L’archistar Calatrava condannato per lo scenografico (e controverso) ponte a Venezia sul Canal Grande. Dopo l’assoluzione in primo grado, Santiago Calatrava è stato sanzionato in appello dalla Corte dei Conti con una multa di 78 mila euro per danno erariale nella realizzazione del cosiddetto “Ponte della Costituzione”. La multa riguarda una “macroscopica negligenza” – scrivono i giudici – perché l’architetto viene ritenuto responsabile di un aggravio di costi legati alla sottostima delle dimensioni di tubi, oltre che dei tempi di usura dei gradini, in parte in vetro, che avrebbero dovuto durare 20 anni e che invece fin da subito hanno richiesto costose sostituzioni e rattoppi. La Corte indagava su un possibile danno da 400 mila euro, relativo ad uno dei lotti dei lavori di realizzazione, e alle perizie che erano state seguite. Una cifra minore dei 3,9 milioni contestati in primo grado, dove però tutti erano stati assolti. Aperto nel 2008, il ponte era costato alla fine oltre 11 milioni rispetto ai 6,7 previsti. Insieme a Calatrava è stato sanzionato anche un ingegnere del Comune di Venezia (11 mila euro) perché ritenuto responsabile dei mancati ribassi.
Napoli, ambulante straniero aggredito da una baby gang
Non è in pericolo di vita il 39enne venditore ambulante originario del Bangladesh, aggredito domenica notte da un baby gang ai Quartieri spagnoli di Napoli. L’uomo ha riportato un trauma cranico e ferite al volto dopo essere stato colpito da una pietra: ricoverato nel reparto di neurochirurgia del “Cardarelli”, dovrà subire un intervento per una frattura alla mandibola, ma le sue condizioni non sono preoccupanti. Lievemente ferito, invece, un altro ambulante di 42 anni che si trovava con lui. Ieri mattina ha ricevuto la visita dell’assessore ai diritti di cittadinanza, Laura Marmorale: il Comune ha preso in carico la degenza dell’ambulante che aveva ricevuto beni di prima necessità dalle famiglie di altri pazienti ricoverati nella stessa stanza. Quella notte, i due sono stati accerchiati da un gruppo di adolescenti, uno dei quali ha rubato una delle cover per cellulari. L’ambulante ha reagito ed è stato colpito in pieno volto. Sulla vicenda indaga la Polizia: l’episodio sarebbe stato immortalato dalle telecamere di sorveglianza della zona. Per il sindaco De Magistris non è razzismo, ma si tratta di ”un grave atto di bullismo.”
Il comitato dei familiari: “Salvini ci aveva promesso di togliere la concessione”
“Diversamente dal giorno dei funerali di Stato, saremo presenti alla commemorazione ufficiale, perché è l’unico momento in cui abbiamo la possibilità di esprimere il nostro dissenso per il fatto che Autostrade continui ad avere le concessioni sulla gestione della rete.” Sono le parole di Nadia Possetti, membro del Comitato dei familiari di ponte Morandi.
Possetti nella tragedia ha perso la sorella Claudia, 48 anni, il cognato Andrea Vittone, i nipoti di 16 e 13 anni. Aggiunge Nadia Possetti: “Salvini all’indomani del disastro aveva promesso che avrebbe punito i responsabili. Ma dopo un anno adesso difende la concessione ad Autostrade. È vero che le persone si giudicano a processo compiuto, ma comunque sono persone indagate. Ci sentiamo traditi. Abbiamo paura che questa tragedia e il nostro dolore siano strumentalizzati dalla politica per fini che non ci riguardano”.
Il Comitato dei familiari, del quale fanno parte i parenti di una quindicina di vittime, incontrerà oggi pomeriggio i soccorritori nel palazzo del municipio a Cornigliano (a poche centinaia di metri dal luogo dove sorgeva il ponte): “Compatibilmente con la tristezza del momento sarà una bella cosa. Speriamo ci sia molta gente”, racconta Possetti.
Intanto è stato posizionato uno striscione con la scritta “14 agosto 2018 – 14 agosto 2019, per non dimenticare” e 43 rose bianche, sul “ponte delle Ratelle”, la passerella pedonale vicina al capannone dove oggi si svolgerà l’evento istituzionale al quale parteciperà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
I periti: “Bastava fare anche sulla pila 9 i lavori fatti sulla 11”
Se la pila 9 fosse stata ristrutturata come era avvenuto per la 11 negli anni Novanta, probabilmente non sarebbe crollata. I periti sono al lavoro per risolvere i quesiti posti dalla Procura nel secondo incidente probatorio (i risultati dovrebbero arrivare entro fine anno), ma una risposta starebbe prendendo corpo.
Sulla base dei sopralluoghi e dalle analisi i tecnici sembrano orientati a dare un’indicazione ai magistrati che indagano sul crollo del Ponte Morandi: nel 1993 Autostrade decise di compiere con urgenza dei profondi lavori di refitting sulla pila 11. Parliamo del pilone più a est, il grande malato del ponte. Come ha rivelato il Fatto domenica nell’inchiesta dell’inserto Sherlock, già nel 1968 erano emerse minuscole fessure nel calcestruzzo della pila 11. Nicolò Trapani dell’Anas e il Capo della Commissione Collaudo, Pasquale Prezioso, avevano scritto lettere allarmate alla società costruttrice. Ne era stato informato anche Riccardo Morandi, progettista del ponte e ingegnere tra i più noti al mondo, che aveva dato rassicurazioni. Ma ora emerge altro: lo stesso Morandi aveva voluto chiarimenti sulle modalità di costruzione della pila 11 (la prima a essere realizzata). Aveva chiesto che le colate di cemento per la realizzazione dei piloni alti 90 metri non fossero interrotte la sera alla chiusura del cantiere. Era necessario infatti che fossero compiute senza soluzione di continuità per dare maggiore solidità alla struttura.
Un accorgimento che, a quanto risulta agli investigatori, fu adottato nei piloni successivi (quindi anche il 9). Infatti, come raccontò al Fatto Gabriele Camomilla, l’ingegnere che negli anni Novanta si occupava della manutenzione del ponte per conto di Autostrade, la pila 11 si ammalò per prima. Si decise così di ingabbiarla in una sorta di camicia di cemento che ha retto anche al crollo del 14 agosto 2018. Ma, ed è questo uno dei quesiti della Procura, cosa sarebbe successo se lo stesso intervento fosse stato fatto per tempo alla pila 9? Molto probabilmente, è la risposta cui starebbero pervenendo i tecnici, non sarebbe crollata.
Per i risultati definitivi occorrerà attendere almeno altri quattro mesi. Al termine delle indagini seguirà la richiesta di rinvio a giudizio che potrebbe riguardare solo una parte degli attuali indagati: in tutto 74 più due società (Aspi e Spea). Le ipotesi di reato indicate nel fascicolo della Procura guidata da Francesco Cozzi vanno dall’omicidio colposo plurimo al disastro colposo passando per l’attentato colposo alla sicurezza dei trasporti.
Davanti al giudice dell’udienza preliminare si annuncia una battaglia molto serrata. Da una parte pesano le 72 pagine della perizia depositata all’inizio di agosto dai periti incaricati dal gip Angela Maria Nutini. Gli ingegneri nelle conclusioni parlano di “difetti esecutivi” e “mancanza di interventi significativi di manutenzione” almeno negli ultimi venticinque anni.
Ci sono poi le conclusioni della Commissione ispettiva del Ministero delle Infrastrutture (Mit) secondo le quali “il 98 per cento dell’importo (24.610.500 euro)” investito per interventi strutturali sul ponte “è stato speso prima del 1999”, anno della privatizzazione delle autostrade. L’investimento medio annuo, sostiene il ministero, è stato di “1,3 milioni di euro nel periodo 1982-1999”, mentre dopo si è passati a “23 mila euro circa”.
Autostrade si difende sostenendo di aver compiuto interventi di manutenzione, ricordando che dal 2015 erano stati avviati gli studi per compiere lavori di recupero della pila 9. Ma la linea difensiva è racchiusa anche nella frase di uno dei legali degli indagati: “La salute del ponte è stata curata da molti medici”. Insomma, si sostiene che sia difficile attribuire l’eventuale colpa per le mancate cure.
Ma ai periti è stato anche chiesto se sia possibile escludere definitivamente altre possibili cause del crollo puntando tutto sul cedimento strutturale della pila 9. Quali? Il famoso fulmine che si sostiene sarebbe caduto pochi istanti prima del disastro oppure l’eccessivo carico di un camion o magari il peso dei new jersey che erano stati utilizzati lungo tutto il ponte.
Per i conti dei Benetton non c’è nessuna tragedia
Poteva trasformarsi in un esiziale ko per un intero impero finanziario, quello dei Benetton che dai maglioni era trasmigrato da decenni nel lucroso business delle concessioni, Autostrade in testa.
Del resto la tragedia del Ponte Morandi, sbriciolatosi in un istante con il suo carico di morti, feriti e disperazione, non è e non sarà mai un evento cancellabile con qualche ristoro economico e l’oblio del tempo. Già la Borsa in quel lontano ferragosto di un anno fa aveva adombrato il peggio, con il crollo della capitalizzazione di Atlantia che in un giorno solo bruciò un quarto del suo valore pari a 5 miliardi. Tutto lasciava presagire tempi cupissimi per la società Autostrade e a risalire a monte per la controllante Atlantia fino a Edizione, la holding di famiglia dei Benetton.
Quel colpo durissimo non poteva essere lenito facilmente. E invece a distanza di soli 12 mesi Autostrade e la sua holding quotata, Atlantia, hanno già di fatto cancellato dai loro bilanci quasi ogni traccia del disastro. Con addirittura un effetto paradosso. Autostrade si è mossa per tempo a liquidare i risarcimenti dovuti alle vittime ai familiari. Nel 2018 ha erogato 33 milioni di euro di risarcimenti e altri 4 milioni li ha stanziati nel primo semestre del 2019. Ma, e ha un sapore amaro vista così, Autostrade è già rientrata in possesso di quell’esborso. Nel bilancio del primo semestre Autostrade ha iscritto un provento di 38 milioni come rimborso assicurativo per la Rca verso terzi del crollo del Polcevera. Pari e patta, soldi dati ai familiari subito rientrati completamente nei conti della società grazie alla polizza che ha rimborsato il danno ad Autostrade. Non solo: Atlantia avrebbe coperture assicurative totali per un valore di 350 milioni di euro. Se e quando verranno azionate varrebbero 10 volte i ristori agli eredi. Certo gli oneri economici per il crollo si sono visti nei conti del gruppo. La società ha accantonato 513 milioni in un fondo per le spese legate al disastro. Di quel mezzo miliardo finora sono usciti dalle casse poco meno della metà: 209 milioni al Commissario Bucci per i lavori di demolizione e ricostruzione e appunto i 37 milioni finora versati ai familiari. Quel mezzo miliardo è il prezzo “economico” della tragedia.
Possono apparire tanti, ma è una questione di punti di vista. Quanto pesa quel mezzo miliardo su Autostrade e Atlantia? Poco, molto poco. Facilmente recuperabili. Basti pensare che sono poco più del 10% dei ricavi totali di Autostrade di un solo anno. Nel 2018 il gruppo ha visto i ricavi superare i 4 miliardi di euro. Gli oneri della tragedia sono costati 500 milioni a livello di margini. Nonostante il “sacrificio” il margine lordo l’anno scorso è stato di quasi 2 miliardi, il 50% dei ricavi, un valore di fatto ben poco scalfito dal terribile crollo. Il sacrificio sugli utili è stato di poco più di 300 milioni, portando il monte profitti a 600 milioni dagli oltre 900 del 2017. Ma nonostante il peso immane dei 43 morti, Autostrade non si è fatta mancare nulla.
Nell’anno più infausto della sua storia ha staccato un dividendo per i soci di ben 311 milioni e ha avuto anche modo di rimborsare a febbraio del 2019 un bond da 593 milioni che costava il 4,5% di interessi alla società. Non certo il profilo di una società in difficoltà. Anche Atlantia, la controllante, non ha subito scossoni. Anzi il suo sguardo l’anno scorso si è rivolto altrove, alla conquista di Abertis, il gigante spagnolo di costruzioni e autostrade rilevato solo 2 mesi dopo la tragedia genovese. Un’operazione che oggi consente ad Atlantia di sfornare un margine lordo sui ricavi esplosivo, al 63%, e un flusso di cassa operativa di ben 2,5 miliardi, il doppio rispetto a un anno prima. Gli utili del gruppo quotato post-shopping spagnolo si sono attestati in sei mesi a 777 milioni in aumento di oltre il 40% sul semestre del 2018.
Come sempre le società dei Benetton, tra Autostrade e aeroporti, vere macchine indistruttibili di soldi, si rivelano sempre munifiche per i propri azionisti. L’utile di Atlantia del 2018, di oltre 800 milioni, è finito per il 90% in ricco dividendo per i soci. E che il Ponte Morandi rischi di passare alla storia come un piccolo incidente di percorso recuperabile rapidamente lo dice il mercato. Che ha ben capito da tempo che la battaglia sulla revoca della concessione agitata dai 5 Stelle sarebbe stata un ballon d’essai. Difficile strappare ai Benetton le autostrade per il rischio di un pesantissimo e onerosissimo contenzioso ai danni dello Stato. Revocare vorrebbe dire pagare, avvertono i giuristi del ministero, ai Benetton i flussi di cassa attesi da qui al 2042, tant’è la durata della concessione. In soldoni oltre 20 miliardi di oneri presumibilmente dovuti alla famiglia veneta. E così da gennaio di quest’anno ecco il titolo risalire in Borsa con continuità, fino a recuperare del tutto i 5 miliardi bruciati un anno fa. Oggi Atlantia capitalizza in Borsa 19,8 miliardi, lo stesso valore del giorno prima della tragedia. E tanto più ora, con la caduta del Governo si è capito che quella strada sarà difficilmente percorribile in futuro.
Nel mezzo la vicenda Alitalia, vissuta come merce di scambio. Con un obolo di 300 milioni i Benetton avrebbero salvato il vettore agonizzante, in cambio ovviamente di un atteggiamento più remissivo sulla concessione. Con la coda di un gigantesco conflitto d’interesse: i Benetton azionisti di Alitalia e contemporaneamente padroni di Adr, gli aeroporti di Roma, che vivono sulle tariffe pagate dai vettori. Ciò che farebbe bene ai conti di Adr, ferirebbe Alitalia e viceversa.
Che un certo cinismo da “the business must go on” affiori da tutta la vicenda lo dicono anche le remunerazioni dei manager Atlantia, l’ad Giovanni Castellucci in testa. Pur nell’anno del disastro che avrebbe potuto ferire mortalmente il gruppo il suo portafoglio non ne ha risentito. Anzi. Solo di compensi fissi e bonus l’ad di Atlantia ha incassato nel 2018 5 milioni di euro, quasi il doppio della remunerazione (fisso + bonus) del 2017. Ma Castellucci ha portato a casa anche un bonus per l’operazione Abertis di 2,2 milioni e conta su un ricco portafoglio di stock option maturate nel tempo: oltre 3 milioni di azioni a prezzi d’esercizio tra i 23 e i 25 euro. Deve solo aspettare che il titolo voli sopra i 25 euro per incamerare plusvalenze. Ponte Morandi a parte.
Lodi, Superenalotto record: il jackpot regala 209 milioni
Festa grande a Lodi dove è stato centrato, dopo settimane di attesa, il 6 dei record. I 209.160.441 euro del mega jackpot sono stati vinti da un avventore, ovviamente anonimo, con una giocata al bar Marino di via Cavour 46. La sestina vincente è 7, 32, 41, 59, 75, 76. Numero jolly 21. Superstar 11. Il jackpot da 209 milioni è il più alto nella storia del Superenalotto e il più alto di tutte le lotterie mondiali. L’ultimo 6 risale ad oltre un anno fa, quando – il 23 giugno 2018 – vennero vinti 51,3 milioni di euro attraverso un sistema giocato da 45 giocatori. Il record del jackpot più alto di sempre, fino a ieri, ammontava a 177,7 milioni di euro, quando la sestina vincente venne centrata il 30 ottobre 2010 con un sistema Bacheca suddiviso in 70 cedole. Tra un primato e l’altro sono passati 3.167 giorni, durante i quali il 6 è stato centrato 28 volte. Il jackpot stimato per il prossimo concorso del Superenalotto è attorno ai 50 milioni di euro.
Il manager di Tuodì Eugenio Vinci morto in barca in Croazia
Un’intossicazione, forse alimentare o per i gas di scarico. Di sicuro un malore, fatale. Eugenio Vinci, 57 anni, amministratore delegato del gruppo che gestisce i supermercati Tuodì, è morto ieri a bordo di una barca durante una crociera a largo della Croazia in seguito ad una intossicazione che ha colpito i passeggeri, fra i quali anche la moglie e i due figli: i due bambini sono ricoverati in gravi condizioni all’ospedale di Spalato. A bordo c’era anche l’ex senatore Bruno Mancuso, ora sindaco di Sant’Agata Militello. Il gruppo era partito sabato scorso da Palermo e si trovava su un caicco per una crociera alle isole della Dalmazia, nel sud della Croazia. Secondo le prime ricostruzioni, tutte le persone sulle barca sia sono sentite male dopo aver mangiato, non è chiaro se per un’intossicazione alimentare o per i gas di scarico dell’imbarcazione. Dopo il malore Vinci si sarebbe trascinato in bagno, dove però avrebbe però i sensi e sbattuto violentemente la testa: questa sarebbe la causa del decesso. L’autopsia chiarirà nei prossimi giorni le cause dell’accaduto.
Il “caffè” di Salvini nel bar dello strano mutuo di Siri
Il 5 agosto scorso Matteo Salvini era a Rogoredo, periferia sud di Milano nota alle cronache per la sede di Sky e il cosiddetto “bosco della droga”. Da ministro dell’Interno voleva essere lì, a inaugurare il nuovo posto di polizia ferroviaria della stazione. Luogo simbolico, quindi, e non solo per questo: quel giorno Salvini è stato omaggiato da un piccolo banchetto, un “coffee break”, organizzato dal bar che sta di fronte alla stazione. Il tutto immortalato dalle foto messe su Facebook per celebrare l’evento.
Il bar si chiama “Post Office” e a Salvini avrebbe dovuto dire qualcosa: il proprietario del locale è infatti Fiore Turchiarulo. A lui e al suo socio Christian Battista riuniti nella Tf holding è stato erogato il mutuo da 600mila euro senza garanzie dalla Banca Agricola di San Marino grazie all’intercessione di Luca Perini, capo segreteria dell’ex sottosegretario Armando Siri. L’ennesimo mutuo dopo quello da oltre 700mila euro concesso a Siri stesso, oggi indagato dalla Procura di Milano per autoriciclaggio, sempre dalla banca di San Marino. Due mutui anomali, per importo elevato e per il fatto che non hanno garanzie reali a favore dell’istituto.
Cosa ha spinto Perini e Siri a caldeggiare il prestito a due sconosciuti, alla cronache baristi di Milano? C’è più di un filo rosso che lega in realtà Turchiarulo a Siri. Il primo è politico. Turchiarulo era candidato nelle liste del Partito Italia Nuova, la creatura politica di Siri prima del glorioso approdo alla corte di Salvini. Ma il filo rosso più importante porta a ragioni economiche, agli affari. Turchiarulo conosce Siri da tempo. Fu lui tramite un’altra sua società, la Fioma srl, ad acquisire nel lontano 2008 una delle tante società in cui Siri ha avuto un ruolo. Si tratta della Metropolitan Coffee and Food. Ufficialmente intestata come proprietà a due fratelli Alberto ed Emanuele Milan e a Maria Arnone, quest’ultima con un altro Milan, Fabrizio, al centro di un passaggio di quote della vecchia Mediatalia, la società di Siri finita in bancarotta su cui il senatore ha patteggiato.
Nella Metropolitan – che aveva come attività la gestione di alcuni bar nei mezzanini del metro di Milano, tra cui quello di Rogoredo – Siri figurava come amministratore unico. Dal 2005 data di inizio delle attività fino alla primavera del 2007, quando Siri cessa dalla carica. Il 2007 è un anno cruciale per i destini della società: i conti precipitano con una perdita di 66mila euro che erode l’intero patrimonio portandolo in rosso per 54 mila euro. Sembra poca cosa ma il capitale non c’è più e intanto i debiti arrivano a 1 milione di euro dai 383 mila del 2016.
Si va verso il crac, come puoi ripagare quel milione di debiti con una società che produce perdite? E qui ecco comparire Turchiarulo. È lui a togliere le castagne dal fuoco a Siri e ai Milan, rilevando tramite la Fioma Srl le attività della Metropolitan tra cui il bar nel mezzanino di Rogoredo. Poi, come accaduto per Mediatalia e Mafea, le altre società legate a Siri, ecco il trasferimento della Metropolitan nel Delaware con la società intestata a una sconosciuta brasiliana Vivia Souza Santos fino alla cancellazione dal registro imprese nel 2011. In fondo lo stesso copione seguito per Mediaitalia, per la quale Siri ha patteggiato per bancarotta. Prima di fallire la MediaItalia avrebbe nominato in qualità di liquidatrice Maria Nancy Marte Miniel, originaria di Santo Domingo. Una “testa di legno” la definiscono i giudici che hanno condannato Siri.
Ora torniamo al mutuo anomalo concesso proprio alla Tf holding di Fiore Turchiarulo. A cosa servono quei 600mila euro? Tf holding ha capitale sociale per 80mila euro, ma nel 2017 ha chiuso in perdita e ha sulle spalle un debito bancario per 288 mila euro. Presumibilmente un mutuo, cui ora se ne aggiunge un altro del valore doppio. Potrà Tf holding restituirlo vista l’esiguità dei flussi di cassa e i bassi redditi dichiarati sia da Turchiarulo che da Battista? Il nuovo mutuo serve ai sogni di espansione di Tf holding che sta ristrutturando una villa storica accanto al bar “Post Office”, sempre a Rogoredo. Valore stimato dell’intervento, recita il cartello apposto sulla palazzina in ristrutturazione, 100mila euro. La Banca agricola di San Marino deve augurarsi che l’operazione, per cui ha concesso 600mila euro senza garanzie, vada a buon fine. Per ora può contare sul fatto che Salvini non pare imbarazzato da inchieste e incroci proprietari: lui pensa solo al coffee break.
Per il patto con la Lega B. vuole troppe poltrone
Chi l’ha capita la situazione sentimentale tra la piccina Forza Italia e la smagliante Lega fu Nord? Il Senato d’agosto fa resuscitare, nei voti e nei modi, il centrodestra compatto, più destra che centro, quel cartello elettorale che ovunque macina vittorie e pregusta il controllo totale d’Italia. Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia, orgogliosa di aver radunato 55 senatori su 62, si premura di informare i colleghi: i contatti tra Salvini e Berlusconi sono frequenti e il patto, non firmato, niente testimoni e neppure notai, è all’ordine del giorno, di quale giorno chissà.
Allora le ricostruzioni, per carità appassionanti, preziose per riempire l’incertezza, sono sempre valide. Silvio ha accolto Matteo a Palazzo Grazioli, che bei tempi, che bei luoghi. No, Silvio ha parlato con Matteo, non a Palazzo Grazioli, al telefono, pare fisso, non cellulare. No, Silvio ha sigillato l’accordo con Matteo per le elezioni anticipate, non a Palazzo Grazioli, non al telefono, pure se fisso che importa. No, Silvio ha posto condizioni eccessive per l’alleanza elettorale, Matteo è uno sbruffone, obnubilato dai sondaggi, e se ne infischia. Forza Italia è un partito federale. C’è la Forza Italia prevalente, a cui s’iscrivono Niccolò Ghedini e Licia Ronzulli, che s’aggrappa a Salvini e riflette su prospettive assai lunghe, votazioni in autunno, sopravvivenza parlamentare, un po’ di voce nel governo, consigli regionali da rinnovare e scippare al centrosinistra, la Toscana, la Campania, l’Emilia Romagna per esempio, il Quirinale da prenotare per il 2022. C’è la Forza Italia minoritaria, a cui lavora Gianni Letta, che ripete il mantra “Ursula”, cioè Ursula Von der Leyen, la presidente della Commissione europea che ha riunito socialisti, popolari e i Cinque Stelle con l’esclusione dei sovranisti, vale a dire di Salvini.
Il sensale di sempre Letta è tampinato dai dem, non le truppe di Matteo Renzi, ma la segreteria di Nicola Zingaretti, per tentare di staccare un pezzo di Forza Italia, la minoritaria per l’appunto, e scortare il Pd nell’avventura di governo con i Cinque Stelle con la promessa di durare il giusto, ma la missione, l’unica saggia, di durare l’intera legislatura. Letta rappresenta più l’azienda, Mediaset, che Forza Italia e, per la prima volta, non incide nei pensieri di Berlusconi.
Ghedini e compagni, di corrente s’intende, bocciano le trame di Letta per diversi motivi: l’ipotesi è fallita in partenza perché i Cinque Stelle possono accettare la zeppa forzista soltanto con l’abiura del berlusconimo; è insensato partecipare a un suicidio politico di massa con Salvini che va oltre il 50 per cento dei consensi; un pastrocchio per stanare Salvini ha vita breve e può provocare tensioni sociali. I politici chiamano “dialettica interna” le suddette congetture, ma in Forza Italia, da un quarto di secolo, comanda un uomo solo, il Silvio classe ‘36. Cosa gradisce il capo? Berlusconi ha scoperto che trattare con Salvini è complicato. È vero il ministro dell’Interno l’ha cercato, l’ha riabilitato e poi ha ripristinato il centrodestra, ma l’ha fatto per mostrare al Colle e dintorni che, dopo la dissoluzione del contratto gialloverde, non esistono altre maggioranze per la legislatura corrente, almeno non con un definito carattere politico. Adesso che la messinscena è in funzione, però, va concordato il futuro.
Berlusconi non intende rinunciare al simbolo di Forza Italia col nome dentro, figurarsi Salvini che tira più della discoteca del “Papeete” o Giorgia Meloni così affezionata alla fiamma tricolore di Fratelli d’Italia. A Ghedini, che all’ultima tornata ha fregato il Carroccio, spetterà il compito di strappare a Salvini qualche collegio sicuro in più. Oppure risorge Letta e l’anziano Silvio torna al governo per punire Salvini con il rischio di punire se stesso e quel che resta di Forza Italia.
Da un Matteo all’altro: il gioco della liana dei poteri mezzi forti
Da un Matteo all’altro è un attimo. Le imprese, il mondo degli affari o, semplicemente, il mondo cui piace apparire, fa la fila per abbracciare Matteo Salvini.
Lo stesso leader leghista ne ha data lettura ieri al Senato, citando tra gli altri, Marco Bonometti, presidente di Confindustria lombarda, Maurizio Casasco, presidente della Confederazione italiana della piccola e media industria privata, Leopoldo Destro, presidente di Assindustria Veneto, Giovanna Ferrara, presidente di Unimpresa. “Potrei andare avanti per tre quarti d’ora” ha commentato il leader leghista, sfoggiando il sostegno dell’impresa italiana. La stessa che fino a qualche tempo fa tifava per l’altro Matteo, Renzi.
Prendi Paolo Agnelli, presidente di Confimi Industria, piccola associazione di industriali che fa concorrenza a Confindustria. Oggi non vede l’ora di andare a votare per avere “un governo forte per una manovra forte”. Solo pochi anni fa, alla Leopolda, ricordava a Renzi che anche lui aveva “rottamato un vecchio modello di rappresentanza”, rottami tu che rottamo anch’io, era il messaggio.
A Salvini promette appoggio anche Tonino Lamborghini, erede della dinastia automobilistica: “Salvini ha fatto bene a staccare la spina, doveva farlo prima”. Memoria corta per chi solo tre anni fa accoglieva nello stabilimento di Sant’Agata Bolognese un Renzi che non vedeva l’ora di mettersi al volante delle sportive di lusso. Tanto che una “fake news” lo collocò alla guida dell’auto di lusso, ma in quel di Ibiza, emblema di una casta che se la godeva “con i soldi nostri”.
“Fa benissimo Salvini a chiedere il ritorno alle urne», dichiara Gabriele Menotti Lippolis, presidente dei giovani industriali di Confindustria Puglia e delle sei regioni del Mezzogiorno. E qui si passa a quel mondo confindustriale, il cui leader, Vincenzo Boccia, è stato tra i più lesti a onorare gli incontri organizzati da Salvini al Viminale.
Renzi una volta sembrava scaldare il cuore dei “cuccioli” di impresa che nel giugno del 2016 lo accoglievano al convegno di Santa Margherita Ligure dove l’allora capo del governo si rifugiava “in fuga dai fischi di Confcommercio”. E anche se quelli non facevano sconti, alla fine l’incontro finiva con battute, sorrisi e applausi. E poi Confindustria, e i Giovani industriali, erano tra i più entusiasti sostenitori del Sì al Referendum, “dove si vota sull’Italia”. Allora, Matteo Salvini era schierato fermamente per il No. Amnesie costituzionali.
Il gioco della liana da un Matteo all’altro potrebbe continuare con Angelo Maci, fondatore e presidente del gruppo Cantine Due Palme secondo cui “solo con Salvini premier si può far ripartire il Paese” e che invece durante le elezioni riceveva in azienda a braccia aperte Lorenzo Guerini, braccio destro di Renzi segretario del Pd e una delegazione dem capeggiata da Paolo De Castro e Teresa Bellanova. “Ho molta fiducia nell’operato del premier Matteo Renzi e la visita del suo vice è un momento di confronto molto importante per noi tutti” diceva allora.
Bei tempi. Ma non belli come quelli che riesce a farci vivere Flavio Briatore che quando fa una scelta la fa per sempre. O quasi. Stava con Berlusconi, ma non ebbe dubbi a individuare in Matteo Renzi il suo “erede naturale”. Oggi, dice, “non c’è altra persona se non Salvini in grado di risollevare l’Italia”. Ne è così convinto che si dice pronto a fare il ministro, anzi a fare un movimento basato… “sul fare”.
In realtà Briatore una certa coerenza ce l’ha, perché di Salvini dice che “mi ricorda un po’ Renzi”.
E gli stessi ricordi, lo stesso gusto per questo scoloramento della politica, questa sovrapposizione di maschere buone per tutte le stagioni, lo possiede anche Annalisa Chirico che da Renzi rifiutava la candidatura perché “voglio continuare a fare la giornalista” e ora è fulminata dall’umanità di Salvini. E grazie al suo acume, la valida giornalista ha scoperto quello che a tutti gli altri è sfuggito: “Ho scoperto in lui (Salvini, ndr) un’umanità delicata, una umiltà che non mi aspettavo. Dietro la sua immagine di ‘duro’, Matteo è un uomo sensibile. Il rapporto con la gente per lui è essenziale, ne ha un totale bisogno. Io ho visto tanti politici stringere la mano in pubblico ai loro sostenitori e poi, di nascosto, correre a lavarsi le mani. Matteo non è così: lui è autentico”. E forse l’unica differenza tra i due Matteo è solo questa: uno si lava le mani, l’altro no.