L’incubo

Dopo molte notti insonni, Salvini si coricò e, complici sette mojito e una cannetta furtiva, si addormentò. Sognò se stesso in Senato, ma non più ai banchi del governo. Assisteva impotente alla nascita del Conte-2, con ministri incensurati di M5S, Pd e sinistra e un Contratto innovativo: legalità, politiche sociali, investimenti nella green economy, nel turismo, nel riassetto del territorio e nella cultura anzichè nelle grandi opere inutili tipo Tav, gestione rigorosa e integrata dell’immigrazione, meno tasse al ceto medio e carcere agli evasori, patrimoniale ecc. Renzi, salvata la truppa, se ne stava nascosto con i Lotti e le Boschi. I 5Stelle non litigavano col centrosinistra che non litigava coi 5Stelle e – ciò che era più stupefacente – neppure al proprio interno. La coalizione lavorava molto e parlava poco, ben avviata a reggere fino al 2023 e, prima, a rieleggere Mattarella. Gli italiani, felicemente sorpresi da tanta anomala normalità, non cercavano più uomini della Provvidenza. Conte, al 90% di popolarità, andava d’amore e d’accordo con la Von der Leyen, che gli concedeva un po’ di flessibilità, anche perché ora la prima a chiederla era la Germania. M5S e Pd veleggiavano nei sondaggi sul 30 ciascuno, mentre la Lega era tornata al 17.

Lui, Salvini, continuava a fare dirette Facebook, ma le vedevano quattro gatti (dalla Bestia alla Bestiolina), con i like in picchiata. L’iPhone, prima rovente per le richieste di interviste, era mestamente muto. Le ultime due chiamate lo avvertivano che un emissario di Putin aveva chiesto di parlare urgentemente con i pm di Milano e che il Parlamento li aveva autorizzati a sequestrare e aprire il pc di Siri. Poi ne arrivò una terza: Giorgetti, Zaia, Fontana e un redivivo Bossi lo convocavano per un processo pubblico sul prato di Pontida: “Cazzaro che non sei altro! Fino a luglio da vicepremier eri il padrone d’Italia col 36%, avevi ministeri importanti, i 5Stelle ti avevano approvato perfino quella boiata del Sicurezza-bis, stavi per strappare il commissario Ue, le autonomie regionali e la Flat Tax. I pieni poteri li avevi per davvero. Ora, da quando li hai chiesti, non conti più un cazzo: ci hai trascinati all’opposizione, hai perso tutto e l’hai fatto perdere pure a noi. A parte quei 50 disgraziati che abbiamo eletto all’Europarlamento per spaccare tutto e non servono a una mazza, visto che non se li fila manco Orbàn. Hai fallito: non sei più il segretario della Lega, però puoi fare il presidente onorario del Papeete Beach”. Qui Salvini si svegliò tutto sudato. Afferrò il primo rosario che aveva a tiro e subito si rincuorò: “Fortuna che il Pd è il Pd e il M5S è il M55, sennò era tutto vero!”.

Parigi molla Neymar, il “grande incompiuto”

Se all’Inter hanno degradato sul campo Mauro Icardi per una frase poco simpatica detta in tv dalla moglie e procuratrice Wanda Nara (“più che un ritocco all’ingaggio, vorrei giocatori capaci di dare più palle gol a Maurito”), che avrebbe dovuto fare il Psg dopo che Neymar – acquistato nel 2017 dal Barcellona per 222 milioni (l’acquisto più caro della storia del calcio) e stipendiato a 36,8 milioni a stagione – ha dichiarato: “Il ricordo più bello della mia carriera? Il 6-1 inflitto al Psg quando giocavo nel Barcellona”? Insomma, diciamolo: la contestazione che il 27enne brasiliano ex Santos ha ricevuto domenica, pur non essendo né in campo né in tribuna, durante Psg-Nimes 3-0, prima giornata del campionato francese, è il minimo che “O Nei” avrebbe dovuto attendersi. Nemmeno convocato dall’allenatore Tuchel, Neymar sta attendendo di tornare a giocare in Spagna: o al Barcellona, con cui vinse la Champions 2015 segnando anche un gol nella finale vinta 3-1 contro la Juventus (il Barça offre Coutinho più 80 milioni), oppure al Real Madrid, anche se Zidane pare non stravedere per lui.

Nasser Al-Khelaifi, presidente e boss qatariota del Psg, aveva portato “O Nei” sotto la Tour Eiffel due estati fa, pagandolo a peso d’oro, con un unico e dichiarato obiettivo: vincere la Champions League, che al Psg sognano di notte come da noi accade solo alla Juventus. Ma la sfortuna si è messa subito di mezzo: il 25 febbraio 2018, prima stagione, Neymar si fa male contro il Marsiglia fratturandosi il quinto metatarso del piede destro e andando incontro a tre mesi di stop. Nella seconda stagione, a gennaio, “O Nei” s’infortuna nuovamente al piede destro, suo vero tallone d’Achille, e deve saltare l’ottavo di finale col Manchester United che per il Psg si trasforma in una Waterloo: complice anche una papera di Buffon, i francesi dilapidano il 2-0 dell’andata e perdono 3-1, venendo eliminati.

Tra campionato e coppe, in due stagioni Neymar ha giocato 58 partite e segnato 51 gol: moltissimi, anche se la Ligue 1 non è la Liga o la Premier League. Al di là dei numeri, però, “O Nei” non è riuscito a scrollarsi di dosso l’etichetta di “Grande Incompiuto” che lui per primo desiderava togliersi: pensava che in Spagna a fargli ombra fosse Messi e in Francia era andato per splendere finalmente di luce propria. Invece non è successo. Anzi, Neymar ha trovato sulla sua strada un ragazzino di 7 anni più giovane, Mbappè, che oltre ad essere francese, quindi più amato, lo ha surclassato anche sul piano dei gol e delle giocate. E se in Spagna tutti guardavano a Messi e non a Neymar, a Parigi tutti guardano a Mbappè e non a Neymar. Che ha perso serenità e gioia di vivere. Voleva diventare “O Rei”, come l’immenso Pelé; forse dovrà accontentarsi di passare alla storia col soprannome di sempre, “O Nei”. Niente di che, appunto.

La resistibile ascesa di Martin Eden, ucciso dal successo

In C’era una volta in America resta nella memoria, in uno dei salti temporali del capolavoro di Sergio Leone, una scena nella quale il giovane protagonista Noodles si chiude la porta del bagno alle sue spalle e allunga la mano verso un libro che si rivela essere Martin Eden di Jack London. Il romanzo, prima uscito a puntate e poi pubblicato in volume nel 1909, è un classico della letteratura americana continuamente ristampato e amato da generazioni di lettori.

A 110 anni dalla sua uscita (la prima traduzione italiana è però datata 1925) ritorna al cinema non più come amato feticcio di un’inquadratura ma in una versione in salsa partenopea – dalla California originale alla Napoli di inizio Novecento – firmata dal regista Pietro Marcello. La pellicola, con protagonista l’attore Luca Marinelli e in concorso alla prossima Mostra del Cinema di Venezia, segue due adattamenti hollywoodiani del ’14 e del ’42 e una miniserie tv Rai del ’79.

“Martin Eden è il romanzo degli autodidatti, di chi ha creduto nella cultura come strumento di emancipazione”, ha dichiarato in un’intervista Marcello. La trama, a distanza di un secolo, conserva in effetti tutto il suo struggente potere di seduzione e come dimostra il film di prossima uscita – convertiti ambientazione e personaggi – la parabola di formazione del marinaio ucciso dal successo è intatta perché il paradigma del fallimento resta attuale: non sempre realizzare i propri sogni coincide con il raggiungimento della felicità.

Martin Eden, un giovane marinaio, salva la vita a un ragazzo della buona borghesia di San Francisco. In segno di gratitudine questo lo presenta alla famiglia e alla sorella Ruth. Tra la ragazza e il giovane marinaio scatta subito un’attrazione, ostacolata però dalle differenze di classe. Un po’ per farsi accettare, un po’ perché sedotto da quel milieu borghese, Martin decide di affinare la propria cultura. Da giovane rozzo e incolto, in anni di studio serrato si trasforma in scrittore di successo. Sembra finalmente realizzata quell’ascesa sociale tanto agognata ma in Martin, vittima dell’ipocrisia imperante, affiora la vergogna di venire esaltato e vezzeggiato da quelli che prima reputava nemici di classe. Disilluso, si suicida affogandosi in mare.

Il mito intramontabile di Martin Eden – da cui il poeta russo Majakovskij trasse una riduzione teatrale e che fu lettura di culto per la leva beat di Kerouac e di Ginsberg fino a essere oggi livre de chevet di un autore popolare come Federico Moccia – riposa sulla sovrapposizione biografica con il suo autore Jack London, di cui non si contano più i volumi biografici a lui dedicati.

In quarant’anni di vita, nato nel 1876 e morto nel 1916, lo scrittore californiano esercitò i mestieri più disparati: rivenditore di giornali, lavandaio, spalatore di carbone, facchino, cercatore d’oro… E scrittore soprattutto, al ritmo di mille parole al giorno, in un titanismo da self-made man che annovera cinquanta libri, centinaia di racconti, un migliaio tra articoli e reportage. Ma il riscatto grafomane gli porta in dote l’accusa di “scrivere male”, retaggio critico dei fondatori della nostra americanistica. Pavese e Vittorini giudicavano rozza e volgare la sua prosa.

Se Hemingway e Fitzgerald si sono contesi gli scaffali nobili della narrativa di oltreoceano, ecco che i romanzi di London spesso sono rimasti confinati in quelli della narrativa per ragazzi grazie a due titoli celeberrimi e forse fraintesi come Il richiamo della foresta (Oriana Fallaci dichiarò sempre il suo debito di riconoscenza per questo romanzo, eleggendolo come decisivo per la sua vocazione alla scrittura) e Zanna Bianca.

London, forse lo scrittore Usa più tradotto al mondo, ha avuto però nel corso del Novecento un novero nutrito di ammiratori e tutti prestigiosi: Lenin prima di morire leggeva le sue pagine, Gramsci chiedeva i suoi libri dal carcere di Turi, Che Guevara deve probabilmente il suo nome al protagonista del suo Tallone di ferro.

Goffredo Fofi, forse il nostro critico più fedele e appassionato dell’opera dell’autore statunitense, ha scritto: “London è tornato a essere attuale, tremendamente attuale, e la storia del rozzo marinaio Martin Eden che, affascinato dalla cultura e dalla borghesia diventa scrittore di successo e verifica allo stesso tempo e sulla propria pelle sia l’ipocrisia che la borghesia nasconde sia la durezza dei meccanismi editoriali e mediatici, è ancora una storia esemplare, che in modi diversi ma secondo meccanismi che sono assai simili e forse sempre gli stessi, continua a ripetersi”.

Il tuo bacio è come un rock: divino e maledetto

Il cactus è la pianta che meglio esprime l’epopea del rock’n’roll e la sua relativa seduzione: le spine rischiano di pungere chiunque tenda all’ascolto, a immergersi nella vita degli artisti. È peraltro evidente che il fuoco generato dal Santo Graal del rock sia stato veicolato soprattutto dalle grandi coppie maudit più rappresentative. È questo il gancio sviluppato con cura e dovizia di particolari da Elisa Giobbi nel suo Love & Music Stories – Le storie d’amore più belle della musica, in libreria dal 28 agosto con Odoya.

Se negli anni Cinquanta era Elvis Presley a tenere banco con il suo carisma da demiurgo rockabilly e il suo ciuffo quale marchio di fabbrica – e la sua preferenza per le ragazzine in mutandine bianche –, dagli anni Sessanta si sono succeduti amori passati da un testimone all’altro, basti ricordare Janis Joplin con le sue frequentazioni promiscue (Jim Morrison, Leonard Cohen, Jimi Hendrix) e più tardi Nico (con Lou Reed, Dylan, ancora Jim Morrison e Cohen, Iggy Pop o Brian Jones). Sono slanci vitali, incontri fecondi, spesso fucina di canzoni poi entrate nella storia della musica, oppure solo capricci fatti di refrain validi per una sola estate. Stravaganti e bizzarri connubi per celare solitudini o sessualità represse (Michael Jackson, lo stesso Presley, Freddy Mercury) o tradimenti dolorosi con ferite mai rimarginate (Pattie Boyd da George Harrison a Eric Clapton).

E poi ci sono le due coppie icone degli snodi delle correnti musicali più ispirate, quelle che hanno lasciato il segno indelebile: il ’68 di Yoko Ono e John Lennon e il punk del ’77 con Sid Viciuos e Nancy Spungen. Se l’ultima citata è la coppia con il finale più tragico – l’accoltellamento di Nancy nella vasca da bagno del Chelsea Hotel –, quella tra Ike e Tina Turner è l’esempio fulgido di una emancipazione femminile portata avanti con tenacia e sacrifici, sfociata in una carriera solista di grande successo. Storie d’amore e musica diventate leggendarie per la loro carica emotiva e creativa, tali da forgiare, nel tempo, la carriera artistica di ciascun componente, come nel caso di Patti Smith e Robert Mapplethorpe. “Patti incontra Robert nell’estate del 1967”, racconta Giobbi, “in uno dei suoi primi viaggi nella grande Mela, mentre lui si sta facendo un trip con un acido. Entrambi sono profondamente devoti all’arte. Restano alzati tutta la notte per dipingere e ascoltare dischi in loop nel loro appartamento di Hall Street a Brooklyn, perdendosi nel disegno e nelle note, tracciando pennellate sulla tela come ossessi, finché l’alba non li sorprende abbracciati, vinti dal sonno. All’inizio della loro storia d’amore sono così poveri che dormono per strada. Eppure quando si svegliano, aprono gli occhi e vedono il volto dell’altro, sanno che non sono soli e che insieme ce la faranno. Non sbagliano: raggiungeranno il successo contemporaneamente, a metà degli anni Settanta. Robert come artista e fotografo e la Smith come poetessa del rock”.

Dal circolo virtuoso di Patti e Robert si passa all’abisso generato da incontri fortemente distruttivi, quello di Nancy e Sid. “Nancy insegna a Sid tutto sul sesso, le droghe, lo inizia all’eroina e allo stile di vita del perfetto rocker maledetto. Nonostante l’avversità della band dei Sex Pistols: Lydon cerca di tenere lontana Nancy dal suo amico e pure gli altri membri della band la detestano, la disprezzano, la trovano insopportabilmente prepotente, incredibilmente fastidiosa e viziata, tanto che la bandiscono dal tour del ’78. Ma Sid non l’abbandona, lei è il primo e unico amore della sua vita”.

La figura della mantide che divora l’uomo dopo averlo usato, simbolo del potere femminile negativo era esplosa dieci anni prima con la dirompente compagna di John Lennon. Yoko Ono ha rappresentato l’odio-amore dei fan dei Beatles, per alcuni astro dell’evoluzione del compositore e per altri colei che ha vissuto artisticamente di luce non propria. “Mentre sua moglie (Cynthia Powell, ndr) è in vacanza in Grecia, Lennon invita la Ono a registrare da lui. Trascorrono la notte a incidere e poi, all’alba, fanno l’amore. È la musica a far decollare il loro legame: il sentimento nasce intorno al loro primo album sperimentale e piuttosto inascoltabile, Two Virgins. Quando Cynthia torna a casa, trova la Ono con indosso il suo accappatoio mentre fa colazione sorseggiando tè verde con suo marito, che, quando la vede, le dice soltanto ‘Oh, ciao’”.

All’opposto della figura della Ono c’è Priscilla Presley: “Priscilla gioisce della possibilità di essere una vera moglie secondo i valori del tempo: cucinare, pulire e lavare per il marito. È felice: per lei Elvis è tutto, lo venera come un Dio. La canzone Personal Jesus dei Depeche mode del 1990 è stata ispirata proprio dal libro di Priscilla Elvis e io, la mia vita con un mito”. Secondo il cantautore Martin Gore Personal Jesus “è una canzone che parla dell’essere come un Gesù Cristo per qualcun altro, qualcuno che ti dà speranza e attenzione. Parla di come Elvis Presley sia stato il suo uomo e il suo mentore e quanto ciò avvenga nelle relazioni amorose; come il cuore di tutti sia in qualche modo un dio, una visione non molto equilibrata”.

Italo e il bus chiamato desiderio: di scendere

Di estivo in questa cartolina c’è solo il caldo. Quello torrido che sta mettendo a dura prova romani e turisti in questi giorni di agosto. Sulla linea 81 che da Lodi porta alla redazione del Fatto ci sono solo poche fermate, ma è sufficiente per fare due chiacchiere con Italo. “C’ho 91 anni e ho visto tutto: i fascisti, ‘e guere e pure i nazisti a Roma”. Cita Lenin, si lamenta della democrazia e del sistema tramviario di Roma. Tutto si mescola. Un panegirico difficile da seguire e con qualche imprecisione, ma alla sua età è concessa. Il “compagno” Italo sciorina episodi con sorprendente lucidità. Le ultime occasioni perse dalla sinistra italiana si mischiano a grandi vicende internazionali. Da Bersani a Trotsky è un attimo.

Mentre l’autobus passa davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano, la sua narrazione cambia. Assume un tono nuovo, quasi scomodo. Inizia così una strana deriva. L’amministrazione Raggi, i municipi, le olimpiadi. La stampella a cui si aggrappa passa con un gesto rapido nella mano destra e mi mostra l’avambraccio libero. Ha una piccola fasciatura. “O sai che uno m’ha dato un morso qualche giorno fa? Nun l’avevo mai visto e me s’è buttato addosso. Era nero, uno de quelli che so arrivati pe pjasse er sussidio der Vaticano”. Sto per scendere dall’autobus, sono quasi a destinazione. Italo però ha un’ultima chicca da regalarmi. “Purtroppo e cose so’ cambiate. Doemo cambià pure noi. E sinceramente regazzì, nu né che Sarvini c’ha tutti i torti”. Una pausa. “Vabbè lassa perdè, nun ce fa caso. Sarà il caldo che me sta a dà alla testa. O forse so sti c… de autobus. Ma ‘ndo stamo qua? Io dovevo scenne, porca de quea m…”.

“I love shopping”: anche l’orso ama le vetrine. Delle gelaterie soprattutto

Chi da piccolo ha creduto che l’orso Baloo de Il libro della giungla camminasse a due zampe, parlasse e allevasse un cucciolo d’uomo (il piccolo Mowgli), non si stupirà nello scoprire che la sera di ieri l’altro a Scanno, in provincia de L’Aquila, un simile del personaggio di Rudyard Kipling si è mescolato ai turisti e agli abitanti che passeggiavano nella piazzetta al centro del paese.

Un orso, dunque, verso le dieci della sera – senza tanti rugli o bramiti – ha deciso di farsi una bella capatina nel borgo abruzzese e avvicinarsi curioso alle vetrine illuminate dei negozi in Via Foce. Ma tra gli esercizi dello shopping serale, uno sembra averlo attirato maggiormente. Non cerca un negozio d’abbigliamento, è certo: cosa se ne farebbe di un caldo cappotto, di un avvolgente maglione o di una colorata t-shirt? È un orso moderno, che si mostra mondanamente in città, ma non rinuncia all’atavica nudità. No, voleva entrare in una gelateria. C’è chi si è spaventato, chi solo stupito o sorpreso e chi – invece – ha prontamente tirato fuori il cellulare per immortalare e condividere (verbo ormai imperante nella democrazia dell’immagine) l’avvenimento. In poco tempo, sui social scattano i video dell’animale, le storie, gli hashtag e i selfie con l’orso, che finiscono, loro però davvero, per spaventarlo e indurlo alla fuga. Peccato, dicono gli scannesi, alla fine voleva solo un gelato.

Viaggia, fotografa, posta: vita (grama) da recensore forzato

Si parte da semplice “Tourist” per arrivare a “Expert”, poi a “Guru”, infine a vera e propria “Authority”: sono i livelli previsti dalla comunità di viaggiatori Adventure Travelers Tribe (del tour operator “SkyScanner”), per chi recensisce meglio e con più lena hotel, ristoranti e monumenti. Il sito “Travellerspoint” – più di 175.000 racconti di viaggio e oltre 1,4 milioni di foto postate – fa molto di più, invitando i viaggiatori a creare lì un vero e proprio blog di viaggi, caricare foto illimitate, contribuire a scrivere una guida o diventare dei “Travel Helper”, coloro che aiutano gli altri a pianificare i viaggi. Il tutto per il piacere di “conoscere persone nuove”.

È una tendenza inarrestabile: i grandi e medi portali di viaggi web esortano il viaggiatore medio in mille modi a recensire qualsiasi cosa incontri. “Hai mangiato alla grande? Hai visitato un parco incredibile?” Non tenertelo per te, dillo, anzi scrivilo e aggiungi foto e video. E già che ci sei, suggeriscono quasi tutti, studiati i tutorial per farlo meglio. Si fa leva sul desiderio di visibilità – “2000 persone hanno letto la tua recensione!” – ma anche su quanto sia magnifico aiutare gli altri.

Molti, gli italiani sono in prima fila, non si fanno pregare, tanto che ci sono recensori che arrivano a postare migliaia di contenuti all’anno, tra opinioni e foto. Per invogliare gli altri, e trasformare il recensore una tantum in “contributor a tempo indeterminato”, i tour operator del web si sono inventati arzigogolati sistemi di punteggi. Ad esempio, il programma Local Guides di Google ti fa guadagnare 10 punti per ogni recensione, 5 per una foto, 7 per un video, 15 per un luogo o strada aggiunti e così via. Accumulando i punti, si passa ai livelli superiori. Sui vantaggi, però, Google si mantiene sul vago. “Raggiungere livelli più alti nel programma” (lapalissiano), oppure “accedere in anteprima a nuove funzioni Google e vantaggi esclusivi dei partner”, ottenere il badge di “Local Guides”. Anche il programma Trip Collective di Trip Advisor – portale che un anno e mezzo fa contava 570 milioni di contenuti sul sito – ti premia ogni volta che aggiungi recensioni, foto, post, video, con dei punti o veri e propri distintivi virtuali. L’azienda accenna in verità anche a possibili quanto vaghi “omaggi e premi ad estrazione” per dimostrare la propria “gratitudine ai tanti viaggiatori attivi nella community di Trip Advisor”. L’unica che promette qualcosa da stringere tra le mani è la app Minhube dove, condividendo le tue esperienze di viaggio, si può vincere il “pacchetto esploratore”, una felpa e un taccuino “perfetti da portare con te nella prossima avventura”.

Ma dove sta il problema, visto che, in teoria, sono le recensioni a pagamento a generare scandalo? Il fatto è che questo flusso di contenuti autentici, e soprattutto gratis, proprio come per i social network, non dà nulla a chi li produce ma genera utili solo a chi li riceve. I tour operator si trovano percorsi di viaggio già fatti. Siti come Booking o Trivago organizzano degli Awards per le strutture basati sulle recensioni. Ancora più concretamente, Trip Advisor ha pensato a un servizio Premium per i ristoranti, a pagamento, che si basa proprio sulla possibilità di mettere in evidenza le migliori recensioni. Recensioni che, però, lo stesso portale non può garantire come “autentiche e vere”, come ha stabilito lo scorso 15 luglio il Consiglio di Stato, stabilendo che di fatto Trip Advisor non è in grado di verificare i fatti. E che una recensione non può mai equivalere al lavoro – pagato – di un esperto.

Rachid e i suoi fratelli: gli undici dell’indipendenza algerina

Il 26 luglio scorso in Algeria c’era ancora aria di festa e rivoluzione, anche se per alcuni è stato un giorno di lutto. Una settimana prima i “fennec”, i calciatori della nazionale, avevano battuto il Senegal nella finale della Coppa d’Africa. Nel Paese nordafricano, ma anche in alcune città francesi, erano cominciate le celebrazioni: fuochi d’artificio, feste e caroselli nelle strade, cori da stadio come quelli che da mesi vengono intonati nelle proteste contro l’ex presidente Abdelaziz Bouteflika, proteste animate proprio da gruppi ultras della capitale.

La Casa del Mouradia, ad esempio – inno dei tifosi dell’Usm Algeri che associa la Casa de papel alla Mouradia, il palazzo presidenziale – è uno canti di protesta più popolare, segnale di un connubio, quello tra calcio e politica, che in Algeria ha origini antiche. Origini di cui Kaddour Bekhloufi, morto proprio il 26 luglio scorso all’età di 85 anni, è stato un testimone. “Un fratello nella battaglia, un militante sincero e impegnato nella lotta di liberazione condotta dai calciatori professionisti, che non hanno esitato un solo istante a rispondere all’appello della patria e al dovere, mettendo volontariamente tra parentesi le loro carriere”: così ha descritto Bekhloufi un ex compagno di squadra, Mohamed Maouche, componente della Fédération algérienne de football e presidente della fondazione che ricorda le gesta della squadra del Front de libération nationale, il movimento rivoluzionario che dal 1954 si batteva per porre fine al colonialismo francese. Erano loro i precursori della Nazionale algerina vincitrice della Coppa d’Africa. Erano gli “undici dell’indipendenza”.

Primavera 1958. Il Fln da quattro anni è impegnato nella guerra contro il colonialismo francese. L’anno precedente Parigi aveva assestato un duro colpo, quello descritto da Gillo Pontecorvo ne La battaglia di Algeri, Leone d’Oro a Venezia nel 1966. Dopo quella sconfitta qualcuno ha un’idea bislacca: creare una squadra di calcio che giri il mondo come testimonial della lotta per l’indipendenza, raccogliendo intanto fondi. Ma come? I migliori sono quasi tutti calciatori professionisti in club francesi, molti in squadre importanti come Monaco, Olympique Lyonnais, Saint Etienne, Tolosa. Alcuni nell’estate del 1958 potrebbero addirittura indossare la maglia della Francia ai Mondiali in Svezia…

La missione è affidata a Mohamed Boumezrag, dirigente della Fédération française de football (Fff) che conosce tutti i calciatori (suoi conterranei) in Francia e sa su chi può contare. Come Abdelaziz Ben Tifour, ottimo giocatore del Monaco che raccoglie la “tassa rivoluzionaria” tra i sostenitori del Fln a Nizza. Con lui in squadra ci sono anche Moustapha Zitouni e il giovane Bekhloufi, arrivato nel club del Principato nel 1956, dove si era fatto apprezzare con un gol nella partita del suo esordio sotto gli occhi di Ranieri III di Monaco e della moglie Grace Kelly.

Il 12 aprile, dopo una partita contro l’Angers, i quattro algerini del Monaco e altri due della squadra rivale partono in treno per andare a Roma e prendere un volo verso Tunisi, sede del governo provvisorio della Repubblica algerina. Fugge anche un astro nascente del calcio, Rachid Mekhloufi, che ha vinto il campionato con il Saint-Etienne, è già stato convocato con la Nazionale francese e, allo stesso tempo, sta svolgendo la leva militare. La sera dell’11 aprile 1958 indossa la maglia dei Verts per una partita contro il Beziers, quando due calciatori originari di Sétif come lui – Mokhtar Arribi del Lens e Abdelhamid Kermali dell’Olympique Lyonnais – lo avvicinano: “Domani si va in Tunisia”. “Due di Sétif erano venuti a trovarmi: significava che la questione era davvero importante – raccontò Rachid a Le Monde nel 2008 –. Gli ho dato fiducia anche perché erano tra i miei idoli”. Al termine della partita, però, Mekhloufi si ferisce alla testa e finisce all’ospedale. Il loro viaggio ritarda e rischia di essere interrotto quando al confine tra Francia e Svizzera Mekhloufi viene riconosciuto dagli agenti della dogana che, fortunatamente, non sanno nulla della fuga e lasciano passare lui e i suoi compagni.

“Nove calciatori algerini (tra cui Zitouni) sono spariti”, titolava allarmato il quotidiano L’Équipe il 15 aprile. Alla fine dieci riescono a ritrovarsi all’Hotel Majestic di Tunisi e in totale trenta calciatori raggiungono il Nord Africa per unirsi alla squadra del Fln. In quegli stessi giorni a Parigi cade il governo. In Francia regna l’instabilità politica e in Algeria il disordine. Il 13 maggio ad Algeri i militari e i coloni compiono un colpo di Stato. Vogliono il ritorno al potere del generale Charles de Gaulle, che diventa presidente del consiglio il 1° giugno. Il 24 giugno in Svezia la Francia perde in semifinale contro il Brasile, che poi si aggiudica la coppa Rimet. L’équipe algerina, invece, comincia a girare il mondo. Sotto pressione della Fff, però, la Fifa non riconosce la squadra del Fln e ammonisce chi giocherà contro gli algerini. Poco male. A disposizione ci sono moltissime squadre dell’Est Europa come la Yugoslavia, l’Ungheria, la Bulgaria, squadre del Medio Oriente, dell’Africa, ma anche la Cina e il Vietnam. “Giap (il generale che guidò la guerra d’Indocina per l’indipendenza del Vietnam dalla Francia, ndr) ci disse: ‘Noi abbiamo battuto i francesi. Voi batterete la Francia’”, ricordava Mekhloufi in un’intervista. Quattro anni dopo la loro fuga, il 5 luglio 1962, l’Algeria è indipendente.

 

Macri battuto dal peronista Fernández

Le primarie che si sono svolte domenica in Argentina hanno decretato il trionfo del kirchnerismo guidato da Alberto Fernández con il 47,36% dei voti, dato superiore, quindi, anche alle previsioni che davano una parità tra il Frente de Todos (nuovo nome del gruppo kirchnerista) e Juntos por el cambio (movimento dell’attuale governo) che ha preso il 32,23%. Pur trattandosi solo di una tornata che serve a definire chi, il prossimo 27 di ottobre parteciperà alla corsa per la poltrona della Casa Rosada, il distacco di ben 15 punti azzera le possibilità dell’attuale presidente Macri di continuare il mandato. La polarizzazione del voto si è rivelata più grande delle aspettative, visto che il “terzo incomodo”, l’ex ministro ddell’Economia del kirchnerismo, Roberto Lavagna, si deve accontentare di un misero 8,34% e il suo collega, l’ultraliberista Luis Espert, è arrivato a stento a superare la soglia di sbarramento. Se analizzato a livello locale il dato è sorprendente: nella Provincia di Buenos Aires, l’ex ministro dell’Economia di Cristina Kirchner, il trotzkista Axel Kicillof, sfiora il 50% dei voti sulla candidata macrista, l’attuale governatrice Eugenia Vidal. Per non parlare della patagonica Santa Cruz, dove – alle elezioni – la sorella dell’ex presidente Kirchner, Alicja, si è confermata governatrice con quasi il 60% dei voti. La contundente vittoria si può leggere anche come la prevalenza della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, gli indecisi, che alla fine hanno votato per protesta contro Macri. Viene però da chiedersi come mai alla fine il peronismo (di cui il kirchnerismo è rappresentante diretto) nonostante i suoi mandati lascino il Paese in situazioni disperate, ritorni sempre al potere.

Eppure gli attuali indici dell’economia argentina, nonostante i macroscopici errori governativi, sono in ripresa e il “rischio Paese” pare un ricordo: oltretutto, specie nella Provincia di Buenos Aires, il macrismo ha sanato i bilanci, intaccato il sistema di corruzione che coinvolge anche le forze di polizia e costruito infrastrutture che hanno fatto arrivare acqua, luce, gas e rete fognaria in molte zone nelle quali, nei suoi 13 anni di potere, il kirchnerismo non aveva fatto nulla. “È un giorno molto triste per noi, ed è incredibile pensare che possano tornare quelli che hanno saccheggiato il Paese” confida al Fatto un alto funzionario governativo. Macri – che evidentemente viene visto come il responsabile dell’inflazione che ha portato all’impoverimento dell’Argentina, nella quale, come nel 2001, arriverà qualcuno con la “bacchetta magica” a risolvere la situazione – ispira invece fiducia ai mercati. La sua dura sconfitta infatti ha fatto crollare la Borsa di Buenos Aires del 10%. Peggio fa il “peso”: la moneta argentina viene scambiata al 26% in meno rispetto alla scorsa settimana. E sono in molti a pensare che Fernández costituisca un cambio nel kirchnerismo. Bene hanno fatto gli strateghi del movimento spagnolo Podemos a consigliare a Cristina di rimanere in disparte. Ma, visti i risultati, molti osservatori pensano che le sorprese arriveranno prima di ottobre: la storia della democrazia argentina insegna che nessun candidato non peronista termina il mandato.

Il vaso di Pandora di Epstein tra trame, segreti e sospetti

Da vivo, molti “ricchi e potenti” del cosiddetto “bel mondo” temevano di trovarsi dentro l’inchiesta sui suoi traffici. Da morto, nessuno di quelli con la coda di paglia sta tranquillo: Jeffrey Epstein, il finanziare miliardario, morto suicida sabato in un carcere di Manhattan, dove attendeva il processo per reati come abuso di minori e induzione alla prostituzione, continua a essere la storia del giorno nell’Unione. Non solo perché il ministro della Giustizia William Barr s’impegna a perseguire tutti i complici. Ma soprattutto perché rischia d’innescarsi un gioco al massacro d’accuse e sospetti: Donald Trump, che un tempo ostentava l’amicizia con Epstein e l’aveva ospite a Mar-a-Lago, mette in mezzo i Clinton, che ribattono, ma che non possono negare i rapporti col finanziere puttaniere. Sulla verosimiglianza, delle voci, in questa fase, non si va tanto per il sottile: l’attore Alec Baldwin chiama ironicamente in causa, in un tweet, i russi, “Lo hanno ucciso loro. Ormai, tutto è sempre colpa loro”.

Di sicuro, ci sono in corso tre inchieste: l’Fbi, l’Amministrazione carceraria e il Dipartimento della Giustizia. C’è da capire come mai Epstein, che aveva già tentato il suicidio a luglio, non fosse sotto stretta sorveglianza. Da due settimane, si è appreso, non era più sulla lista dei potenziali suicidi, ma doveva condividere la cella con un altro detenuto e una guardia doveva controllarne le condizioni ogni mezz’ora: non è successa né una cosa né l’altra.

Nelle indagini sul giro di minorenni e prostitute che Epstein alimentava con la sua voracità sessuale, gli inquirenti seguono due filoni: la pista dei complici – siamo allo “cherchez la femme”, perché l’ex fidanzata e compagna di turpitudini del finanziere Ghislaine Maxwell risulta irreperibile –; e quella dei soldi. Oltre che a Londra, dove la Maxwell ha casa e potrebbe trovarsi, s’indaga pure in Francia, su richiesta della responsabile della parità di genere Marlène Schiappa, perché sarebbero emersi legami tra Epstein e in particolare Parigi, dove si recava spesso e dove aveva un alloggio nei pressi dell’Arco di Trionfo. Saranno sentite le persone che le accusatrici di Epstein, in particolare Virginia Roberts Giuffre, coinvolgono nello sfruttamento di decine di minorenni. E, intanto, si scandaglia nei conti del finanziere e anche del fratello socio Mark, le cui dichiarazioni dei redditi paiono sospette. S’ipotizza che i due abbiano portato all’estero parte delle loro ricchezze: decine di milioni di dollari sarebbero transitati sui conti di compagnie e fondazioni con sedi estere, in modo non sempre chiaro. Il patrimonio di Jeffrey è stimato a 550/600 milioni di dollari: ad esso puntano le vittime che avvieranno cause di risarcimento civili. Resta poi da capire come Epstein abbia potuto coltivare un gran numero d’amici d’alto bordo, nonostante uno stile di vita lubrico. Ghislaine, una “socialite” con accesso al “jet set”, gli avrebbe aperto molte porte: personalità della politica, dello spettacolo, della cultura. Figlia di un politico ed editore britannico, amica di potenti, la Maxwell frequentò negli Anni 90 John Kennedy junior, conobbe Jeffrey nel 1992, finanziò nel 2007 la campagna per la nomination di Hillary e nel 2010 era tra gli invitati al matrimonio di Chelsea; in una foto lei ed Epstein sono con Donald Trump e l’allora fidanzata Melania. Fu Ghislaine a presentare a Jeffrey Bill Clinton il principe Andrea d’Inghilterra, figlio della regina Elisabetta. Nata a Parigi, laureata ad Oxford, Ghislaine, 57 anni, è sempre stata di casa a Londra, anche dopo che la lasciò per New York. La storia d’amore con Jeffrey durò pochi anni, ma il sodalizio rimase e divenne sempre più stretto. Lei era ovunque: a sfilate di moda, eventi di beneficenza, feste; al party di Vanity Fair agli Oscar si fece fotografare con Elon Musk. Cominciò a tenersi in disparte dopo essere stata tirata in ballo da una delle vittime di Epstein, che raccontò come non disprezzasse di partecipare a orge ed abusi, oltre che avere un ruolo di regia. Nel 2016, vendette per 15 milioni la lussuosa townhouse di Manhattan. Ora, forse, ha paura.