La presidentessa scatenata: “Fatti vostri come convocate i senatori: basta un sms”

Ci vuole la pazienza di Giobbe. Oppure di Francesco Giacobbe, senatore dem, secondo mandato, eletto in Australia, residente laggiù, un giorno di volo da Roma. Per placare la frenesia del presidente Maria Elisabetta Casellati, durante la conferenza dei capigruppo di palazzo Madama riunita per fissare la data della mozione leghista contro il premier Giuseppe Conte, il renziano Andrea Marcucci solleva il quesito Giacobbe: “Come lo riportiamo qui?”. Casellati sprezzante: “È un problema tuo”.

Per Conte viene indicato il 20 agosto, un martedì. Non c’è accordo unanime. Il centrodestra ricomposto ha fretta, il centrosinistra con i Cinque Stelle no. Così il presidente, con la carriera forgiata da Berlusconi e le aspirazioni riposte in Salvini, ordina di convocare i senatori per oggi e stabilire il calendario dei lavori, cioè di valutare l’ipotesi – che per i numeri è perdente – di votare la sfiducia a Conte già domani, il 14 agosto, dopo le commemorazioni per l’anniversario della tragedia del ponte Morandi di Genova. Il regolamento lo permette, però l’interpretazione del presidente è ardita: una settimana fa, la medesima Casellati ha chiuso l’aula per ferie con apertura al 10 settembre; va contemplato l’impegno istituzionale di Genova; non pare che l’Italia sia sotto l’assedio di truppe straniere. Chi davvero conta le ore è Salvini. Per la matematica, oggi l’esito è scontato: Conte va dopo ferragosto a riferire a palazzo Madama, non domani su pressione dei leghisti. Però la matematica in politica è una vittima abituale.

Il centrodestra ha un piccolo vantaggio: è alleato con l’arbitro Casellati. Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia, si lascia sfuggire: “Io sabato ho precettato i miei senatori”. Avvisata da chi? Chissà. Per tradizione, i forzisti hanno un tasso di presenza bassino, ma il momento è catartico: qui in ballo ci sono le poltrone presenti e le poltrone future. Casellati avverte l’importanza del tema, e forse per non sfigurare con quel tipo iroso di Salvini, e forse per non esagerare con la temperanza istituzionale, si contiene poco, anzi per niente. Appena seduti, smorzati i sorrisi per i fotografi, Casellati assalta Loredana De Petris, senatrice di Leu e capogruppo del Misto: “Voi mi attaccate sui media”.

Perché sui media i senatori hanno scoperto le intenzioni del presidente: tentare di anticipare la mozione su Conte. Chiede l’opposizione, vale a dire l’opposizione a Salvini, dunque l’inedita triade M5S-Pd-Leu: “Come avvisiamo i senatori per domani?”. E la presidente Casellati, senza intenzione alcuna di offendere, con elegante leggerezza, replica basita: “Non li leggono i giornali?”.

Il battibecco è interessante perché si elencano ordinari e stravaganti metodi per informare i senatori sparsi per l’Italia, in giro per l’Europa o in altri continenti. Un paio di righe su Facebook? Un comunicato su Twitter? I prefetti? Il telegramma? Un giro di telefonate? Casellati seria: “Signori, con un messaggino”. Allora la senatrice De Petris, che miscela tattiche d’aula da prima che Casellati marciasse sul tribunale di Milano per il processo Ruby di Berlusconi, non ride neppure e risponde: “Mi scusi, neanche i condomini per un’assemblea si possono radunare con un messaggino”. Più che con la matematica, al solito la politica si sposa con la recitazione. Stavolta è livore puro, vero. All’uscita, il centrosinistra più Cinque Stelle contesta le forzature di Casellati, mentre il riesumato centrodestra esalta la splendida esibizione di Casellati.

Nel bel mezzo di questa buriana di ferragosto, Casellati è la più salda al posto e può cullare l’ambizione, di cui ormai si parla con dovizia di particolari anche al mercato rionale, di diventare presidente della Repubblica. C’è un modo, uno, per cullare meglio: omaggiare Salvini, licenziare la legislatura corrente, insediare un parlamento di destra e aspettare la scadenza nel 2022 del settennato di Sergio Mattarella. Chi ha lungimiranza, progetti del genere li vara a ferragosto. Se poi si chiama Casellati, anche prima.

E Matteo si gioca un’altra carta: via tutti i ministri

Matteo Salvini non può costringere Giuseppe Conte a dimettersi subito, ma può provare a forzarlo. Per rendere – se non altro – ancora più sgradevoli i suoi ultimi giorni da capo del governo gialloverde. La prossima mossa del “Capitano” è stata anticipata ieri sera dopo l’incontro con i gruppi parlamentari della Lega: “Se siamo pronti a ritirare i nostri ministri? Siamo pronti a tutto – ha detto Salvini – l’unica cosa che non vogliamo è scaldare le poltrone. Lo vedrete nelle prossime ore”. Sembra imminente l’annuncio delle dimissioni in gruppo dei 7 ministri leghisti (Giulia Bongiorno, Erika Stefani, Lorenzo Fontana, Gian Marco Centinaio, Marco Bussetti e Alessandra Locatelli, oltre allo stesso Salvini). La circostanza non è smentita né dai parlamentari né da fonti di governo del Carroccio.

Cosa cambierebbe? Nella sostanza poco: il premier può insistere e mantenere fermo il proposito di presentarsi in Parlamento. E decidere le sue, di dimissioni, non prima dell’intervento in Senato del prossimo 20 agosto (a meno di clamorose sorprese nel voto di oggi in cui si stabilisce il calendario). È sempre il presidente del Consiglio a scegliere quando formalizzare la rinuncia all’incarico e la fine del governo a Sergio Mattarella, che dovrà poi emanare un apposito decreto: sui tempi della caduta di Conte, insomma, decide ancora soprattutto Conte. Nella forma invece – secondo Salvini – il premier rimasto senza i ministri leghisti si troverebbe in una situazione ancora più difficile di fronte all’opinione pubblica: a quel punto ogni ulteriore tentativo di “allungare il brodo” sarebbe ancora più imbarazzante.

Del resto il capo della Lega sembra tutt’altro che pentito di aver iniziato la crisi di Ferragosto. Nell’incontro con i suoi di ieri sera si è fatto accogliere dalla scenografica standing ovation di ministri e parlamentari, per mostrare che la Lega rema tutta dalla stessa parte. Il ragionamento è largamente condiviso dai suoi tenenti: “Se fanno una grande accozzaglia per non andare alle elezioni con renziani e grillini, LeU e radicali, davvero la prossima volta che si vota prendiamo l’80%”. Per questo motivo i leghisti non si strappano i capelli, affatto, per il voto del Senato di oggi pomeriggio, dove con ogni probabilità il centrodestra andrà sotto contro l’inedito asse Pd – Cinque Stelle – Gruppo Misto: “Almeno – commenta un senatore del Carroccio – si mostreranno alla luce del sole”.

Se c’è un aspetto davvero imbarazzante, nella svolta di Salvini, è l’improvvisa, ritrovata unione d’intenti con Silvio Berlusconi. In poco più di 48 ore il “Capitano” è passato dall’orgoglioso annuncio di essere pronto ad andare da solo alle elezioni (“Non guardo al passato”, giovedì scorso dal palco di Pescara) a una nuova apertura ai vecchi alleati di centrodestra (“Nelle prossime ore vedrò Berlusconi e la Meloni alla luce del sole. Gli proporrò un patto, l’Italia del sì contro l’Italia del no”, dall’intervista al Giornale di domenica).

La verità è che il nuovo patto con i forzisti è soprattutto una trovata strategica: per gestire la fase parlamentare della crisi, Salvini ha bisogno anche dei deputati e dei senatori di Forza Italia, che infatti si sono subito allineati (anche se bisognerà contare le defezioni, già dal voto di oggi pomeriggio). Poi – “solo quando si avrà certezza della data delle nuove urne”, sottolinea un leghista di governo – si potrà pensare davvero a un patto elettorale. Sempre che Salvini a quel punto rispetti la parola data. Come riconosce ridendo Anna Maria Bernini, capogruppo di B. al Senato, “si tradiscono marito e moglie, figuriamoci se non mettiamo in conto di poter essere traditi da Salvini”. Tanto Forza Italia non ha alternative.

Senato, primo voto anti-Lega M5S, Pd e Leu vanno insieme

Alla fine la conferenza dei capigruppo del Senato serve soprattutto a scattare la fotografia della nuova, inedita composizione del Parlamento italiano: da una parte il vecchio centrodestra (Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia) che vuole correre alle urne. Dall’altra l’asse trasversale degli anti-Salvini, l’unione estemporanea di Cinque Stelle, Pd e gruppo misto (LeU, Radicali, ex grillini, Maie), che vogliono prendere tempo e prolungare la fase di stallo, magari per agevolare le condizioni che consentano alla legislatura di andare avanti almeno per qualche mese.

Una strana alleanza che alla fine la spunta, ma giusto il tempo dell’ultimo rilancio di Salvini, che ha lasciato intendere il ritiro già nelle prossime ore dei suoi ministri dall’esecutivo gialloverde. Il leghista vorrebbe forzare Giuseppe Conte a rinunciare al passaggio parlamentare con il quale il premier intende denunciare, pubblicamente, le sue responsabilità della caduta del governo.

Un passaggio che però il centrodestra teme possa fornire “una rampa di lancio”, (il copyright è della capogruppo dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini) per un Conte bis. Salvini, neanche a dirlo, vede quest’ipotesi come fumo negli occhi: il premier o un’eventuale altra personalità incaricata da Sergio Mattarella di verificare l’esistenza di altre maggioranze in Parlamento, potrebbe prolungare la legislatura. E sarebbe l’ultimo ostacolo al plebiscito che probabilmente attende la Lega alle urne.

Per questo motivo, tra una minaccia sul ritiro dei ministri e un’invettiva via social, tenterà di contrastare con ogni mezzo la manovra dilatoria sul calendario che sarà deciso oggi dalla maggioranza dell’Aula.

A Palazzo Madama il gruppone dei temporeggiatori si avvale di una maggioranza abbastanza solida: sulla carta, al netto delle assenze di chi non riuscirà o non vorrà tornare in tempo dalle vacanze, l’asse anti-Salvini dovrebbe contare 159 senatori contro 137. E quindi dovrebbe ottenere che tutto sia rimandato al 20 agosto: per le comunicazioni del presidente del Consiglio e non certo per la votazione della mozione di sfiducia presentata a Conte dal Carroccio.

Il centrodestra invece chiederà nella seduta dell’Aula del Senato convocata per oggi, di votare subito (alle 18 di domani, dopo la commemorazione a Genova delle vittime del crollo di Ponte Morandi) la sfiducia al premier. Insomma sarà un’altra giornata campale, dopo che ieri la tensione in capigruppo è stata per ore alle stelle, con coda polemica finale da parte della capogruppo di LeU, Loredana De Petris che ha accusato la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati di fare il gioco di Salvini e di non essere arbitro imparziale. Stessa accusa da parte del suo collega del Pd, Andrea Marcucci che l’ha messa sulla graticola per la forzatura al regolamento che comunque costringerà i senatori ad essere a Roma oggi pomeriggio. “Uno spettacolo indegno e una forzatura gravissima, visto che c’era già l’accordo della maggioranza su Conte che avrebbe riferito il 20 in Aula” ha detto Marcucci, reduce da una riunione in mattinata con il segretario dem Nicola Zingaretti e il presidente del partito Paolo Gentiloni in cui sarebbero rientrate tensioni e spaccature tra renziani e non.

Se può essereuna prova, alla successiva riunione del gruppo del Pd convocata subito dopo a Palazzo Madama (Renzi era assente) il clima era più che disteso. A tenere banco Bruno Astorre che arrivando ha salutato i suoi compagni di ventura tornati malvolentieri dalle ferie, con uno scanzonato: “Buonasera a tutti belli e brutti”. Per poi passare ad illustrare, una volta chiuse le porte ai cronisti, la differenza sostanziale tra due tipiche espressioni romane (sticazzi e mecojoni) ad uso dei senatori non residenti nel Grande raccordo anulare.

Più pensosa la riunione che ha tenuto riuniti per quattro ore i gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle, centrata sul tradimento di Salvini, sui parzialissimi mea culpa di Luigi Di Maio accusato di non essere stato capace di contenere l’ormai ex alleato della Lega, sul riconoscimento a Conte di aver “fatto un grande lavoro”. Poi però si è data voce ai parlamentari che si sono spaccati in due, tra chi vuole mandare avanti la legislatura se Conte se ne farà garante e chi vuole andare a votare, perchè “bisogna tornare ai valori originali” e di alleanze con Renzi e i renziani “non se ne possono fare, il Movimento non sopravvivrebbe”. In mezzo veleni e polemiche riassumibili in una domanda: “Ma chi non teme le urne è perchè ha già la certezza di una rielezione sicura, magari con la deroga al limite del secondo e del terzo mandato?”. Insomma una seduta di autoanalisi. Prima dell’ultimo azzardo di Salvini per imporre un altro ritmo alla crisi.

Vuoti poteri

Ieri colui che si credeva (e veniva descritto come) il padrone del vapore ha definitivamente perso il controllo della situazione. I pieni poteri, almeno per ora, se li può scordare, e anche quelli vuoti. In Parlamento -dice la Costituzione- vince la maggioranza e Salvini è minoranza, anche col concorso esterno di FdI e di B. (che lui giurava di non voler più vedere: a proposito di coerenza). Dunque il colpo di mano del redivivo centrodestra col soccorso della cosiddetta presidente del Senato per anticipare il voto su Conte alla vigilia di Ferragosto è miseramente fallito. Oggi, anzi, a Palazzo Madama nascerà una nuova maggioranza 5Stelle- Pd- sinistra che approverà la soluzione più ragionevole: discorso di Conte e fiducia-sfiducia intorno al 20 agosto e poi, a seconda dell’esito, le consultazioni e le decisioni del capo dello Stato. Il dibattito su ipotetici nuovi governi è prematuro e non promette nulla di buono: tutti badano agli interessi di bottega e ai regolamenti di conti del proprio partito, anzichè a quella visione di ampio respiro che dovrebbe ispirare chi volesse guidare l’Italia in una fase tanto drammatica.

Meglio tenere il carro dietro i buoi e pensare, intanto, al dibattito del 20, quando Conte potrebbe mettere Salvini ancor più nell’angolo. M5S, Pd e sinistra dovranno evitare che passi la sfiducia di Lega, FI e FdI, giocando su assenze, astensioni e uscite dall’aula. Semprechè il premier non si dimetta senz’aspettare il voto dell’aula. Così Conte potrà salire al Quirinale legittimato a tentare un bis senza più i ministri leghisti (spudoratamente ancora al loro posto dopo essersi sfiduciati da soli), sostituiti con personalità indipendenti. Non per durare in eterno con pasticci anti-elezioni, ma per fare poche cose molto popolari: preparare una legge di Bilancio che scongiuri l’aumento dell’Iva e nuovi fulmini da Ue e speculatori; adattare la legge elettorale al taglio di 345 parlamentari; e avviare il Paese imparzialmente alle elezioni di marzo. Nel frattempo chi terrebbe in piedi l’eventuale Conte-bis? La risposta, ancora una volta, è nella Costituzione: ciascun parlamentare è eletto “senza vincolo di mandato” e “rappresenta la Nazione”. Quindi i partiti facciano un bel passo indietro e li lascino liberi di scegliere secondo coscienza fra due opzioni: una corsa dissennata al voto in ottobre, con una campagna strozzata ed esagitata, che comporterebbe l’esercizio provvisorio e i banchetti della speculazione a spese dell’Italia; o un governo con scopi e tempi limitati che nessun Salvini potrebbe bollare di “ribaltone”. Specie se il ribaltone, tradendo il M5S per tornare da B., l’ha fatto lui.

Kyrgios, il fuoriclasse del tocco. Ma la psiche è da clinica mentale

È la quintessenza del tennista catulliano. O lo odi, o lo ami. Più spesso, entrambe le cose. Nick Kyrgios è talento puro, ma se bastasse il talento allora Henri Leconte avrebbe vinto molto più di Wilander. Australiano, padre greco e madre malese, nato il 27 aprile 1995. Il più grande talento della sua generazione, ma vincerà molto meno del pennellone stancamente ariano come Zverev, di picchiatori russi alla Khachanov e di atleti poco estetizzanti come Auger-Aliassime. Se il tennis è estetica, e accidenti se lo è, tra gli under 30 occorre osservare anzitutto “Tenenbaum” Tsitsipas. Il (sin troppo) funambolo Shapovalov. E poi Kyrgios. È in grado di generare un tennis di bellezza aliena, straripante e osceno, misterico e divino. Ma ha voglia sì e no 3 settimane l’anno. Si allena poco, e anche per questo s’infortuna spesso. È da fuoriclasse il tocco, ma è da clinica mentale la psiche. In confronto McEnroe era quasi (ho detto “quasi”) normale e tutto sommato Safin un bell’esempio di abnegazione. Oggi Kyrgios è 27 al mondo: il suo best ranking dice 13.

Fino a 10 giorni fa era uscito dai primi 50, poi a Washington si è ricordato di (poter) essere un fuoriclasse e ha vinto il torneo, regalando bellezza disarmante e nichilista prima con l’amico Tsitsipas e poi in finale con Medvedev. Entrambi top ten. A oggi ha battuto venti volte un top ten (undici dei quali erano top five). Se vuole, Nick può tutto. Il suo problema è che l’avversario peggiore resta se stesso. Quindi può perdere contro chiunque.

Per esempio a Roma con Casper Ruud, lanciando già che c’era una sedia in campo. Oppure scendendo in campo per finta, per esempio con Misha Zverev nel 2016 o quest’anno a Stoccarda con Berrettini, quando ha giocato dopo aver fatto le ore piccole per vedere il basket. Nick avrebbe voluto essere un cestista, cosa che ha fatto fino ai 13 anni, salvo poi scoprire di essere un predestinato con la racchetta. Al punto da vincere gli Australian Open 2013 juniores. Resta però un fanatico dell’Nba (tifa Boston Celtics) e un accanito sostenitore del Tottenham Hotspur. Nelle interviste – mai banali – si lamenta di come viaggiare di continuo lo privi dei momenti importanti da godere coi suoi affetti.

Lo ripeté commosso quando morì sua nonna, maledicendosi per non averla potuta salutare un’ultima volta. Anche per questo, quando vince una partita, esulta di rado: “È solo tennis, le cose serie sono altre”. Chi non lo conosce lo paragona a Balotelli, ma Nick è uno che pensa pure troppo. Non è un pazzo a caso: è un pazzo con troppa testa. Il che peggiora le cose. Ricorda George Best: nel bene e nel male. A oggi ha vinto 6 tornei: tanti per uno normale, pochi per lui. Nei Masters 1000 si è spinto al massimo in finale a Montreal 2017: perse con Dimitrov. Negli Slam nulla più di due quarti: Wimbledon 2014 e Australian Open 2015. Era, quello, il primo Kyrgios. Quello dell’innamoramento. Il prodigio lo caratterizzava. Era strano, ma non così pazzo. Poi ha cominciato ad assecondare la vena circense. Nel 2015 diede del cornuto a Wawrinka durante una partita prossima a un incontro di boxe. Nel 2016 vinse a valanga tre tornei, ma cominciarono pure le esagerazioni fini a se stesse. I tweener a casaccio (il colpo tra le gambe). Gli scazzi con l’arbitro. Gli sketch col pubblico. I servizi da sotto (sì, “alla Chang”). Più Kyrgios (non) cresceva e più diveniva un funambolo che giocava non per vincere, ma per regalare a Youtube il colpo impossibile. Sembra interessato a vincere solo quando ha davanti un campione che detesta (tipo Nadal e Wawrinka). Fare previsioni con lui è impossibile. Rischia di essere uno dei più grandi dissipatori di sempre e, per questo, molti lo detestano. Al suo massimo è però uno dei pochissimi che merita il prezzo del biglietto. E perfino i suoi spigoli, ora divertenti e ora indecenti, suonano come una benedizione per un circuito troppo spesso ipocritamente anestetizzato. Per questo, e nonostante tutto: c’mon Nick!

La crisi al tempo dei conti pubblici “groviera”: il salto nel buio italiano

Non esiste un periodo propizio per una crisi di governo. Tantomeno in un Paese pesantemente indebitato, con i conti pubblici modello groviera e tenuto a galla dalla Bce con massicci acquisti di titoli di Stato. Ma nell’attuale frangente il salto nel buio evoca quelle pratiche sadomaso estreme con tragico epilogo nel reparto di terapia intensiva.

L’economia mondiale già di per sé in condizioni cagionevoli, ha appena ricevuto due micidiali uppercut dall’amministrazione Trump: l’estensione di pesanti dazi a quasi tutte le importazioni cinesi e l’accusa alle autorità di Pechino di manipolare il cambio. Con l’intensificarsi della guerra commerciale che ha portato ad un rallentamento sostanziale della crescita cinese, i rischi di recessione globale si impennano. E se Trump dopo la Cina mettesse nel mirino anche l’Unione europea, come già minacciato, lo scontro investirebbe in pieno le imprese manifatturiere italiane orientate all’export che finora hanno tenuto a galla l’economia italiana.

Le avvisaglie peraltro non mancano. I dati economici dalla Germania (strettamente integrata con l’industria italiana di punta) hanno confermato che la produzione industriale (-5,2% in dodici mesi) attraversa una crisi profonda a causa principalmente della frenata nelle esportazioni (-8% in dodici mesi). A questo quadro si aggiungono tensioni gravide di conseguenze micidiali come le proteste contro il regime comunista a Hong Kong oppure le continue provocazioni iraniane nel Golfo Persico. Senza dimenticare che quando in autunno l’onda di piena della guerra commerciale sarà ai massimi, a Londra si scatenerà lo scontro finale sulla Brexit.

L’ansia profonda sui mercati internazionali è evidenziata dal prezzo dell’oro schizzato a 1.500 dollari all’oncia dopo aver pigramente oscillato intorno ai 1300 per oltre tre anni. Se il nervosismo dovesse sfociare nel panico, le ripercussioni sugli asset più rischiosi inclusi i titoli di stato italiano sarebbero incontrollabili. Sarebbe indispensabile un governo dalle idee chiare sul taglio delle spese parassitarie e la barra dritta sulle riforme che stimolino investimenti e assunzioni. Invece l’Italia per tre mesi verrà risucchiata in una virulenta campagna elettorale combattuta a colpi di farneticazioni sull’uscita dall’euro, promesse di violare le regole europee e vittimismo straccione di una classe politica propensa a spacciare soluzioni miracolistiche.

Alle prime avvisaglie della deflagrazione, lo spread tra Bund e Btp – è salito di 40 punti in pochi minuti. San Mario (Draghi) in otto anni ha compiuto più miracoli di Padre Pio per scongiurare il destino ellenico. Ma il sangue di Santa Christine Lagarde difficilmente si scioglierà sulla console del Papeete tra le cubiste in estasi.

Sperimentazioni animali: la tassa

Con un governo in crisi, speriamo che non cada nel vuoto la richiesta dei ricercatori di una moratoria del decreto del ministero della Salute che prevede il pagamento di tariffe per l’autorizzazione di progetti di ricerca con sperimentazioni animali. Le 6 società scientifiche (farmacologia, tossicologia, neurologia, neuroscienze, fisiologia, immunologia clinica e allergologia) nella lettera inviata ai ministri della Salute, Istruzione ed Economia, contestano oltre all’impatto economico (vista la riduzione progressiva degli investimenti nella ricerca in Italia, tra i più bassi in Ue) anche un insuperabile ostacolo amministrativo: il pagamento di queste nuove tasse deve essere innanzitutto previsto in un capitolo di spesa relativo al progetto per cui si richiede l’autorizzazione e all’ente di ricerca deve essere data la disponibilità di quella somma (rischiando di perderla se il progetto non passa). L’organismo erogatore infatti non può anticipare il finanziamento prima che il progetto di ricerca non abbia ottenuto il via libera dal ministero. Con la conseguenza che molte ricerche verranno sospese (in caso di rinnovo) o ritardate se non verrà modificata la norma.

Anche il Sud scopre l’Erasmus. Più fondi stanziati per l’Italia

È considerato uno dei migliori programmi dell’Unione europea. Dal 1987 ad oggi ha promosso lo scambio di circa 9 milioni di persone (500mila gli italiani) fra 5mila istituzioni universitarie. Strumento di formazione dell’identità europea per eccellenza, il progetto Erasmus lo scorso anno ha permesso a 800mila europei, tra studenti, docenti, ricercatori, artisti, sportivi e volontari, di trascorrere da pochi mesi a tre anni in un altro Paese per studiare o lavorare. Secondo le valutazioni d’impatto della Commissione Ue, chi fa l’Erasmus impara una nuova lingua, espande i propri orizzonti professionali, allarga la propria rete di contatti e comincia a sentirsi più europeo. Tanto che tra gli ex Erasmus il rischio di essere disoccupati a 5 anni dalla laurea è del 23% più basso della media e un tirocinante Erasmus su tre riceve un’offerta di lavoro dalla società che lo ha formato all’estero. In altre parole il programma di mobilità dell’Unione europea ha un effetto positivo sulla vita professionale e sull’identità culturale di chi lo fa.

Insomma, un sistema collaudato che per farlo funzionare va oliato: nel periodo dal 2014 al 2020 l’Unione europea ha stanziato 14,7 miliardi di euro, circa il doppio di quanto stanziato dal 2007 al 2013. E circa due terzi sono dedicati alla forma più conosciuta dell’Erasmus, ovvero i periodi di scambio universitario per gli studenti dei paesi europei. Il resto è, invece, utilizzato per altri partenariati formativi e iniziative professionali nel campo della cultura, del volontariato e dello sport. Ma dal punto di vista del budget, l’Ue potrebbe e dovrebbe fare di più. Solo nel 2018 la Commissione europea ha stanziato 161 miliardi di euro. E di questi, solo 2,3 miliardi (l’1,4%) sono stati dedicati al programma Erasmus+ (dal 2014 ha sostituito il tradizionale Erasmus, rivolgendosi non più solo agli universitari ma a tutti gli studenti tra i 13 e i 30 anni) da usare in più di 34 Paesi. Per fare un confronto, nel 2018 l’Unione europea ha speso 57 miliardi per l’agricoltura e 7 miliardi in amministrazione.

Un gruzzoletto da cui l’Italia ha ottenuto il 20% rispetto al 2018. Per il prossimo anno scolastico, infatti, la dotazione finanziaria Erasmus+ ammonta a 54 milioni di euro, di cui 44 milioni saranno utilizzati per la realizzazione di iniziative di mobilità transnazionale, mentre 9 milioni favoriranno lo sviluppo di partenariati strategici. Un budget maggiorato che potrebbe anche essere utilizzato per aumentare l’importo delle borse di studio che – questa è una delle critiche maggiori ricolta al programma – ammontano spesso a importi insufficienti per chi ha intenzione di vivere in un altro Paese: uno studente italiano in media ottiene circa 300/350 euro al mese, cui aggiungere le integrazioni su base locale o regionale (che variano in base all’università) e quelle relativa al reddito (che vengono stanziate sul calcolo dell’Isee).

Nel dettaglio, i progetti italiani ammessi a finanziamento nel 2019 sono stati in totale 168, di cui 128 quelli di mobilità (102 nel 2018) e 40 di partenariati strategici (35 nel 2018), con un incremento rispettivamente del 20,3% e del 12,5% in confronto al 2018. Guardando alle categorie di partecipanti ai progetti di mobilità approvati, si riscontra un maggiore coinvolgimento di soggetti con disabilità (+27,6% rispetto al 2018) e un incremento particolarmente significativo dei partecipanti con minori opportunità economico-sociali che ne ostacolano l’accesso ai percorsi di istruzione e formazione, che passano da 476 nel 2018 a 1735 nel 2019 (+260%). Dando uno sguardo, poi, alla risposta territoriale al bando, nel 2019 si evidenzia un aumento delle iniziative in tutta Italia, con un numero maggiore di progetti finanziati nel Centro rispetto allo scorso anno (+32,5%). Per quanto riguarda i progetti approvati nel Sud e nelle Isole, si registra una crescita pari al 27,8% rispetto al 2018, nonostante una riduzione del numero complessivo di candidature presentate in tale area in relazione all’annualità precedente.

“Particolarmente interessante – spiega Stefano Sacchi, presidente dell’Inapp (l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) – è il dato dei progetti di mobilità transnazionale finanziati nel Sud e nelle Isole, in aumento del 53,8% rispetto al 2018: questi progetti offriranno maggiori opportunità formative e professionalizzanti presso imprese o centri di formazione nell’Unione europea, per poi tornare e iniettare nuova linfa e portare nuove competenze nel loro territorio di origine, contribuendo al suo sviluppo”. Per quanto attiene al Nord Italia, appare interessante evidenziare che, seppur presenti un incremento inferiore delle iniziative approvate in confronto alle altre due macro aree territoriali (+13,1% rispetto al 2018), tale area detiene anche nel 2019 il più alto numero di progetti finanziati (69 al Nord, 53 al Centro e 46 al Sud).

L’autonomia mina l’unità: l’identità è multiculturale

“Ci può essere un nazionalismo che non si adulteri in neoidentitarismo, e che quindi non dia alimento a sopraffazioni e razzismi? Questa è la domanda fondamentale che ci dobbiamo fare oggi”. È questo il perno centrale del libro di Christian Raimo Contro l’identità italiana, appena uscito da Einaudi. Una domanda la cui risposta empirica – raccolta sul campo della rinascita dei nazionalismi, dei razzismi, dei fascismi in tutto il mondo e, come è fin troppo noto, anche da noi in Italia – sembra essere: no, non esiste la possibilità di far convivere identità e apertura, identità e solidarietà, identità e multiculturalismo. “Eppure – continua a interrogarsi Raimo – se la facciamo finita con l’identità, che rimane?”. Se i governi passano, e se perfino i ducetti di turno sono destinati a una (speriamo) veloce archiviazione, continueremo a lungo a riflettere su questo nodo centrale dell’identità otto–novecentesca: e Raimo, che è uno dei più generosi e reattivi intellettuali italiani di oggi, non si è tirato indietro, ingaggiando un fruttuoso corpo a corpo con l’invenzione della nostra identità nazionale, e sui suoi usi attuali, in gran parte terribili.

Nelle righe che seguono vorrei provare a rispondere a quella domanda iniziale: con una risposta che nel libro non è presa in considerazione, ma che dal mio punto di vista è invece l’unica possibile. Alludo a quella contenuta nella Costituzione repubblicana del 1948. Se Raimo non la cita, è perché negli ultimi decenni la politica e il dibattito culturale italiano hanno quasi completamente lasciato cadere quel progetto: che tuttavia oggi appare più urgente che mai.

La parola “Nazione” è rarissima nella Costituzione, l’unico dei dodici principi fondamentali in cui essa figuri è l’articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico–artistico della Nazione”. La Costituzione riconosce la nazione solo in relazione alla cultura, alla ricerca, al paesaggio e al patrimonio artistico: non al sangue o alla stirpe, o alla fede religiosa. In poche parole: l’articolo 9 della Costituzione proclama che la nazione italiana si è costituita per via di storia e di cultura. Ed è dunque per definizione aperta a tutti coloro che verranno a vivere su questo suolo, modificando un’identità culturale che si presenta essa stessa come un palinsesto composito.

Si potrebbe ricordare, per fare un solo esempio, che il documento su carta più antico d’Europa è conservato in Italia (in Sicilia), ed è una lettera di una principessa normanna scritta in arabo: la nostra identità è multiculturale da sempre. Non siamo mai stati una nazione etnica, “per via di sangue”: ci siamo lentamente formati per ius soli. Grazie a quel paesaggio e a quel patrimonio.

Questo progetto di nazione aperta, di “nazione antinazionalista”, doveva crescere nella scuola: perché – argomenta Concetto Marchesi in Costituente, proponendo di destinare alla “scuola aperta al popolo” i bilanci militari – “è nella scuola il presidio della Nazione”.

“Non sarà vano ripetere – aggiunge Marchesi – che su tutte le distinzioni e le autonomie regionali, la scuola, e soltanto la scuola, garantisce l’unità della Nazione … L’istruzione — primaria, media, universitaria — è funzione dello Stato, in quanto essa rappresenta, sopra ogni interesse privato e familiare, l’interesse nazionale”. L’etno–regionalizzazione della scuola prevista dall’autonomia differenziata costruita dal Pd e ora cavalcata dalla Lega distrugge non a caso proprio questo progetto. Ben sapendo che nella scuola prevista dalla Costituzione tutti i piccoli migranti possono diventare italiani: modificando contestualmente la nostra identità in senso multiculturale.

Era il progetto, o il sogno, di una generazione che aveva assaggiato sulla propria pelle la follia dei nazionalismi. Quando ero studente in Normale, il presidente Ciampi (su cui il libro di Raimo formula un giudizio molto negativo, che non condivido) venne a raccontarci che quando, il 10 giugno del 1940, la radio portò anche alla Normale la voce di Mussolini che scandiva la dichiarazione di guerra, preparandosi a maramaldeggiare oscenamente sulla Francia piegata dalle armate naziste, un gruppo di normalisti (tra i quali si trovava anche il futuro presidente) intonò proprio l’inno di Francia, la Marsigliese: affrontando poi le sanzioni comminate dal direttore della Scuola, Giovanni Gentile.

Cantare la Marsigliese in quel momento significava interpretare il concetto di patria in un modo tanto polemico col presente fascista, quanto carico di futuro: fino a prefigurare l’idea mazziniana di patria (pacifica, antinazionalista e fondata sui diritti umani) che sarà poi tratteggiata dai principi fondamentali della Costituzione. Mentre i giovani normalisti insorgevano, Piero Calamandrei annotava nel suo diario: “Gli inglesi e i francesi e i norvegesi che difendono la libertà sono ora la mia patria”.

Questo modo di concepire l’identità italiana era, nel 1948, profetico: oggi è qualcosa per cui vale la pena di lottare.

Socialdemocrazia al bivio: l’ecologia sarà la scialuppa?

Sono bastate le recenti vittorie elettorali in Europa perché la socialdemocrazia, in crisi, sia considerata in via di “rinascita”. Malgrado le pesanti responsabilità e le molte divisioni. Ha ancora qualcosa da offrire alla sinistra sul fronte sociale ed ecologico? Abbiamo chiesto il parere di Pervenche Berès e Emmanuel Maurel. La prima, responsabile del Partito socialista francese (PS) e a lungo vicina a Laurent Fabius, segue questioni economiche e monetarie. Il secondo, deputato europeo nel 2014 in una lista socialista, è stato riletto quest’anno per la France Insoumise, tra i banchi della sinistra radicale (GUE/NGL). Li abbiamo incontrati due giorni dopo la sconfitta elettorale di Syriza in Grecia.

Ritenete che la socialdemocrazia sia responsabile del fallimento del partito di Tsipras, che contestava il principio europeo dell’austerità?Pervenche Berès. È stata una sconfitta annunciata, dannosa per la Grecia e per l’Europa. Syriza era tra le voci progressiste, uno dei partner possibili per la crescita della socialdemocrazia. Si condividevano idee su economia, accoglienza ai migranti e Stato di diritto. In Grecia, come in molti altri Paesi, sono stati i mercati a decidere e Tsipras si è dovuto adeguare.

Emmanuel Maurel.Quanto sta accadendo è drammatico: il ritorno al potere delle vecchie oligarchie responsabili della crisi. Tsipras piaceva ai socialdemocratici, ma solo dopo che si è trovato con le spalle al muro e si è comportato da “bravo scolaretto”. Tutti sono stati ipocriti, François Hollande in testa. Più in generale, i leader dell’Unione europea (UE) hanno una responsabilità storica: bisognava creare un precedente, annientare una forza politica nuova che sfidava i fondamenti macroeconomici dell’UE. Ero un giovane deputato europeo: come la crisi greca è stata gestita – “o ti sottometti o ti dimetti” – è stato un trauma.

P.B. La Grecia è stata un laboratorio per molte cose, comprese le ingerenze di JeanClaude Juncker, allora presidente della Commissione europea, al momento delle elezioni. Ma non si è imparato nulla. Non si è fatto nulla contro la formazione di profondi squilibri e ancora adesso non abbiamo strumenti per correggerli, mentre il costo di un’eventuale uscita dall’euro è fuori dalla nostra portata.

La socialdemocrazia dovrebbe cercare e promuovere questi strumenti. Può farcela se è unita, mentre alcuni leader fanno parte di una lega anseatica (Paesi Bassi, Finlandia, ecc.) per la quale persino Macron va troppo lontano sulla via della solidarietà?E.M. Le culture politiche nazionali sono decisive. È più facile trovare punti in comune con la destra gollista che le socialdemocrazie dei Paesi baltici. Ma i partiti socialdemocratici europei condividono tutti una cosa: la rinuncia ad un cambiamento sociale radicale. La socialdemocrazia nasce sul conflitto tra lavoro e capitale, strappando compromessi per favorire il lavoro, ma ha abbandonato la lotta. Alla fine degli anni ’90, quando aveva la maggioranza nell’UE, ha persino favorito la globalizzazione. Il socialismo francese, costruito sulla lotta di classe e sulla Repubblica, ha resistito a lungo. Il mandato di François Hollande, con la riforma del lavoro e la proposta sulla privazione della cittadinanza, ha polverizzato ciò che rimaneva di questa tradizione: per me, il drammatico finale di una storia che ha comunque portato successi e risultati.

P.B.Per quanto mi riguarda, bisogna risalire al 1989. All’epoca non capivamo che stavamo diventando complici di un capitalismo finanziarizzato e di una globalizzazione basata sull’iniquità degli scambi. Sulla carta, i nostri valori sono belli e giusti, ma abbiamo perso la credibilità per poter incarnare un’alternativa.

Sentendola parlare, Emmanuel Maurel, mi chiedo se aderisce ancora ai valori che la socialdemocrazia avrebbe tradito o se invece rimette in discussione la pertinenza storica di questa famiglia politica… E.M. Sento di appartenere a una famiglia che si riconosce nei fondamenti del marxismo e crede nella conflittualità di classe; famiglia nella quale ho scelto di entrare, combattendo per più democrazia e redistribuzione delle ricchezze. Ma, da diversi decenni, c’è una versione socialdemocratica del neoliberismo. Tutto qui. La cosa, secondo me, è legata alla sparizione della questione sociale anche nel progressismo americano, che è limitato alle rivendicazioni dei diritti e ha rinunciato al conflitto di classe. È tempo di voltare pagina, anche se mi sento sempre un socialista.

P.B. Da sottolineare alcuni recenti successi della socialdemocrazia in Europa, legati al ritorno della questione sociale, come Pedro Sánchez in Spagna. La socialdemocrazia può ricostruirsi a partire da qui. Ci dobbiamo lavorare in Europa e in Francia.

In Spagna, Portogallo e in Finlandia, i socialdemocratici stanno adottando budget in contrasto con l’austerità. Sono dunque in grado di attuare politiche diverse?E.M. Nel sud dell’Europa, la violenza sociale della destra ha generato, nella società, un istinto di sopravvivenza e il desiderio di ripristinare salari e spese tagliate. È un ritorno all’equilibrio, ma non ci sono riforme strutturali.

P.B. Non sono d’accordo. Questi eventi dimostrano come l’alternativa sociale possa vincere. Sull’assenza di riforme strutturali, bisogna notare che i primi ministri Sánchez (in Spagna) e Costa (in Portogallo) sono favorevoli a un’alleanza che vada fino a Emmanuel Macron purché si superi il patto di stabilità così com’è oggi! Il loro entourage sostiene progetti di riforma della zona euro che sarei pronto ad avallare.

E.M. Non mi riferivo necessariamente alla riforma del patto di stabilità. Anche a destra ci si rende conto che le politiche macroeconomiche dell’UE portano al disastro. Per me, il cuore della battaglia è la riforma del diritto del lavoro, a sostegno dei lavoratori. E Sánchez e Costa, seppur meglio dei predecessori, non offrono progressi significativi su questo fronte. Perciò il mandato di Hollande è stato vissuto in modo così drammatico: Hollande, con la riforma del lavoro, ha preparato il terreno a Macron.

I socialdemocratici, quindi, non riescono ad ottenere successi per i lavoratori nell’economia globale?P.B. La socialdemocrazia ha sottovalutato gli effetti della globalizzazione mentre perdeva i suoi tradizionali strumenti di intervento. Oggi questi strumenti vanno ricostruiti, sia sul piano della protezione dei lavoratori che sul piano della ridistribuzione attraverso la fiscalità. Ci stiamo arrivando, ma nel frattempo abbiamo permesso molte decisioni sbagliate.

E.M. Il capitalismo, bisogna riconoscerlo, possiede una grande forza di adattamento. La socialdemocrazia europea, invece, non è in grado di resistere al libero scambio, intensificato dagli accordi commerciali che la Commissione europea sta attualmente negoziando.

Immagino che la sua posizione sul tema del libero scambio, Pervenche Berès, sia diversa… P.B.I socialdemocratici devono rifondarsi, ma resto convinta che il protezionismo sia sbagliato. Dobbiamo mantenere le frontiere aperte, perché l’intelligenza si nutre di scambi. La chiusura, invece, alimenta xenofobia. La vera sfida che può cambiare le carte in tavola è l’ecologia. Il bivio è questo: o creiamo un modello di sviluppo economico adatto per noi, adeguando di conseguenza i nostri scambi commerciali, oppure privilegiamo a tutti i costi il commercio internazionale per spingere la crescita. Credo che l’Europa sarà un modello di sviluppo sostenibile, razionale e rispettoso dei diritti sociali.

E.M. Non sono d’accordo. Mi prendo la responsabilità di parlare di protezionismo. È curioso come questa parola crei imbarazzo, mentre tutte le grandi potenze vi fanno ricorso. Va ricordato che, nonostante i dazi doganali, gli scambi continuano a volumi giganteschi. Nei nuovi accordi, la questione dei dazi doganali è del resto marginale, mentre l’armonizzazione delle norme è centrale. Inoltre, queste norme vengono gestite da organismi di esperti fuori dal controllo politico. Protezionismo significa anche protezione delle norme, che possono essere nell’interesse dei cittadini, dei loro diritti e della loro salute.

La socialdemocrazia, storicamente, ha un legame privilegiato con il mondo sindacale. Secondo voi, il movimento per il clima potrebbe essere un nuovo punto di partenza per i socialdemocratici e per la sinistra?E.M. In primo luogo, i sindacati restano indispensabili. Lo capiamo ora con le mobilitazioni negli ospedali e nella scuola. Sulle manifestazioni per il clima, non sopravvalutiamo il loro peso. Ma sono convinto che non bisogna separare la lotta alle disuguaglianze dall’ecologia. Di più: non vedo come si possa essere ecologisti senza mettere in discussione il modello capitalista.

P.B. La questione ecologica non è di destra o sinistra. Per me, c’è anche la volontà di distogliere l’attenzione da argomenti cruciali, come la finanza sotterranea, i paradisi fiscali, la redistribuzione dei dividendi… Se la socialdemocrazia sostenesse solo l’ecologia, diventerebbe inutile. Il suo compito è rendere possibile la transizione ecologica, anche per i più svantaggiati. Ma questa non è una priorità per tutti. Quando il parlamento Ue ha votato sulla “tassonomia” dei prodotti finanziari (una sorta di valutazione di qualità), gli ecologisti hanno tentennato. Ma l’ecologia non può vincere senza la dimensione sociale. Questo è il ruolo imprenscindibile della socialdemocrazia.