, mai sottoposto ad analisi costi-benefici. Un tripudio di cemento trionfalmente presentato a gennaio da Toti, Bucci, Rixi e Signorini come la pietra miliare del rilancio. Passati 7 mesi poco o nulla si è mosso. Ma non importa, come non importa la situazione viabilistica della Val Polcevera, ancora critica: la narrazione ha funzionato, i commissari hanno salvato la città, mungendo lo Stato e distribuendo a manica larga ben oltre i danni misurabili e direttamente legati all’incidente. E prenotandosi così la rielezione, in Regione e in Comune.

Morandi, nuovo fronte per i pm “Poteva restare ancora aperto?”

“Il ponte Morandi, viste le sue condizioni di salute, era ancora idoneo a rimanere aperto senza limitazioni?”. A un anno dal crollo è la domanda che si pone il procuratore di Genova, Francesco Cozzi, che ieri ha fatto il punto sull’inchiesta. In pratica gli inquirenti stanno cercando di stabilire se le condizioni della struttura non richiedessero uno stop al traffico. Misura ovviamente molto complessa, ma ineludibile se fosse stato chiaro il rischio – poi purtroppo diventato realtà – di un cedimento del ponte. Insomma, meglio rischiare il blocco della circolazione che una strage.

Il procuratore ha ripreso le parole dell’architetto genovese Renzo Piano (“Un ponte così non ha il diritto di crollare”): “Bisogna anche chiedersi se avesse il diritto di portare 25 milioni di veicoli all’anno senza limitazioni. L’indice di corrosione dei cavi era elevatissimo, saranno i tecnici a dire quanto abbia influito sul crollo”.

Da Cozzi è arrivata anche un’esortazione: “Siamo di fronte a infrastrutture che richiedono una manutenzione continua e attenta, perché bisogna garantire la sicurezza di chi le usa. Bisogna pensare che talvolta i materiali sono sottoposti a uno stress almeno cinque volte maggiore di quando erano stati progettati. Per questo subiscono un’usura maggiore anche dai fattori esterni”. Ma quali saranno i tempi dell’inchiesta? Il lavoro degli investigatori, racconta Cozzi, è “a metà del guado. Verosimilmente entro i primi mesi del 2020 verranno chiuse le indagini e che a metà dello stesso anno, ragionando per ipotesi, potrebbero esserci le richieste di rinvio a giudizio”.

Cozzi era presente ieri mattina alla commemorazione delle vittime. E molti hanno notato il passaggio di forte sostegno che Egle Possetti, presidente del Comitato parenti delle vittime, ha dedicato ai magistrati che conducono le indagini: “Ringraziamo la magistratura che sta lavorando con tanto impegno per stabilire la verità. Questo sforzo ci scalda il cuore, i magistrati non devono essere lasciati soli”.