“Assegni non dovuti in 7 casi su 10”. M5S a Garavaglia: cretinate

Anche il reddito di cittadinanza diventa terreno di scontro nell’ex alleanza gialloverde dopo la deflagrazione della crisi di governo. Accanto alle critiche di Matteo Salvini, anche il viceministro dell’Economia leghista Massimo Garavaglia tenta di mettere una pietra tombale su una delle bandiere del Movimento 5 Stelle. “Bisogna rivedere la misura costata 10 miliardi perchè il 70 per cento di chi lo chiede probabilmente non ne ha diritto: se tutte le anomalie venissero accertate si potrebbe arrivare a risparmiare fino a 5 miliardi” ha detto anticipando i risultati degli accertamenti sugli assegni già erogati. Ma su cui “al momento non ci sono dati ufficiali” ha precisato il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico che assicura che “se ci sono state truffe, come per le altre prestazioni, saranno perseguite”. Per Tridico invece sono stati “massivi e preventivi i controlli rispetto all’accoglimento delle domande: la loro efficacia è dimostrata dal fatto che più di un quarto delle domande è stato respinto”. Secca la replica al viceministro dell’Economia da parte del Movimento 5 Stelle: “Se è a conoscenza di percettori del reddito di cittadinanza che non ne hanno diritto andasse alla Guardia di Finanza a denunciare. A Garavaglia diciamo basta sparare cretinate ”.

Come si cambia: il taglio delle poltrone faceva gioire la destra e inorridire i dem

Tre approvazioni in Aula, tutte con maggioranze molto ampie. Perché sul taglio del numero dei parlamentari sembravano finora quasi tutti d’accordo col M5S, fautore della riforma: Lega, Fratelli d’Italia e pure un pezzo di Forza Italia. Un mese fa, in occasione dell’ultimo via libera al Senato, Salvini si intestava la riforma sui social: “Taglio di 345 parlamentari, fatto”.

In Aula l’iter della riforma, che prevede il taglio a 400 deputati e 200 senatori, inizia al Senato lo scorso febbraio. Relatore è Roberto Calderoli (Lega): “Questo piccolo provvedimento produce risultati giganteschi in termini di efficacia. Molti di noi potrebbero non tornare, ma questo non ci impedisca di approvarlo”.

E in effetti forzisti e meloniani si accodano. Gaetano Quagliariello (FI): “Voteremo Sì come un’apertura di credito, perché questa riforma, se ben interpretata, potrà riportare prestigio al Parlamento”. Ignazio La Russa (FdI), pur non entusiasta, conferma: “Votiamo a favore: cca nisciuno è fesso, non potrete dire che erano tutti contrari e voi, belli, avete accontentato l’istinto di rivalsa popolare”.

Unici a Opporsi + Europa, LeU – che solleva dubbi di costituzionalità e un problema di rappresentanza – e il Pd. Il giorno del voto Matteo Renzi risulta in missione, ma per i dem la linea la dà Luigi Zanda: “La riduzione dei parlamentari, già presentata in tempi di riformismo democratico, è diventata una cosa diversa, una mossa preparatoria di un futuro istituzionale democraticamente equivoco”. Secondo il Pd, tagliare gli onorevoli non basta: “Un vero riformismo dovrebbe entrare nel merito del bicameralismo perfetto, come facemmo noi” (Paola Boldrini); “Riconoscete a una Camera una determinata funzione e all’altra un’altra (sic), più specifica e adatta” (Simona Malpezzi); “Non è più possibile fare il ping pong, la navetta tra due istituzioni” (Gianni Pittella). Insomma, la soluzione dem è riproporre il referendum 2016. Arrivano 54 no, sovrastati dai 185 sì.

Alla Camera, lo scorso maggio, la seconda approvazione: 310 sì e 107 no con gli stessi schieramenti di tre mesi prima. Per la Lega parla Alberto Stefani e sembra di sentire il M5S: “Vogliamo un Parlamento vecchio, geloso delle proprie prerogative, o un Parlamento che ha voglia di guardare avanti, di snellirsi senza paura?”.

Ancora favorevoli, pur con riserva e una manciata di dissidenti, Forza Italia e FdI. Francesco Paolo Sisto (FI) scommette “sulla capacità di integrazione di questo provvedimento” con altri interventi, Emanuele Prisco (FdI) parla di una norma “che recepisce un’istanza di cambiamento istituzionale molto forte”. Il Pd alza il tiro: Roberto Giachetti definisce la riforma “una cazzata”, Emanuele Fiano “un pericolo per la democrazia”.

In ogni caso i numeri ci sono e si arriva alla seconda lettura in Senato, lo scorso 11 luglio. Rispetto alle votazioni precedenti si sfila soltanto parte di FI, che non partecipa al voto: “Avevamo chiesto che questa riforma – spiega Lucio Malan – fosse accompagnata da altre misure (elezione diretta del Capo dello Stato, rapporti con le Regioni ecc, nda), per questo non partecipiamo”. E mentre Luca Ciriani, capogruppo di FdI, assicura il voto: “Questa è la strada che ci hanno indicato gli elettori e poi è nella storia politica della destra l’intenzione di ridurre il numero dei parlamentari”, il Pd si oppone ancora. Luigi Zanda è netto: “La riduzione non serve per rianimare la democrazia e rafforzare il Parlamento: è una scorciatoia per indebolirli”. Il leitmotiv è lo stesso: serve una riforma più ampia.

Tesi smontata con l’esperienza da Calderoli: “Dopo le riforme del 2005 e del 2016 non ci casco più. Non credo che gli italiani siano contro la riduzione dei parlamentari, ma non vogliono che venga loro sottoposta una serie di quesiti incomprensibili. Sono convinto della necessità di misure limitate e chirurgiche. Il Parlamento sarà più forte e così la nostra democrazia”.

“Proviamo a fare un governo, con il Pd c’è molto in comune”

Nel Pd il primo ponte verso i 5Stelle l’ha gettato Goffredo Bettini, deus ex machina del “modello Roma” negli anni di Rutelli e Veltroni. Proprio da Roma arriva una risposta: Luca Bergamo, vicesindaco di Virginia Raggi, ribadisce la proposta ai dem che consegnò al Fatto subito dopo le elezioni: “Bisogna confrontarsi sui contenuti e verificare se c’è la possibilità di far nascere un governo”.

Un patto anti Salvini. Una ammucchiata, in pratica.

Se fosse solo un patto contro di lui lo sarebbe, ma chi parla di inciucio dimentica di aver approvato, un anno e mezzo fa, una legge elettorale proporzionale, passata con i voti della Lega e di Renzi. Quella legge ha prodotto un Parlamento dove esiste una forza di maggioranza relativa, il M5S. A inizio legislatura c’erano due scenari: l’accordo con la Lega o con il centrosinistra. Quella discussione non fu consentita da Renzi. Oggi che l’esperienza con la Lega è chiusa, bisogna chiedere al Pd di sedersi a un tavolo e confrontarsi seriamente, come non ha fatto un anno fa.

Sulla base di cosa?

Ci sono convergenze note e anche divergenze, ma ce n’erano paradossalmente di più con la Lega.

Quali sarebbero?

Intanto la riduzione del numero di parlamentari.

Quella l’ha rilanciata proprio Salvini.

È solo fumo negli occhi, propaganda, come il 90% di ciò che fa.

E poi?

Poi tanti temi che riguardano i diritti fondamentali della persona, le politiche sociali, il lavoro e lo sviluppo economico, l’urgentissima transizione ecologica, la cultura, la parità salariale tra donne e uomini, e molto altro. Bisognerà correggere le distorsioni massicce contenute nel decreto sicurezza. E ci sarebbe lo spazio per una politica economica credibile per il paese, per l’Europa e comprensibile ai mercati. Se nasce, non deve essere un accordo anti Salvini, ma un governo serio, in una fase molto delicata.

Sarebbe comunque tutti contro la Lega, che è per distacco il primo partito.

Nei sondaggi. Non si sciolgono le Camere solo perché qualcuno pensa di ottenerne un beneficio elettorale. La composizione del Parlamento non cambia solo per il risultato delle Europee.

È sicuro che vi convenga?

Dissento da questa idea tutta tattica della politica. Se il Parlamento può fare un governo deve farlo, altrimenti si va alle elezioni. Non certo sulla base di sondaggi e convenienze.

Così spianate la strada a Salvini, la prossima volta prende davvero il 60%.

Non è un ragionamento compatibile con il funzionamento ordinato delle istituzioni democratiche. Se ci sono le condizioni perché si faccia un governo bisogna provarci.

Nel 2013 il M5S aveva come regola costitutiva il fatto di non allearsi con nessuno, 6 anni dopo siede al tavolo con Renzi. Fa impressione, no?

Non bisogna mica sedersi al tavolo con Renzi. Nel frattempo il Pd ha scelto un nuovo segretario.

I gruppi parlamentari li controlla lui.

Il Pd con cui eventualmente ti siedi al tavolo, è un partito che ha sconfessato la linea di Renzi. Bisogna dimenticare l’astio, legittimo, che c’è da una parte e dall’altra.

Se servissero i voti anche dei fuoriusciti di Forza Italia?

Non mi pare che servano.

Ma c’è un confine nell’ipotetica nuova maggioranza?

Mi chiede se penso si debba accettare qualunque accordo pur di avere una maggioranza? La risposta è no. Dopo di che, cosa significa ora mettere veti? Bisogna sedersi e discutere per vedere se si può essere d’accordo.

Che ruolo avrà Di Maio?

Ha fatto un lavoro enorme e faticoso in questo anno e gli va riconosciuto. Io penso che la grande forza del M5S sia però essere un’intelligenza collettiva. Bisogna puntare sull’insieme delle persone che lo rappresentano in Parlamento e sul territorio. Ma credo che l’ultimo dei temi oggi siano i nomi. Nessuno deve porre veti o controveti, sarebbe solo una scusa.

E Conte invece?

Credo abbia acquisito un’autorevolezza e una legittimità nell’esercizio delle funzioni di presidente del Consiglio che gli è riconosciuta nel Paese e all’estero.

Per Renzi è stato un premier “inesistente”.

Come d’uso si sbaglia.

Caro Brunetta, magna tranquillo

Non si puònon provare una forma di empatia per Renato Brunetta. L’uomo che teorizzava il golpe europeo contro Berlusconi nel 2011, più di recente si è riscoperto amico dei mercati e delle cancellerie e fiero oppositore dell’irresponsabile populismo gialloverde. Ora che il governo sovranista non c’è più, il partito di Brunetta (Forza Italia) torna definitivamente tra le braccia di Salvini. E lui si sente solo, tanto solo. E però non demorde. “Berlusconi vuole un centrodestra unito, così come lo vogliamo noi e la maggior parte del Paese”, spiega Brunetta ai giornalisti. Poi lancia un accorato appello al Capitano: “Nonostante Salvini abbia preferito la fuga d’amore con il Movimento Cinque Stelle siamo rimasti sempre dalla stessa parte credendo in un centrodestra unito di governo nei comuni, nelle regioni, dappertutto. Speriamo che Salvini dopo questa esperienza, dopo questa scottatura con i Cinquestelle costruisca assieme a noi centrodestra unito di governo. Una coalizione plurale, liberale e pro Europa, non quella dello ‘spread me ne frego’ di Borghi e Bagnai”. Insomma, Salvini dovrebbe fare un centodestra che somiglia a Brunetta. Magari il leghista lo chiamerà, si spera non telefoni in ore pasti. Nel dubbio, Renato, magna tranquillo.

Il “Capitano” s’è incartato. E Grillo tifa l’intesa col Pd

Al 7° giorno, la crisi di governo si riposò. Con un mucchio di parole e poche certezze, i partiti si preparano al venti di agosto con l’intervento a Palazzo Madama del presidente Giuseppe Conte. Ecco una guida, aggiornata e ragionata, per scoprire le ultime strategie dei protagonisti.

Conte. Il premier è atteso in Senato per generiche comunicazioni. I leghisti fremono per votare la sfiducia e lasciare aperta la finestra elettorale su ottobre. Il presidente vorrebbe affrontare i senatori e sancire in Parlamento la decomposizione dell’esecutivo gialloverde. I 5 Stelle, però, studiano una risoluzione talmente annacquata da favorire l’uscita dall’aula dal centrosinistra (Pd e LeU) e permettere a Conte di salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni senza la sfiducia addosso. Così il premier, con un governo formalmente in carica per gli affari correnti, potrà partecipare al G7 (a Biarritz dal 24 al 26 agosto) e, nel frattempo, Sergio Mattarella svolgere le consultazioni. In assenza di un’altra maggioranza politica, il Colle potrebbe affidare un altro incarico a Conte: a quel punto l’ex garante del contratto gialloverde, con un esecutivo più snello e un’agenda minima, potrebbe cercare il consenso in Parlamento tra coloro che sono terrorizzati dalle elezioni anticipate.

Salvini. Al momento l’offensiva di Ferragosto è fallita. Con la crisi impantanata in Parlamento (e dove sennò?), oltre la costante propaganda, il ministro dell’Interno non ha più armi. Deve confidare negli errori altrui, e nel Carroccio si sentono i primi mugugni contro il Capitano: il suo vice Giorgetti parla di “responsabilità di Matteo” (ci ha pensato troppo). Rifioriscono pure parole gentili per i 5 Stelle come quelle di Gian Marco Centinaio: “Io non chiudo mai le porte fino in fondo”. Tanto rumore per un rimpastone e avanti con Conte e Di Maio? Chissà. Per adesso, gli abili comunicatori leghisti dicono che è attivata la modalità “pausa di riflessione”.

Di Maio. L’altro vicepremier non ha abboccato alla proposta di Matteo Salvini di tagliare per i posteri il numero dei parlamentari e andare subito alle elezioni. Di Maio ha accettato la condivisione dei poteri nel Movimento e agisce col supporto di una cabina di regia: Beppe Grillo; Massimo Bugani, uomo di Davide Casaleggio; Alessandro Di Battista, Paola Taverna, i capigruppo, i fedelissimi Bonafede e Fraccaro e al telefono – per decoro istituzionale – Roberto Fico (e, se del caso, lo stesso Conte). Patuanelli, capo dei senatori, tratta con Paola De Micheli, vicesegretario del Pd.

Grillo. È euforico per la possibile alleanza col Pd, pensa che sia un modo per tornare alle origini del Movimento (ambientalismo, innovazione) e continua a mandare beffardi messaggi in codice agli amici. Il 10 agosto: “Le stelle cadenti tornano indietro. Ripeto: le stelle cadenti tornano indietro”. Ieri consigliava di ascoltare la canzone Si fa ma, non si dice di Milly: il testo, se ci si passa il gioco di parole, è rivelatore.

Zingaretti. Dopo Salvini, è il politico che più desidera le elezioni in autunno. Non perché illuso di vincere, ma perché tentato di sottrarre a Renzi il controllo dei gruppi in Parlamento. Siccome non può intestarsi una sconfitta né l’azzardo di cedere alle destre la nomina del presidente della Repubblica nel gennaio 2022, Zingaretti riempie il taccuino di proposte per i Cinque Stelle in caso di governo anti-Lega: esecutivo politico; ministeri importanti; orizzonte di tre anni; figura d’area per il ruolo di commissario europeo; cancellazione di cospicui pezzi dei decreti salviniani sulla sicurezza (l’ultimo approvato dal M5S dieci giorni fa). E soprattutto: fuori dal governo Conte, Di Maio e gli altri volti “gialloverdi” del Movimento. Dal Nazareno dicono: “Adesso loro stanno provando a far capire a Di Maio che, nel caso, dovrà farsi da parte”.

Fico. È un nome ricorrente per la guida di un governo di centrosinistra più Cinque Stelle perché fonde le caratteristiche politiche (è un riferimento del Movimento che guarda a sinistra) e istituzionali (è la terza carica dello Stato). Come già accaduto nel maggio 2018, per le suddette motivazioni, Mattarella potrebbe affidargli un mandato esplorativo se non regge il Conte II. Grillo, a quanto risulta, avrebbe dato il suo benestare all’operazione esplicitamente anche alla controparte dem.

Matteo Renzi. L’ex premier è tornato centrale nel dibattito perché centrale in Parlamento, non al Nazareno né nei sondaggi. È pronto a governare con chiunque e, guadagnato tempo, si costruirà i suoi gruppi autonomi accogliendo 25-30 transfughi di Forza Italia per creare con loro una nuova lista e raccogliere l’eredità politica di Silvio Berlusconi come attrattore del “voto moderato” (ammesso che esista). Attraverso contatti in comune, Renzi ha un canale di dialogo con Davide Casaleggio. Il figlio di Gianroberto, il fondatore del Movimento, dopo l’istinto di tornare alle urne, s’è convinto che la soluzione migliore sia governare.

Berlusconi. Chi lo incontra a Palazzo Grazioli, lo racconta quasi disinteressato alla politica, strattonato da una parte e dall’altra da Niccolò Ghedini e Gianni Letta. Il primo è un sostenitore del centrodestra unito e della fedeltà a Salvini per non scomparire. Il secondo lavora per traghettare un lembo di Forza Italia nel governo con Pd e 5S. A Forza Italia non spetta la prima mossa, dunque Berlusconi può indugiare e osservare, più che giocare, i due tavoli.

Mattarella. In caso di bisogno, è pronto per le consultazioni, ascoltare, annotare e per rilevare se, dopo la gialloverde, ci sono altre maggioranze in Parlamento. Non è mai stato interventista, mai lo sarà. Al Colle non c’è più Giorgio Napolitano.

Coperte e striscioni, a La Spezia in 500 contro il Carroccio

Ormai stadiventando un’abitudine di questa estate di crisi politica: la contestazione a Matteo Salvini, s’intende. Ieri sera il ministro dell’Interno, ad esempio, arrivava a La Spezia per una manifestazione del suo partito. La protesta, organizzata da un collettivo composto da studenti e associazioni della società civile, è stata addirittura preventiva: già nel pomeriggio almeno cinquecento persone si sono ritrovate in piazza Mentana, vicino al porto della città ligure, per una manifestazione chiamata “La Spezia non si lega”. Trombe da stadio, fischietti, striscioni, palloncini colorati, ma anche coperte termiche e giubbotti di salvataggio indossati dai manifestanti come per mettere in scena come dovrebbe finire un’operazione di soccorso in mare. Uno striscione volante ricordava le parole dell’astronauta sovietico Juri Gagarin: “Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere senza confini”. Gli slogan sono più o meno quelli che ormai perseguitano Salvini lungo tutto lo stivale: “Nessun migrante ha rubato 49 milioni”, “Ama il prossimo tuo”, “Open Arms: fateli scendere”. “Viva papa Francesco, viva Carola Rackete”. Immancabile, ovviamente, Bella ciao. Il commento dell’interessato: “I soliti democratici…”.

Il Tar ordina: “Fate entrare la Open Arms”

Stavolta c’è un giudice al Tar del Lazio e conosce il diritto internazionale del mare come il capo dello Stato. Nel pieno della crisi arriva uno schiaffone giudiziario a Matteo Salvini su una delle misure che gli stanno più a cuore, prevista dal decreto Sicurezza bis. Il presidente della sezione Prima Ter, Leonardo Passanisi, ha sospeso il divieto di ingresso nelle acque italiane per la nave Open Arms che da 13 giorni non trova un porto in cui far sbarcare i 147 richiedenti asilo ripescati al largo delle coste libiche.

“Il ricorso non appare del tutto sfornito di fondamento in relazione al dedotto vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso, nella misura in cui la stessa amministrazione riconosce che il natante soccorso da Open Arms in area Sar libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in ‘distress’, cioè in una situazione di evidente difficoltà (per cui appare contraddittoria la valutazione dell’esistenza della peculiare ipotesi di ‘passaggio non inoffensivo’”, si legge nel decreto del giudice Passanisi che ha accolto la tesi degli avvocati Arturo Salerni, Mario Antonio Angelelli, Maria Rosaria Damizia, Giuseppe Nicoletti e Gaetano Mario Pasquino. Il merito si discuterà a settembre.

È la prima volta che una Ong vince, almeno in sede cautelare, sul decreto Sicurezza bis, recentemente convertito in legge con tanto di invito di Sergio Mattarella a modificarlo. Il divieto d’accesso alle acque territoriali italiane si applica alla nave il cui passaggio è ritenuto appunto “non inoffensivo”. La violazione del divieto è un illecito amministrativo che comporta le famigerate multe fino a un milione di euro e la confisca della nave, con cui Salvini aggira la magistratura penale spesso poco incline alle forzature rispetto alle norme internazionali sul soccorso in mare che sono fra quelle riconosciute dall’articolo 10 della Costituzione.

È la questione sollevata da Mattarella. Per questo il vicepremier non può tenersi lo schiaffone del giudice amministrativo e annuncia ricorso al Consiglio di Stato e un nuovo divieto d’ingresso.

Open Arms ieri sera navigava verso Lampedusa scortata dalla Marina militare. Il governo dovrà far sbarcare almeno i minorenni, 32 di cui 27 non accompagnati. Lo ha scritto il premier Conte a Salvini, ma da un momento all’altro poteva ordinarlo la magistratura minorile di Palermo che martedì, sempre sollecitata dall’avvocato Salerni, aveva scritto al governo. Sono in campo anche le Procure di Agrigento e Roma, destinatarie di esposti della Ong: potrebbero intervenire quando le navi saranno in acque territoriali. Si avvicina alle coste italiane anche l’altra nave, Ocean Viking di Sos Méditerranée e Medici senza frontiere, la cui odissea è iniziata qualche giorno più tardi. È più grande e porta 356 persone tra cui ci sarebbero 103 minori.

Oscar Camps di Open Arms ha spiegato che a bordo la situazione è sempre più difficile: sono in 147 più 19 membri dell’equipaggio con due bagni. “Può scoppiare una rissa per un posto all’ombra, per il cibo, per un lavandino”, ha detto. Intanto in mare si sono formati 2 metri d’onda. Complessa anche la situazione sulla Ocean Viking, battente bandiera norvegese. “Le condizioni meteo stanno peggiorando, ci dirigiamo verso Nord – spiegano dalla Ocean – L’équipe medica di Msf sta trattando per il mal di mare alcune delle persone a bordo. Abbiamo bisogno al più presto di un porto sicuro”. Da Roma e da Malta sono già arrivate risposte negative. Non risulterebbero al momento criticità sanitarie.

Migranti, Conte e la Trenta affondano le bugie di Salvini

Che Matteo Salvini abbia sempre utilizzato i migranti per farsi propaganda è cosa nota. Stavolta però sembra abbia passato il segno. E il suo modo di gestire il caso Open Arms ha fatto infuriare il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Salvini decide di alzare il livello della propaganda ieri mattina quando rende noto che “Conte mi ha scritto per lo sbarco di alcune centinaia di immigrati a bordo di una nave di una Ong che però è straniera, in acque straniere. Gli risponderò garbatamente, non si capisce perché debbano sbarcare in Italia”. L’intento è chiaro e lo sarà ancora di più nella campagna Twitter e Facebook che inizia subito dopo: si sta preparando un nuovo governo che vuole far sbarcare i migranti, ma “io non mollo”.

Conte è a Genova per la commemorazione del ponte Morandi, ma fa subito sapere di essere “indignato” per questo atteggiamento. “Il governo ha sempre tutelato i minori”, è il suo ragionamento, “e non si capisce perché Salvini voglia dare vita a un braccio di ferro”. La lettera scritta dal premier, si fa notare da palazzo Chigi, non chiede di far sbarcare tutti i migranti, ma invita il ministero dell’Interno “ad attivare tutte le misure necessarie a tutelare i minori sulla base delle norme in vigore”. Una linea in continuità con quanto fatto in passato. Lo scorso gennaio, nel caso dei 49 migranti bloccati a Malta a bordo di Sea Wacht e Sea Eyes, fu proprio Conte a dire di essere pronto “a mandare un aereo per riprenderli”. E comunque i migranti in Italia alla fine sono quasi sempre sbarcati, per via delle pressioni, delle ribellioni alla Carola o di altre ragioni, ma sono sbarcati. Difficile accusare Conte di aver cambiato linea.

Stavolta però è diverso. C’è la crisi di governo. Il leader leghista appare bloccato nella road map che aveva immaginato e lo spot contro il premier capita a proposito. Ma per Conte si tratta di “una narrazione a fini politici” segno di una “irresponsabilità” da parte del suo ministro che non esista a strumentalizzare le condizioni dei minori.

Tra i due il gelo è quindi totale. A Genova ieri mattina si sono a malapena guardati in viso. La vicenda chiama ancora una volta in causa il nodo della permanenza di Salvini al Viminale. Un leader politico che ha deciso di sfiduciare il governo di cui è azionista fondamentale, può garantire una gestione istituzionale del proprio dicastero? Nel caso in questione sembrerebbe di no e comunque il governo non potrebbe essere più diviso di così visto che contemporaneamente la minitra della Difesa, Elisabetta Trenta, ha fatto inviare due navi della Marina in modo da essere pronti ad un eventuale trasferimento.

Le mosse di Salvini in realtà sembrano poco lucide, almeno a sentire sia gli ambienti politici, che quelli istituzionali. Conte, invece, ci tiene a far sapere di sentirsi sereno, che il fatto di aver scelto un percorso lineare e trasparente gli dà tranquillità. La stessa che ostenterà il 20 agosto, quando esporrà le proprie comunicazioni al Senato. Dopo il suo discorso si deciderà il modo in cui il governo dovrà finire. Escluse le mozioni di sfiducia, i parlamentari avranno a disposizione lo strumento della risoluzione. Il M5S presenterà la sua, ma sarà Conte a dire se vorrà apporre la fiducia o meno su quel testo. Se non lo facesse, anche quel voto potrebbe dare vita a nuovi scenari. Quello attuale, comunque, racconta di una chiusura totale tra i due contendenti di questa crisi.

Tentar non nuoce

Mai come ora, per dirla con Altan, mi vengono in mente pensieri che non condivido. E non solo a me. Perciò, con i colleghi del Fatto, abbiamo deciso di confrontarli con quelli di voi lettori. Vedi mai che, tutti insieme, veniamo a capo di qualcosa. La questione è semplice. Siccome nessun partito vuole sostenere un governo a tempo che vari la finanziaria e ci porti al voto anticipato, dopo il taglio dei parlamentari e l’adeguamento della legge elettorale, i casi sono due: o si vota a fine ottobre, come pretende Salvini; o nasce un governo 5Stelle-Pd-LeU che provi a durare per il resto della legislatura. Cos’è meglio per l’Italia? Risposta ovvia: non le elezioni che darebbero a Salvini il plebiscito e i pieni poteri che invoca (anche quello, legittimo, di eleggere nel 2022 il nuovo capo dello Stato). Dunque, un governo fra M5S e centrosinistra, prima e seconda forza alle elezioni del 2018 (le sole che contano). Ma qui iniziano le perplessità, specie con un elettorato fluido, volubile e volatile che bada poco alla realtà e molto alla sua rappresentazione mediatica. Un M5S-centrosinistra sarebbe costituzionalmente ineccepibile, visto che avrebbe la maggioranza in Parlamento. Non sarebbe un ribaltone, non comportando tradimenti” di alleanze né trasformismi o compravendite da uno schieramento all’altro. Nei sistemi proporzionali, gli accordi si fanno dopo le elezioni e il M5S-centrosinistra avrebbe la stessa dignità del M5S-Lega (Lega che peraltro, al voto, si era presentata con FI e FdI). Nessuno potrebbe contestarne neppure la moralità, visto che Salvini ha appena tradito il contratto con Di Maio per fargli la pelle.

Resta una questione enorme di opportunità, più mediatica che politica. Se il voto subito è un regalo a Salvini, potrebbe esserlo anche un governo che nasca non per governare, ma per tirare a campare fra una rissa e l’altra e salvare le poltrone dei due partiti sconfitti alle Europee. Quando l’ha proposto Renzi, l’impressione era questa. Se lo proponesse tutto il Pd, col segretario Zingaretti, e lo accettasse tutto il M5S, col capo Di Maio e il garante Grillo, potrebbe somigliare a un progetto serio e duraturo. Soprattutto se il premier fosse Conte, il politico italiano più apprezzato in Italia e all’estero. Ma M5S e Pd, ridotti ad Armate Brancaleone, riusciranno mai a sedersi al tavolo per scrivere un contratto stringente e stringato che garantisca serietà e coesione fino al 2023? Basterà pronunciare “Tav” o “Autostrade” e apriti cielo. Ma, se non ci provano, non lo sapremo mai. Dunque – dico io, in attesa dei vostri pareri – ci provino. Poi, se falliscono, nemici come prima.

Ciao Nadia “Iena” guerriera. Uccisa dal cancro a 40 anni

“Sono una iena, ma anche una persona di cuore, onesta e fedele. Che non tradisce. Non sopporto maleducazione e ignoranza e i morti di fame li rimetto in riga. Questi sono gli unici miei pregi. Non ho talenti. Sono solo una brava persona”.

Nadia mi ha mandato questo messaggio qualche mese fa. Non so perché me l’abbia scritto, non so perché abbia sentito di dovermi dire “sono una brava persona” come se fosse mai stato possibile dubitarne, ma ricordo bene che quel giorno ho pensato una cosa sola: se mai dovesse andarsene, partirò da qui.

Perché che Nadia stava male, molto male, lo sapevamo in tanti. Si diceva sottovoce, senza morbosità, quasi prudenti all’idea che lei potesse sentire, come se un tono più alto potesse rendere tutto più ineluttabile.

Nadia era una brava persona, sì. Generosa, appassionata, curiosa. Era moderna, forse il personaggio femminile più moderno che la tv abbia partorito negli ultimi anni. La sua idea di famiglia era la redazione, erano i pasti frettolosi con gli operatori, gli appostamenti estenuanti, i viaggi di lavoro, le notti insonni in sala montaggio.

“Sono sposata con le Iene, ho un marito molto impegnativo”, diceva. Non postava foto di fidanzati sui social, raccontava poco di sé, le piacevano i look androgini, i capelli corti, il suo dialetto bresciano. Non c’erano leziosità né autocompiacimento in Nadia Toffa. Mai. Nonostante conducesse il programma più ambito dalle conduttrici italiane, nonostante fosse il personaggio che più aveva ottenuto da quel programma, nonostante una fama trasversale e indiscussa che poche donne hanno saputo conservare con tanta tenacia.

Nadia era quello che faceva. Con i suoi errori, anche, perché era impetuosa e ogni tanto l’inciampo capitava. Alle volte l’ho criticata (“Dai, quel servizio era sbagliato”) ma lei non serbava rancore perché era mossa dalla passione, non dalla vanità. Ed è per questo che la sua assenza in occasione dell’ultima puntata de Le Iene aveva spaventato chi la conosceva bene. “Per non essere lì, vuol dire che sta tanto male”, ci eravamo detti in tanti. Perché Nadia quel posto non l’aveva mollato mai. Aveva stretto i denti e sorriso alla telecamera dopo le prime cure e poi di nuovo, durante la ricaduta, tra una seduta e l’altra di chemioterapia, con la parrucca e la vita troppo sottile. Aveva affrontato il giudizio spietato di chi commentava il suo viso gonfio sui social, di chi la dava per spacciata, di chi si nascondeva dietro al black humor per scrivere la stronzata malvagia del giorno. La ragazza cinica, che inseguiva il cattivo di turno, si sentiva a un tratto inseguita. Dall’imprevedibilità della malattia, dalla ferocia dei social, dalla difficoltà nel gestire pubblicamente la verità e lo spavento.

Quel “Sono guarita” detto troppo di fretta non fu superficialità. Fu speranza. Perché Nadia ha sperato tanto. Lei che è stata sempre un’irrequieta, una con la valigia davanti alla porta, quando ha scoperto la malattia ha messo le prime timide radici nel mondo. Ha comprato una casa, ha adottato un cagnolino, Totó, ha scritto un libro, ha parlato della sua mamma, dei suoi amici, della sua idea di amore. Si è concessa perfino qualche piccolo, adorabile sprazzo di vanità postando foto con vestiti più femminili, più audaci, indossando parrucche colorate, commentando gli esperimenti della sua truccatrice.

Una volta, dall’India, le ho scritto: “Ehi, ci sono dei turbanti bellissimi qui, te ne porto qualcuno, che colore preferisci?”. Mi aveva risposto: “Ok ma comunque i capelli mi sono ricresciuti!”. I capelli “ricresciuti” erano forse tre centimetri di ricrescita ma l’orgoglio felice di quella risposta mi aveva stesa. Non le ho più chiesto nulla. Neppure mai “come stai?”.

Non sapevo da che parte cominciare, mi sentivo come quei papà che hanno paura di toccare i neonati. Non volevo farle male. Però ci siamo scritte tanto per commentare le schifezze che le scrivevano. Lei gli hater li affrontava pubblicamente (“mi augurano l’obitorio, si meritano almeno la gogna”, mi diceva), ma a quella ferocia non era preparata. Soffriva. E forse è stato il primo personaggio pubblico a misurarsi con questa spietatezza.

È stata moderna anche in questo, Nadia. S’è mangiata il mondo, in ogni suo aspetto, fino alla fine. Non si è risparmiata nulla. E il mondo, purtroppo, non le ha restituito sempre la grazia che meritava. Perché Nadia era soprattutto “una brava persona”.

Ciao Toffa, eri bella anche con i turbanti, quel giorno avrei dovuto dirti questo.