Crescita, l’Istat cambia i criteri di calcolo del Pil

Il 23 settembre, pochi giorni prima della presentazione della Nota di aggiornamento del Def (27 settembre) potrebbe arrivare dall’Istat una mano ai conti pubblici italiani. Il nuovo presidente dell’Istituto di statistica, Gian Carlo Blangiardo, ha infatti annunciato una nuova revisione dei conti nazionali (l’ultima c’è stata nel 2014) utilizzando il 2016 come nuovo anno di riferimento. Sistema che viene comunque utilizzato in gran parte dei Paesi Ue. In pratica, il 23 settembre verranno diffusi i dati sul 2018 e la ricostruzione delle serie annuali per gli anni 1995-2018, con il nuovo livello del Pil sui quali costruire i conti (i dati verranno spediti ad Eurostat entro il 30 settembre) e calcolare il (cruciale) rapporto Debito/Pil. Una modifica che potrà migliorare il dato sulla ricchezza prodotta in Italia e, quindi, sulla crescita attraverso l’introduzione di nuove fonti e metodologie come l’aggiornamento delle stime dei “servizi di locazione” (in pratica chi vive in case di cui è proprietario non pagando l’affitto è come se lo guadagnasse) o l’affinamento degli strumenti per la rilevazione del sommerso che, secondo le ultime rilevazioni, ammonta a 210 miliardi.

E i “tecnici” si scaldano all’addio a Saccomanni

La Chiesa è quella di San Salvatore in Lauro, in centro a Roma. Per omaggiare Fabrizio Saccomanni sfilano ministri, banchieri, parlamentari, dirigenti. Quella che in altri contesti si definisce “l’Italia responsabile”, l’Italia produttiva, l’Italia persino dei tecnici o magari del governo che verrà. L’Italia anti-Salvini per modi e mondi di riferimento. Non poteva essere altrimenti: Fabrizio Saccomanni, scomparso a 76 anni, è stato direttore generale di Bankitalia, ministro dell’Economia per Enrico Letta e infine presidente di Unicredit. In suo onore si sono raccolti tra gli altri Romano Prodi, il ceo di Unicredit Jean Pierre Musier, Enrico Letta, Walter Veltroni e il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia.

Tre manovre per tre deficit

 

2% Conte/Tria

Quella preparata al Tesoro in queste settimane è l’unica manovra d’autunno realmente a disposizione, ma pure quella più recessiva in un momento in cui l’economia mondiale frena pericolosamente. Giuseppe Conte e Giovanni Tria, finora appoggiati senza riserva dal Movimento 5 Stelle su questo dossier, sono riusciti senza particolari sforzi a evitare la procedura d’infrazione a luglio, ma si sono impegnati con Bruxelles a mantenere i “patti” per il 2020: l’impegno italiano, nel 2018, era portare il deficit all’1,8% del Pil (quest’anno chiuderà circa al 2%), cifra alla quale aggiungere un paio di decimali di “flessibilità” per programmi urgenti a caso (dissesto idrogeologico e ponte di Genova le scelte più probabili). Messa così sembra facile, cioè confermare il deficit di quest’anno, ma senza interventi il disavanzo dell’anno prossimo – stima la Commissione europea – tra mancata crescita ed effetto di aumento delle spese risulterà pari al 3,5% del Pil: in realtà, come dimostra la dinamica delle entrate 2019 e anche quella delle adesioni a quota 100 e reddito di cittadinanza, quella di Bruxelles è un stima eccessiva, ma comunque, se va bene, Conte e Tria si sono impegnati a tagliare da mezzo punto a un punto di deficit in un solo anno, una mazzata per una economia già debilitata da vecchie e nuove crisi. Nessuna sorpresa: Conte e Tria (entrambi benedetti dal Colle più alto) a luglio avevano schierato l’esecutivo gialloverde all’interno dello “schema Ursula”, quello cioè che ha eletto la von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue con un programma economico in sostanziale continuità con gli anni di Juncker. Anche se non la chiamano più austerità, la minestra è quella.

 

2,9% Renzi

Nel disperato tentativo di evitare le elezioni e vedersi sterminata la truppa parlamentare di amici e famigli, Matteo Renzi ha ritirato fuori una proposta che s’era già affrettato a rimangiarsi nell’estate del 2017, quando a Palazzo Chigi c’era Paolo Gentiloni: portare il deficit dell’anno successivo al 2,9% (e per cinque anni). Nelle sue continue interazioni con politici e giornalisti di questi ultimi giorni, l’ex leader del Pd ritira fuori il magico numerino senza alcun particolare, ma come semplice frutto di un ragionamento politico – va detto – non del tutto scollegato dalla realtà: mettere su un governo accozzaglia per fare una manovra lacrime e sangue significa la morte politica; quindi “mettere al sicuro i conti” (espressione che significa poco o nulla) senza inimicarsi gli italiani dando un calcio in avanti al barattolo della crisi sperando in un miracolo. Tanto più che Renzi non ha alcun orizzonte che preveda la vittoria, ma solo di guadagnare abbastanza tempo per poter lanciare il suo nuovo partito di centro. I problemi nel fissare il deficit al 2,9% sono due. Il primo di relativa entità: questo governo dell’ammucchiata, o istituzionale, dovrà limitarsi a fare poco o nulla, cioè cose come prendere atto delle minori spese e delle maggiori entrate, rifinanziare le spese indifferibili (3-4 miliardi) e vantarsi di aver evitato l’aumento dell’Iva. Il secondo problema, con cui Renzi dovette scontrarsi già due anni fa, è la probabile opposizione dell’Unione europea: è vero che un esecutivo “anti-sovranista” sarebbe guardato benevolmente da Bruxelles, ma il dogma del rigore – a giudicare dal primo discorso di Ursula von der Leyen – è ben lontano dall’essere abbandonato nella chiesa europeista.

 

4% Salvini

Il 4% del Pil è una stima a spanne del deficit necessario a realizzare nella manovra quello che Matteo Salvini promette a livello di deficit. La legge – dice il responsabile economia leghista, Claudio Borghi – “è già pronta” e in ogni caso “c’è tutto il tempo” di farla anche votando a fine ottobre. Il cosiddetto “Capitano” la racconta così: “Tasse ridotte al 15% per milioni di lavoratori e imprenditori italiani, pace fiscale con Equitalia per milioni di italiani, nessun aumento dell’Iva, ma riduzione delle tasse sulla casa. La nostra manovra economica è già pronta”. Il conto spannometrico si basa su queste dichiarazioni e sulla proiezione della dinamica dei conti pubblici fotografata nell’assestamento di bilancio di luglio al 2020. Tradotto in soldi: il disavanzo dell’anno prossimo, senza far nulla, dovrebbe attestarsi al 2,8-2,9%. Gli interventi “costosi” sommariamente descritti da Salvini (flat tax e un intervento sulla tassazione sulla casa) valgono, insieme ai due decimali di “spese indifferibili”, oltre un punto di Pil di minori entrate/maggiori spese: così si arriva, all’ingrosso, al 4% di deficit. Una manovra espansiva, sarebbe la prima dopo anni, ma giocata tutta dal lato delle imposte e, in particolare, quelle sul ceto medio (fino a 50mila euro i dipendenti, fino a 100mila le partite Iva): l’effetto traino sul Pil sarà minore rispetto a una spesa diretta dello Stato (tanto in investimenti, che in stipendi, beni o servizi) e persino rispetto a interventi su fasce di reddito più basse, che hanno maggiore propensione al consumo. L’ostacolo maggiore a questo genere di manovra resta ovviamente l’Unione europea, peraltro assai maldisposta rispetto alle iniziative di un governo “sovranista”: è vero che il nuovo Qe della Bce attenua se non annulla i pericoli sui mercati, ma gli argomenti con cui minacciare l’Italia (banche in primis) non mancano.

Bulbarelli raddoppia Varriale: conduce e fa il vicedirettore

Prosegue la restaurazione a RaiSport del direttore di Auro Bulbarelli: dopo aver riaffidato la conduzione della storica Domenica Sportiva a Paola Ferrari e Jacopo Volpi, adesso concede di andare in video anche a uno dei suoi sei vicedirettori, cioè a Enrico Varriale. Ai tempi di Luigi Gubutosi, la Rai adottò una regola: chi dirige una testata giornalistica o gestisce una rete e dunque è impegnato dietro le quinte, non può andare anche in onda. Dopo la regola, fu fatta subito la deroga, ragion per cui oggi ognuno fa come gli pare. Il direttore deve chiedere il permesso all’amministratore delegato e il vice può svolgere il doppio ruolo. È successo per Franco di Mare (vice a Rai1), succede per Varriale, che dovrà condurre 90° Minuto, altro programma storico per la Rai, che con questi volti ritorna uguale a dieci, venti anni fa. A Bulbarelli s’è opposto il comitato di redazione, contestando la scelta perché non rispetta una regola, benché ci sia una deroga, che serve a far ruotare i dipendenti e a non concentrare troppi poteri in pochi. Ma per la Rai, questo, più che un vezzo, è una virtù.

L’“avvoltoio” Matteo gioca per intestarsi la maggioranza

Finirà tutto come nella primavera 2018, con Matteo Renzi che trattava per governare con i Cinque Stelle e poi, quando capisce che l’esito è negativo, è lui stesso a far saltare tutto in diretta tv? L’esito è ancora aperto. Perché la partita per il dopo-Conte passa per quella interna al Partito democratico: si deve stabilire chi comanda, il segretario Zingaretti o Renzi, che ha scelto gran parte degli attuali parlamentari.

Ieri l’ex premier è andato in visita a Sant’Anna di Stazzema e alla foiba di Basovizza, a Trieste, portamento e toni istituzionali, da affidabile pilastro di un nuovo assetto. Ma intanto su Twitter polemizza con Grillo che proprio il giorno prima aveva ventilato a un’alternativa al voto: “Grillo mi chiama avvoltoio. Un onore essere insultato da lui. Ma si fa politica per il bene comune, non per ripicca personale. Il governo Istituzionale è la risposta a chi vuole pieni poteri per orbanizzare l’Italia”. Il voto di oggi sul calendario del Senato, secondo Renzi, “renderà plastico che #CapitanFracassa è minoranza. Il Parlamento non è il Papeete, da domani #SalviniScappa”.

Oggi alle 16 e 30 Renzi farà una conferenza stampa al Senato per illustrare il valore del governo Istituzionale, e intestarsene così la potestà. Fonti renziane assicurano che il dialogo con il M5S prosegue, l’ex premier e Luigi Di Maio non si parlano direttamente ma si scambiano segnali. Il capo politico del M5S ha ribadito che “non c’è nessun tavolo con Renzi”, ma il rinnovato appello per votare la riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari è rivolto soprattutto al Pd (dopo quel voto ci vorrebbero mesi prima di andare a votare).

E veniamo a Zingaretti. Su Huffington Post il suo intervento è intitolato “Con franchezza dico no”. Ma il “No” è a un governo che faccia una legge di Bilancio impopolare e poi consegni i partiti che l’hanno votata – Pd e Cinque Stelle – perché “questo darebbe a Salvini uno spazio immenso di iniziativa politica tra i cittadini”. Corollario inevitabile: se invece la nuova maggioranza avesse un orizzonte più lungo, magari di legislatura, il “rischio plebiscitario” del trionfo leghista sarebbe almeno rimandato.

La prosa zingarettiana lascia infatti molti spiragli a una trattativa con il M5S. Pure troppi, per i renziani, che interpretano così le mosse del segretario: “Vuole prendersi la titolarità del dialogo”. I richiami di Zingaretti all’unità del partito, a compattarsi contro i nemici esterni, vengono letti nel partito come un chiaro avvertimento a Renzi: se alla fine si decide di fare un governo con i Cinque Stelle, sarà Zingaretti a farlo, non Renzi.

L’ex premier forse si aspettava una maggiore rigidità da parte di Zingaretti, così da giustificare una specie di scalata al potere effettivo nel Pd: se il segretario attuale vuole lasciare l’Italia a Salvini, l’ex segretario gli sfila i parlamentari e salva il Paese con un “governo istituzionale”. Le ambiguità di Zingaretti iniziano a irritare Renzi che, con la rapidità e la spregiudicatezza che gli sono proprie, potrebbe anche decidere di far precipitare la situazione. E creare gruppi separati da quelli del Pd, alla Camera e soprattutto al Senato, da offrire come base per un governo anti-Salvini ed embrione di un futuro partito. In caso di elezioni – è il ragionamento dei renziani – sarebbe Zingaretti a dover spiegare agli elettori perché ha preferito assecondare il trionfo di Salvini.

C’è un punto che Renzi ancora non ha affrontato: Sergio Mattarella. Il Quirinale per ora aspetta le mosse dei partiti prima di entrare nella gestione della crisi. Il capo dello Stato si è limitato a far capire che vuole un governo con pieni poteri che gestisca la legge di Bilancio o comunque un esecutivo che risolva almeno la questione dell’aumento dell’Iva che scatta a gennaio 2020 e che vale 23,7 miliardi. Lo schema Renzi-M5S risolverebbe molti di questi problemi. Ma Mattarella non ha dimenticato le millanterie di Luca Lotti, rivelate dall’inchiesta sulle nomine dei magistrati (“Mi basta un sms per essere ricevuto al Colle”). Questo potrebbe giocare contro il ruolo da protagonista che Renzi sta rivendicando.

Le carte di Conte: il discorso e poi il commissario Ue

Un centimetro alla volta, come nel già citato film Ogni maledetta domenica, la crisi di governo dispiega i suoi effetti e disegna scenari futuri.

In questa matassa, il presidente del Consiglio si è dato la consegna del silenzio. Ieri è andato a visitare, in forma riservata, una casa per anziani, oggi sarà a Foggia per firmare il Contratto di sviluppo per la Capitanata, da 280 milioni, mentre domani sarà a Genova, un anno dopo il crollo del Ponte Morandi. Evento delicato anche per capire come, un anno dopo gli applausi in chiesa, saranno accolti i leader di governo.

Per il resto il premier lavora al suo discorso che presumibilmente si terrà il 20 agosto in Senato. Nei conciliaboli, complicati e concitati, che si stanno tenendo in queste ore, il suo nome entra e esce in continuazione. Tra i dirigenti del Pd più propensi a un possibile governo con il M5S – non à la Renzi, ma più solido e duraturo – si esclude categoricamente che possa essere presieduto dallo stesso Conte, “troppo collegato al ‘governo del cambiamento’ gialloverde”. Ma allo stesso tempo del premier si è colto il nuovo profilo europeista, il sostegno a Ursula Von der Leyen ha modificato la percezione del professore negli ambienti di Palazzo.

Conte per il momento non si espone, ma nel suo arco ha due frecce che cercherà di giocare al meglio. La prima è il discorso parlamentare che si annuncia come di rottura, probabilmente “traumatica”, come ha osservato nei giorni scorsi il numero 2 della Lega, Giancarlo Giorgetti. Un discorso che regolerà un po’ di conti con Salvini e che servirà a Conte per esprimere, oggi, il suo profilo politico. La seconda freccia è la nomina del commissario europeo italiano che dovrebbe essere fatta entro il 26 agosto. Visto che non è chiaro come si snoderà la prossima settimana, non va escluso che si faccia già in questa settimana. Che nome avanzerà Conte? Dal Pd si avanza la richiesta di un nome potabile anche dal centrosinistra: ad esempio quel Raffaele Cantone avanzato da Renzi come premier di un governo Pd-M5S, a qualcuno non dispiacerebbe a Bruxelles. Ma Conte non fa nomi e non parla, e del dossier discuterà sicuramente con Mattarella. La sua scelta, però, aiuterà a capire come il premier si posizionerà nell’immediato e che direzione intende dare agli ultimi giorni della sua presidenza.

Il suo destino si intreccia, allo stesso tempo, con la prassi istituzionale e i regolamenti parlamentari. Il Senato, infatti, oggi deciderà di mettere in calendario “le comunicazioni del Presidente del Consiglio” e non la votazione delle mozioni di sfiducia o fiducia. Quanto si discuterà a palazzo Madama nel pomeriggio è decidere di dare vita a una sessione d’aula in cui, a norma dell’articolo 105 del Regolamento, “sulle comunicazioni del Governo si apre un dibattito a sé stante” in occasione del quale “ciascun Senatore può presentare una proposta di risoluzione, che è votata al termine della discussione”.

Solo che il premier può al termine della discussione, comunicare la sua intenzione di riferire al Presidente della Repubblica quanto emerso dal dibattito. “A quel punto” osserva la capogruppo di Forza Italia, Annamaria Bernini, “il presidente sale al Colle senza aver ricevuto la sfiducia e questo può aprire la strada a un Conte-bis”.

I precedenti nella storia repubblicana non mancano – solo Prodi si è fatto sfiduciare fino in fondo con la votazione sulla mozione di sfiducia – anche perché non c’è nulla come il rapporto tra il Quirinale e il Parlamento, in tempi di crisi di governo, a essere regolato dalla prassi e non da norme scritte.

A quel punto Conte potrebbe essere anche reincaricato dal Capo dello Stato, anche solo per un giro che ne constati l’impossibilità di formare un governo e quindi permettendogli di guidare il Paese alle urne. Oppure per altro. Va considerato anche che il 24 agosto ci sarà in Francia il vertice del G7 e mandare un premier dimezzato dalla sfiducia può essere un’opzione poco apprezzata dal Quirinale.

Ingroia sbalordito: “Azione civile, nome del mio movimento”

Azione civile è il nome che è circolato per eventuali gruppi parlamentari renziani, in una sempre possibile ipotesi di rottura con il Pd. Da quel nome potrebbe derivare anche il nome di un possibile partito capitanato da Matteo Renzi se si decidesse davvero alla scissione. Ma quel nome è stato già preso, esiste già e denomina l’associazione di Antonio Ingroia, nata dopo la sua avventura politica. E infatti l’ex pm insorge: “Sono sbalordito di fronte a questa iniziativa di Renzi, un tentativo di ‘usurpazione’ del nostro nome, una cosa senza precedenti. A mia memoria in Italia, nella storia della Repubblica, non c’è mai stato il caso di un nuovo partito che cerca di rubacchiare il nome a un altro movimento esistente da anni. Azione civile esiste dal 2013, quando venne costituita davanti a un notaio”. Dall’ex pm di Palermo arriva così “una diffida” a mezzo stampa all’uso del nome. A Ingroia risponde Ettore Rosato, vicepresidente della Camera, vicinissimo a Renzi: “Confondi lucciole per lanterne, caro Ingroia. I circoli lanciati da Renzi si chiamano ‘Comitati di azione civile’. Del resto lungi da noi usare un’idea di Ingroia, per ragioni di tutela del nome e soprattutto scaramantiche”.

Grillo ferma Renzi: i 5 Stelle trattano solo con Zingaretti

I 5 Stelle paiono allo sbando, incapaci di tenere una linea e allora tocca, per la seconda volta in pochi giorni, a Beppe Grillo tenerli sul binario. Dopo il messaggio “anti-elezioni”, ieri l’ex comico-politico tornato solo comico ha ripreso il ruolo di “Elevato consigliere supremo” del Movimento e messo a verbale il suo niet a Matteo Renzi e al suo recente attivismo: “Volano degli avvoltoi di nuova generazione: gli avvoltoi persuasori. È una nuova specie di sciacallaggio: invece di aspettare la fine cercano di convincerti che è già avvenuta. Non sono elevati, non volano neppure. In realtà strisciano veloci fra gli scranni”.

Il linguaggio, per così dire, alato non nasconde l’obiettivo di colpire il fiorentino, che col suo attivismo rischiava di dirottare i confusi grillini: il M5S, per evitare “i nuovi barbari”, tratta solo con il Pd come partito, cioè con Nicola Zingaretti, non con l’ex premier. Quest’ultimo, bontà sua, ha capito subito che si parlava di lui: “Grillo mi chiama ‘avvoltoio’. Un onore essere insultato da lui. Ma si fa politica per il bene comune, non per ‘ripicca personale’. Il governo istituzionale è la risposta a chi vuole pieni poteri per orbanizzare l’Italia. Avanti”.

Avanti, per carità, ma l’operazione “governo purchessia” messa in piedi da Renzi – con tanto di minaccia di scissione e nuovi gruppi aperti ai transfughi di Forza Italia – ne risulta ora assai ridimensionata: non ha sponde per riuscire davvero. Ora il suo dubbio è: posso fidarmi di Zingaretti e delle sue aperture alla “discussione” su un futuribile governo? Renzi non conosce la risposta, ma il suo spazio di manovra è poco: tutti sanno che accetterebbe quasi tutto pur di non votare subito trovandosi la truppa “renziana” in Parlamento decimata dalla nuova segretaria.

Dall’altra parte sta, appunto, Zingaretti. Teoricamente il governatore del Lazio s’è schierato per le elezioni subito e questa resta la sua linea ufficiale: anche tra chi lo sostiene, però, la voglia di governo è altissima. Al Nazareno lo chiamano già il “lodo Bettini”, nel senso di Goffredo, già king maker dei sindaci Veltroni e Rutelli: fare un governo coi grillini è quasi impossibile, ma “se, sorprendentemente, si potesse imboccare questa strada, allora l’alleanza dovrebbe durare tutta la legislatura. Salvini lancerebbe strepiti, ma se facessimo bene al governo, avremmo il tempo di assorbirli”. Insomma, si procede solo se il governo dura fino a scadenza e, nel 2022, già che si è lì si elegge il prossimo capo dello Stato: fare un accordo male assortito solo per rinviare il voto fino a febbraio sarebbe un suicidio.

Sul tutto dovrebbe posarsi la mano saggia e fondamentale di Sergio Mattarella, che però è un capo dello Stato meno attivista di quanto servirebbe ai convenuti di un’intesa come questa.

E qui si torna a Zingaretti. Se le circostanza, e le pressioni del Colle, dovessero spingerlo verso l’intesa col Movimento, ha già pronta una base di trattativa per far digerire l’improvviso cambio di rotta a elettori e militanti. In primo luogo al governo non dovrebbe restare nessuno dei protagonisti dell’avventura gialloverde: via Giuseppe Conte, che invece spera di giocarsi ancora le sue carte, e via anche il “capo politico” grillino Luigi Di Maio e i suoi colleghi/amici (diverso il discorso, ad esempio, per un tecnico d’area come il ministro dell’Ambiente Sergio Costa).

Questa è la pre-condizione, ma prima ancora serve la mossa d’apertura: la nomina del commissario europeo, entro il 26 agosto, dev’essere un segnale verso l’area democratica (c’è chi esagera e fa i nomi di Enrico Letta o Gentiloni, ma ieri girava pure quello di Raffaele Cantone, che a settembre lascia l’Anac ed è di certo più potabile per il M5S).

Non è finita. L’eventuale intesa contiene pure una sorta di abiura della stagione salviniana con l’abrogazione delle parti più controverse dei decreti Sicurezza del 2018 e 2019 approvati anche dai grillini. A quel punto, il patto di governo di legislatura dovrebbe contenere quattro o cinque punti chiari per durare almeno fino all’elezione del successore di Sergio Mattarella. Più che una base di trattativa, sembra un modo per farsi dire di no: ma se poi i 5 Stelle accettano?

Oddio, la divisione dell’atomo +Europa

Sarà forse per invidia del Pd che + Europa, il partito nato dall’unione di Centro Democratico e dei Radicali, sta dando prova di ampia dialettica interna. Prendiamo la crisi di governo. Voto sì o voto no? Un elettore “più europeo” decide di informarsi su cosa ne pensano i suoi. Emma Bonino: “Un appoggio esterno a un nuovo governo a trazione M5S non è credibile. Prolungare la legislatura in subalternità a una delle due forze di maggioranza non servirebbe”. Ok, voto subito! Poi però ci sono Riccardo Magi e Alessandro Fusacchia: “Possiamo metterci comodi e fare quello che vuole Salvini, andare a elezioni, consegnare il Paese alla Lega. O possiamo far funzionare la nostra democrazia parlamentare”. Dietrofront, non si vota più. Benedetto Della Vedova: “Impedire la vittoria annunciata di Salvini con un governo potrebbe facilmente ottenere il risultato opposto a quello desiderato”. Allora si vota? No: serve “un governo tosto che trovi la forza parlamentare sufficiente per operare una netta discontinuità con il governo Conte”. Certo, una realistica maggioranza Pd- Forza Italia- + Europa. Menomale che c’è Bruno Tabacci: “Riteniamo si debba respingere l’azzardo di Salvini, una nuova coalizione di centrosinistra si può costruire”. Prima, però, lasciamo che Più europa si metta d’accordo con sé stesso.

Luigi De Magistris si candida: “Siamo pronti per le elezioni”

Dopo due mandati come sindaco di Napoli e uno all’Europarlamento, Luigi De Magistris è pronto a candidarsi alle Camere. Lo ha annunciato lui stesso ieri in un post su Facebook: “Se il presidente della Repubblica, garante degli equilibri costituzionali, dovesse maturare la scelta dello scioglimento di Camera e Senato, ritengo sia venuto il nostro momento per candidarci alle politiche”. Al momento, De Magistris guida il movimento DemA, che però non ha mai partecipato a elezioni nazionali. ”Per sconfiggere Salvini e la sua armata – ha aggiunto il sindaco – devono scendere in campo persone coerenti e credibili con programmi forti, chiari e attuabili, in grado di unire il Paese nelle sue differenze. Si deve costruire un fronte popolare democratico di liberazione, una coalizione civica nazionale che possa finalmente puntare, dopo oltre 70 anni, all’attuazione della Costituzione. Questa è la sfida”. Nei giorni scorsi il Mattino aveva rivelato la notizia che De Magistris fosse in trattative con il Pd per le prossime politiche. Da vedere dunque se DemA sarà parte di una coalizione o se il sindaco sarà candidato direttamente delle liste del Pd.