“Sogno in russo ma urlo parolacce in italiano: sono ansiosa, non diva”

Kasia Smutniak diva non lo è, e non ci si sente. Arriva mezz’ora prima all’appuntamento, anche se l’appuntamento è sotto casa sua; si siede da sola ai tavolini di un bar (trattato da secondo ufficio), non inganna il tempo con il cellulare in mano, non teme di essere riconosciuta (“tanto non capita quasi mai”), ma si guarda attorno, respira la città, sorseggia uno Spritz (“però è leggero, se no mi gira la testa”) e ogni attimo della sua vita lo concepisce come un’esperienza (“altrimenti temo di sprecare il tempo”).

E il tempo recita: martedì compie quarant’anni.

Auguri.

Me li sto godendo e per me è già un salto di qualità. Mi domando solo cosa farò adesso.

Magari la regista.

Troppa responsabilità; non sopporto il giudizio neanche quando ho un provino: vado in crisi, li odio, non li tollero. Comunque mi sono presa un anno lontano dai set.

Rinuncia a dei film per evitare i provini?

Sì, e quello più duro della mia vita è stato con Paolo Sorrentino per Loro; quando è finito, ho pensato: “Se sono riuscita a sopravvivere, non ci saranno problemi con le riprese”.

Addirittura.

Il giorno prima non volevo andare, ho pensato di darmi malata.

Si consiglia con qualcuno?

No, e il problema è uno: non ho frequentato una scuola di recitazione, quindi non so come si affrontano i provini.

Avrà assistito a quelli degli altri.

Mi mette in imbarazzo.

Ha appena girato il remake polacco di “Perfetti sconosciuti”. E in generale Genovese non è contentissimo dei risultati…

A lui non piacciono i cambiamenti rispetto alla sceneggiatura originale, e comunque il miglior finale resta quello italiano.

In Polonia ha lo stesso ruolo dell’originale?

Sì, e dopo che me l’hanno proposto sono sparita per mesi, non trovavo il senso di ripetere la medesima parte. Poi ho incontrato il regista, persona stupenda, ho letto l’adattamento, figo, e ho pensato: “Ma quando ricapita?”

Differenze?

Solo in Italia c’è il fenomeno di incontrarsi esclusivamente per stare a tavola, dove è educazione trattare argomenti neutri: niente calcio, problemi personali, politica; mentre si possono passare molte ore a discutere del cibo.

E quindi?

È interessante vedere come nelle altre culture viene risolto il motivo dell’aggregazione, cosa mangiano, la conversazione dei personaggi…

Di cosa si parla in Polonia?

Degli altri, delle sfighe dei vicini, magari si evitano temi intimi, ma il pettegolezzo è tipico polacco.

Meglio il cibo o il pettegolezzo?

Il cibo, almeno non offendi nessuno (sorride); sul set, in alcune scene, mi sono impuntata: c’erano incongruenze gravi.

Tipo?

Interpreto una polacca che spesso lavora a Bologna, e organizza una cena italiana per gli amici: in una scena scolo la pasta e nel frattempo inizia un dialogo di cinque minuti.

Altro che scotta…

E il regista: “Perché non va bene?”. E io stupita: “Non è possibile, così s’incolla. Cinque minuti non ci possono essere”. Non capivano; prima di decidere se accettare o meno ho chiesto chiaramente quale sarebbe stato il menù previsto per il film.

In che senso?

Le riprese italiane di Perfetti sconosciuti sono durate sei settimane, quattro delle quali seduti a tavola per mangiare sempre gli stessi piatti. Dalla sera alla mattina. Non voglio mai più vedere gnocchi, polpette e zucchine fritte.

Alla fine, in Polonia?

Come primo volevano propinarmi una zuppa di zucchine, e come secondo la pasta.

Altro errore.

Già, ma ho perso.

È molto conosciuta nel suo Paese d’origine?

Non lo so, mi trattano con grande rispetto ma come una straniera; una sorta di animale strano, ogni tanto mi dicono “lì da voi”.

In alcune interviste ha dichiarato “qui da noi”, riferendosi all’Italia…

Per me “da noi” è sia qui che in Polonia.

Da quanto tempo è così?

Per anni mi sono arrovellata su chi sono, e chi sono diventata, mentre ora ho smesso di pormi la domanda. Mi sento tutte e due. Anzi europea.

In quale lingua urla?

Tutte le parolacce in italiano, quelle polacche sono più faticose e poi vista l’educazione rigida dei miei (tutti militari), mi sembrerebbe blasfemo.

Nei sogni?

In differenti lingue, anche in russo; i veri furbi sono i miei figli: quando siamo in Italia, e non vogliono farsi capire dagli altri, parlano polacco; il contrario in Polonia.

E lei?

Ovvio, li rimprovero.

Insomma, lei in Polonia è trattata da straniera.

E non me lo aspettavo, ma in realtà oramai lì mi sento tale: sono lontana da vent’anni, e sono accadute e cambiate troppe situazioni; i miei punti di riferimento sono fermi al 1998.

In Polonia è un’era.

Rispetto ad allora è veramente un altro Paese e non è come Roma che ha la capacità di restare congelata nel tempo (ci pensa). In Polonia ho riallacciato rapporti vecchi di venticinque anni.

E…

Alcuni hanno riscontrato in me caratteristiche simili a quelle di mia madre.

Bene o male?

Sono stupita: una va via da giovane, gira il mondo, fa esperienze e torna al punto di partenza?

I suoi sono contenti della carriera?

Per loro non avere un ufficio, degli orari e degli obblighi era straniante; dicevano: “Che fai? Salvi le persone? Fai ricerca? Cosa?”. Quasi mi trattavano da parassita della società.

In lei ci sono ancora riflessi dell’epoca comunista?

Certo! (Le si illuminano gli occhi). Ho un automatismo inconscio, dal quale non voglio mai sottrarmi: dopo aver preparato il the, non butto via la bustina, la metto da parte per utilizzarla ancora; per gli ospiti ne prendo di nuove.

Altre attenzioni?

Non spreco il pane, ma forse questa è più una tradizione cristiana.

È credente?

No.

Oltre a “Perfetti sconosciuti”, ha partecipato a “Dolce fine giornata”, sempre con un regista polacco.

Girato tutto in Toscana, a Volterra, e parla della paura del momento in cui viviamo, dei migranti, dell’Europa; dell’angoscia rispetto a chi è diverso: una paura che colpisce tutti, anche chi capisce la follia di tali timori.

Lei ha paura.

Ho scoperto di sì, e solo grazie alla lettura di questo copione: è un sentimento viscido.

Da bambina di cosa aveva paura?

Di niente. Al massimo dei ragni.

Özpetek e “Allacciate le cinture”.

Nel film Ferzan ha raccontato una parte di me molto privata: lui sa e io so; ma lui è così: ti vive, entra nella tua vita. E quando trovi un regista così ti devi fidare, devi essere certa che non ti utilizzerà mai contro quella conoscenza.


Responsabilità.

C’è una scena che non scorderò mai, è girata in un ospedale: prima di iniziare siamo entrati in un bagno e giù a piangere. E senza parlare.

Quando si è rivista?

Con Allacciate le cinture non ci riesco, è troppo intimo; di questo lavoro mi interessa molto ciò che accade prima del set, la preparazione, mentre il set, all’alba, al freddo, poi la promozione e certi riti, diventano una rottura.

Alla fine di un film?

Mi prende malissimo: non vado più alle feste dei saluti.

La prenderanno per diva.

Probabilmente, ma lo dichiaro giorni prima, quando inizio con i saluti per evitare il momento imbarazzante dell’ultimo giorno.

Una sua bugia.

(Ride con la testa indietro). Per ottenere una parte in Nelle tue mani di Peter Del Monte: a quel film sono legatissima.

Quale?

Anni prima Peter aveva girato La ballata dei lavavetri, con protagonisti grandi attori polacchi, lui entusiasta dell’esperienza: “Voi in Polonia arrivate dal teatro. Tu quale hai frequentato?”. E lì ho inventato una struttura di Cracovia, compreso il nome del fantomatico direttore.

Perfetto.

La situazione poi è peggiorata durante il provino: “Si vede l’imprinting, hai le basi”. Finite le riprese ho confessato la bugia.

Il suo primo giorno di set.

Con Giorgio Panariello, sorgere del sole, su un lago, posto meraviglioso e io che pronuncio la frase: “Giulio, quando vuoi si parte”. Finita la scena è partito un lungo applauso, gli auguri per l’esordio e lo champagne. Io che pensavo: però, bello, questo lavoro.

Per due volte ha lavorato con Beppe Fiorello.

Un grande, uno che lavora a fondo, s’impegna, serio, e come pochi altri entra nei personaggi. Pochi attori si danno come lui.

Forse Favino…

Ecco, pensavo anche a lui; mentre giravamo Moglie e marito, ero talmente nel ruolo della donna che si trasforma in uomo da preoccupare il mio ferramenta: “Perché cammini come uno scimpanzè?”

A braccia larghe.

Quando ho incontrato Paolo Sorrentino per Loro avevo ancora un taglio di capelli alla David Bowie, mi sono seduta di fronte con le gambe accavallate. E lui: “Sei così?”. Sì. “Ce la fai a tornare donna?”.

I suoi figli si accorgono dei mutamenti?

La grande, per lei è normale.

Ha dichiarato: “Ho sempre la sensazione di perdere tempo”.

Ci sto lavorando, per questo ho preso un anno sabbatico.

È anche per l’educazione militare?

Ho l’ansia di stare in più posti nello stesso momento, di non accontentarmi di quello che sto vivendo, e vivo nella certezza di poter raggiungere qualunque obiettivo. Non mi pongo limiti. Né come donna. Né come polacca. Né come persona di questa epoca.

Competitiva.

No, credo che se uno può raggiungere un livello, allora posso riuscirci, anche se poi non arrivo.

Educazione, dicevamo.

Papà, nonna e nonno militari, mamma medico in una struttura, unica in Europa, in cui i genitori vivevano insieme ai loro bambini con handicap: lì si organizzavano corsi, e tanti piccoli avevano talenti incredibili. (Chiude gli occhi). Le pareti erano colorate, mentre fuori vinceva il grigio.

Ci andava spesso?

Tutti i giorni dopo le lezioni. E quando ho deciso di costruire la mia scuola, l’ho pensata esattamente così: libera e colorata. (Ha da tempo una onlus impegnata in Nepal e intitolata alla memoria del suo compagno Pietro Taricone).

Quanti bambini?

Ne seguiamo 56 con sei insegnanti, tutto pagato da finanziamenti privati e donazioni.

Perché una scuola?

Serve a salvaguardare una cultura, permettere a dei ragazzi di crescere nella loro terra.

Sono passati trent’anni dal 1989.

Non ricordo esattamente il momento di passaggio, ed è curioso perché ho in mente il prima.

E il prima?

Erano normali le file davanti ai negozi, com’era prassi partecipare alle regole della comunità.

Cos’era per lei l’Unione Sovietica?

Come l’America.

Cioè?

Mio padre ha studiato all’Accademia militare di Mosca, quindi fino ai cinque anni ho vissuti in Russia, e lì c’erano oggetti, cibi e abitudini sconosciute in Polonia.

Tipo?

Le banane e i mandarini: era normale regalare frutta a Natale; quando tornavamo in Polonia portavamo dei regali che diventavano oggetti esotici.

Quante lingue parla?

Italiano, inglese, russo, polacco e un po’ il nepalese; le lingue sono il mio vero e unico talento.

Qualcuno a casa sua rimpiange il comunismo?

Nessuno, neanche mia nonna; quando le ho posto questa domanda la sua reazione immediata è stata: “Ora vado al supermercato e posso scegliere”. Si sente libera.

Lei si sente libera?

La libertà andrebbe più difesa, mentre oggi ho la sensazione di continui attacchi, ed è assurdo, ma non se ne parla, perché uno se ne rendo conto solo quando la perde, o l’ha conquistata con la vita.

(Cantava Giorgio Gaber: “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone; la libertà non è uno spazio libero. Libertà è partecipazione”).

Mosca, l’incubo nucleare nel giorno del “no”

La Moscova di questo agosto non è l’unico fiume della Capitale russa. A Mosca scorrono torrenti di persone che urlano: Vlast eto my, “Il potere siamo noi”. Ombrelli e cartelli sotto gli edifici color sabbia o grigio sovietico di una straripante prospettiva Sacharov: sono quelli dei cinquantamila che sfidano a viso aperto il presidente. “Non importa chi sceglieremo, se Novalny o Sobol, siamo qui alla protesta per il diritto stesso di avere una scelta alle elezioni” dicono Aleksadr e Dasha, insegnanti, 31 e 24 anni. Lyubov Sobol, fedelissima di Alexei Navalny, è la grande assente della manifestazione, perché fermata dalla polizia nel suo ufficio prima dell’inizio del raduno. C’è il partito Jabloko e quello comunista che distribuiscono volantini, c’è perfino il volto tatuato del rapper russo più famoso della Federazione, Face. Punk dai capelli verdi, babushke, nonne russe dal capo coperto, studenti, classe media e veterani. Sulla maglia di uno di loro c’è scritto “tutti possono essere pussy riot”.

Dalla fermata Krasnye Vorota comincia il panorama della città blindata, metal detector, strade transennate e a ogni angolo gli impermeabili lunghi e bagnati dei militari. Per ore la pioggia continua a battere su migliaia di moscoviti che per le strade del centro fino al palazzo dell’amministrazione cittadina strillano: Putin vor, è un ladro e dapuskay, “lasciami passare”: sia per le strade della città, sia alle prossime elezioni dell’8 settembre, alle quali ai candidati dell’opposizione è vietato partecipare. Bandiere nere con la stella rossa, arancioni con falce e martello. Chi ha il tricolore sulle spalle e chi il futuro. Non c’è paura negli occhi a mandorla di Roman, ingegnere, 29 anni, che tiene sulle spalle Sava, 2 anni. Supporta Novalny. Il nome del blogger in carcere è quello che molti ragazzi, anche minorenni, hanno dipinto in volto o sui cappotti, mentre vengono arrestati dai militari, che cominciano ad ammanettarli quando gli orologi quadrati sovietici per le strade segnano le sei. Quando calano i passamontagna sotto i caschi delle divise, Ira e Ivan, due studenti biondo platino, si scambiano il numero verde degli avvocati da contattare in caso di arresto. Ochranyajut, “ci difendono”, dice l’uomo col cappello nero che dal marciapiede insulta “i liberali che non vogliono lavorare”. Gli smartphone registrano gli arresti, sulle chat dei dissidenti si dipana la mappa dei quartieri dove sono in corso retate, come Kitay Gorod. Oltre 300 gli arresti in 4 città russe, ma il numero triste e definitivo si conoscerà solo oggi. Radiazioni. Politiche, poi artiche. Incubi nucleari nel lontano Nord. Per la Rosatom, agenzia statale, non sono due, come sostenuto dal ministero della Difesa, ma cinque, gli esperti morti nell’incidente avvenuto nei cantieri navali segreti di Nyonoksa, Mar Bianco, regione di Arkhangelsk.

Per gli americani ad essere coinvolto nell’esplosione radioattiva è il missile da crociera Burevestnik con cui Putin minacciò Washington l’anno scorso. Panico da isotopi e assalto alle farmacie della regione. I depositi di iodio, usato per combattere i danni delle radiazioni, sono andati esauriti a Severodvinsk e dintorni.

Epstein si suicida in cella, troppi dettagli perversi

Uno con il pelo sullo stomaco così, non pensi mai che possa suicidarsi. E, invece, Jeffrey Epstein, 66 anni, il finanziere miliardario travolto da uno scandalo sessuale e accusato di abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori, è stato trovato senza vita nella sua cella: suicida, impiccato, secondo l’Fbi, che indaga in tal senso. Il Dipartimento della Giustizia ha disposto un’inchiesta. Epstein era recluso, in attesa del processo, il prossimo anno, nel Manhattan Correctional Center dove è detenuto anche El Chapo, il boss del narcotraffico.

L’allarme è scattato verso le 7.30 del mattino: lo staff del penitenziario ha prima provato a rianimare il finanziere, poi l’ha trasportato in ospedale, dov’è stato dichiarato morto. E dire che Epstein doveva essere sotto sorveglianza speciale dal 23 luglio, quando lo avevano trovato semi-incosciente in cella, con ferite al collo vistose: per l’Fbi, era stato un tentativo di suicidio. Pare che la sorveglianza fosse stata sospesa alcuni giorni or sono. Nelle ore immediatamente precedenti la morte del finanziere, i media Usa avevano diffuso carte del procedimento con abitudini sessuali imbarazzanti e perverse sulle attività illegali in cui Epstein era coinvolto. Il miliardario amava le orge con minorenni, organizzate nella sua lussuosissima residenza di Manhattan o in quella agli Hamptons, oltre che a Palm Beach, e voleva tre orgasmi almeno al giorno, ricorrendo pure a sexy toys e bambole gonfiabili. Un’assistente, una ex fidanzata, Ghislaine Maxwell, come lui “ossessionata dal sesso”, gli procurava le ragazze e un maggiordomo faceva sparire le tracce di ciò che accadeva. I documenti coinvolgono pure il principe Andrea, secondo figlio maschio della regina Elisabetta II, fratello dell’erede al trono Carlo, che sarebbe stato compagno di partouze di Epstein e avrebbe avuto nel 2001 rapporti sessuali a pagamento con l’allora minorenne Virginia Roberts Giuffre, la modella intorno a cui ruota l’inchiesta, e con una prostituta – Buckingham Palace smentisce –. A fine luglio, un giudice distrettuale di New York aveva deciso che Epstein, sarebbe stato processato nel giugno 2010, per dare modo alla difesa di studiare le carte, un voluminoso incartamento. In aula, il 31 luglio, il finanziere era comparso in pubblico per la prima volta dopo le ferite al collo in cella. Epstein, che rischiava fino a 45 anni di carcere, era parso stanco e assente, la barba lunga e i capelli in disordine: un altro uomo rispetto all’immagine da divo del cinema che dava di sé. Finanziere di successo, aveva iniziato la sua carriera alla banca d’investimenti Bear Stearns e aveva poi fondato la sua società, J.Epstein&Co., divenendo miliardario. Di fronte agli inquirenti, s’era sempre dichiarato “non colpevole”, ammettendo “relazioni consenzienti” e negando di sapere che alcune delle ragazze fossero minorenni. I giudici gli avevano negato la libertà su cauzione, dopo l’arresto il 6 luglio all’aeroporto del New Jersey.

L’accusa si basa, fra l’altro, sulle testimonianze di alcune delle vittime di Epstein, specie la Giuffre, che sarebbe stata ridotta a “schiava sessuale” quando aveva solo 14 anni. La notizia del suicidio ha suscitato in alcune delle vittime sdegno e rabbia: “un atto di egoismo” per evitare di confrontarsi con la corte e con le sue prede. La vicenda Epstein ha pure risvolti politici: il miliardario finanziere frequentava il resort dei Trump a Mar-a-Lago in Florida, dove la famiglia presidenziale trascorre i week-end d’inverno. Secondo Politico, gli investigatori hanno sentito una donna che una ventina d’anni fa, minorenne, lavorava lì come addetta agli spogliatoi e fu reclutata per dei massaggi al finanziere che spesso – dice – divenivano prestazioni sessuali. S’indaga inoltre su transazioni sospette della Deutsche Bank, la banca di Epstein e pure di Trump, che segnala trasferimenti di ingenti somme fuori dagli Usa. Il finanziere aveva pure socializzato con Bill Clinton. Già accusato nel 2005 in Florida di traffico di minorenni, aveva fatto un accordo con gli inquirenti, evitando il carcere: per quella storia, a luglio s’è dimesso il ministro del Lavoro di Trump, Alex Acosta, all’epoca il responsabile della Giustizia in Florida.

Bucarest, l’inferno dell’eroina

Il primo passo che faccio scendendo dall’automobile è in mezzo a un tappeto di rifiuti. La scarpa affonda tra l’immondizia. Non siamo in una discarica ma a Ferentari, settore cinque di Bucarest, l’inferno d’Europa. Per arrivarci bisogna abbandonare il centro in direzione sud-ovest. A meno di cinque chilometri dalle strade della movida c’è un’altra via: Livezilor, il girone della droga, dell’eroina. Senza qualcuno che ti accompagni è impossibile entrare in questo budello di cemento custodito da fantasmi che s’aggirano per la strada con gli occhi sbarrati.

I tassisti si rifiutano di accompagnarti in quella che i giornalisti locali chiamano la zona punga saracie, sacca di povertà. Chi abita qui, al contrario, non può andarsene, è incatenato alla miseria, al disagio, alla tossicodipendenza, all’aids. Franco Aloisio, presidente della Fondazione “Parada”, ci fa da traghettatore ma a una condizione: “Niente fotografie. Qui non si può”.

La “scusa” per entrare in uno di questi lugubri casermoni costruiti negli anni Settanta è quella di riportare alla famiglia di Margareta l’icona che era sulla sua bara. Margareta, 43 anni, se n’è andata da pochi giorni, strappata dall’aids, lasciando nelle mani di sua madre, Sami, 13 anni e altri tre fratelli che sono affidati alle cure del padre, alcolista. “Sembra un discorso cinico ma questo – spiega Franco – è il momento buono per portare via Sami da questo buco nero”.

La vita a Livezilor in effetti è tutta in bianco e nero. Non conosce altre tonalità. Le scale per andare al terzo piano sono buie anche in pieno giorno. Mentre salgo faccio attenzione a non pestare qualche siringa. Gli appartamenti di 40 metri quadri costruiti per i dipendenti di una fabbrica di autobus fallita da tempo, ospitano ognuno una decina di persone. Solo una casa su sei ha l’acqua calda e il gas. Non tutte hanno l’elettricità, ma gli spazi esterni dei palazzoni sono affollati di parabole. Non sembrano esserci tante porte. Le cantine sono allagate da anni e piene di ratti. La puzza è incredibile. Ovunque ci sono siringhe e aghi usati. Sami ci aspetta sul ballatoio del terzo piano.

È un ragazzino dallo sguardo scaltro e dolce, con i capelli che gli scendono sulla fronte fino quasi a coprirgli gli occhi. Dentro, in casa c’è un letto matrimoniale per tutti, un forno da campo alimentato da una bombola a gas e un vecchio televisore spento. Non una fotografia della mamma. Non un ricordo. Ad accoglierci è la nonna seduta come una matrona sul letto. A parlare con Franco è, invece, la sorella di Sami. Sembra lei a farsi carico della situazione.

Quando butto un occhio fuori dalla finestra mi accorgo che i rifiuti sono ovunque, persino sugli alberi. Sami è uno dei pochi ragazzini di Livezilor che non ha l’hiv. “Qui si fanno tutti, dai bambini ai nonni. Come vedi – mi spiega Franco – sono abbandonati. Li lasciano qui a morire come topi”. È l’altra faccia di Bucarest, quella che il turista non vede. Quella che non vedono nemmeno i politici locali ed europei. Della capitale della Romania fino a qualche anno fa si parlava solo per il fenomeno dei ragazzi di strada: bambini che vivevano nei canal (così li chiamano) dove scorrono le tubature del teleriscaldamento. Franco mi porta di fronte alla stazione ferroviaria nord per capire di cosa si tratta. In un giardino spunta una botola dove sotto c’è chi ci abita ancora.

“Ormai sono pochi a stare qui. I canal in parte sono stati chiusi e in parte abbandonati. Si contano 1200-1500 persone che sono ancora per strada. Chi viveva lì era considerato un paria. Oggi il vero problema di Bucarest è l’eroina. Da Paese di transito siamo diventati un Paese di consumatori. I dati dell’agenzia nazionale sulle droghe dicono che a fine 2015 c’erano 20mila tossicodipendenti: è un dato in difetto perché quelli registrati sono quelli che si sono rivolti ai servizi. Il 48 per cento erano sieropositivi. La prossima crisi umanitaria a Bucarest ha un solo nome: aids. Tutti i ragazzi che convinciamo a farsi le analisi risultano sieropositivi”. Lo sa bene Marian Ursal, direttore esecutivo dell’associazione “Carusel” che con un’unità mobile percorre chilometri ogni sera per cercare di rispondere alle necessità delle persone. Si occupano di dare un rifugio, un’identità a chi non ce l’ha e proprio per questo non può accedere alle cure del sistema sanitario.

Ma c’è anche chi ce l’ha fatta: Ricky, 20 anni, è uno di loro. Dopo una vita passata nel canal dove ha conosciuto sua moglie, 19 anni, ora vive in una casa occupata con i suoi due bambini. Per Franco è un traguardo, a noi sembra solo un piccolo passo verso una vita “normale”. Nella sua piccola stanza non hanno nemmeno un letto. Dormono su delle coperte gettate a terra. Vivono con altri giovani che hanno abbandonato la strada. Ma almeno hanno un bagno, una cucina, un televisore. Un’altra vita.

Aereo in emergenza perde pezzi su case e auto: nessun ferito

Alcuni frammenti di un aereo della compagnia Norwegian, atterrato a Fiumicino per un problema tecnico al motore, sono caduti su tetti e auto nella zona intorno all’aeroporto romano. Nessun ferito, fortunatamente, ma solo lievi danni ai veicoli. Un uomo è stato sfiorato da schegge incandescenti, ma senza ulteriori conseguenze. Secondo le testimonianze dei cittadini presenti, i frammenti caduti avevano le dimensioni massime di 10 centimetri. L’aereo, un Boeing 787, era decollato alle 16.30 dallo scalo romano con 298 passeggeri a bordo, diretto a Los Angeles, ma pochi minuti dopo l’emergenza ha costretto il comandante a tornare indietro. Ed è stato proprio durante le fasi dell’atterraggio che dall’aereo si sono staccati alcuni pezzi. Il velivolo è comunque atterrato sulla pista numero 16 destra, senza problemi, alla presenza dei mezzi di soccorso e dei vigili del fuoco schierati a bordo pista. I passeggeri hanno abbandonato l’aereo che subito dopo è stato ispezionato dai tecnici. Anche l’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo ha inviato un investigatore per ricostruire l’accaduto

Via mille alberi per far passare le armi. “Fermiamo i lavori della ferrovia Usa”

Quando gli americani chiamano, l’Italia risponde. A Migliarino, alle porte di Pisa e a un lembo di terra da Livorno, nell’area naturale “protetta” del Parco di San Rossore, a luglio sono stati abbattuti ben 937 alberi. Al posto di pini domestici, fernie, lecci, olmi e aceri costruiranno altri quattro binari della ferrovia che permetterà di trasportare più facilmente armi e merci alla base militare americana di Camp Darby (il più grande arsenale Usa fuori dal proprio territorio) dalla stazione di Tombolo, dal porto di Livorno e dall’aeroporto di Pisa. Ma pacifisti, ambientalisti e i comitati (“No Camp Darby”) non ci stanno e dopo il sit-in dello scorso 2 giugno sono pronti a continuare le proteste: “A settembre inizieranno anche i lavori sulla ferrovia e noi ci faremo trovare pronti per nuove manifestazioni” spiega Franco Busoni, della “Rete Civica livornese contro la normalità della Guerra”.

L’abbattimento degli alberi si è concluso ai primi di agosto. Il progetto è stato approvato nel 2017 dal ministero della Difesa guidato da Roberta Pinotti (Pd), su richiesta del Pentagono e dal Comipar (la commissione mista Italia-Usa per le costruzioni). Prevede la costruzione di un nuovo tronco ferroviario lungo 2,5 chilometri e un terminal di carico e scarico sul canale dei Navicelli alto 20 metri e formato da quattro binari in grado di accogliere ben 36 vagoni. Quest’ultimo è stato pensato per trasferire merci e armi proprio dalle linee delle Ferrovie dello Stato all’arsenale: su carrelli dinamici, i container saranno trasferiti dai convogli ferroviari (due al giorno) agli autocarri in grado di trasportare tutto nei 125 bunker sotterranei al cui interno si trovano qualcosa come un milione di munizioni, bombe per aerei e missili. Costo totale? Quaranta milioni di dollari pagati dagli Usa.

Gli ambientalisti e i comitati protestano contro un potenziamento che dovrebbe concludersi in tre anni con effetti potenzialmente devastanti sull’ecosistema del Parco di San Rossore: un anno fa gli operai della Cimolai Spa – l’azienda di Pordenone che si è aggiudicata l’appalto milionario – avevano iniziato a verniciare con delle grandi “X” gli alberi da abbattere ma poi il tutto si è bloccato fino all’estate per il timore di incidere troppo sulla riproduzione delle specie del parco (fauna e flora). I lavori sono ripresi a luglio e in pochi giorni tutti gli alberi sono stati abbattuti nonostante gli americani abbiano provato a rassicurare sul rimboschimento mettendo sul piatto due milioni. Ma il problema non è solo ambientale: se l’obiettivo è rendere più sicuro il trasferimento di armi riducendo a zero il rischio per i civili, in realtà il movimento di testate esplosive e munizioni sulla direttrice Arabia Saudita-Livorno-Iraq/Siria/Yemen preoccupa non poco chi vive nella zona. Ma si sa, quando gli americani chiamano…

A 75 anni dalle stragi naziste l’Italia “tradisce” le vittime

Era l’alba del 12 agosto del ’44 quando le SS circondarono Sant’Anna di Stazzema, in provincia di Lucca. In centinaia furono trascinati in piazza. Le mitragliatrici fecero il resto. Le abitazioni furono incendiate, i morti furono 393. Uno degli eccidi più atroci compiuti dai nazifascisti in ritirata dopo l’8 settembre del ‘43. Per il 75° anniversario, domani, il ministro degli Esteri Enzo Moavero andrà a Sant’Anna con il governatore della Toscana, Enrico Rossi. E il 25 agosto sono attesi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il suo omologo tedesco Frank Walter Steinmeier a Fivizzano (Massa-Carrara) per commemorare altri 350 civili uccisi nel ’44. Italia e Germania fianco a fianco, come nelle aule di giustizia dove Palazzo Chigi e la Farnesina danno mandato all’Avvocatura di Stato di schierarsi contro i risarcimenti richiesti dai familiari delle vittime italiane delle stragi nazifasciste. Commemorare sì, risarcire no. “Questo Ministero – scriveva la Farnesina in risposta all’ambasciata tedesca – si pregia di rassicurare che l’Avvocatura dello Stato interverrà nel procedimento in questione”, quello intentato a Sulmona (L’Aquila) dalla signora Virginia Macerelli, unica sopravvissuta all’eccidio di Roccaraso (128 morti) in cui perse la madre, cinque fratelli e il nonno. Si parla di due milioni di euro.

Si occupa da tempo di queste vicende il giudice Luca Baiada della Corte militare di appello di Roma. Ha condannato in contumacia militari tedeschi per i fatti di Padule di Fucecchio in Toscana e di Forlì e ora, da cittadino, ha intrapreso una spinosa battaglia per ottenere la documentazione che autorizza i legali di Stato a difendere Berlino. Se l’è vista negare già due volte, così ha fatto ricorso al Tar del Lazio che il 25 giugno l’ha respinto. La condotta dell’Avvocatura sarebbe mutata dal 2008. Prima, almeno nei processi penali, interveniva a difesa delle vittime. Le cose cambiano, secondo Baiada, “in un periodo compreso tra il 2008 e il 2016”. A quegli anni risalgono due sentenze storiche: il 3 febbraio la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, cui si era rivolta la Germania, stabiliva che l’Italia con le sentenze che condannavano Berlino aveva violato l’immunità giudiziaria degli Stati prevista dal diritto internazionale; il 22 settembre 2014 la Corte costituzionale italiana stabiliva che le norme del 1957 e del 2013 sull’immunità giurisdizionale contrastano con gli articoli 2 e 24 della Costituzione (diritti inviolabili e diritto di difesa). Il cambio di rotta del governo italiano sarebbe sopraggiunto dopo l’incontro del 2008 a Trieste tra l’allora premier Silvio Berlusconi e la cancelliera Angela Merkel. “L’Italia in ginocchio con entusiasmo accettò”, osserva Giuseppe Tesauro, presidente della Consulta ai tempi della sentenza del 2014. Cosa accettò? Finanziamenti per musei, monumenti ed eventi culturali, purché non si avanzassero richieste di risarcimenti. Il totale del contenzioso, secondo Baiada, ammonta a più di 100 miliardi di euro. Il debito di Berlino, però, resta inevaso.

Il giudice Baiada ha provato a farsi spiegare il mandato del governo all’Avvocatura con una richiesta di accesso civico generalizzato, respinta perché ritenuta “generica ed inidonea”. Ha chiesto il riesame e l’Avvocatura ha nuovamente rigettato l’istanza. Anche il Tar gli ha dato torto. Vige il “segreto professionale”. Come se il governo e l’Avvocatura fossero un cliente qualsiasi e il suo avvocato. Per il Tar Lazio “il segreto è necessario alla qualità della prestazione professionale”. Baiada potrebbe rivolgersi al Consiglio di Stato. “È una difesa d’ufficio di Berlino a spese nostre, la partita è grossa e riguarda la democrazia”, sottolinea il giudice militare.

Sono una quindicina i processi in cui l’Avvocatura ha difeso la Germania nei tribunali di Roma, Ascoli Piceno e Como. C’è il caso di Gualberto Cavallina di Berra (Ferrara), vissuto fino all’86, deportato a 21 anni a Dachau e sopravvissuto alle fucilazioni perché si nascose in infermeria. E quello della signora Macerelli. Dei processi nell’Ascolano si è occupato l’avvocato Lucio Olivieri. Ammontano a 40 milioni circa i risarcimenti che, secondo i giudici italiani, la Germania dovrebbe ai suoi assistiti. Ma c’è un limite all’esecuzione delle sentenze: “Non si possono effettuare pignoramenti a uno Stato estero se il bene è utilizzato per un fine pubblico – spiega – e con il decreto legge emanato da Renzi nel 2014 è stato introdotto il divieto di pignorare le somme di denaro che le rappresentanze diplomatiche di paesi stranieri hanno in deposito presso banche o uffici postali”. Insomma, anche quando i giudici danno ragione agli italiani nonostante l’Avvocatura, non c’è modo di venirne a capo.

Mail Box

 

Così sono state disattese e derise le aspettative del Paese

Matteo Salvini ha annunciato la crisi governativa e gli italiani restano perplessi. Stupisce, difatti, l’annuncio della crisi, più volte smentita dallo stesso leader leghista, le cui motivazioni reali restano avvolte dal mistero, anche se qualcuno sostiene che abbiano influito le decisioni inerenti il Tav. C’è, invece, chi sostiene che il Tav sia solo un pretesto. Allora, cosa bolle in pentola? Vedere crollare uno schieramento politico che aveva promesso stabilità, miglioramento economico, impegno per risolvere la crisi economica in cui versa lo Stato italiano, crea sconforto, tanto più in quanto si era alla vigilia dell’annunciata realizzazione di alcuni progetti importanti. Si potrebbe parlare di incoerenza, di false promesse e, ancora una volta, di derisone delle aspettative degli italiani. Attendiamo con curiosità , ma anche con l’amaro in bocca, di conoscere gli sviluppi di tale capovolgimento della scena politica, timorosi anche che possa recare danno alla già precaria vita economica italiana. Facciamo, sin d’ora, gli scongiuri affinché nessuno più faccia vivere in Italia lo spettro del totalitarismo e del sovranismo, che, a quanto pare, si ispira alla menzogna “litigiosa”. Si può affermare, senza timore di essere smentiti, che chi ne esce veramente sconfitto è Salvini, in quanto ha evidenziato il suo vero volto, ossia di essere animato da uno smisurato narcisismo che lo porta ad assumere decisioni sorrette dal senso del comando autoritario e ritiene inammissibili possibili mediazioni, le quali sono l’anima della democrazia.

Biagio Maimone

 

“L’Avanti”, quello scandalo sia lo spunto per risanare l’editoria

Gentile Direttore, aumenta il numero di testimoni in grado di confermare che L’Avanti, il giornale socialista edito dalla Cooperativa International Press di Valter Lavitola, era in realtà nella disponibilità di Silvio Berlusconi, editore di fatto del quotidiano. Ciò comporterebbe la conseguenza che Berlusconi non avrebbe diritto alla titolarità delle concessioni televisive fin dal giorno in cui prese in carico la linea editoriale e l’onere del finanziamento al giornale quotidiano, ovvero dalla metà del 1998. Insomma, ai sensi di legge, senza attendere provvedimenti sul conflitto di interessi nelle aule del Parlamento, chiunque avesse un interesse politico a ristabilire la verità potrebbe trovare in questa vicenda lo spunto per riequilibrare le sorti dell’editoria televisiva in questo Paese.

Dopo le prime mie recenti rivelazioni sulla vicenda, mi sarei aspettato una querela. Tuttavia, la prudenza della parte avversa suggerisce il silenzio, considerato il rischio altissimo che lo stesso Lavitola, scaricato dal suo mentore, decida finalmente di testimoniare la verità dei fatti, già emersa a più riprese nelle inchieste giudiziarie che lo riguardano. Ma torniamo ai testimoni. Quando il sottoscritto, eletto Senatore della Repubblica, lasciò la distribuzione e il service giornalistico della testata, subentrò un brillante imprenditore di Napoli, Guido Cinque, che ereditò il rapporto con la Società Europea di Edizioni e le disposizioni operative con le aziende dell’ex Cavaliere. Egli stesso apprese da Lavitola che in realtà il quotidiano fosse di Berlusconi e che egli, l’editore di facciata, altro non era che un suo dipendente profumatamente retribuito. Agli atti delle indagini su Cinque, uscito indenne per sua fortuna dalla traversa giudiziaria di Lavitola, ci sono le prove che a più riprese egli consegnò migliaia di copie a Palazzo Grazioli, seguendo le istruzioni degli uomini di Berlusconi. Anche Cinque è fra coloro che chiedono di veder sancita una verità che, nel suo caso, gli consentirebbe di rivendicare le cifre bloccate dai magistrati a Lavitola che, in sorta dei sequestri giudiziari, non lo ha mai pagato.

Berlusconi, ribadisco, avrebbe dovuto rispondere della bancarotta del quotidiano al pari di Lavitola. E farsi carico, di conseguenza, delle

debitorie del giornale. Oggi Lavitola lo trascina dinanzi all’organo di mediazione dell’Ordine degli Avvocati di Roma, rivendicando il suo ruolo di dipendente e chiedendo rendicontazione al suo “dante causa”. Staremo a vedere.

Sergio De Gregorio

 

La Lega non sa fare politica rispettando le istituzioni

Il movimento 5Stelle, nella sua iniziale esperienza politica, non ha avuto il tempo di conoscere il marciume di questo Paese. La smania di arraffare attraverso il consenso è il il vero cancro di questa falsa democrazia. I salotti televisivi sono la cassa di risonanza che alimenta giornalmente le masse, scaricando sui partiti di governo le false cause della crisi economica attuale. Le cause reali, invece, sono da imputare a una Ue troppo lenta a realizzare l’unione per cui è nata. La concorrenza delle grandi economie mondiali non facilita le esportazioni e, inoltre, le crisi dei Paesi più ricchi vengono scaricate su quelli più deboli. Chi ha deluso maggiormente in questo governo è stato Matteo Salvini: ottimo sviluppatore, ma pessimo politico nel saper gestire – democraticamente – la politica di questo Paese, trasformandolo, se lo si lascia fare, in un “Organismo delle Corporazioni” monocolore.

Roberto Centracchio

 

Gli unici che Salvini teme sono i dissidenti interni al partito

Matteo Salvini se ne infischia di critiche e insulti, che anzi rafforzano il suo consenso: l’unica cosa che teme davvero è la concorrenza interna alla Lega come altri leader autoritari, per questo si premura di espellere o censurare i “dissidenti”. Allora cosa faranno i vecchi leghisti anti-salviniani? Andranno a votare alle elezioni? Voteranno per la Lega o i 5 Stelle solo per arginare lo strapotere di Salvini, le cui prime vittime sono proprio i leghisti autonomisti?

Alessandro Regis

 

Conte è il solo a onorare i valori della Repubblica

Non ho votato 5 Stelle alle ultime politiche, ma considero Conte l’unico con il senso delle istituzioni e della cosa pubblica che avevano i migliori uomini della Prima Repubblica. Se l’insipienza del Pd ci costringesse ad andare al voto, Il Fatto Quotidiano non potrebbe farsi promotore – come per il referendum del 2016 – di una iniziativa per Conte candidato premier?

Renata Quartini

Capitalismo fatale, o della libertà d’ammazzarsi di più

Sono in auge vari indicatori per misurare la felicità (o l’infelicità) umana, ma il più attendibile resta il tasso dei suicidi. Che non è un sondaggio sulla fatica o la gioia di vivere bensì un dato hard, che richiede la presenza di un corpo senza vita. Ebbene, le ultime ricerche mostrano che i suicidi diminuiscono a livello globale con l’importante eccezione degli Stati Uniti, dove continuano a crescere. Perché?

Perché nonostante il catastrofismo dilagante promosso dall’industria occidentale della paura, progresso e sicurezza umani continuano ad avanzare, soprattutto fuori dall’Europa e fuori dagli Usa. E perché il modello del capitalismo neoliberale nel quale siamo vissuti dagli anni ‘70 in poi fa acqua da tutte le parti ed è diventata la principale minaccia al benessere fisico e mentale di qualsiasi popolazione. Secondo uno studio recente (https//doi.org/10.1136/bmy.194), la flessione delle morti globali per suicidio negli anni 1990-2016 è del 32,7%, ed è dovuta in massima parte al dimezzamento dei suicidi femminili (-49% contro -23% maschili). Più in particolare, sono le donne di quasi tutti i paesi dell’Asia orientale e sudorientale, Cina e India in testa, a registrare la crescita più ingente della salute mentale, della voglia di vivere. In Cina, la diminuzione del 64% dei suicidi totali è dovuta in larga parte al crollo dei suicidi delle donne sotto i venti anni di età. Dagli anni ‘90 in poi questo tasso si è ridotto del 90%: 500mila vite dell’età della speranza risparmiate, il 25% del totale mondiale dello stesso periodo. Stesso trend in India e altri paesi della regione, sia pure con cifre minori. Paesi che traboccano di nuove generazioni piene di fiducia nel futuro. Chi si riempie la bocca con la retorica delle immacolate liberaldemocrazie contrapposte al dispotismo cinese o alla corruzione indiana dovrebbe riflettere sulle conseguenze di questi dati, che dimostrano come anche in sistemi alternativi al capitalismo neoliberale possano crescere integrazione sociale e stabilità politica. E dovrebbe riflettere anche su un altro motore della diminuzione globale dei suicidi: il caso dei suicidi di persone di mezza età nella Russia postcomunista, decresciuti grandemente dal 2000 ad oggi. Dalla data, cioè, in cui l’avvento della tanto esecrata “era Putin” ha posto fine alla spaventosa impennata suicida degli anni ‘90. Gli anni di Yeltsin e del suo capitalismo liberalmafioso benedetto dall’Europa e guidato dai consiglieri americani. Privatizzazioni e liberalizzazioni a tutto spiano, che hanno fatto più danni al popolo russo della seconda guerra mondiale: iperinflazione, crollo del Pil, povertà, disoccupazione ,alcolismo, droga e suicidi che hanno richiesto altri dieci anni, con Putin, per essere alleviate e superate. Ma torniamo alle giovani donne dell’Asia orientale e sudorientale che non si suicidano più. Le ragioni sono abbastanza note. Urbanizzazione ed autonomia economica che hanno fatto crollare i matrimoni combinati, le schiavitù familiari e di clan, le maternità imposte. In una parola, l’emancipazione. Favorita dallo sviluppo economico e da politiche di protezione sociale intraprese da governi di colori disparati, dai nazionalisti indiani, malesi e indonesiani ai comunisti cinesi e vietnamiti. Il trend sui suicidi è coerente con una valanga di altri dati sulla riduzione della povertà, l’aumento del tenore di vita, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sanitari in una parte del mondo che supera ormai l’Occidente per Pil e popolazione. Se invece di guardarla dall’alto in basso per non avere creato in due generazioni quelle istituzioni politiche che l’Occidente ha impiegato quasi 300 anni a costruire, provassimo a comprendere i motivi del successo asiatico nel migliorare le basi fisiche e mentali della società, riusciremmo forse a capire meglio le ragioni del deterioramento di queste stesse basi presso di noi, e in particolare nel paese che fino a poco tempo fa ha guidato il mondo occidentale. I suicidi sono quasi raddoppiati negli Stati Uniti degli ultimi due decenni perché in quel paese si è materializzato il detto di Polanyi che il mercato autoregolato, lasciato a se stesso, finisce col distruggere “la sostanza umana e naturale della società”. L’aumento dei suicidi si accompagna negli Usa a una crescita senza precedenti della disperazione sociale e delle malattie indotte da droga, alcol e guerre. Sì, guerre. Le sconsiderate avventure mediorientali post-11 settembre hanno depositato una torma di reduci infermi fisici e mentali che ammonta all’8% della popolazione totale, e che genera alcolismo, consumo di droghe, suicidi e violenze quotidiani. E dei quali nessuno ama parlarne o occuparsene. Accanto ai veterani disperati c’è una vasta classe di lavoratori bianchi impoveriti dal declino dell’industria e dallo strapotere della finanza che alimenta anch’essa, con il consumo di droghe pesanti e la vulnerabilità alle malattie, il degrado generale della salute. E che vota per Trump, visto come protettore invece che carnefice. Ma l’attacco più micidiale sferrato dal mercato alla sostanza materiale della società americana è costituito dalla liberalizzazione mascherata del consumo di droghe pesanti effettuata dalle industrie farmaceutiche fin dall’inizio di questo secolo. Esse hanno cominciato a produrre e distribuire medicinali antidolorifici a base di oppiacei molto più potenti e pericolosi dell’eroina. La complicità dei medici americani ha consentito di espandere la platea dei consumatori legali fino a 8 milioni di individui. L’ecatombe dei morti per overdose ha oggi superato le 65mila unità annuali, contro le 44mila vittime della guerra del Vietnam. Non è un caso che molti lettori abbiano sentito parlare di questo tema qui per la prima volta.

Una breve storia triste: da #senzadime a #contutti

Fior da fiore. “La priorità è evitare l’aumento dell’Iva. Per evitarlo siamo disposti a parlare con tutti: con questo obiettivo per poi tornare alle elezioni” (Luigi Marattin, renzianissimo). “Sappiamo che a Mattarella, come a noi, stanno a cuore le esigenze del Paese e non le convenienze dei partiti: occorre mettere in sicurezza l’Italia e fare in modo che i cittadini non siano travolti dal vortice della crisi” (Graziano Delrio, diversamente renziano). “Se tutti i leader dicono soltanto ‘al voto, al voto’, Mattarella finisce spalle al muro. Abbiamo il dovere di offrirgli un’alternativa” (Alessandro Fusacchia, peones di +Europa). “La crisi del peggior governo della Repubblica andrà in Parlamento nei prossimi giorni: in quella sede – e sui giornali, sui social, nelle piazze – io dirò quello che penso su aumento dell’Iva, riduzione del numero dei parlamentari e su chi deve gestire le elezioni dal Viminale e da Chigi” (Matteo Renzi, renziano). “Serve un governo di transizione che prepari le elezioni e di raddrizzare la barra economica salvandoci dal baratro” (Giuliano Pisapia, creatore di movimenti un po’ a sinistra del Pd). “Le elezioni sono la via maestra delle opposizioni, dopo di che il Quirinale guida la crisi e il partito di maggioranza deve decidere cosa vuole fare: se il 5 stelle vuole andare al voto, bene; ma se il 5 stelle vuole fare altre cose… dipende da loro” (Enrico Letta, #staisereno). E ora, mi raccomando, via i tweet con #senzadime e dentro #contutti. In attesa dell’editoriale di Scalfari: “A me quel Casaleggio è sempre parso un bel democratico”.