America oggi, in due volumi l’arte giovane si racconta

Ho incontrato in questi giorni a New York due libri che mi hanno guidato a trovare o ritrovare spunti e momenti dell’arte americana dalla fine della Pop Art a questi anni. Il primo è Basquiat Defacement di Chaendria Labouvier, edito da Guggenheim, che ospita la mostra. Labouvier è infatti la curatrice, che, in possesso di una sola e sconosciuta opera di Jean–Michel Basquiat, ha creato nel celebre museo newyorkese una intera, grande veduta dell’Arte contemporanea americana.

Il libro è un lavoro di indagine, racconto e ricostruzione storica come la mostra. Porta il lettore e lo spettatore a seguire il mondo che ha preceduto, circondato e seguito gli anni (gli anni Ottanta) di Basquiat. L’artista è morto giovanissimo o, come ha detto di lui Norman Mailer, “è morto subito, mentre cominciavamo a guardare le sue prima opere”. Tutto avviene non in termini di analogie o legami, ma di inchiesta in cui ogni connessione è una scoperta. Occorre tener presente che l’opera di cui parla il libro, e su cui si basa la mostra del Guggenheim, che dà il titolo ai due eventi, era sconosciuta fino a quando, con ossessiva testardaggine, la Labouvier è riuscita a ottenerlo da una collezione privata. Era un “oggetto ritrovato” nella stanza in cui abitava Keith Haring al momento della sua morte. Ma la storia del quadro è dentro il quadro.

Si intitola La morte di Michael Stewart, 1983, è forse una delle opere più importanti di Basquiat (la più importante ?) e comunica una strana tensione (pensate a un quadro che regge tutta una mostra). La curatrice ha voluto ritrovare la storia che dà il titolo al quadro. È quella di uno sconosciuto giovanissimo artista nero (sconosciuto dalla critica, conosciuto e amato dal quartiere di Brooklyn in cui aveva una stanzetta di casa e studio) ucciso a bastonate da poliziotti bianchi in una stazione della ferrovia sotterranea mentre, alle 3 del mattino, tornava a casa dopo essere stato a incontrare amici artisti a Manhattan. L’avevano sorpreso a dipingere su un muro, come Basquiat, come Haring.

Il secondo libro è il grande catalogo della Biennale di Arte contemporanea americana in corso in questi mesi al Whitney Museum. È una mostra ricca, piena di opere, dà un’impressione di affollamento e rivela un rapporto evidente fra le tantissime opere: corpi, mani (molte mani) frammenti di immagini dei media, tratti con evidenza dai flash delle sequenze di breaking news che compaiono continuamente in tv, con un senso di dramma abituale, normalizzato, nel senso di visto e rappresentato senza shock e senza necessità di prendere parte. Un celebre poema di Allen Ginsberg, in cui il guru della Beat generation narrava la sua epoca e la sua esperienza, si intitolava Urlo. Nella giovane mostra del Whitney ci sono molte notizie, un rapporto utile sul momento che l’America e l’arte americana stanno vivendo. Ma non c’è urlo.

Sicilia, la Bollywood del Mediterraneo. Il grande sogno del sindaco di Militello

Dal 30 agosto al primo settembre prossimo avrà a luogo a Militello in Val di Catania il Miff, ovvero Militello Independent Film Fest diretto da Daniele Gangemi, pronto a raddoppiare nella sua seconda edizione il miracolo dello scorso anno: fare di un luogo di assoluta bellezza qual è la città del Val di Noto, un cinema a ciclo continuo.

Fiore all’occhiello della festa è la lectio magistralis di Pupi Avati, quindi una rassegna di documentari, cortometraggi, lungometraggi, clip realizzati dalle energie più giovani della scena internazionale. Ci saranno incontri e con i protagonisti della memoria filmica (a Fioretta Mari andrà il premio di questa edizione) e le proiezioni – come in Nuovo Cinema Paradiso, all’aperto – si svolgeranno ogni sera in piazza Santa Maria la Stella mentre di giorno, in un corpo a corpo con la luce, al Teatro Tempio. Non mi inoltro in un campo su cui più di ogni altro è titolato a parlare il nostro Federico Pontiggia ma questo del cinema in Sicilia non può dirsi una sagra paesana piuttosto un potente fatto politico incoraggiato dal sindaco Giovanni Burtone, il quale coglie il paradosso tutto di economia e commercio di una voce di bilancio tutta da costruire.

Come Andrea Camilleri vende in tutto il mondo ma la Sicilia – la sua terra – è la regione dove si legge meno in assoluto (e dove le librerie chiudono) così il cinema di Trinacria, il set per eccellenza di un’infinità di produzioni e di Oscar, non trova destino industriale. Pochissime sono le sale di proiezione e immani le difficoltà che le burocrazie locali oppongono anche alle strutture di produzione più collaudate – e agli stessi conclamati successi di botteghino dei Giuseppe Tornatore o dei Ficarra & Picone – se si pensa che molte pellicole, per avere una “coloritura” mediterranea, devono trovarsi un set fuori dall’isola tanto è cieca la politica rispetto a un settore inesauribile e ghiotto di indotti. Avanzano, intorno a un ciack, gli artigiani, i tecnici, i padroni della parola e quelli della scena. A quel caravanserraglio si accodano – per dirla con Totò – vitto, alloggio, lavatura e stiratura. Col cinema, insomma, arrivano i “piccioli”.

Tutta una stagione che non c’è più – basti pensare a cosa fossero le giornate internazionali del cinema a Taormina, con tutto il jet set presente all’appello – deve pur tornare e politicamente c’è una sola e ovvia urgenza: realizzare una Bollywood del Mediterraneo. In una terra, la Sicilia, che – in tema di cinema – ha visto depauperare il proprio lascito industriale, pur sfornando pellicole che hanno scritto e redigono ancora la storia del grande schermo non può che essere salutare la cocciuta determinazione di Burtone.

Un sindaco che al successo dello scorso anno aggiunge oggi, ben oltre il Festival, un preciso progetto strutturale, è un amministratore che vede lungo. Colloca il primo tassello della ritrovata economia, l’unica industria possibile in un set spontaneo la cui luce è unica.

E buon per lui perché giusto lui, un’operazione così, se la può ben permettere. Erede di Rino Nicolosi – uno statista, più che un semplice presidente della Regione siciliana – Burtone fa il sindaco a coronamento di una sfolgorante carriera parlamentare all’interno della Dc prima e del Pd, dopo, al fianco dell’attuale Capo dello Stato, Sergio Mattarella, di cui è fraterno amico e sodale. Uno come lui, insomma, non può farsi intimidire dall’irredimibile Sicilia delle burocrazie. Ne farà di certo un film. Tutto di destino industriale.

Sessanta sfumature di grigio: le “anziane” seducono l’editoria

Succede nell’editoria come nella società: ci sono i libri per la prima infanzia, quelli per young adults, i romanzi rosa per donne, per lo più abbastanza giovani come le loro protagoniste. E poi nulla, il buio, sebbene le donne dopo i sessanta – che insieme ai loro coetanei uomini rappresentano il 23 per cento della popolazione italiana – siano quelle che leggono, e comprano, più libri. Costrette a seguire le storie di ragazzine che si fanno ammanettare o di trentenni precarie in cerca di amore stabile, fanno grande fatica a immedesimarsi e altrettanta fatica a trovare libri che le rappresentino. A colmare questa lacuna, almeno in ambito editoriale, arriva la collana Terzo Tempo, a cura della scrittrice Lidia Ravera, con due titoli già usciti – Non essere ridicola di Brunella Schisa e Appena in tempo di Emanuela Giordano –, due in uscita a settembre (Mai dire più di Elena Vestri e Zero Gradi di Roberta Colombo) e altri in arrivo a firma maschile.

Le protagoniste sono, per ora, donne over sessanta. Quasi tutte si trovano in un momento difficile per il genere femminile, come la fine di un rapporto durato una vita e lo spalancarsi della solitudine, tanto più angoscioso nel Paese in cui chi non è più giovane viene ingabbiato o nello stereotipo della donna invisibile – che non può fare sesso perché il sesso di un corpo anziano femminile fa scandalo – o dell’uomo per forza immaginato a correre dietro alle ragazzine: anche questo un cliché che la collana vuole smontare. “Essere anziani può essere meraviglioso oppure una tortura: è una tortura se non lavoriamo sull’immaginario collettivo per modificare l’immagine stereotipata di ‘anziano’ e soprattutto di ‘anziana’”, ha detto la scrittrice Lidia Ravera in occasione dell’esordio della collana, sottolineando che gli over sessanta “meritano uno spazio dedicato, perché siamo diversi da come erano i vecchi prima di noi e prima ancora”.

Poco da criticare allora in un’iniziativa che finalmente restituisce visibilità al terzo tempo della vita, se non forse il fatto che le autrici–protagoniste sono forse fin troppo omogenee sul piano sociale. Nessuna, anche se separata, ha problemi economici – un’eccezione nel panorama delle donne sole e povere del nostro Paese –, quasi tutte vivono nella stessa città, Roma, quasi tutte possono godere di agi come utilizzare i taxi o avere un parrucchiere.

A parte questo, però, non c’è dubbio: finalmente entrano nel racconto aspetti taciuti da tanta narrativa, come la paura di mostrare un corpo fragile e segnato dal tempo, come la certezza, sempre culturale, di non essere più degne di un amore vero e il terrore di essere ingannate. Da questo punto di vista ha ragione Ravera quando dice che questa collana è per tutti, perché l’età non fa che rendere più acute emozioni senza tempo. E poi in fondo è necessario fare a quaranta quello che comunque bisognerà fare a sessanta, e cioè “rivalutare il presente e dotarsi di un futuro, senza rimpiangere il passato”.

Ferie d’agosto, lontano miraggio per rider e liberi professionisti

“Ho due lavori, ma non riuscirò ad andare in ferie”. Marco, nome di fantasia, non riposerà nemmeno in questi giorni di agosto per due motivi. Primo: i suoi due impieghi sono poco pagati e non permettono una vacanza a un quarantenne con tre figli. Secondo: una delle occupazioni è quella di rider per Glovo, ma come lavoratore autonomo il riposo retribuito non è contemplato. Unica concessione fatta dalla piattaforma: chi andrà in ferie non sarà penalizzato sul ranking, il meccanismo che premia chi accetta più corse. Comunque poco per convincerlo a staccare e recuperare le forze. Le piattaforme del food delivery si dotano di collaboratori a partita iva per avere mani slegate, pagarli “a consegna” e non riconoscere altri diritti. A gennaio, però, la Corte d’Appello di Torino ha detto che ai fattorini spettano alcune tutele del lavoro subordinato, quindi anche le ferie, ma nulla è cambiato. Dice l’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”.

Minimo quattro settimane, per legge. Un rider, non avendo vincoli di turni e orari, può decidere di fermarsi quando vuole, ma la condizione di lavoratore indipendente imposta dalle piattaforme lo costringe a rimetterci di tasca propria. Una ricerca della società Deliveroo dice che i ciclofattorini guadagnano in media 12 euro all’ora. Il calcolo sui mancati guadagni dovuti alle ferie è presto fatto: se si tratta di un addetto che si rende disponibile per 30 ore alla settimana, la perdita per i 28 giorni di riposo previsti dalla normativa sarebbe 1.440 euro.

Anche Marco, che lavora con Glovo, ha fatto i conti: lui in genere sale in sella per 3–4 ore al giorno: “Le ferie – dice – mi costerebbero tra i 600 e i 700 euro”. Ma pure lavorando ad agosto rischia la beffa, perché se la città dovesse svuotarsi si ridurrebbero gli ordini e, con il pagamento a cottimo, anche i guadagni. Questo per ora è stato compensato dal fatto che ci sono anche meno rider, quindi meno concorrenza. “Tra l’ultima settima di luglio e la prima di agosto ho preso 320 euro, quindi bene visto che di solito viaggio tra i 280 e i 315 euro. Ma nella settima a cavallo di Ferragosto mi aspetto un calo drastico”. Sul sostanziale divieto al riposo non interviene nemmeno il decreto approvato la scorsa settimana dal governo, il quale prevede una paga oraria prevalente per chi accetta almeno una corsa ma non cancella del tutto il cottimo.

Le ferie negate riguardano anche i freelance, quelli che svolgono un lavoro autonomo per scelta, pure loro costretti a decidere se riposarsi – anche con il rischio di infastidire i committenti – o passare l’estate sul computer. Susanna, interprete e traduttrice socia dell’associazione Acta, ha accettato una traduzione in agosto: “Sono in ritardo, avrei dovuto tradurre dieci pagine secondo i miei piani – racconta – ma ho comunque deciso di andare al mare con una mia amica. Ho spento il pc e per ora sono un po’ più abbronzata. Ricaverò il tempo da qualche altra parte”.

Epstein, Nyt “Era stato lasciato solo e senza sorveglianza”

Il finanziere Jeffrey Epstein che si è impiccato nella cella del carcere federale di Manhattan dove era detenuto, avrebbe dovuto essere controllato dalle guardie ogni trenta minuti, ma la notte del suicidio la procedura non sarebbe stata seguita. A rivelarlo è il quotidiano The New York Times che aggiunge un altro particolare: il compagno di cella era stato trasferito, lasciando Epstein da solo appena due settimane dopo il primo tentativo di suicidio. Epstein, 66 anni, trovato impiccato alle 6.30 di sabato mattina, era in attesa del processo per decine di abusi sessuali nei confronti di ragazze minorenni e per cui rischiava una condanna fino a 45 anni di carcere.

Diabolik ucciso, la moglie fa appello a papa Francesco per i funerali

Dopo il ricorso al Tar la “battaglia” della famiglia di Fabrizio Piscitelli, l’ex capo degli Irriducibili della Lazio, pluripregiudicato, narcotrafficante, ucciso nei giorni scorsi con un colpo di pistola, va avanti per “garantirgli un funerale degno”. Ieri la moglie Rita Corazza ha lanciato un appello al Pontefice: “Vorrei portare alla Sua attenzione: per opera di un provvedimento del Questore non possiamo garantirgli un degno funerale. Il giorno, l’ora e il luogo delle esequie mi sono stati imposti; inoltre è stato fatto divieto di celebrare il rito in forma pubblica, perché si ritiene vi siano ragioni di ordine pubblico che lo impediscono”.

Record di mortalità per chi viveva sotto i piloni del Morandi

“Una mortalità superiore anche del 40% rispetto ai quartieri ricchi di Genova. Siamo a livelli paragonabili a Taranto, ma nessuno si è accorto di queste zone finché non è crollato il Morandi. Alla gente che vive vicino al ponte dovrebbero dare il premio Nobel per la sopportazione”. Valerio Gennaro è uno dei medici oncologi ed epidemiologi più noti d’Italia. Si è occupato tra l’altro di Seveso, Porto Marghera, delle acciaierie di Cornigliano e Taranto e dei militari colpiti da tumore. Voleva offrire alle amministrazioni genovesi l’aggiornamento al 2018 delle analisi della mortalità e della salute ferme al 2013. Non molti, racconta però, sono sembrati interessati. La Valpolcevera, Cornigliano e il Ponente di Genova sono uno dei suoi chiodi fissi: “qui per decenni nessuno si è accorto di quello che stava succedendo”. Ma perché in questa zona di Genova, che una volta era la città rossa e operaia, la gente moriva tanto? “Certo, le industrie inquinanti, come le vicine acciaierie. Colpa anche della scarsa informazione, della mancanza di strutture sanitarie e di ospedali. Ma c’è anche il ponte con la sua mole di traffico”. Già, il Morandi su cui, secondo le previsioni dell’epoca della costruzione, dovevano transitare trentamila mezzi al giorno tra auto e camion. Ma nel giro di pochi decenni tutto è cambiato: siamo arrivati a picchi di centomila. A pochi passi dalle case.

Vero, ora il Morandi non esiste più, ma in Valpolcevera si vedono già i piloni del nuovo ponte. Che seguirà lo stesso percorso e accoglierà lo stesso traffico. “Qualcuno ha valutato l’impatto sulla salute degli abitanti?”, si chiede Gennaro. E mostra i dati che ha raccolto negli anni. Statistiche che dovrebbero essere aggiornate alla fine del 2018. Ma già i numeri analizzati da Gennaro (si chiama indice di mortalità standardizzato ed è frutto del lavoro degli epidemiologi dell’Irccs di San Martino) tracciano una mappa di Genova, dove la durata della vita segue crudelmente i confini del benessere: “Prendete il quartiere di Cornigliano, a valle del ponte e vicino alle acciaierie. Qui tra gli uomini la mortalità, considerando tutte le malattie, arriva a un coefficiente di 1,20 (1 è la media cittadina). Parliamo del 20 per cento in più, un’enormità. Numeri che ricordano Taranto. A Rivarolo, sotto il ponte, siamo al 12 per cento più della media”. E tra le donne? “A Cornigliano siamo sopra la soglia del 30 per cento (il 15 a Rivarolo)”.

Ma a colpire è soprattutto il confronto con i quartieri più ricchi della città. Prendete Albaro, la zona ‘nobile’: “Qui – sottolinea Gennaro – la mortalità è inferiore del 21% rispetto alla media tra gli uomini. Sommando i dati la differenza tra Cornigliano e Albaro è intorno al 40%. Valori simili a Nervi e Sant’Ilario, altri quartieri del Levante. Benestanti e più lontani dall’inquinamento: tra gli uomini siamo a una mortalità dello 0,82, tra le donne si scende allo 0,84. Incidono a Ponente i tumori a pancreas, polmoni, diabete, patologie cerebrovascolari e cardiache.

Davvero a Genova c’è un muro invisibile che divide la città. “Purtroppo le zone della Liguria con la maggiore mortalità sono proprio quelle intorno al ponte”, sostiene Gennaro. Vero, molte industrie inquinanti hanno ridotto il loro impatto (come le acciaierie che oggi ospitano solo la lavorazione a freddo) e tante imprese hanno chiuso i battenti. Ma l’impatto del traffico continuerà. Non solo: “Bisognerà valutare”, si chiede l’epidemiologo, “se il crollo del ponte e i lavori di ricostruzione avranno a loro volta un impatto sulla salute. Servono dati aggiornatissimi, è necessario che l’Osservatorio per l’Ambiente e la Salute svolga un lavoro serratissimo sulle conseguenze del crollo. Ma finora gli incontri sono stati troppo pochi”. La gente della Valpolcevera ha timore che la sua salute venga dimenticata. Per questo a dicembre, come aveva raccontato il Fatto, Enrico D’Agostino – presidente del comitato “Liberi Cittadini di Certosa” – aveva depositato in Procura un esposto in cui si parlava del rischio amianto nei piloni del ponte che subito si volevano demolire con gli esplosivi. Ne aveva parlato al nostro giornale proprio Gabriele Camomilla, che per conto di Autostrade per anni – fino al 2000 – si è occupato della manutenzione del ponte sul Polcevera; l’ingegnere che lo conosce come le proprie tasche e che nel 1994 realizzò la ristrutturazione del pilone 11. Ci disse Camolilla: “Amianto nel ponte? Nei progetti del Morandi è indicato che nella struttura è presente. Ma è ancora poco rispetto a quello contenuto nelle case che saranno demolite”. Il programma di demolizione, dopo quell’allarme, subì un cambiamento.

Oggi le gru stanno costruendo il nuovo ponte progettato da Renzo Piano. Genova e la Liguria aspettano l’inaugurazione che risolverà i problemi di traffico e ridarà fiato a trasporti ed economia. Ma tornerà anche lo smog. La salute di chi vive sotto i piloni ancora attende risposta.

“Il 95% d’Italia è gialloverde. La crisi è un vero enigma”

Due cose chiedevano gli italiani “e su quelle due cose sono stati accontentati”. La parola a Barbara Palombelli. Giornalista, in libreria con Mai Fermarsi, titolare di Stasera Italia e di Forum – due gioielli della vetrina Mediaset – Palombelli indica una percentuale: “Il 95% degli italiani voleva un freno all’immigrazione clandestina, un altro 95% chiedeva un aiuto per i poveri, mi meraviglia che la sinistra non abbia votato a favore del reddito di cittadinanza”.

Detta così, il 95 % d’Italia è gialloverde, che senso ha avuto allora far finire tutto?

Questo è il vero enigma, quello che il governo aveva promesso l’ha fatto, pure i gufi che già immaginavano i mutui delle case con prezzi alle stelle sono stati smentiti ma è lunedì mattina e non possiamo avventurarci in ipotesi facili a essere smentite nelle prossime ore…

Tra qualche settimana si torna in onda, immagino che “Forum”, più che “Stasera Italia” – l’approfondimento di politica – sia lo strumento più efficace per sapere cosa la gente abbia in testa.

Su questo non c’è dubbio, Forum è un vero e proprio radar puntato sulla realtà, ma per chi legge e studia non è una sorpresa scoprire quali sentimenti politici prendano poi forma.

E cosa mette in moto tutto?

L’identità, ebbene sì: i ragazzi – e lo sto vedendo oggi in Sicilia – si mettono dietro le processioni, nella sequela dei Santi Patroni; i giovani di oggi colmano il vuoto di almeno trent’anni; quando mai le folle di facce pulite dei figli affrettavano il passo da casa per le strade e i vicoli del paese nel segno dei propri campanili?

E Papa Francesco li mobilita tutti contro Matteo Salvini.

Non funziona più così, una cosa è l’identità, e dunque il santo in processione, altra cosa è il potere cattolico ma l’Ambrosiano, il San Paolo, le banche cattoliche, il potere dei Geronzi, i protagonisti come Giovanni Bazoli, non ci sono più. Romano Prodi non era potente perché era il professore più intelligente tra tutte le teste d’uovo dell’ingegno ma perché aveva l’Iri alle spalle, e poi ancora le banche d’interesse pubblico. Romano Prodi per i cinesi è una specie di matrioska contenente Angela Merkel ed Emmanuel Macron.

La famosa Europa!

Essendo io allieva di Ida Magli lo so dal 1997 che il sovranismo sarebbe risorto contro un’Europa che annulla le identità; con mio marito, Francesco Rutelli, abbiamo fatto un breve viaggio in Galles dove abbiamo trovato i cartelli stradali in doppia lingua: in gallese e inglese; hanno fatto una legge apposta per la toponomastica perché gli agricoltori gallesi vogliono tornare padroni a casa loro.

Quale altra idea muove oggi il mondo?

La scomparsa del ceto medio; le piccole e medie imprese si fanno la contabilità con iCloud e non più col commercialista del quartiere e tutto questo accade mentre arriva alle nostre porte un miliardo e mezzo di affamati che adesso ha mangiato…

E vuole di più.

E spaventa; incredibile come il politicamente corretto abbia ridicolizzato le paure delle moltitudini, tutto un insistere sullo stesso mantra – la pancia degli italiani ci fa schifo – io, di mio, sono appassionata dell’accoglienza, ma ne ho altrettanta per la legalità; la sinistra sorvola sulla sua stessa memoria ma dell’integrazione dei meridionali nelle città industriali del nord se ne faceva carico il servizio d’ordine del Pci: ‘e non si toccano le donne, e le mogli possono lavorare, devono avere la loro libertà…’; l’integrazione si faceva con le caserme, con i figli dei proletari arruolati nell’Arma, e non con lo Ius soli.

Nell’era del digitale si compie la nemesi: il potere delle masse senza potere.

La finanza e la tecnologia hanno cancellato la classe dirigente; non potevo immaginare, avendolo studiato da ragazza, di vedere realizzata la profezia di Karl Marx: lo stadio avanzato del capitalismo è quello della finanza che rappresenta se stessa. Non è afferrabile questo potere e così quello della tecnologia che non conosce freni: un semplice trojan ha fatto emergere che i giudici del Csm parlano come i condannati e che i carabinieri di Roma, depistano… che non sono magrebini gli accoltellatori, bensì due statunitensi.

Tutto ciò che è solido, dice Marx, si dissolve nell’aria.

Tutto ciò che si compra, ed è successo alla grande industria, si dismette; la forza strutturale dei grandi costruttori, infatti, è sempre più marginale. È come accaduto nel tramonto della Fiat. Un Avvocato che spedisca il fratello a fare il deputato o, la sorella, a fare il ministro non c’è più.

(E tutto questo che non c’è più faceva contenti gli italiani gialloverdi di appena ieri, altro morale non c’è).

Arrestato in Francia Vecchi, l’ultimo black bloc latitante

Era l’ultimo Black Bloc latitante condannato per le devastazioni al G8 di Genova del 2001, insieme ad altri nove compagni. Vincenzo Vecchi, 46 anni, è stato arrestato in Francia dove viveva sotto falso nome. A tradirlo gli spostamenti della compagna: la polizia francese, su input di quella italiana, ha scoperto il loro incontro in una località della Savoia. Da qui lo sviluppo delle indagini che ha portato a individuare il luogo dove viveva e all’arresto. Vecchi, esponente dell’area anarco-autonoma milanese, era latitante dal luglio del 2012, a seguito della condanna definitiva della Cassazione per i fatti di Genova a 11 anni e 6 mesi: era accusato di devastazione e saccheggio, rapina e porto di armi. Per gli investigatori il 20 e 21 luglio 2001, durante il G8, Vecchi faceva parte di un gruppo di persone che a volto coperto devastò la città distruggendo e incendiando. Erano quelli del cosiddetto Blocco Nero: presero di mira banche, auto, un supermercato e assaltarono il carcere di Marassi. Vecchi venne identificato come un promotore delle devastazioni, uno “che spingeva gli altri ad agire”, lanciava “bottiglie, sassi e molotov.”

La selfizzazione del politico Matteo spiaggiato con i fan

In fila per il selfie. Siamo a destra, come ci ha chiesto Matteo: “Mettetevi a destra, dalla parte giusta, e non preoccupatevi. Non mi muovo finché l’ultimo non avrà fatto la foto”. Sia io che la signora Teresa, cinquant’anni e casalinga, abbiamo superato velocemente la prima selezione, effettuata dalla Digos. Qui a Soverato, siamo nel golfo di Squillace , terza e ultima tappa del secondo giorno tra gli spiaggiati d’Italia. Il comizio di Salvini è durato pochissimo per via di una contestazione caparbia e più vasta del previsto che ha emozionato Tonino Barcone, al tempo segretario del Pci locale e ora pensionato: “Non mi aspettavo una cosa così forte. Temevo che la facessimo passare liscia a quello lì, per fortuna mi sono sbagliato. Un poco di speranza c’è”.

Tonino arretra col suo compagno di battaglie Alfonso e si allinea nella fascia protetta dalla polizia. Si trova in una zona sterilizzata, pacifica, mentre lo staff urla: “Se spingete l’unica cosa che accade è che i bambini si fanno male”. Bambini, donne incinte, disabili. La precedenza va alle fasce deboli della società. Bisogna salire sul palco da destra e uscire da sinistra però con speditezza, seguendo il corridoio che le forze dell’ordine hanno preparato per raggiungere il leader. Non incespicare, non distrarsi, non gridare, come ha fatto Gianni, vestito di nero, ai camerati: “Me la faccio anch’io”. Fare in fretta. E non imitare una signora, emozionata assai, che al dunque ha sbagliato obiettivo e si è avvicinata per il selfie al poliziotto di scorta: “Non con me”, le ha gridato giustamente sbattendola tra le braccia di Matteo.

Teresa lo vuol vedere da vicino: “Mi sembra un bell’uomo e molto alla mano”. Antonio punta al bis: “Gli ho potuto parlare. Gli ho detto: prima cosa togliere l’obbligo vaccinale. Mi ha assicurato che è una delle primissime cose che farà da capo del governo”.

La novità è il completamento del processo demiurgico del leader leghista. Le parole sono divenute superflue, e così anche i comizi, che risentono di una stanca verve e soprattutto incitano varie, colorate contestazioni. La foto ritratto è l’alfa e l’omega, il punto d’inizio e d’arrivo. Salvini non parla, è mummia sorridente, corpo amico che impugna il telefonino dell’aspirante leghista e clic, il gioco è fatto. La selfizzazione, nel tempo di internet, produce una catena di montaggio di sorrisi e like trasportando la faccia di Salvini in giro per il mondo. È un moltiplicatore passivo di consensi. Chiunque si fotografi rimanderà la foto agli amici. Migliaia e migliaia di passaggi su Facebook e Instagram, una manna dal cielo.

“Quel cornuto si è messo anche la maglia I love Calabria”, urla un signore già allontanato dai custodi dell’ordine. “Questi provocano, urlano, s’accapigliano. E noi poliziotti ne facciamo le spese. Come ci muoviamo, voi giornalisti ci attaccate ma a me non frega di Salvini, faccio il mio dovere. Se c’era Renzi era uguale”, dice un capo squadra della celere, spazientito dalle occhiate, dal monitoraggio della ruvidezza poliziesca. “Io sono comandato, chiaro?”. Comandato come quel comandante dei carabinieri che ha dovuto sostare in spiaggia, quasi fumante, nell’attesa che Salvini finisse l’acqua party delle 17 a Isola di Capo Rizzuto.

Salvini ama la Calabria. Certo, gliene ha dette di ogni colore, ma l’Italia di oggi non è quella di ieri. “Io non capisco, noi calabresi siamo permalosissimi, basta un’unghia di critica e ci offendiamo. Quello ci ha trattato da miserabili, ci ha offesi, vergognatevi”, commenta disgustata una signora che si allontana dalla fila dei selfizzandi con un’aria da schifo. “Basta provocazioni!”, le dice Antonio Pariglia, da Cariatri: “Ho votato 5Stelle e ora voto Salvini, è l’unico che può salvarci”. “Cinque rubli l’ingresso al beach tour”, gridano Simonetta e Marta, studentesse di ingegneria, esponendo il lenzuolo di protesta: ”Siamo disgustate. Farci trattare in questo modo da un millantatore”. “E zitta, cretina!”, le urla una signora. “Calmatevi”, di nuovo la Digos a far da paciere.

La “Bestia”, così si chiama la struttura di comunicazione del leader, ha promosso anche un processo di ri-selfizzazione. Un addetto fotografa Salvini che si fa fotografare. Seleziona gli astanti, ritrae solo quadretti familiari. Il selfie come parametro essenziale di popolarità, veicolo performante che avanza e ri-polarizza se all’adulto è accoppiato un bambino, alla moglie il marito, ai genitori i figli. Le donne cercano più un contatto visivo e si elettrizzano con maggiore frequenza. Salvini infatti accetta anche le pose ibride. Giuseppina, da Catanzaro lido: “Io me la sono fatta mettendogli le braccia al collo, stando un passo dietro. Volevo una posa particolare”. “Sembravi la fidanzata”, commenta il suo lui, felice come una Pasqua.

Non parole né opere e, per quanto riguarda stasera, nemmeno omissioni. Il flash risolve e sostituisce ogni azione, e, come dice lui dal palco, “l’Italia è con me, vi voglio bene”.

“Ci siamo incantati noi calabresi quando ha chiuso i porti. Prima arrivava di tutto e sembrava che da noi potesse raddoppiare solo la miseria. Nella regione più povera sbarcavano i poverissimi. Era una cosa quotidiana, sbarchi in continuazione. E agli italiani non fregava niente, al governo men che mai. Eravamo tanto insignificanti che nella geografia politica la nostra regione e i suoi abitanti non erano presi in considerazione. Io non lo voto, ma sento che chiudendo i porti ha fatto scattare una scintilla di simpatia, è sembrato che ci portasse rispetto. E nel niente assoluto è purtroppo sembrato tanto”. Così Tonino Laforgia, già preside, oggi pensionato. “Scriva morituro, come la mia terra. Felice di trovarmi tra un po’ all’altro mondo. Certe cose meglio non vederle”.

È notte fonda, i selfie continuano.