Un plico anonimo, forse una minaccia, magari uno scherzo di cattivo gusto. Di sicuro un contenuto molto inatteso: dentro c’era eroina. Ieri una busta sospetta è stata recapitata al segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, al Nazareno. L’anomalia ha subito fatta scattare l’allarme: agenti della Digos, artificieri e vigili del fuoco. All’interno della busta, proveniente dal Regno Unito, non c’era nessun esplosivo o qualche altra sostanza pericolosa ma droga: alcuni grammi di eroina. Non è chiaro quale fosse il significato, per il senatore Stefano Vaccari si tratta di “un messaggio inquietante, indirizzato al segretario del partito.” Per altro non è l’unico plico strano ricevuto ieri in palazzi istituzionali: un altro pacco, anonimo e senza mittente, è arrivato a Palazzo Chigi in mattinata. In un primo momento si era diffusa la voce che contenesse pure questo eroina, poi è arrivata la smentita: anche qui sono intervenuti la Digos e il Nucleo Nbcr dei Vigili del Fuoco, ma l’allarme si è rivelato infondato. Dentro c’era un liquido vinilico, non pericoloso.
Migranti, i giudici al governo. “I minori a bordo vanno accolti”
Impedire ai minori di sbarcare in un porto sicuro viola le convenzioni internazionali a cui l’Italia aderisce. Lo scrivono i giudici del Tribunale dei minori di Palermo rispondendo al ricorso presentato il 7 agosto scorso dalla Ong spagnola Open Arms con cui i legali chiedevano di tutelare i minori presenti a bordo.
Per i giudici minorili siciliani, costringere i minori restare in mare “equivale, di fatto, ad un respingimento” e così i magistrati hanno chiesto chiarimenti ai ministri Salvini, Toninelli e Trenta che hanno firmato il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. “Si chiede – scrivono i giudici – di conoscere quali provvedimenti le autorità intendano adottare in osservanza della normativa internazionale e italiana” dato che “le convenzioni internazionali impongono il divieto di respingimento alla frontiera o di espulsione dei minori stranieri non accompagnati” riconoscendo loro “il diritto ad essere accolti in strutture idonee”. Ed è “evidente – sottolinea il Tribunale – che questi diritti vengono elusi” dalla permanenza a bordo, in condizioni “di disagio fisico e psichico”. Sono complessivamente 500 i migranti, di cui quasi 150 minori, bloccati a bordo due imbarcazioni: Open Arms e Ocean Viking di Msf e Sos Méditerranée.
La posizione del ministro dell’Interno non cambia: “Navighino verso la Spagna” ha detto in riferimento alla Ong spagnola, mentre per la nave di Sos Mediterranee e Msf – che ha a bordo 356 persone di cui 103 minori, solo 11 dei quali accompagnati – il ministro fa sapere che la Guardia Costiera libica ha indicato Tripoli come porto sicuro.
Una provocazione che la Ong ha fermamente rigettato: “Non riporteremo le persone in Libia in nessuna circostanza. Per il diritto internazionale – hanno fatto sapere le organizzazioni – né Tripoli né alcun altro porto in Libia sono porti sicuri e riportare le persone lì sarebbe una grave violazione”. Msf ha spiegato che la nave ha chiamato Tripoli solo perché era in zona Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) libica.
L’Unhcr, l’Agenzia delle nazioni unite per i rifugiati, ha chiesto ai governi europei di consentire “lo sbarco immediato di 507 persone attualmente bloccate in mare” alcune delle quali sopravvissute “a terribili abusi in Libia”.
Delle due navi nel Canale di Sicilia si occupa da giorni la Commissione europea, che in altri casi ha coordinato i negoziati per le ricollocazione, ma stavolta solo informalmente perché nessun governo ha ufficialmente chiesto l’intervento di Bruxelles. Non l’ha fatto Roma ma nemmeno Madrid, sollecitata in questi giorni da Open Arms e poi dagli attori spagnoli Antonio Banderas e Javier Bardem che sono stati sulla nave.
La rabbia, i rospi e il mojito: che buio che fa a Ferragosto
Taglio dei parlamentari o meno, diventa sempre più nera la crisi al buio in cui Matteo Salvini ha precipitato l’Italia. Da lui ribadito (il buio della crisi), ieri, nello sgangherato intervento al Senato, in un clima di gazzarra specchio fedele della situazione. Perché allo smarrimento delle forze politiche che non sanno bene come uscirne (Lega compresa), si aggiunge lo sconcerto delle tante persone che si sentono catapultate in un futuro ignoto e che non riescono a raccapezzarsi. Nelle prossime ore, nei prossimi giorni, sarà l’attualità a misurare la temperatura del paese, sotto il sole di Ferragosto ma già con la testa ai problemi di settembre.
Genova ma non solo. Oggi, alla commemorazione del crollo del ponte Morandi, l’accoglienza che sarà riservata al presidente Sergio Mattarella, e in particolare come la folla reagirà alla presenza di Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, saranno segnali indicativi di un umore collettivo che sembra tendere al peggio. Le contestazioni, anche forti, che hanno accolto il vicepremier del Carroccio impegnato nella passerella elettorale in Calabria e Sicilia, non vanno sottovalutate. Alle consuete manifestazioni di dissenso della sinistra dei centri sociali, si aggiunge la protesta grillina per il “tradimento” dell’ex alleato. Irritata è anche un’opinione pubblica non di partito che aveva sempre mantenuto alto il consenso del governo gialloverde, e che si sente trattata come massa di manovra, popolo bue. Il 14 agosto di un anno fa, pur nella immane tragedia, il nuovo governo aveva ricevuto gli applausi di chi era stato convinto dalla parola cambiamento. Che oggi, grazie a Capitan mojito, suona come una beffa.
I conti che non tornano. Con la crisi nera, adesso per evitare l’aumento dell’Iva chi li trova i 23, 1 miliardi per il 2020 ( se non si considera l’ulteriore rincaro già previsto per il 2021)? Uno scherzetto che dal prossimo primo gennaio costerà ad ogni famiglia italiana circa 541 euro in più all’anno. E l’affondamento del decreto Scuola con 79 mila insegnanti condannati a restare precari? E la crescita zero? E lo spread? Salvini scommette sul voto in autunno, come se con tutti gli adempimenti connessi alla nuova legislatura fosse un gioco da ragazzi per il nuovo governo (ammesso che fosse lui a guidarlo) partorire una legge finanziaria approvata da Bruxelles ed evitare l’esercizio provvisorio di bilancio. Forse per questo chiede i “pieni poteri”, come il dittatore dello stato libero di Bananas.
Nelle mani di un improvvisatore. Lo spiega bene Giorgia Meloni al Messaggero quando critica Salvini per avere “sottovalutato i rischi connessi a una crisi aperta l’8 di agosto, all’ultimo momento utile, senza concordare le mosse con nessuno”. La leader di Fratelli d’Italia muove, da un fronte opposto, le stesse accuse che ritroviamo nelle dichiarazioni di Conte e dei Cinque Stelle. Aprire una crisi, all’improvviso e a Camere chiuse, rappresenta qualcosa di inaudito in un sistema democratico che non è il Papeete Beach con l’Inno di Mameli e le cubiste. Certe volte si ha l’impressione di un tipo fuori controllo che agisce con atti inconsulti, senza un piano B o C ma per successivi impulsi. Per esempio, l’essere corso da Silvio Berlusconi quando ha capito che si stava formando in Parlamento una maggioranza ostile. Ma la Repubblica non è uno stabilimento balneare
Governi e governicchi. Dopo che si sono tirati addosso i peggiori insulti, apprendere che Pd e Cinque Stelle meditino un assai poco cauto connubio “per il bene del Paese” fa un po’ sorridere. Non certo per il Paese che a questo punto meriterebbe, almeno dal composito fronte antiSalvini, chiarezza e decenza di comportamenti. Chi propone governi di legislatura tra ex nemici si rende conto che senza garanzie di ferro e contratti da rispettare alla virgola, si rischierebbe di moltiplicare per due o per tre la stessa conflittualità Lega-M5S che ci ha condotti in un vicolo cieco? Così come appaiono non sufficientemente comprensibili i progetti di governi provvisori e di maggioranze temporanee per spostare a primavera l’orizzonte elettorale. Un modo per prendere tempo ma anche di farsi carico di una pesante legge di bilancio, recessione incombente e rapporto con l’Europa. Ovvero: logoramento garantito e un’autostrada elettorale per il Carroccio. Un suicidio.
Baciare il rospo? Sul manifesto, Norma Rangeri ricorda il gennaio 1995 quando la formazione del governo Dini, dopo il ribaltone di Bossi contro Berlusconi, sembrò un sacrificio necessario per far sloggiare il Cavaliere da palazzo Chigi. Infatti, ce lo siamo tenuto vent’anni (e forse non è ancora finita). Le scorciatoie in politica hanno le gambe corte e la migliore tattica contro il salvinismo arrembante resta quella di rendergli la vita difficile spiegando agli italiani, come si appresta a fare Conte, chi è l’uomo che non mantiene i patti, il ministro pro domo sua. E poi andare alle urne.
Paragone: “Pensate davvero che mi possa alleare con la Boschi?”
“Un accordo tra noi e il Partito democratico? Sì vabbè… Magari poi alla commissione d’inchiesta sulle banche dovrei essere votato dalla Boschi?”. La battuta del senatore dei Cinque Stelle Gianluigi Paragone nella buvette di Palazzo Madama rende in modo fedele l’idea di quanto sia fragile e complessa la nuova situazione politica. E quanto siano fragili le tenute dei partiti. I Cinque Stelle sono profondamente divisi tra chi non ha nessuna intenzione di chiudere la legislatura e chi invece ritiene assurda anche solo l’ipotesi di un governo insieme al Partito democratico.
Paragone peraltro, tra i parlamentari Cinque Stelle, è uno dei più vicini al mondo leghista (da giornalista entrò in Rai proprio in quota Lega). Il nome dell’ex conduttore televisivo è l’unico tra i grillini che compare nel programma della “Berghem Fest 2019” della Lega ad Alzano Lombardo (Bergamo). Paragone sarà sul palco venerdì 23 agosto con Riccardo Molinari (capogruppo Lega alla Camera) e Massimo Garavaglia (viceministro dell’Economia). In una serata moderata da Maurizio Belpietro il cui tema, nemmeno a dirlo, è “La crisi di governo”.
“Non mi fido di Salvini: la sua è la mossa della disperazione”
Non si fida dell’apertura di Matteo Salvini, per nulla: “Dopo quanto successo l’otto agosto, chi può dare ancora credito alla sua parola? Quello che dice non conta più nulla”. Anzi, accusa: “Quella del capo della Lega sul taglio dei parlamentari è una mossa della disperazione. E comunque quando si va al voto lo decide il presidente della Repubblica, non certo lui”. Quando in una Roma assediata dall’afa è ormai sera Luigi Di Maio, capo politico dei Cinque Stelle, rilancia così. E in molti passaggi ricorda il peso e il ruolo del Quirinale: la sua evidente bussola, in una fase così complicata.
Salvini è pronto a votare il taglio di 345 parlamentari anche subito, ma in cambio vuole una data certa per il voto anticipato. È un contropiede o uno scambio che può avere senso?
Con questa proposta si è infilato in un cul de sac. In base ai regolamentari parlamentari, se vuole votare il taglio degli eletti dovrà prima ritirare la mozione di sfiducia a Conte. Altrimenti la votazione sul taglio slitterà a dopo quella sul premier. Ma è chiaro che, se dovesse ritirare la richiesta di sfiducia per il presidente del Consiglio, dovrebbe smentire la sua linea. Si è messo da solo in un labirinto. Non so chi lo stia consigliando, ma sta dimostrando che i suoi conti sull’andare al voto anticipato non reggono proprio.
Lui vi ha fatto un’offerta politica, e voi potreste accettarla. Altrimenti potrebbe sfruttare il vostro No per dire che voi non volete andare alle urne, e che il taglio dei parlamentari è un pretesto.
La data del voto la decide il presidente della Repubblica, nessuno si deve permettere di farlo al posto suo. Dopodiché io voglio tagliare i parlamentari per davvero. Salvini invece quei 345 eletti li vuole tenere anche nella prossima legislatura.
Lei prima ha evocato il voto su Conte. La non sfiducia del Pd al premier, ossia la possibile uscita dall’Aula dei senatori dem, sarà il passaggio per provare a costruire una nuova maggioranza?
Noi siamo semplicemente intenzionati a votare il taglio degli eletti. Su tutto il resto io sto assistendo solo a un dibattito interno nei vari partiti. Ma su ciò che attiene a nuove elezioni o eventuali nuovi governi si esprimerà Mattarella. Posso dire che nel Movimento nessuno mi ha chiesto di andare a sedermi al tavolo con Matteo Renzi. Noi vogliamo il taglio degli eletti.
Quello che verrà dopo deve essere comunque con Conte a Palazzo Chigi?
Ripeto, lo deciderà il presidente della Repubblica.
Va bene. Ma i partiti devono costruire un processo politico, con i numeri. Sul Corriere della Sera Goffredo Bettini, molto vicino al segretario dem Nicola Zingaretti, ha detto che tra M5S e Pd serve un governo di legislatura, altrimenti si fa il gioco di Salvini. Sembrano parole di buon senso, non trova?
Questo è un dibattito interno al Pd. Oggi Bettini apre, invece Andrea Orlando mi insulta. Ma i conti poi si fanno al Quirinale. Va rispettato il ruolo di Mattarella, non si decide nelle segrete stanze. Noi siamo ancora al passaggio numero uno, il taglio dei parlamentari. Poi ci sarà il secondo passaggio, quello sulla sfiducia a Conte.
Orlando, vicesegretario del Pd, ha detto che lei “è finito”. È un modo per chiedere un interlocutore diverso da lei del Movimento, non pensa?
Io non mastico il politichese. C’è un dibattito nel Pd, e io lo rispetto.
A occhio Matteo Renzi vi ha usati per accelerare sulla scissione interna e indebolire Zingaretti.
Nessuno può usare il Movimento. Tutti quelli che vogliono votare il taglio degli eletti sono benvenuti.
Senta, ma perché Salvini ha rotto? Davvero “solo” per capitalizzare il consenso?
Questo è ciò che ha detto lui. Ma è un alibi. La verità è che noi per domani 14 agosto, nella ricorrenza del crollo del Ponte Morandi, avevamo pronto il decreto legge per togliere lo scudo legale ai concessionari autostradali. Così sarebbero finiti nella morsa dei tribunali amministrativi, che avrebbero dichiarato quelle clausole come vessatorie e avrebbero così fatto decadere le concessioni autostradali. E i leghisti lo sapevano. Ma c’è altro.
Prego.
Salvini vuole tornare al voto per modificare la riforma della prescrizione. L’influenza di Denis Verdini, va detto, non gli fa bene.
Lei è sembrato spiazzato dalla rottura.
Ero preoccupato, perché ogni giorno spingeva per rompere. Ma quel che conta sono i danni della sua decisione. Un nuovo governo si potrà insediare solo dal 1° dicembre. E nel frattempo non si potrà rinnovare il reddito di cittadinanza e non si potrà fare la manovra. Salvini è un irresponsabile.
Beppe Grillo è tornato a parlare con due post molto importanti. Ora guida di nuovo il M5S assieme a lei? L’ha affiancata?
Quando il Movimento viene attaccato tutti i suoi componenti si mobilitano, da Grillo in giù.
Sarà: però raccontano che lei in una riunione di pochi giorni fa con una quindicina di big abbia chiesto “scusa per gli errori” e promesso che d’ora in poi le decisioni più importanti verranno prese tutti assieme. Conferma?
Le decisioni fondamentali verranno assunte di comune accordo come è avvenuto sempre, glielo assicuro.
Il capitano diventa pure presidente
In effetti star dietro a Matteo Salvini tutti i giorni non è facile. Un giorno parla “da papà”, un giorno “da ministro”, poi “da genitore”, “da tifoso”, “da leader della Lega”, “da ultimo dei buoni cristiani”, “da italiano” e la smettiamo qui per ragioni di spazio. Mai, però, Matteo potrebbe fregiarsi di dir qualcosa “da presidente”, lui che nella vita è ormai quasi tutto, ma senza presieder nulla (almeno per il momento). Eppure il fatto sfugge alla presidente (lei sì) del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ieri durante la discussione in Aula continuava a rivolgersi a Salvini chiamandolo, appunto, “presidente”. E già tra i banchi di Palazzo Madama il dubbio si agitava: “Non è che ci siamo persi qualcosa?”. Un altro incarico, un ribaltone improvviso, una promozione per Matteo. O magari Salvini ha soltanto conquistato la presidenza di qualche Milan Club? E intanto lui che della Lega è il segretario, del Consiglio è vicepresidente, dell’Interno è ministro e di tutto il resto è solo aspirante tuttologo, grazie alla Alberti Casellati da ieri può coccolare un altro po’ il proprio ego. Quello sì, già “presidenziale” da un bel pezzo.
Cgil, Cisl e Uil tifano per un nuovo governo: “Servono risposte”
Anche i sindacati aprono a un governo alternativo a quello gialloverde. Ieri Cgil, Cisl e Uil hanno diffuso una nota congiunta per manifestare “grande preoccupazione per l’attuale situazione di instabilità politica”, che richiede soluzioni rapide: “Se non risolta rapidamente, può ulteriormente ridurre le condizioni per la crescita del Paese. È il momento della serietà, del pieno rispetto dei principi, dei valori e dei comportamenti indicati dalla Costituzione”. C’è margine dunque, secondo i sindacati, per possibilità diverse dalle elezioni immediate: “Le innumerevoli vertenze aperte al ministero dello Sviluppo economico, i problemi della pubblica amministrazione, il divario crescente tra Nord e Sud, la paralisi dei cantieri pubblici sono temi che hanno bisogno di risposte immediate, di un governo nel pieno delle sue funzioni”. Secondo i tre maggiori sindacati, devono perciò essere scongiurate manovre politiche che ritarderebbero la gestione dei tavoli più delicati: “Non si possono più aspettare le alchimie della politica”.
Conte sarà nell’aula del Senato il 20 agosto: lui pensa alla conta “come Prodi nel 2008”
Il partito del “al voto subito” guidato da Matteo Salvini incassa una prima sconfitta. L’Aula del Senato tornerà a riunirsi il 20 agosto per ascoltare le comunicazioni del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Come ha chiesto di fare l’asse che va dal Movimento 5 Stelle al Pd passando per LeU e il gruppo delle Autonomie.
“Il dibattito della poltrona”, urla Ignazio La Russa quando il tabellone di Palazzo Madama certifica con 162 voti l’esistenza di una nuova maggioranza (assoluta) in Senato. Certo, si tratta di una distesa eterogenea di sigle che dall’altra parte si ritrova un altrettanto improbabile centrodestra vecchia versione che chiedeva di portare già oggi pomeriggio al voto, subito dopo la commemorazione delle vittime del Ponte Morandi a Genova, la mozione di sfiducia nei confronti del premier presentata dalla Lega.
Ora questa piccola vittoria sul calendario potrebbe assumere ben altri significati. Perché nomi di primissimo calibro del Pd chiedono che Nicola Zingaretti benedica un patto con i grillini che valga per l’intera legislatura. E Matteo Renzi, rinvigorito dallo scontro con l’altro Matteo (che è il mattatore del momento e quindi l’avversario da battere), fa appello alle “forze responsabili” che non vogliono precipitarsi alle urne. E si spinge a dire che non esistono pregiudiziali nei confronti di Giuseppe Conte.
La via è stretta ma nemmeno tanto: basterà vincere le resistenze di chi nel Movimento si ostina a chiedere di non fare patti con i dem: per una “questione di sopravvivenza, i nostri elettori non capirebbero”, dicono dopo una riunione di gruppo al Senato, quanti tra i 5 Stelle preferiscono mettere in conto una sonora sconfitta alle urne.
Ma c’è pure il sospetto, che in realtà l’accordo possa avere come condizione del Nazareno che Luigi Di Maio faccia un passo indietro. Insieme alla sua cerchia di fedelissimi che nei mesi scorsi hanno attaccato ferocemente il Pd, “il partito di Bibbiano” troncando il filo del dialogo che invece qualcun altro tra i grillini ha sempre mantenuto. Ma l’accordo anti-Salvini “con chi ci sta” sono in molti a volerlo nel Movimento, specie dopo la benedizione di Beppe Grillo. E, salvo sorprese, potrebbe prendere corpo nei prossimi giorni materializzandosi il 20 agosto. E cioè nel giorno delle comunicazioni del premier.
Conte mette nel conto, anzi desidera, che si voti sulle risoluzioni che verranno presentate in aula: vuole sapere chi gli voterà contro come Romano Prodi nel 2008. O se esiste eventualmente una maggioranza chiara e definita, disponibile a sostenerlo per dare vita a un Conte bis: un governo minimale che faccia la manovra per evitare l’esercizio provvisorio e sterilizzi gli aumenti automatici dell’Iva. Già nei prossimi giorni, invece, l’ex “avvocato del popolo” dovrà indicare a Ursula von Der Leyen il commissario europeo che spetta all’Italia: sarà di altissimo profilo istituzionale, cioè un nome che dispiacerà assai alla Lega.
Il partito del non voto, e in Parlamento non si parla d’altro, può avere dalla sua anche certe considerazioni meno nobili: a primavera vanno rinnovati i vertici delle principali società dello Stato e, nel 2022, tocca al successore di Sergio Mattarella. Il sospetto degli stessi senatori di centrodestra è che questa sventagliata di poltrone non sia estranea alla decisione di Salvini di accelerare la crisi.
“Quella coi 5 Stelle era un’alleanza innaturale, ma così fa un grande regalo al Pd e agli stessi grillini” è la constatazione di un forzista navigato durante la lunga attesa di ieri a Palazzo Madama. Stesso ragionamento dalle parti di Fratelli d’Italia. “La Lega ora uscirà dalla stanza dei bottoni, ossia da palazzo Chigi e pure dai ministeri, mentre l’atteso plebiscito che avrebbe dovuto consegnare pieni poteri a Salvini, si allontana”. Gli aspiranti alleati di Salvini si interrogano: “O teme l’inchiesta di Milano o semplicemente ha fatto una cazzata”.
Matteo spariglia e spera in Zinga, ma il M5S dice no
Lo spread, per così dire, tra un leader ancora in sella e uno disarmato ieri s’è visto in Senato. A Palazzo Madama nel pomeriggio Matteo Renzi, in una irrituale conferenza stampa, ha tentato di nuovo di accreditarsi come regista politico del prossimo governo. Quando ormai era sera Matteo Salvini l’ha usato come punching ball per l’ennesima mossa a sorpresa della sua crisi di governo ferragostana: “Abbiamo accettato la sfida del taglio dei parlamentari. Da Di Maio mi aspetto coerenza. Poi se uno taglia e fa l’inciucio col Pd, lo spiegherà al Paese…”.
Una mossa (col trucco, come vi raccontiamo qui accanto) che mira a bloccare sul nascere qualunque ipotesi di governo tra M5S e Pd e finisce per mettere all’angolo il capo politico grillino, “amico e collega” lo chiama Salvini in aula. L’oggetto di tali calorosi appellativi, Di Maio, non ha gradito: “Per me l’amicizia è una cosa seria e soprattutto, i veri amici sono sempre leali…”.
Nel merito il Movimento, che aveva proposto il taglio immediato dei parlamentari come precondizione per andare a votare, ora si rifugia nei cavilli: “Prima la Lega ritiri la mozione di sfiducia a Conte”. L’inversione di rotta – che testimonia quanto la trattativa coi vari pezzi del Pd sia ormai avanzata – viene certificata non tanto dal voto sul calendario nell’aula del Senato, ma da quello nella riunione dei capigruppo della Camera, che si doveva occupare proprio della riforma costituzionale che cancella 345 parlamentari. I grillini avevano raccolto le firme per chiedere l’anticipazione del voto a stamattina: poi nella capigruppo devono averci ripensato, perché la decisione è stata di rinviare tutto al 22 agosto, giovedì prossimo, e solo dopo aver consentito a Giuseppe Conte, il giorno prima, di riferire sulla crisi in atto anche a Montecitorio. È evidente che se al termine di quelle comunicazioni il governo dovesse formalmente cadere, allora pure il voto sula riforma verrebbe rinviato (peraltro finora per il sì erano solo Lega-FdI, il Pd votava no).
Tradotto: l’offerta di Salvini è stata rispedita al mittente e gli “scappati di casa” e “il partito di Bibbiano” – come si chiamavano vicendevolmente fino a poco fa – si danno un’altra settimana per far decantare la crisi, vedere che succede, annusarsi e infine, più in là, mettere assieme qualcosa che consenta alla legislatura di non morire subito.
La cosa ha avuto, in questi giorni in Senato, evidenze persino antropologiche, tipo il duo di grillini abruzzesi Castaldi e Lannutti in amorevoli conversari con D’Alfonso, già governatore abruzzese per il Pd, che bontà sua non ricorda più gli epiteti di cui lo omaggiarono i suoi nuovi amici all’epoca di certe inchieste d’antan. Insomma, l’accordone va avanti e stuzzica peones e gruppi dirigenti: tutti sperano di avere una parte in commedia. Prendiamo Giuseppe Conte, che ieri s’è palesato ai giornalisti in quel di Foggia: “Conta chi lavora nell’interesse del Paese, non conta il colore politico”. E sia chiaro che non è un premier per tutte le stagioni, ma per moltissime sì: tanto più che ieri, sulla sua gita a Palazzo Madama, ha visto materializzarsi sul tabellone del voto una maggioranza tutta nuova.
L’unico che guarda con sospetto la via su cui s’è messo il suo partito – ieri si sono accodati al “governo di legislatura” anche gli ex ministri Dario Franceschini e Maurizio Martina – è Nicola Zingaretti, che vorrebbe andare alle elezioni. Non è un caso che solo a lui è dedicata una carezza nel discorso di Salvini in Senato: pare che ministro e governatore abbiano abbattuto insieme – non si sa se a mani nude – “le ville dei Casamonica”, guadagnandosi l’odio del clan. Il povero Zinga prova a resistere mettendo alta l’asticella: niente Conte, né Di Maio e soci nel prossimo governo. Ma quando si apre, non si sa mai quando si potrà chiudere e chi sarà a farlo.
Il trucco di Salvini: taglio agli eletti, ma dal 2024…
A Matteo Salvini non manca il senso del teatro e il Senato è un palcoscenico che si presta. Il capo della Lega, fiutato il pericolo di essere messo all’angolo da un governissimo Pd-5Stelle, prova a uscirne lanciando un amo agli ex alleati: “Ho sentito l’amico e collega Luigi Di Maio più di una volta ribadire in questi giorni ‘votiamo il taglio di 345 parlamentari e poi andiamo subito al voto’. Prendo e rilancio: tagliamo i parlamentari la prossima settimana e poi andiamo a votare il giorno successivo”.
La trovata di Salvini non è priva di una sua eleganza tattica. Se andasse in porto, la Lega toglierebbe un grosso alibi a dem e grillini: la riforma costituzionale che riduce del 36,5% il numero degli eletti è l’argomento più usato per giustificare la prosecuzione della legislatura. La capigruppo ieri ha deciso che la quarta e definitiva lettura sarà alla Camera giovedì 22 agosto. Anche se approvata, la legge non si applicherebbe all’imminente tornata elettorale: come recita l’articolo 4, le disposizioni sarebbero valide “non prima che siano decorsi sessanta giorni dalla predetta data di entrata in vigore”. Per Salvini sarebbe la tempesta perfetta: la riforma andrebbe in porto (e lui potrebbe prendersi buona parte del merito) ma produrrebbe i suoi effetti solo nella legislatura successiva alla prossima; non ci sarebbe quindi bisogno di attendere il nuovo disegno dei collegi elettorali (per cui servono mesi) o l’eventuale referendum prima di convocare le nuove urne.
L’introduzione “a scoppio ritardato” del taglio sarebbe un tocca sana anche per ragioni economiche. La Lega è un partito con una certa difficoltà di bilancio per via delle note storie di Tribunale. Ecco, in questo senso, il taglio dei seggi in Parlamento sarebbe anche un grosso danno finanziario per le casse di Salvini e soci.
Il calcolo che segue, spannometrico, si basa sulle donazioni fatte dai suoi eletti (una media di 30mila euro l’anno, anche se molti versano di più) e i fondi garantiti per il funzionamento dei gruppi parlamentari dalle due Camere (attualmente circa 9,5 milioni l’anno totali per la Lega).
Come realizzare una stima della perdita? Abbiamo deciso di usare i numeri di Youtrend – basati sulla supermedia dei sondaggi – sul prossimo Parlamento in caso si votasse oggi. Molto dipende dall’eventuale alleanza (da sola, solo con Fdi o anche con Forza Italia): anche in questo caso abbiamo scelto un valore medio.
Ecco il calcolo: se non entra subito in vigore il taglio dei parlamentari, la Lega, accreditata di un 36% abbondante, potrebbe eleggere 270 deputati e 140 senatori, oltre il 40% delle prossime Camere grazie all’effetto maggioritario dovuto alla soglia di sbarramento e ai collegi uninominali.
Ora passiamo ai soldi: le donazioni degli eletti al partito passerebbero da 5,5 milioni a 12,3 milioni l’anno (da 27,5 a 61,5 milioni in una legislatura); i contributi ai gruppi parlamentari da 9,4 a 21,2 milioni (da 47 a 106 milioni nella legislatura). Insomma un tesoro totale aggiuntivo, rispetto a oggi, di 18,6 milioni all’anno (93 milioni in cinque anni).
Il successo della Lega – con questi sondaggi – sarebbe tale da migliorare le sue entrate persino col taglio dei parlamentari subito in vigore: calcolando 172 deputati e 88 senatori, le donazioni degli eletti passerebbero a 7,8 milioni, i contributi ai gruppi a 13,4 milioni: oltre sei milioni l’anno in più rispetto a oggi (da 15 a 21,2 milioni) ma 12 milioni e dispari in meno di quanto la Lega incasserebbe lasciando tutto com’è. La legislatura “di ritardo” con cui entrerebbe in vigore il taglio, per il Carroccio, vale quindi 60 milioni abbondanti di euro. Visto l’assai noto debito con l’erario, non è un dettaglio trascurabile.