L’ultima mossa di Öcalan. Il “patto” con Ankara dopo 20 anni di prigione

Dopo 8 anni di brutale isolamento nell’isola-prigione turca di Imrali, dove è confinato da vent’anni anche a causa di vari tradimenti, tra cui quello dell’allora primo ministro Massimo D’Alema che gli negò l’asilo politico in Italia per evitare ritorsioni commerciali, “affidandolo” all’intelligence greca che, a sua volta, lo vendette al Kenya permettendone la cattura da parte dei servizi segreti turchi, Abdullah Öcalan è tornato al centro della scena politica per volere del presidente Erdogan. In difficoltà per la devastante crisi economica turca e per l’elezione dopo vent’anni di un sindaco dell’opposizione, Ekrem Imamoglu, a Istanbul – la più importante città della Turchia, nonchè residenza della maggior parte dei cittadini turchi di etnia curda – il Sultano dal maggio scorso sta facendo finta di voler dialogare con il fondatore nel ‘79 del Partito dei Lavoratori Curdi, (Pkk), inizialmente marxista e simbolo della lotta curda per l’indipendenza da Ankara, ridotta poi a richiesta di una genuina autonomia mettendo da parte l’idea della secessione.

Il primo motivo per cui Erdogan, presidente e allo stesso tempo leader del partito di governo della Giustizia e Sviluppo, Akp, ha permesso agli avvocati di Öcalan di tornare a fargli visita due volte, l’ultima la scorsa settimana, dopo 8 anni dall’ultimo incontro è stato il tentativo di spingerlo a scrivere una lettera al partito Democratico dei Popoli filo-curdo fondato da Salhattin Demirtas – in carcerazione preventiva da quasi quattro anni, nonostante sia deputato del parlamento, con l’accusa di essere il braccio politico del Pkk – per convincerlo a chiedere ai curdi suoi elettori di rimanere neutrali nella scelta del candidato sindaco e per tentare al contempo di rompere il fronte curdo. Richiesta che il leader curdo ha inoltrato. Ma l’Hdp ha proseguito sulla propria strada, pur riconoscendo il valore simbolico di Apo, e grazie anche al proprio sostegno ha contribuito a far rieleggere a primo cittadino di Istanbul Imamoglu candidato del maggior partito di opposizione, il laico e repubblicano Chp. Il secondo motivo di questa ambigua apertura di Erdogan a colui che considera il peggior terrorista della storia contemporanea turca – il Pkk è nella lista nera delle organizzazione terroristiche non solo della Turchia ma anche dell’Europa e degli Stati Uniti – è da individuarsi nella speranza di costringerlo a fare da intermediario nella questione siriana. Il Pkk di Öcalan e dei suoi generali fuoriusciti dalla Turchia nel 2013, quando ci fu la tregua collassata poi nel 2015, sulle montagne di Qandil nel confinante Iraq, è considerato dalla Turchia l’organizzazione madre delle Unità per la Protezione del Popolo (Ypg), ovvero i guerriglieri curdi di nazionalità siriana che hanno stabilito un proto-stato curdo nel nord est della Siria, il cosiddetto Rojava, al confine con la Turchia. L’enclave semi autonoma del Rojava però è considerata da Erdogan una minaccia per l’integrità territoriale della Turchia visto che potrebbe invogliare i fratelli curdi di etnia turca a fare lo stesso. Il problema è che i curdi siriani sono alleati di Washington – che tuttavia è anche alleato storico della Turchia con cui condivide l’appartenenza alla Nato – nella lotta contro l’Isis. Tanto che ancora oggi lo Ypg collabora con i circa 2mila soldati americani di stanza nella regione. Pochi giorni fa la Turchia, dopo aver minacciato di mandare il proprio esercito nel Rojava a est del fiume Eufrate dove sorge l’ormai nota cittadina di Kobane (simbolo della resistenza contro l’Isis) è riuscita a convincere l’amministrazione Trump a stabilire una zona di sicurezza nel Rojava per allontanare il più possibile i guerriglieri dello Ypg dal proprio confine.

Ma i tempi di realizzazione non sono chiari e neanche la profondità e la lunghezza di questa zona cuscinetto. Pur essendo sottoposto a forti pressioni da parte di Ankara, Öcalan molto difficilmente aiuterà il Sultano a cacciare i curdi-siriani dal Rojava, peraltro l’unica zona della Siria dove ci sono giacimenti del miglior petrolio, in termini di qualità, di tutta la regione. La Turchia è priva di petrolio e gas e una safe-zone potrebbe consentirle anche di ottenerne una quota. Inoltre, se Apo convincesse i fratelli dello Ypg a lasciare la zona, la Turchia forse potrebbe ottenere di far parte da coprotagonista, con Russia e Iran, del tavolo delle trattative per arrivare alla fine della guerra in Siria.

Ma, nonostante anche il comandante sul campo dei guerriglieri del Pkk, Cemil Bayik, uno degli uomini più ricercati dall’esercito turco, si sia recentemente pronunciato a favore della riapertura dei negoziati di pace dopo la sanguinosa guerra con la Turchia ricominciata nel 2015, la maggior parte dei curdi sospetta che quella di Erdogan e del suo alleato di coalizione elettorale, il Movimento Nazionalista dei Lupi grigi, oppositore da sempre di qualsiasi richiesta di automia curda, sia l’ennesima trappola ordita per “normalizzarli”, anzichè consentirgli una vera autonomia. La partita rimane aperta, ma l’esito è ancora assai incerto.

Mail Box

 

Zingaretti punta alle urne invece dovrebbe allearsi coi 5S

Non capisco il comportamento del segretario del Pd Nicola Zingaretti. All’interno del partito ha sempre sostenuto il dialogo con le altre forze politiche (sia M5s che sinistra radicale) per fare in modo che il Pd uscisse dall’isolamento. Si è, però, dovuto scontrare con le posizioni di Matteo Renzi e dei suoi seguaci, che sono sempre stati contrari ad un accordo politico con il M5s. Da questo confronto politico è emersa la parola d’ordine della direzione nazionale del 26 luglio scorso e cioè quella di andare alle elezioni prima possibile. Ma, nel momento in cui Salvini vuole sfiduciare il governo Conte e si pone il problema di evitare di andare alle urne per non favorire la presa del potere da parte della destra, Matteo Renzi ha cambiato idea e si è detto disponibile a prendere in considerazione una possibile alleanza politica con il M5s. Il cambiamento di opinioni di Renzi avrebbe potuto essere l’occasione per riproporre, da parte di Zingaretti, la propria linea del dialogo e per sottolineare l’incongruenza di Renzi. Invece Zingaretti insiste nel riproporre il ricorso alle urne. Mi sembra una rigidità incomprensibile nel momento in cui c’è il rischio che avere un uomo solo al comando metta in pericolo la democrazia. Zingaretti potrebbe porre delle pregiudiziali (ad esempio no ad un governo politico e si ad un governo tecnico oppure no alla presenza di Luigi Di Maio in un eventuale governo politico che nasca dall’intesa tra Pd e M5s) ma non dovrebbe ostacolare un’eventuale intesa politica che potrebbe evitare che al Paese rischi seri.

Franco Pelella

 

L’Italia non è mai stata unita: subito un proporzionale puro

L’attuale crisi riflette la lacerazione del Paese tra nord e sud, e mette a nudo le disuguaglianze sociali. Non è una questione di incompatibilità di carattere dei protagonisti. L’Italia a differenza di altri paesi europei non ha avuto una storia unitaria secolare per cui anche oggi è difficile ricomporre le fratture che si sono generate nei secoli precedenti. Lega e 5s hanno cercato di salvaguardare l’unità in sintonia con il dettato costituzionale “l’Italia è una e indivisibile”, ma purtroppo il conflitto tra interessi, esigenze e sensibilità diversi è diventato insanabile. Una lezione si può comunque trarre dalla vicenda: guai a sottovalutare o ignorare quelle differenze adottando sistemi elettorali di tipo maggioritario o con premi di maggioranza. Se una parte del Paese non si sente rappresentata, si rischia di aggravare il conflitto sociale. Solo un proporzionale puro, al massimo con sbarramento al 3%, potrà essere veramente rappresentativo. Se a ciò si unisce il senso di responsabilità delle forze politiche disponibili a trovare punti di intesa per conciliare i diversi interessi, si potrà evitare che il conflitto sociale esploda in maniera drammatica e che la spaccatura tra nord e sud diventi irreversibile. Solo così si creano le condizioni per salvaguardare l’unità.

Maurizio Burattini

 

Non può ricandidarsi chi sceglie di far cadere l’esecutivo

Abbiamo votato l’ultimo governo per essere governati, risolvere i problemi che allora esistevano e provare a cambiare la classe dirigente. Ora una parte degli eletti fa cadere il governo in carica, per motivi propri e chiede nuove elezioni, che noi pagheremo, come pure i costi della crisi aperta dal Ministro Salvini. Propongo, invece, di fare saltare un giro a chi non ha saputo finire la legislatura e che diventi per legge una prassi. Chi non arriva a fine mandato, per causa sua, si astenga dal presentarsi al giro successivo. Comportamenti irresponsabili e criminali, come quello tenuto dal ministro Salvini, indurranno sempre più elettori all’astensione, schifati da ciò che la politica ci mostra.

Ermanno Migliorini

 

Contro il dl Sicurezza: settimo e ultimo giorno di digiuno

Penso che se fosse ancora vivo Sandro Pertini, il miglior presidente che questa Repubblica abbia avuto, ci chiamerebbe alla lotta, ci guiderebbe sulle barricate, ci esorterebbe a insorgere per affrontare e sconfiggere quel governo fascista che decide di far morire i naufraghi. Sono un amico della nonviolenza e un antico obiettore di coscienza. Solo la nonviolenza è la Resistenza che continua. Occorre insorgere con la forza della verità, per salvare tutte le vite. Occorre insorgere per affermare la legalità, per difendere la Costituzione che riconosce e protegge i diritti umani di tutti gli esseri umani. Oggi interrompo il mio digiuno contro “il decreto sicurezza della razza bis”, che ho iniziato 7 giorni fa. Sono anziano, ma non smetterò di partecipare alla lotta per il bene comune dell’umanità. Siano fatti immediatamente sbarcare tutti i naufraghi e allontanati i ministri e i loro complici responsabili di crimini contro l’umanità e attentato contro la Costituzione. Siano abrogate tutte le misure razziste imposte. Torni l’Italia ad essere una Repubblica democratica, antifascista. Chi salva una vita salva il mondo.

Peppe Sini

 

I Nostri Errori

Domenica nel mio articolo su Luciano Bianciardi ho ricordato come a Milano, quando morì, a dirgli addio, al momento del trasferimento della salma a Grosseto, non ci fosse nessuno. Sarebbe ingeneroso non aggiungere che al funerale di Grosseto prese parte invece moltissima gente.

Mass. Nov.

Hong Kong. La Cina parla di “terrorismo” per giustificare una più drastica repressione

 

Gentile redazione, ho sentito ieri in radio che la Cina ha nuovamente represso e condannato le manifestazioni a Hong Kong, parlando di “crimine violento e terrorismo”. Da settimane la protesta impazza, ma non vedo vie d’uscita pacifiche.

Lia Pierpaolo

 

Gentile Lettrice, di sicuro non c’è da aspettarsi che la Cina ceda e faccia passi indietro: durante una conferenza stampa, ieri, a Pechino, il portavoce dell’ufficio cinese per Hong Kong e Macao ha detto che “manifestanti senza cuore hanno lanciato bombe carta contro la polizia e hanno attaccato ripetutamente gli agenti con strumenti estremamente pericolosi”; e ha aggiunto: “I manifestanti hanno già commesso crimini molto violenti e ora stanno mostrando atteggiamenti terroristici”. Il riferimento al terrorismo non è casuale: giustifica e anticipa il ricorso a mezzi di repressione più drastici e radicali, avverte che il trattamento degli arrestati sarà consequenziale e le pene eventualmente comminate più aspre. Un video del “Global Times”, tabloid in inglese del “Quotidiano del Popolo”, mostra una colonna di mezzi militari cinesi nei pressi di Shenzhen, la città più vicina a Hong Kong. Sono passati vent’anni dal nuovo statuto di Hong Kong e trenta dal massacro di piazza Tienanmen, ma i cinesi hanno del tempo una percezione diversa della nostra. Del resto, la piega della protesta a Hong Kong non lascia tranquilli neppure chi guarda, o guardava, con simpatia al movimento. L’Amministrazione Trump ha ieri confermato di seguire gli sviluppi della situazione, pur precisando che “è una questione che riguarda la Cina e Hong Kong”; ma ha anche chiesto a tutte le parti in causa di “astenersi dalla violenza”. È un monito alle autorità e un avviso ai manifestanti: turbative alla libertà di movimento e alla regolarità delle transazioni commerciali e finanziarie non sono certo viste con favore. Non ho mai creduto, e non credo tuttora, che il movimento di protesta a Hong Kong sia stato innescato dall’esterno, sia cioè frutto di un complotto. Ho però maturato la convinzione che sia stato incoraggiato dall’esterno, se non altro per creare un grattacapo in più a Pechino. Gli avvenimenti del fine settimana e di ieri possono raffreddare il sostegno: la polizia è stata brutale; ma, come altre volte, la protesta non è stata pacifica e l’occupazione dell’aeroporto ha fatto dei passeggeri degli ostaggi. La natura di Hong Kong è di essere luogo di incontro e di traffici. Isolarla, barricandocisi dentro, non è la risposta ai problemi.

Giampiero Gramaglia

Il talento di Donna Paola: andare dove tira il niente

Paola De Micheli sta a Zingaretti come Pina Picierno stava a Matteo Renzi. Già questo basterebbe per fotografarla, ma forse c’è di più. Se è vero che De Micheli ha più struttura dell’altra, per il semplice fatto che il contrario è impossibile, è altrettanto inoppugnabile che la mitologica Pina, nella sua fiera e inconsapevole evanescenza ontologica, è stata fedele sino alla fine al suo sgarruppato sire. Sì, è vero, all’inizio – nell’ormai cenozoico dell’era bersaniana – anche lei non era pienamente convinta da Renzi. Poi però Ella seppe sacrificarsi appieno sul tragicomico altare del renzismo scellerato.

Al contrario, Paola De Micheli è sempre tutto e il suo contrario: lei va dove tira il niente. Fiera lettiana, andò a Piazzapulita per accusare Renzi d’essere il regista della congiura dei 101 (in realtà molti di più) contro Prodi al Quirinale. Poi, magicamente, si reinventò renziana. Piovvero così gli incarichi: sottosegretario di Stato del ministero dell’Economia e delle Finanze (Renzi e poi Gentiloni). Sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri (Gentiloni). Quindi Commissario straordinario alla ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del Centro Italia del 2016, tanto per dimostrare ai terremotati che le disgrazie non vengono mai sole.

Donna Paola è nata a Piacenza nel 1973. Laureata a Milano in Scienze Politiche. La sua esperienza lavorativa più rilevante resta quella – non è una battuta – di presidente e amministratrice delegata (1998-2003) in una coop di trasformazione del pomodoro in sughi (daje!), conclusa in gran trionfo con lo stato di insolvenza della cooperativa e quindi la liquidazione coatta amministrativa (daje!). Indimenticabile pure il quinquennio (1999-2004) come consigliere comunale a Pontenure. Proprio quando i radar non ne avvertivano più la flebile presenza, l’ineffabile Zinga ha genialmente puntato su di lei per la ripartenza del Pd. Un po’ come se Giampaolo puntasse su Orfini per far rinascere il Milan, o se il giornalismo puntasse sull’esilarante suo malgrado Mario Lavia per rifondare se stesso.

Sia come sia, Donna Paola è oggi vicepresidente del Pd e vive diuturnamente in tivù: Zingaretti si fida ciecamente di lei (daje!). Giorni fa Donna Paola, con quel suo fare quasi-contadino da massaia emiliana che ha appena messo i tortellini a bollire prima di offrirti a caso una fetta di culatello annaffiata con l’Ortrugo, ha detto in tivù che non ci sarà mai un accordo tra Pd e M5S. Per una volta ha detto il giusto: un governicchio ZingaMaio sarebbe oggi un orrore inaudito e un regalo a Salvini (infatti è l’ennesima idea abietta dello sciagurato Renzi). Nelle elezioni che verranno, vivremo l’esaltante triello tra Traditori (Lega), Bischeri (grillini) e Niente (Pd). De Micheli ha anche detto che “il Pd vi stupirà”, e il bello è che era seria.

Donna Paola interpreta da par suo il ruolo di demiurga del nulla: blatera sempre, con dizione straziante, e ha sempre l’aria di una che non ha minimamente contezza di quel che dice. La sua garrula ignoranza politica non smette di deliziare. Nello scacchiere della “politica”, incarna il ruolo di Donna Prassede nel Manzoni: non tanto quella vera, di cui peraltro nessuno si ricorda (neanche il Manzoni), quanto quella parodiata dalla divina Anna Marchesini nei Promessi Sposi del Trio. Credevamo che dopo Berlusconi, Renzi e Salvini fosse impossibile scendere ancora più in basso, ma il talento italico nello scavare resta prodigioso. Buona catastrofe.

Da Calà a Jova i veri rivali di Salvini

In piena sindrome di onnipotenza, forse Salvini ha fatto i conti senza l’oste, o, per meglio dire, senza gli chef. Deve essersi convinto di non avere rivali, proprio non c’è partita, e per questo ha fretta di andare alle urne. Ma è davvero così? A guardar bene i competitor non mancherebbero, se solo si decidessero a scendere in campo.

Massimo Recalcati. Platone teorizzava la politica in mano ai filosofi, ma oggi possiamo fare molto di più: dare la politica in mano agli psicoanalisti. Una costituzione lacaniana, come quella che stilerebbe Recalcati allegandola a Repubblica insieme all’opuscolo Mantieni la maggioranza, farebbe piazza pulita in un colpo solo delle metafore di Bersani, delle similitudini di Toninelli e degli anacoluti di Zingaretti.

Lorenzo Cherubini. A Milano Marittima con il moijto in una mano, il rosario nell’altra e un paio di cubiste in croce. Ma dai. Ma gliel’hanno detto a Salvini che il Cocoricò è fallito? Ci vuole altro per magnetizzare le spiagge italiane, almeno le poche superstiti, e rigenerare gli alpeggi di alta quota con una adeguata slavina di decibel. Quindi, l’approdo naturale del Jova Beach Tour è solo uno. Avremo Messner all’opposizione, ma in compenso Jovanotti a Palazzo Chigi.

Vittorio Feltri. Una buona dose di italiani giudica Salvini in gamba, ma troppo tenero con i migranti. Non c’è dubbio che il direttore di Libero porterebbe questi indecisi col porto d’armi in massa dalla sua parte, gli basterebbe trasformare in slogan elettorali titoli come Dopo la miseria portano le malattie o Bastardi islamici. Come vice bisognerebbe precettare Maurizio Crozza; la sua copia non è all’altezza dell’originale, ma si avvicina molto.

Mark Caltagirone. Il premier del Terzo Millennio. Basta con il carisma basato sull’immagine e il presenzialismo, roba vecchia, ormai la politica si fa con i post e con i tweet. Su questo terreno il primo ministro Caltagirone sarebbe inarrivabile, e avremmo una vera rivoluzione. Lui non si vede ma al G7 manderebbe Pamela Prati, mentre per Barbara D’Urso è pronto il Viminale. Tutto questo in attesa di trasferire il parlamento su Facebook: un taglio delle poltrone senza precedenti.

Jerry Calà. Salvini continua a crescere nelle intenzioni di voto perché “non è in odore di sinistra”, questo è fuori dubbio. Ma, se la buttiamo sui recettori olfattivi, vogliamo mettere Jerry Calà? Lui sì, è un infasil dal volto umano. Tra l’altro, ha un repertorio di barzellette leggermente più aggiornato di quello di Berlusconi. E vogliamo mettere Giorgetti con Umberto Smaila?

Er Patata. Si fa presto a dire populista, ma a Salvini qualche congiuntivo gli scappa ancora, è un habitué del salotto di Annalisa Chirico e ha pure ricominciato a mettersi la giacca e la cravatta “come certi criminali che sono a Bruxelles”. Candidare Er Patata significherebbe invece proporre un vero uomo del popolo, affidare il volante del Paese a un autentico guidatore di ruspe. Unico problema, convincerlo a abbandonare il suo banco del pesce al mercato di Roma.

Azucena. Partorita dal genio sovranista di Giuseppe Verdi e sbarcata sul nostro territorio da chissà quale Ong, senza fissa dimora, “io deserta vado errando”, questa zingaraccia non teme lo sfratto. Però vive solo per vendicarsi e non si dà pace finché non ci riesce: in guardia, Conte di Pontida.

(Scherziamo, ma non troppo. Questa è davvero l’Italia di Salvini).

Serve un governo di legislatura

Nega l’evidenza chi afferma che non c’è una maggioranza alternativa a quella gialloverde su cui s’è costituito il governo Conte, messo in crisi ora dalla mozione di sfiducia della Lega. L’evidenza non sta soltanto nei numeri di questo Parlamento, regolarmente eletto poco più di un anno fa dal popolo italiano, dove il Movimento 5 Stelle e il Pd sono rispettivamente il primo e il secondo partito: l’uno con 216 deputati e 107 senatori, l’altro con 111 e 51, per un totale di 327 seggi alla Camera (su 630) e di 158 a Palazzo Madama (su 319), a cui andrebbero aggiunti quelli della pattuglia radicale e di una parte dei gruppi misti. Ma l’attendibilità di questa maggioranza alternativa deriva soprattutto dal fatto che non sarebbe certamente più anomala o più eterogenea di quella uscente, costituita da due forze che s’erano presentate su fronti opposti alle elezioni. E per di più con una Lega che faceva parte integrante della coalizione di centrodestra, lucrando una rendita di posizione nei collegi maggioritari.

Tanto basta per dire che una maggioranza potenziale, ipotetica, virtuale esiste ed è pienamente legittima in una Repubblica parlamentare come la nostra. Spetta al capo dello Stato il dovere costituzionale di verificarne la consistenza e la praticabilità, prima di sciogliere eventualmente le Camere. Quella forza elettorale che Matteo Salvini rivendica in base ai risultati ottenuti alle ultime europee può valere nel Parlamento di Strasburgo, dove la Lega è isolata e conta meno di niente, non automaticamente in quello di Roma. Non è un partito nazionalista come il Carroccio che può spendere i bitcoin di questa valuta straniera sul mercato politico italiano. Né sono sufficienti i sondaggi d’opinione per modificare o sovvertire un responso popolare che ha una validità di cinque anni, fino alla scadenza naturale della legislatura. Altrimenti, dovremmo abolire le elezioni e rimettere il potere legislativo all’esito delle rilevazioni demoscopiche.

C’è poi un ragionamento più sostanziale da fare. Qui la priorità non sarebbe tanto quella di costituire un governo politico M5S-Pd, bensì di realizzare una convergenza parlamentare che consentisse a un “governo di garanzia elettorale”, istituzionale o del presidente che dir si voglia, di arginare la deriva autoritaria che tende a portare l’Italia fuori dall’Europa e dal quadro delle sue alleanze internazionali. Un governo di transizione per garantire – appunto – a tutti i cittadini la possibilità di tornare alle urne in condizioni di sicurezza democratica: tanto più che il ministro dell’Interno ancora in carica, a cui spetterebbe organizzare e gestire la consultazione, invoca a sproposito “pieni poteri” con un’inquietante sfregio alla Costituzione. E magari avendo approvato, prima di convocare le elezioni anticipate, una manovra economica per mettere il Paese al riparo dai rischi dell’esercizio provvisorio di bilancio, dell’aumento dell’Iva già preventivato dal governo gialloverde, dell’instabilità e della speculazione. Si tratta, insomma, di evitare un patatrac finanziario che si ripercuoterebbe pesantemente sui conti pubblici, su quelli delle famiglie e delle imprese.

Per quanto il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico si siano reciprocamente criticati, attaccati, contrastati, questo è il momento di deporre le armi e di sospendere temporaneamente le ostilità, per salvaguardare l’interesse generale del Paese al di là dei calcoli e delle convenienze di parte. Serve una tregua, un armistizio, privilegiando i valori comuni della solidarietà e dell’equità sociale rispetto ai risentimenti e ai rancori reciproci, alle diversità e alle divergenze. Ma per quanto apprezzabile sia la disponibilità di Matteo Renzi in un’ottica istituzionale, non è un accordo di palazzo né tantomeno un “accordicchio” strumentale che può sancire un’operazione del genere: occorrerebbe piuttosto un’assunzione di responsabilità collettiva, ispirata dalla consapevolezza e dal realismo. Se poi da questa transizione e da questo confronto dovesse scaturire un “governo di legislatura”, come ipotizza Nicola Zingaretti, tanto meglio sarà per tutti.

Quelli che Beppe Grillo chiama ora “i nuovi barbari” sono, purtroppo, già alle porte. Peccato che il suo movimento abbia aperto loro la strada, dando vita a un governo che non doveva mai nascere. Ma forse c’è ancora tempo e modo di rimediare, per offrire in extremis agli italiani una via d’uscita dall’emergenza istituzionale, politica e sociale.

Colpita da sconosciuto con collo di bottiglia nel centro di Milano

Ha colpito una donna di 64 anni in Largo La Foppa, un 31enne bengalese bloccato dalla polizia di Stato a Milano, con un collo di bottiglia intorno a mezzogiorno, fra Brera e Moscova in centro città. La signora, poi sottoposta a un intervento chirurgico, si trovava all’altezza del civico 4 quando l’uomo l’ha sorpresa. La polizia sta indagando sul movente. Nel frattempo l’aggressore è stato portato in questura per accertamenti. Era stato inviato dalla questura in ospedale ieri mattina l’uomo di 30 anni che poi, a Milano, ha aggredito con un vetro la passante, ferendola gravemente. L’uomo era stato controllato la sera prima a Lampugnano dove aveva litigato con un connazionale. Poiché aveva un permesso di soggiorno scaduto era stato accompagnato all’Ufficio immigrazione, dove però era stata verificata la regolarità della sua posizione ed era stato scoperto che aveva già un appuntamento per il rinnovo di un permesso di soggiorno per lavoro. Trascorsa la notte in questura, in mattinata ha dato segni di disagio, tanto che era stato chiamato il 118 che lo aveva portato in ospedale intorno alle 11. Si sta cercando di capire se abbia ricevuto una terapia o se si sia allontanato prima ancora di essere visitato.

Ritrovato a Pompei il “tesoro della fattucchiera”

Lo hanno denominato “Il tesoro della fattucchiera”. Rinvenuto tra gli scavi ancora in corso della Regio V, la Casa del Giardino, nel Parco Archeologico di Pompei. Monili che rimandano a rituali per propiziarsi la buona sorte: ambre, lucidi cristalli e ametiste. Ma anche bottoni in osso e scarabei dell’oriente. Oggetti del mondo femminile utilizzati come ornamento personale.

Straordinari perché raccontano microstorie, biografie degli abitanti della città che tentarono di sfuggire all’eruzione secondo il direttore generale Massimo Osanna. La cassetta in legno e metallo – che fungeva da scrigno – si trovava in un ambiente di servizio, lontano dalla stanza da letto della matrona e anche dall’atrio della domus dove gli archeologi hanno ritrovato gli scheletri di dieci persone, praticamente l’intera famiglia, sterminata dalla violenza dell’eruzione mentre tentava di mettersi in salvo. Non solo: mancano gli ori che a Pompei tutte le donne amavano esibire e che certamente non potevano mancare nel portagioie di una giovane signora, seppure di media ricchezza. Le collane contenute nel piccolo forziere raccontano un’altra storia: “Si potrebbe trattare di monili indossati per rituali, più che per mostrarsi eleganti” le considerazioni di Osanna. Sono stati rinvenuti anche numerosi oggetti preziosi, tra cui due specchi, elementi decorativi, un unguentario vitreo, amuleti fallici, due frammenti di una spiga di circa 8 centimetri.

Gli esperti hanno assicurato che molti degli antichi pezzi si contraddistinguono per l’altissima qualità dei materiali e della forgia. “Potrebbe trattarsi dell’armamentario di una persona, forse anche una schiava, dotata di particolari capacità taumaturgiche e di un rapporto privilegiato con gli aspetti più magici del vivere quotidiano” illustra Osanna.

Questo rinvenimento richiama ciò che nel mondo romano aveva a che fare con la fertilità, la seduzione, il buon esito di un parto o di un matrimonio: dai falli alle pigne, dalla spiga di grano alle ambre. Sempre nella Casa del Giardino era stata peraltro ritrovata l’iscrizione che ha cambiato la data dell’eruzione del Vesuvio posticipandola dal 24 agosto al 24 ottobre del 79 d.C. Gli elementi che compongono questo nuovo tesoro diventeranno la mappa sulla quale gli specialisti del “Grande Progetto Pompei” lavoreranno per ricostruire l’intera composizione del nucleo famigliare che abitava in quella porzione dell’antica Pompei.

Maddalena, sequestrato il palco della festa dei magnati russi

Può una zona di rilevante interesse naturalistico, luogo di nidificazione di diverse specie protette, diventare lo scenario esclusivo di una festa da rockstar, con tanto di luci ed amplificazione? È quello che si è chiesto la Procura di Tempio Pausania che qualche giorno fa ha disposto il sequestro del palco di 12 metri per 6 tirato su in tempi da record fra il 4 e il 5 agosto nella spiaggia di Santa Maria, nel cuore del Parco Nazionale de La Maddalena. Non soltanto la struttura sarebbe stata ubicata in una zona del parco classificata come “TB” , appena un gradino sotto la protezione integrale presente in buona parte dell’Arcipelago. Anche l’autorizzazione, concessa in pochi giorni senza istruttoria e senza pubblicazione nella sezione “trasparenza” del sito del Parco, appare singolare: una semplice firma al termine di uno scambio epistolare fra la direzione del Parco e gli organizzatori dell’evento, esclusivo lieu de charme all’interno dell’arcipelago maddalenino.

La festa, organizzata da una struttura ricettiva locale, sarebbe dovuta durare in tutto tre giorni, dal 5 al 7 agosto, ma il primo giorno è stata interrotta dalla Capitaneria di porto de La Maddalena: pare che i facoltosi committenti stranieri non abbiano badato a spese sborsando 300 mila euro per l’organizzazione dell’evento, condito da grandi nomi nella migliore tradizione smeraldina: circola anche quello del magnate russo Alisher Usmanov, già patron dell’Arsenal, avvistato in quei giorni con il suo mega yacht in Costa, prima di proseguire la sua vacanza alla volta di Ladispoli, sul litorale romano, dove lo attendeva un’altra festa miliardaria.

Ma come è stato possibile autorizzare un evento da mille e una notte in una zona che pur non escludendo le attività antropiche di certo non prevede concerti da stadio? Il problema è che nel paradiso dell’Arcipelago in realtà non esiste un “Piano di disciplina del parco” che per legge avrebbe dovuto essere approvato entro 12 mesi dalla sua costituzione e invece attende di vedere la luce da oltre vent’anni, come denuncia anche l’ultima relazione dell’Oiv, l’Organo indipendente di valutazione del marzo 2017. “Non avere il Piano è come non avere il Parco”, osservano gli ambientalisti, che da tempo reclamano regole certe di gestione per le isole dell’Arcipelago maddalenino. Un malessere, quello legato alla tutela dei beni ambientali del Parco, recentemente sfociato nelle dimissioni ufficialmente per “motivi personali” di tre consigliere del direttivo: Alessandra Stefani in rappresentanza del ministero delle Politiche agricole, la presidente del Wwf Donatella Bianchi e Taira di Nora dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.

In tanti però iniziano ad essere preoccupati per il fragile ecosistema del Parco: ogni estate infatti, le meravigliose acque dell’arcipelago vengono prese d’assalto da natanti di ogni tipo e dimensione, con antropici sempre più importanti: per questo un gruppo di cittadini de La Maddalena si è rivolta direttamente al presidente Sergio Mattarella in occasione della sua visita di questi giorni nell’isola, per chiedergli di prendere a cuore una situazione ormai sfuggita di mano e già ampiamente segnalata al ministro dell’Ambiente Sergio Costa e a tutti gli organi del Parco. I firmatari chiedono che, “nelle more dell’approvazione degli strumenti di pianificazione previsti dalla legge quadro sulle aree protette 394/91” (Piano del Parco e Regolamento del Parco) gli accessi all’Arcipelago vengano regolamentati con l’istituzione di “numeri sostenibili”, a partire dal 2020 in base alle capacità di carico di ciascun sito e con una riserva del 75% delle boe, delle banchine di sbarco passeggeri sulle isole minori e di tutti i fondali sui quali è possibile gettare l’ancora.

Stessa storia per gli ingressi all’ isola di Caprera, presa d’assalto durante i mesi estivi e il cui accesso dovrebbe essere limitato esclusivamente a chi soggiorna nell’abitato maddalenino.

Diabolik, la sorella contro la Questura: salta il funerale

Resta a tor vergata la salma di Fabrizio Piscitelli, narcotrafficante e capo ultrà degli Irriducibili della Lazio ucciso mercoledì sera a Roma con un colpo di pistola. Il funerale, al momento, non ci sarà. Dopo il “no” del Tar al ricorso della famiglia contro la funzione in forma privata disposta dal questore per motivi di ordine e sicurezza, la famiglia ha ribadito che non prenderà parte alla cerimonia religiosa. Ma c’è di più. Il corpo di Diabolik, infatti, può essere affidato esclusivamente ai familiari e quindi in assenza di questi nemmeno le forze dell’ordine potranno condurlo al cimitero Flaminio. A nulla è valso l’incontro ieri tra Questura e famiglia. “Siamo stati rassicurati sul fatto che la salma di Fabrizio al momento non verrà spostata da Tor Vergata. Noi rimaniamo fermi sulla nostra scelta di non partecipare ai funerali celebrati in forma privata” ha detto in serata Angela Piscitelli, sorella dell’ultrà laziale. La moglie, Rita Corazza, ha chiesto “a tutte le persone che gli volevano bene” di non presentarsi al cimitero Flaminio. “Solo così – ha aggiunto – possiamo rendergli giustizia e stringerci in un unico dolore”. Gli Irriducibili hanno accolto l’appello annunciando la loro assenza.