Non bastano le madeleine per diventare come Proust

Come per molti prima di me, inseguendo ambizioni letterarie, Parigi è stata iniziatica nella relazione con la scrittura, o almeno, è stato il luogo perfetto dove perdere un po’ del mio tempo universitario – in modo assai amabile (come confesserò anni dopo in un libro). Lì, infatti, dove decadi prima Thruman Capote aspettava di incontrare Colette ed Enrique Vila-Matas prendeva consigli su come iniziare a scrivere da Marguerite Duras, che era anche la sua affittuaria, pure io cercavo la mia ispirazione una decina d’anni addietro. “Scriva, non faccia altro!” così Marguerite sprona il giovane Enrique. Certo, la faceva facile, lei, che era già un mito.

Ma da qualche parte dovevo pur iniziare. Troppo pigro per dedicarmi anche alla preparazione dei pasti, pratica che mi avrebbe distratto dalla scrittura, passavo le mie giornate al Café de Flore, al Café de la Paix, a Le Drouant ma il mio posto preferito era Le Procope, dove Voltaire aveva il tavolo riservato (così, per dire). Bellissimi, certo, ma anche molto cari. Ordinavo sempre e solo un tè caldo e delle madeleine (che faceva tanto Proust) – mi concedevo un crôque-madame solo quando morivo di fame – e con accanto il mio taccuino, osservavo e annotavo. Mi mancava, pensavo all’epoca, un incontro: con un maestro, forse. Scrivevo cose tiepide, che meritatamente alla sera rileggevo e gettavo. Ma un giorno, dalle mie frasi nebbiose, mi ripesca una voce che sollecita la mia attenzione. Un bellissimo ragazzo, moro, occhi scuri, si avvicina e mi parla di desiderio. Lo guardo stupito, ma dico lo stesso di sì, che anch’io lo desidero. Silenzio, poi gelo, e poi fuggo… Ecco il dialogo: Lui, il cameriere: “Desiderate al…?”; io: “Sì, vi desidero”. Ecco i danni di sognare troppo Parigi, tanto che anche quando ci sei, non resti sveglio…

Un’insalata per cena e a letto presto: Lukaku subito messo in riga da Conte

Tra i libri sul comodino dell’allenatore dell’Inter Antonio Conte, insieme ai manuali di geometria euclidea (che trattano dunque di punti, rette, piani e figure curve) per ben disegnare le traiettorie dei palloni negli schemi di attacco e difesa, ci devono essere le Satire di Giovenale, alla pagina in cui il retore romano scrive “mens sana in corpore sano”.

Lo suggerisce l’intervista dell’attacante belga di origine congolese Romelu Lukaku al portale Otro, in cui racconta com’è stare alle direttive di Conte, che già gli andrebbero strette. Acquisito dal club nerazzurro l’8 agosto per 65 milioni di euro più 10 milioni di bonus (ciò lo rende il giocatore più costoso nella storia della squadra), il gigante – così presentato per la sua stazza (192 cm x 95 kg) – con un sorriso confessa che gli allenamenti sono molto impegnativi. “In Inghilterra si lavora tanto,” risponde riferendosi al Manchester United, “ma qui il lavoro è davvero duro”. Alla sera, dopo gli allenamenti, avrebbe mandato di correre a casa: “La città è bella,” dice infatti, “ma sono venuto per aiutare il club a vincere”. E anche su pasta e pizza avrebbe diktat restrittivi: “Mangio solo insalata” (ride). A ben leggerla, però, la frase di Giovenale recita: “Orandum est ut sit mens sana in corpore sano” (Bisogna pregare affinché ci sia una mente sana in un corpo sano). Probabile che Conte abbia barrato “orandum” per scrivere “laborandum”: lavorare, e taaak!

La Versilia scosciata di Papetti e Agnelli. E tanto champagne

Estate 1973. A Forte dei Marmi spopola Pazza idea di Patty Pravo, rigorosamente ascoltata nel formato Super8 all’interno delle Volksvagen maggiolino cabrio (usate perché uscite di produzione e quindi cult) e Duetto Spider Alfa Romeo. Il Forte è l’ombelico del mondo, soprattutto da quando Mina ha scelto – qualche anno prima – di esibirsi alla Bussola, a un passo dall’ex Villa Costanza, ribattezzata poi Villa Agnelli quale buen ritiro dell’Avvocato e meta di politici di passaggio.

Sono gli anni d’oro del capoluogo della Versilia, con la Capannina di Franceschi presa d’assalto per ascoltare i crooner del momento, veri cantori delle avventure sentimentali dentro e fuori le lenzuola della borghesia milanese, tra un flirt all’esclusivo Bagno Piero e una focaccina da Valé. Sono Peppino Di Capri con la sua Champagne, Fred Bongusto e Una rotonda sul mare, Bruno Martino e la malinconica Odio l’estate: la loro musica accompagna ogni sera i rampolli intenti a giocarsi a poker le belle case del quartiere Roma Imperiale.

È normale incontrare Eugenio Montale, Oriana Fallaci, Mario Monicelli, Vittorio Gassman, Paul Anka e persino Jimi Hendrix; la mondanità riempie i settimanali patinati e i gossip fanno il giro del mondo. Ma la generazione post-rivoluzione sessuale, interpretata al cinema nella commedia sexy all’italiana con le attrici Barbara Bouchet, Edwige Fenech, Sylvia Koscina, Laura Antonelli e Gloria Guida – mentre dall’estero si importano sottobanco i filmini di Gola Profonda –, ha trovato il suo Caronte.

Il suo volto è poco conosciuto perché non ama apparire nelle foto, preferisce dare libero sfogo alla creatività usando il corpo femminile nelle copertine di quelle che diventeranno le sue celebri “raccolte”, oggi oggetti di culto su ebay. Anzi vero artefice nello sfruttare il nudo femminile per vendere musica, sdoganato dalle riviste soft-porno e dalle copertine audaci de L’Espresso. Il suo nome è Fausto Papetti, sassofonista jazz “prestato” all’easy listening, ex turnista negli studi di registrazione con un curriculum di tutto rispetto. Emerse grazie all’arrangiamento del brano Estate violenta, una sua rielaborazione poi divenuta cifra stilistica nel rileggere cover di grandi successi degli anni Sessanta e Settanta, spaziando dai temi delle colonne sonore ai classici del jazz sino alle hit consolidate, lanciate dal programma radiofonico di Lelio Luttazzi.

Papetti era il disimpegno comparato alla sbornia politicizzata della generazione post ’68. O avevi i suoi vinili o i grandi cantautori. Ma fu anche la prima vera chill out strumentale tutta italiana poi esportata soprattutto in America latina e nel resto dell’Europa. La prima raccolta uscì nel 1960 e continuò a ritmi cadenzati sino agli anni Novanta. Le sue copertine erano la manifestazione della svolta nel costume italiano: nonostante le allusioni e i riferimenti al sesso – una donna che lecca una goccia da una foglia, una macchina che solca la duna di un seno prosperoso – non vennero mai incriminate per oltraggio al pudore. Oggi non sarebbe ammissibile per il politically correct imperante e le sentinelle del MeToo, eppure a modo loro le copertine erano considerate il simbolo della libertà della nuova generazione.

Il tramonto di Papetti iniziò parallelamente al canto del cigno della Versilia, sempre più popolato da nuovi rampanti dell’Est e cafonal da Billionaire, ormai periferia dell’eleganza che fu.

“Rosemary’s Baby”, ovvero il diavolo vestiva Polanski

Prima, durante e dopo. Come in un incubo circolare, la nefasta reputazione di Rosemary’s Baby sancisce il non plus ultra dei film maledetti. Ontologicamente diabolico, fatalmente sinistro, funestamente disturbante, teso e sospeso a oscurare la luce viziata della città che non dorme mai. Il ribaltamento par excellance dell’atto più nobile in natura – dare la vita – rivolto all’entità mortifera, la macabra polarizzazione della perfida borghesia che nutre la placenta della sua ipocrisia, fertilizzando il Male, inneggiando al figlio di Satana. Ma tutto questo non basta, né è bastato, ad allontanare il pubblico di allora come di oggi da quest’opera magnetica e assoluta, che risponde al termine di capolavoro, liberando la qualifica da ogni enfasi.

Sopravvissuto a mille inferni, Roman Polanski non si cura più (chissà) dei possibili malefici insiti nel suo film del 1968: quali anticorpi estremi sono bastati l’Olocausto, una moglie morta ammazzata, un’accusa di stupro con reiterati arresti, prigionie, fughe, processi, estradizioni e letterali “cacce all’uomo” internazionali a conferirgli l’aura di immortale, con buona pace di demoni e fantasmi, sempiterne presenze davanti e dietro al suo sguardo. Lo ritroveremo presto alla Mostra veneziana l’immenso polacco nato a Parigi nel 1933 (il 18 agosto compie 86 anni) a decretare il suo J’accuse, mutuando per sé l’affaire Dreyfus e concorrendo a quello che sarebbe il suo primo Leone d’Oro. Non serve un genio per capire che l’adattamento del romanzo di Rosemary’s Baby non poteva che dirigerlo lui, il bersagliato inquilino di un terzo piano abitato da imprevisti e tragedie.

Date le premesse, la maledizione parte da lontano. È il 1880 quando l’imprenditore Edward Cabot Clark decide di fare una follia: edificare un condominio per ricchi a Manhattan, in pieno Upper West Side che all’epoca era disabitato: un vero deserto come il Dakota da cui non casualmente prende il nome. Soprannominato inizialmente “Clark’s Folly”, l’aberrazione (all’epoca i ricchi non abitavano nei condomini) fatta palazzo neogotico di dieci piani ottiene comunque un ampio consenso, ma porta alla rovina il suo ideatore che cade in bancarotta e muore nel 1882, impossibilitato dunque a vederne l’inaugurazione avvenuta nel 1884.

Divenuto nel tempo residenza di un’élite trasversale, The Dakota è designato da Polanski nel 1967 quale emblematica ambientazione per gli sposini Woodhouse: qui Rosemary è destinata a compiere la propria discesa agli inferi, dal concepimento al parto del suo baby-monstre. Le riprese del film contemplano gli esterni dell’edificio mentre gli interni sono ricostruiti in studio, ma tanto basta al reciproco contagio: la casa stregata, già fatale al suo costruttore mentre era ancora in progress, diviene nel dicembre del 1980 il teatro del peggior assassinio dello star system, quello di John Lennon. Da allora il lussuoso condominio è “marchiato” dall’infausto evento.

Nell’impossibilità di distinguere il portatore insano del possibile maleficio, l’unica ipotesi è che The Dakota e Rosemary’s Baby abbiano sommato le rispettive iatture. Ponendo fosse solo un caso che l’ex Beatle era un caro amico di Mia Farrow, anche l’esistenza dell’attrice sembra esser stata indelebilmente segnata dal thriller demoniaco di cui è protagonista a soli 22 anni. Il suo tormentato divorzio da Frank Sinatra avviene durante le riprese del film, con i documenti a lei recapitati sul set: le successive vicissitudini private della Farrow tra amori e figli problematici (con una figlia morta per malattia) arrivano fino alla cronaca attuale, coinvolgendo soprattutto colui che dal 1980 al 1992 è stato il suo compagno, Woody Allen. Una storia dagli effetti tuttora maledetti, la loro, che riecheggia quella ancor più tragica fra il giovane Polanski e la sua bellissima moglie Sharon Tate, nota vittima sacrificale della follia omicida di Charles Manson e co. Massacro cardine della Hollywood criminale del tempo, l’uccisione dell’attrice avviene nell’agosto del 1969 quando era incinta di otto mesi: il medesimo tempo trascorso dall’uscita nelle sale americane di Rosemary’s Baby.

Contestualmente sotto maleficio appaiono le sorti dei due produttori: da una parte William Castle, minacciato di morte da chi, già a pochi giorni dalla distribuzione, ne presagiva il riverbero maligno – il produttore si ammala poco dopo –, e dall’altra Robert Evans, accusato di traffico di stupefacenti e con la salute danneggiata da tre infarti consecutivi. E peggior destino tocca al musicista polacco Krzysztof Komeda, già collaboratore del cineasta ne Il coltello nell’acqua e Cul-de-sac: scaraventato incidentalmente da una scalinata da un amico durante un “party alcolico”, entra in coma istantaneamente e ne muore dopo alcune settimane.

Difficile non pensare che il diavolo ci abbia messo la coda, e se così fosse ha un nome e cognome: Anton LaVey. Costui, esoterista e fondatore della Chiesa di Satana, sembra abbia offerto consulenze ad hoc al regista polacco, apparendo persino in una scena del film. Benché la sua presenza non sia mai stata accreditata né confermata, il suo coinvolgimento è sicuro rispetto alla cronaca nera di qualche anno a venire, nella fattispecie legata a un nome tristemente famigliare a casa Polanski: Charles Manson, con il diabolico cerchio a chiudersi fatalmente. Chi ancora avesse dubbi sulla portata della maledizione che circonda Rosemary’s Baby farebbe bene a stare in guardia.

 

Giganti del web:quando le sanzioni non strozzano, spesso ingrassano

Ainizio luglio accade una cosa divertente: quando i giornali diffondono la notizia della multa che Facebook dovrà pagare – previo accordo – all’antitrust americana per l’affaire Cambridge Analytica, le azioni del social network invece di crollare iniziano a salire. Le contrattazioni si chiudono con un rialzo dell’1,8 per cento. In pratica, i 5 miliardi dell’accordo concluso con la Federal Trade Commission (Ftc), che saranno poi confermati qualche settimana dopo, non hanno intaccato la forza di Menlo Park, tantomeno ne hanno scalfito l’immagine di transatlantico del digitale di fronte agli investitori. Con 55 miliardi di dollari di ricavi a fine 2018, un margine operativo superiore al 40 per cento, una percentuale effettiva di tasse del 14 per cento, riserve per 40 miliardi, ogni multa delle autorità risulta essere più lieve di una carezza. L’ultima, è stata solo un solletico.

L’America lenta e la poca paura

Il problema, con le sanzioni, è proprio questo. Non sono mai abbastanza pesanti da spaventare i colossi o da metterli davvero in crisi, costringendoli a modificare le loro abitudini. In America, poi, la politica delle multe è ancora lontana, nonostante la protezione della concorrenza contro l’egemonia degli over the top sembri destinata a essere il fulcro delle prossime campagne elettorali e la nuova battaglia del Congresso. A febbraio, la Federal Trade Commission ha creato una propria task force per monitorare la concorrenza nel settore tecnologico e parallelamente il dipartimento di giustizia americano avrebbe aperto un’indagine antitrust sulle maggiori aziende tech. A parte questo, però, finora l’intervento è stato praticamente nullo.

La lezione (parziale) dell’Europa

Diversa, invece, la situazione in Europa. La Commissione Ue, negli ultimi anni, è stata molto attiva nell’indagare e sanzionare le attività anticoncorrenziali delle aziende. La dg Competition, guidata da Margrethe Vestager, ha inviato un messaggio molto chiaro: ‘vi teniamo d’occhio’. Ma le indagini e le sanzioni decise sono bastate?

Google, il più multato e il meno penalizzato

Prendiamo ad esempio Google. L’anno scorso l’antitrust europeo ha condannato il gigante di Mountain View al pagamento di 4,3 miliardi di dollari di multa per abuso di posizione dominante nell’installazione obbligatoria delle app della sua famiglia sui dispositivi Android. Anche in quel caso, pur trattandosi della multa più alta comminata, il titolo non ha avuto grossi scossoni se non un lieve calo a ridosso della notizia e ancora meno ne ha risentito il bilancio del 2018. Il quarto trimestre ha riportato utili per azione di 12,77 dollari contro i meno di 11 dollari attesi alla vigilia. In cifre assolute, i profitti netti sono stati di 8,94 miliardi. Intanto il giro d’affari saliva del 21,5 per cento a 39,28 miliardi di dollari rispetto a pronostici inferiori ai 39 miliardi, 31,69 miliardi contro 31,33 attesi escludendo il pagamento ai partner che dirigono il traffico. Per l’intero anno, insomma, è aumentato a 136,82 miliardi dai 110 miliardi dell’anno precedente.

A marzo di quest’anno, poi, un altro solletico: nonostante la multa da 1,49 miliardi di euro comminata sempre dalla Commissione Ue, Alphabet ha chiuso il primo trimestre del 2019 con utili in calo ma sempre superiori alle stime. Stessa dinamica dopo l’annuncio di un accordo di “svariati milioni” (ancora incerta la cifra) con la Ftc per le violazioni di Youtube che avrebbe raccolto dati ed esposto i bambini alla pubblicità sulla piattaforma senza l’autorizzazione dei genitori. Il titolo, dopo qualche ora di valori altalenanti, ha poi recuperato tutto.

Amazon, intoccabile ma sotto controllo

Nel 2017, sempre la Commissione Ue ha imposto ad Amazon di restituire al Lussemburgo 250 milioni di euro di tasse aggirate grazie a un accordo che fu ritenuto “aiuto di Stato” per averle permesso di godere di un trattamento fiscale agevolato. Come (non) conseguenza, il bilancio 2017 si è chiuso con i ricavi saliti del 30 per cento (177,8 miliardi di dollari) e un utile netto salito del 30 per cento a circa 3 miliardi di dollari nonostante gli ingenti e continui investimenti e una politica di utili quasi sempre al minimo. A luglio di quest’anno, è stata annunciata una nuova indagine sempre della Commissione Ue e questa volta per l’uso che Amazon fa dei dati dei venditori indipendenti che usano la piattaforma per i loro prodotti. Esito ed eventuale multa, però, arriveranno probabilmente tra qualche anno.

La Mela e quei soldi che nessuno vuole

Probabilmente una delle multe più grandi è stata invece comminata ad Apple nel 2016: 13 miliardi di euro da versare al fisco dell’Irlanda, sede della filiale europea dell’azienda, per pareggiare i conti e ripianare l’ammanco totalizzato dal 2003 al 2014. Secondo le accuse della Commissione, fino al 2003 il colosso californiano avrebbe pagato l’un per cento di tasse sui propri profitti europei, per scendere poi addirittura allo 0,005 per cento del 12,1 per cento previsto per legge: un trattamento fiscale ancora più vantaggioso delle già consistenti agevolazioni concesse dall’Irlanda alle aziende che scelgono l’isola come sede legale nel Vecchio Continente. L’azienda di Cupertino ha terminato di pagare nel 2018, i soldi sono stati depositati in un fondo di garanzia e il conto è bloccato in attesa dell’esito del processo d’appello chiesto da Apple (che richiederà anni). Il paradosso? Anche il ministero delle Finanze irlandese ha presentato ricorso alla corte di Giustizia Ue: è contrario al pagamento.

Pace armata con i sindacati: incombe la guerra sui premi

Tra i sindacati italiani e Amazon è un momento di tregua, gli scioperi sono sospesi perché nell’ultimo anno sono stati firmati due accordi che regolano l’organizzazione del lavoro, ma il vero banco di prova arriverà al rientro dalle vacanze. A settembre, infatti, i rappresentanti degli addetti al polo logistico di Castel San Giovanni (Piacenza) torneranno alla carica per chiedere i premi di risultato. Se il colosso dell’ecommerce non li concederà, ci saranno nuove iniziative di protesta.

Si tratta quindi di una pace armata. Nel sottobosco, ci sono le cause legali avviate dai lavoratori interinali per chiedere la stabilizzazione. Che ne abbiano diritto lo ha stabilito a giugno 2018 l’Ispettorato nazionale del Lavoro ma l’azienda di Jeff Bezos si è rifiutata di assorbirli. Le prime pronunce dei tribunali hanno rigettato le richieste dei somministrati, per un clamoroso cortocircuito giuridico: questi addetti avrebbero dovuto far partire i ricorsi entro sessanta giorni dalla scadenza del contratto interinale – quindi entro marzo 2018 – ma i risultati dell’ispezione che ha accertato la violazione dei limiti da parte di Amazon sono arrivati solo tre mesi dopo. Ecco perché i sindacati sono fiduciosi sulla possibilità che le sentenze vengano ribaltate in appello.

Insomma, le ragioni che avevano mosso le note mobilitazioni del Black Friday 2017 ci sono ancora, ma le sigle del commercio di Cgil, Cisl, Uil e Ugl per il momento stanno adottando un atteggiamento cauto. È stata emblematica la scelta di non aderire ai nuovi scioperi che, in occasione dei Prime Day tra il 15 e il 16 luglio, si sono tenuti in molti magazzini tra l’America e l’Europa. In quella circostanza, i nostri sindacati hanno espresso solidarietà per i colleghi all’estero, ma non hanno incrociato le braccia. Un modo per non incrinare un rapporto che, con pazienza e fatica, ha comunque portato i primi frutti.

Nel centro di distribuzione piacentino – dove il personale arriva a 4mila unità nei periodi di picco – a novembre di due anni fa i facchini avevano denunciato le mansioni ripetitive, alienanti, i turni troppo frenetici, i frequenti infortuni. Dopo una serie di incontri con l’azienda è arrivato il primo accordo a maggio 2018.

Con quell’intesa sono stati definiti i turni nel fine settimana e a tutti sono stati garantiti quattro weekend consecutivi di riposo. Il testo è stato rinforzato a giugno 2019, con nuove previsioni sui turni notturni che consentono il riposo domenicale per sei mesi consecutivi. Ora però Amazon deve mettere mano al portafogli, riconoscendo premi almeno nei periodi di settembre (quello dei libri scolastici) e pre-natalizio. Altrimenti, si riaprirà una stagione di scioperi anche in Italia.

Libri, Bezos si tiene stretti i numeri sulle (crescenti) quote di mercato

Il busillis non si risolve nemmeno chiedendo ad Alexa. Se domandi all’assistente vocale di Amazon quale sia la quota di mercato del colosso di Jeff Bezos nel mondo dell’editoria ti dice che “non trova la risposta alla domanda”. La questione, celie a parte, non è poca cosa perché su quanto pesa la multinazionale tra i player dell’editoria si sa davvero pochissimo. Al massimo si presumono stime, visto che i dati ufficiali non vengono resi noti. È quindi complicatissimo capire quanto le abitudini dei lettori siano cambiate da quando ha aperto, anche in Italia, il più grande supermarket del globo.

Dando un’occhiata agli androni delle portinerie, zeppe di pacchi e pacchettini nei cartoni chiusi dalla striscia “prime”, la rivoluzione è stata davvero copernicana e non solo per quanto riguarda i libri: oggi il servizio consegna a domicilio di tutto, anche la spesa.

Se consideriamoche Amazon è la più grande libreria del mondo, l’assenza di dati è più di un’opacità. L’ufficio studi Aie, l’Associazione italiana editori, stima il mercato della varia (narrativa, saggistica e tutti i libri che si acquistano senza essere costretti a farlo da ragioni scolastiche o professionali) 1,4 miliardi di euro, di cui la “quota Bezos” sarebbe circa 203 milioni nel 2018 (la tabellina qui a fianco mostra la costante crescita di Amazon negli ultimi tre anni). Così corrisponderebbe al 13 per cento del mercato, ma in realtà sembrano numeri sottostimati. In Europa gli addetti ai lavori fanno un calcolo spannometrico che oscilla tra il 18 per cento della Francia e il 26 per cento della Germania, mentre in Italia la quota di mercato dovrebbe assestarsi poco oltre il 20 per cento. Secondo i concorrenti, la principale ‘colpa’ di Amazon è di usare i guadagni Usa per lavorare in perdita nell’e-commerce in gran parte del mondo (si dice, per esempio, che in Italia perda 150 milioni) rendendo difficile la vita dei concorrenti (di nuovo: non solo i librai). L’altra accusa è di essere programmaticamente inefficiente nei rapporti con i fornitori, così da renderli sempre più dipendenti da Amazon.

All’alba di tutto, mentre finiva il millennio, Bezos iniziò proprio con la vendita online di libri. Il pallino editoriale gli è rimasto, se è vero, come è stato annunciato in primavera, che l’intenzione è quella di aprire nel mondo altri Amazon Books, librerie fisiche in cui entrare e sfogliare i libri, alla vecchia maniera. Dopo la formula “Kindle unlimited” per gli ebook, il servizio di abbonamento di Audible conta su un vasto catalogo di audiolibri, mercato che sta crescendo non poco. Secondo una ricerca presentata a dicembre all’ultima edizione di “Più libri più liberi”, il 7 per cento degli italiani nel 2018 ha ascoltato almeno un audiolibro. Percentuale che in Usa sale al 24 per cento.

Tornando alle nostre longitudini, il 16 luglio scorso la Camera dei deputati ha approvato la nuova, controversa legge sul libro che abbassa al 5 per cento la percentuale di sconto possibile (che con la legge Levi era al massimo fino al 15 per cento). Ma la proposta non piace agli editori (Aie è contraria): costerà ai consumatori circa 70 milioni all’anno e probabilmente non avrà l’effetto di togliere quote di mercato ad Amazon, anche perché i clienti (oltre ad avere su Amazon la percezione di pagare il prezzo minore) pagano la comodità del servizio di consegna. Sempre secondo la ricerca presentata a dicembre sono oltre 7 milioni di italiani che dichiarano che per scegliere cosa comprare si affidano alle librerie fisiche, per poi finalizzare la spesa sulle piattaforme online (dove si comprano circa il 40 per cento dei libri).

C’è poi un dato, di nuovo per forza presuntivo: vigente la legge Levi (sconto al 15 per cento) in Italia, Amazon ha preso su per giù la stessa quota di mercato che ha in Francia (dove gli sconti sono al 5). Ma per l’approvazione della legge, visti i venti di crisi, probabilmente ci sarà ancora molto da aspettare.

Amazon, il costo del monopolio

Dove comprare un computer nuovo quando quello vecchio inizia a fare le bizze? La risposta è facile: su Amazon. Troviamo un Apple MacBook Pro da 13 pollici, ricondizionato, cioè usato e rimesso a nuovo o quasi. Costa 593 euro. Per metterlo nel carrello o comprarlo direttamente basta il solito clic. Sotto i due bottoni gialli che consentono l’acquisto si legge: “Venduto e spedito da Arce Byte Sas”, cioè un soggetto diverso da Amazon, che si limita a usare la piattaforma online come una vetrina.

Quel riquadro che comincia con il prezzo indicato in rosso e si chiude con l’indirizzo di spedizione si chiama “Buy Box”. E potrebbe diventare la porta di servizio da cui riportare un po’ di concorrenza online e far vacillare l’impero costruito da Jeff Bezos. Dipende da come andrà l’indagine che la Commissione europea, con la commissaria uscente alla Concorrenza Margrethe Vestager, ha aperto a metà luglio che vuole capire “l’uso dei dati nella selezione dei vincitori della Buy Box”, oltre che “gli accordi standard tra Amazon e i venditori sul suo marketplace”.

Su Internet si trovano decine di pagine che spiegano “come vincere la Buy Box di Amazon”, c’è addirittura un piccolo mercato di consulenza specifica a chi ambisce a piazzare i propri prodotti sul negozio digitale e vuole comparire in posizioni elevate nella lista delle opzioni di acquisto e soprattutto vuole poter usufruire del meccanismo al cuore del successo di Amazon, quello per cui basta un clic e il prodotto arriva, magari con il servizio Amazon Prime, in poche ore. Il sito scuolaecommerce.com spiega per esempio: “La Buy Box Amazon è il riquadro che ogni utente vede in alto a destra della scheda prodotto, ovvero quello che consente di acquistare la merce con un semplice clic. All’interno è presente solo il pulsante ‘Aggiungi al carrello’, senza riferimenti ad alcun venditore in particolare: l’utente, cliccandoci, non sa da chi sta acquistando. Ma sa che può fidarsi di Amazon, dato che è lo stesso negozio elettronico a stabilire il venditore privilegiato che potrà usufruire della Buy Box”. É come apparire nelle prime posizioni su Google: o ci riesci, o sei spacciato. Perché il 90% degli acquisti su Amazon avviene proprio tramite la Buy Box.

Scuolaecommerce.com avverte: “sapere cos’è la Buy Box Amazon non ti aiuterà”. Perché, come hanno sperimentato migliaia di venditori su Amazon, i criteri che determinano l’ordine di apparizione al cliente dei vari prodotti sono misteriosi e indecifrabili.

Christo Wilson, professore di Computer Science alla Northestern University di Boston, ha indagato su come Amazon sceglie i prodotti da segnalare per primi. I risultati hanno suscitato un certo clamore: molto spesso Amazon, anche a parità di prodotto (il computer del nostro esempio) non propone quello con il prezzo più basso.

C’è una spiegazione: i venditori esterni ad Amazon possono comprare servizi di “prezzi algoritmici” da società come Sellery, Feedvisor, and RepriceIt che analizzano gli altri prodotti offerti dalla concorrenza e aggiustano di conseguenza il prezzo. Basta chiedere un euro in meno degli altri per risultare il venditore più economico, oppure pretendere 60 dollari in più se c’è un momento di scarsità di prodotto e il venditore che usa l’algoritmo è rimasto uno dei pochi con scorte sufficienti. I prezzi decisi così cambiano decine di volte al giorno.
“Amazon ha un numero di venditori algoritmici tra il 2 e il 10 per cento, ma coprono circa un terzo dei prodotti più venduti offerti da venditori esterni ad Amazon, quindi il loro impatto è notevole”, spiega il professor Wilson. Ma i servizi algoritmici comprati dal venditore devono interagire con quelli di Amazon stessa. E nessuno ha ben chiaro come funzioni l’alchimia, l’unica certezza è che il prezzo non sembra l’unico parametro per stabilire chi starà nella Buy Box e quanto visibile risulterà. Per questo l’inchiesta della Commissione europea è il primo vero tentativo di scrutare nel più oscuro cuore del successo di Amazon: il rapporto con i venditori esterni, quelli che subiscono i veri costi del monopolio digitale dell’azienda di Jeff Bezos.

Su Amazon si possono comprare due tipi di prodotti: quelli venduti direttamente da Amazon e quelli per i quali la piattaforma si limita a fare da intermediario, lasciando che il rapporto sia tra impresa terza e cliente. Negli anni Amazon a volte ha trovato più conveniente usare il suo potere per far prevalere i propri prodotti su quelli dei fornitori esterni. Un caso, raccontato da Lisa Khan nel suo influente articolo Amazon’s Antitrust Paradox (sul Yale Law Journal), è quello di pupazzi delle mascotte del football: per mesi il produttore che li vendeva tramite Amazon, ne piazzava 100 al giorno, poi le vendite sono crollate a 30. Amazon si era messa a vendere pupazzi identici in concorrenza con il suo fornitore, allo stesso prezzo ma dando loro maggiore visibilità.
Oggi il pendolo oscilla verso un modello di business con ancora meno rischi e più redditività: farsi pagare per il privilegio di stare su Amazon. Shaoul Sussman ha spiegato sul sito ProMarket.org perché ad Amazon conviene fare il meno possibile: “Quando ordiniamo qualcosa direttamente da Amazon, l’azienda deve sostenere i costi variabili associati con il magazzino e la distribuzione in cambio di una quota fissa sul prezzo del prodotto. Questo modello è simile a quello di Uber, che carica ai clienti un prezzo predefinito all’inizio della singola corsa e poi remunera il driver con una somma variabile che dipende da lunghezza e durata del viaggio”.
Comprare i prodotti tramite Amazon Marketplace, invece, trasferisce tutti i costi sull’azienda terza che vende il prodotto. Amazon offre la vetrina, ma poi è l’azienda terza che deve preoccuparsi di avere il magazzino pieno e pagare per la spedizione. E se vuole farlo tramite i servizi Amazon, come Prime, deve rispettare elevati standard, senza però poter rivedere al rialzo i prezzi, altrimenti si ritrova poi penalizzata nelle gerarchie di visibilità.
“L’inesauribile scelta resa possibile da Internet porta infatti con sé un nuovo imperativo: la necessità di nuovi strumenti in grado di affrontare la vastità, perché il grande patrimonio universale di conoscenze digitali è pressoché inutilizzabile se non si dispone di meccanismi per consultare e organizzare la sua evanescente ricchezza”, ha scritto il giornalista Franklin Foer nel libro I nuovi poteri forti – Come Google, Apple Facebook e Amazon pensano per noi (Longanesi). Ma Amazon ha fatto molto di più che organizzare le offerte commerciali, così come Google è diventato qualcosa di assai più sofisticato di un motore di ricerca e Facebook non si limita più a mettere in contatto vecchi amici. In Italia piccoli librai e alcuni editori sono riusciti a far passare una legge in difesa della categoria che, tra l’altro, vuole arginare una delle tattiche commerciali di Amazon: l’offerta di sconti su prodotti diversi da quelli che l’utente ha appena comprato, acquisti l’ultimo romanzo di Camilleri per Kindle e ti viene proposto un altoparlante bluetooth a prezzo scontato. Ma è uno sforzo destinato a risultati modesti.
Da quando è nata, nel 1994, Amazon persegue un solo obiettivo: diventare sempre più grande in modo da avere il massimo potere contrattuale con tutte le sue controparti, rivenditori e clienti finali. E gli azionisti l’hanno sostenuta per anni: gli utili non c’erano, ma il titolo in Borsa continuava ad aumentare di valore perché la scommessa era che, presto o tardi, Amazon sarebbe diventata l’infrastruttura del commercio digitale. E avrebbe raggiunto un monopolio, a danno forse dell’economia occidentale nel suo insieme, ma a tutto beneficio dei soci. Sempre Shaoul Sussman, su ProMarket.org, ha osservato che Amazon nel 2017 ha avuto un flusso di cassa negativo per 1,5 miliardi “e questo rappresenta la norma per l’azienda, ha operato con cassa negativa per la maggior parte della propria esistenza”. Perché un’azienda di successo registra ricavi ma non incassa poi davvero i soldi che invece continua a spendere? Due sole possibili spiegazioni. La prima: i ricavi sono fittizi. Ma non è il caso di Amazon. La seconda, suggerisce Shaoul Sussman, è che Amazon operi una strategia di “prezzi predatori” permanente, cioé sia impegnata in una duratura attività di conquista di quote di mercato nei più disparati settori vendendo sottocosto per spazzare via la concorrenza. E consolidare il monopolio.
Dagli anni Settanta in America si è diffusa la teoria, sostenuta dall’allora celebre “scuola di Chicago”, che i monopoli sono pericolosi soltanto se riducono il benessere del consumatore, di solito alzando i prezzi. Ora, in America (Chicago inclusa) e a Bruxelles con la Commissione europea inizia a diffondersi l’idea che il vero problema è che società come Amazon distruggono la struttura stessa del mercato, che rendere impossibile la competizione tra aziende diverse è dannoso per la società nel suo complesso almeno quanto avere prezzi più alti. Ma la battaglia è appena iniziata.

Notre-Dame: al via i lavori di bonifica dal piombo

Sono iniziate ieri le operazioni di bonifica per eliminare il piombo sprigionatosi durante il devastante incendio che, il pomeriggio del 15 aprile, ha causato danni significativi a Notre-Dame. I lavori di delimitazione non riguardano soltanto la storica cattedrale, ma un’area più ampia di 12mila metri quadrati che include l’adiacente piazza Jean XXIII, la rue de la Cité, il Pont au Double e il Petit-Pont- Cardinal-Lustiger. Si stima che, mentre guglia e tetto ardevano, in atmosfera si siano sprigionate 440 tonnellate di piombo. Le polemiche sulla contaminazione sono scoppiate già un mese dopo l’incendio. Nelle scuole vicine alla cattedrale sono stati rinvenuti livelli fino a 10 volte superiori al limite. Organizzazioni della società civile e sindacati hanno ripetutamente denunciato il pericolo per la salute, fino all’esposto presentato in Procura dall’associazione Robin de Bois in cui le autorità competenti sono state accusate di mancato soccorso. Solo dopo un rapporto dell’Ispettorato del lavoro, il 25 luglio, il Prefetto di Parigi ha sospeso i lavori all’interno di Notre-Dame. Nel frattempo Emmanuel Grégoire, braccio destro della sindaca Anne Hidalgo, ha tentato di placare gli animi garantendo che tutti i test fatti nel raggio di 500 metri sono risultati negativi. L’agenzia regionale della Salute dell’Ile-de- France, però, dopo il caso di un minore con preoccupanti livelli di piombo nel sangue, ha aperto un’inchiesta ambientale e raccomandato alle donne in gravidanza e ai bambini al di sotto dei 7 anni di effettuare una visita dal medico e le analisi del sangue, per scongiurare il pericolo di saturnismo. I lavori di bonifica saranno condotti in due fasi. La prima, relativa al quartiere, dovrebbe concludersi il 23 agosto. Per i primi di settembre, invece, è fissata la bonifica della piazza di Notre-Dame. Le tempistiche dipenderanno anche dal clima. In caso di pioggia saranno rallentati.

L’esplosione nucleare è una “tragedia”

Quei cinque corpi nelle bare sono “orgoglio del Paese e del settore atomico”. Lo ha detto al funerale degli scienziati morti nell’incidente – ancora misterioso, ma già allarmante, avvenuto l’8 agosto nella regione di Archangelsk – il capo dell’agenzia federale nucleare russa, Aleksey Likhachev. “Il nostro tributo a loro sarà continuare a lavorare su nuovi modelli di armi”. Per gli esperti deceduti del centro federale, che lavoravano a un progetto riguardante “risorse miniaturizzate di materiale energetico”, ovvero reattori nucleari in scala, ci sono stati lunedì scorso, in fila: medaglie, fiori rossi, trombe e divise verdi della banda militare per l’ultimo saluto a Saratov.

Seppelliti gli scienziati dell’agenzia, e seppellita, ma non in profondità come loro, la verità, che prima o poi verrà a galla tra le onde del Mar Bianco, ora chiuso, per ordine di Mosca, alla navigazione libera e alla pesca. L’incidente non è avvenuto durante un test a un motore, come ripete Mosca. Gli scienziati americani, e anche il presidente Trump, credono che a scoppiare e scatenare un falò di fuoco e radiazioni sia stato il missile “burevestnik”, l’uccello del tuono, quello della cui gittata, capace di raggiungere la terra a stelle e strisce con un minuscolo reattore nucleare nel suo cuore volante, si vantava Putin nel 2018 all’Assemblea Federale.

Il confine preciso della notizia comincia con l’eterno silenzio mantenuto intorno ai segreti militari, prima dai sovietici, poi dai russi. A Severodvisk le comunicazioni delle autorità riguardo le radiazioni, tornate nella norma dopo il picco –di 16 volte più alto della norma – raggiunto in seguito all’incendio, sono scomparse dal sito ufficiale: rimangono solo screenshot sui social. I medici che nell’Artico hanno curato i feriti ora sono stati trasferiti a Mosca per essere esaminati. Le informazioni degli ultimi giorni sono più confuse di quelle giunte nel primo. Agli abitanti del villaggio di Nyonoksa è stato consigliato di abbandonare l’aerea dalle 5 alle 7 di oggi con un treno speciale, ma ai canali locali gli abitanti hanno detto di preferire la loro foresta. Attenzione, niente panico: è solo un’operazione militare di routine. “Questa non è un’evacuazione” ha detto Igor Orlov, governatore della regione, senza fornire altra spiegazione. Più che un velo di segretezza, c’è un muro di chiacchiere per la popolazione della regione, ostaggio di dati incerti, mezze verità e riserve di iodio esaurite.

Fallimento dei test nucleari della Rosatom e fallimento nella gestione della comunicazione del disastro del Cremlino, che ricorre a un silenzio prolungato, in stile Chernobyl. Putin non commenta né le radiazioni politiche nella Mosca che protesta, né quelle nucleari che si diffondono, insieme alle accuse di insabbiatura delle informazioni, ad Archanghelsk. Il presidente non si palesa e nemmeno il suo portavoce lo ha fatto fino a oggi. Dimitry Peskov per la prima volta dal 18 luglio, è tornato ieri a parlare con i giornalisti, interrompendo un silenzio di quasi un mese, ma ogni omissione diventa peggiore dell’altra. Quello che il New York Times definisce come il probabile “peggior incidente nucleare da Chernobyl” per Peskov “è una tragedia”, ma sono parole assenti nei telegiornali russi della sera, che parlano di Ucraina in fallimento, Europa in crisi e al canale Ntv perfino dell’istruttivo viaggio premio nell’Artico di alcuni studenti russi.