Davvero gli italiani si fidano di Capitan Lucignolo?

 

La storia di una nazione non è nei parlamenti né sui campi di battaglia, ma in ciò che la gente si dice nei giorni di fiera e nei giorni di festa, e nel modo in cui lavora i campi, e bisticcia e va in pellegrinaggio.

William Butler Yeats

 

Dubito che Matteo Salvini abbia mai letto Yeats ma lo spirito animale che lo guida (calma, non è un’offesa ma segno di vitalità) ha certamente attinto al linguaggio della cosiddetta gente comune “nei giorni di fiera o quando bisticcia”. Il che va benone quando si arringano le folle in spiaggia, ma forse qualche problema lo potrebbe creare se e quando al posto della braghetta si dovrà indossare la grisaglia del premier poiché ovviamente palazzo Chigi non è il Papeete Beach.

Una luce straordinaria sulla tempra politica di Capitan Fracassa si ricava dalla ricostruzione, di primissima mano, dei suoi trafelati colloqui con Giuseppe Conte, pubblicata ieri sul “Fatto”, a firma Salvatore Cannavò. Una specie di massacro intellettuale che vede il giurista Conte infierire sullo studente somaro che nulla sa di regole parlamentari, di trattati europei e di procedure d’infrazione (“Guarda che quelli ti massacrano”). E infatti ecco il nuovo uomo della Provvidenza che subisce il liscio e busso con le orecchie basse, consapevole di aver bigiato la scuola, assente al Viminale, assente a Strasburgo, assente a Bruxelles e in ogni sede istituzionale.

Dove avrebbe potuto almeno imparare a far di conto, magari con l’ausilio di un vecchio pallottoliere, sullo spread che sale ogni volta che apre bocca. Davvero a questo Lucignolo perdigiorno gli italiani hanno deciso di affidare i loro destini (e risparmi)? A uno che fa perfino tenerezza quando scimmiotta il Duce con una frase di tragica comicità: “Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare”. Proprio come Totò e Peppino a Milano nel celebre dialogo con lo sbalordito ghisa: “Dunque noi vogliamo sapere, per andare dove vogliamo andare, per dove dobbiamo andare?”. Abbiamo definito le elezioni uno strumento di igiene politica. Ma anche di igiene mentale.

Caratteristica della vita cristiana è la vigilanza: viviamo nell’attesa di Dio

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; li farà mettere a tavola e passerà a servirli. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”. Allora Pietro disse: “Signore, questa parabola la dici per noi o per tutti?”. Il Signore rispose: “Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così: lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: ‘Il mio padrone tarda a venire’, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli… A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Luca 12, 32-48).

Se ci interroghiamo sul senso della nostra vita, scopriamo che essa è un dono da amministrare con fedeltà e saggezza perché, come pellegrini, siamo orientati verso una mèta che è Dio stesso. Siamo invitati a vivere nell’attesa della venuta del Signore, pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese (…) simili a quelli che aspettano. Caratteristica della vita cristiana è la vigilanza. Sollecita alla tensione continua verso il nostro autentico futuro che è Dio, ma ci rende ugualmente attenti e appassionati per il momento presente come insegna Gesù.

L’essere pronti, in questa maniera, libera dalle ansie del possesso economico, del dominio affettivo, del potere politico, per tenere la nostra esistenza aperta all’Infinito e farla abbeverare di Esso. Significa che bisogna disporsi a un cambiamento continuo, a non dare mai per scontati gli approdi raggiunti, le certezze consuete che sembrano ormai assolute. Fin dai primi secoli del cristianesimo, il senso del “già e non ancora” ha accompagnato il passo dei discepoli: il continuo divenire e la precaria fragilità della vita ci mantengono in questa allerta interiore, pur restando pienamente inseriti ed impegnati nel contesto della vita di tutti gli uomini e del nostro tempo. Il libro della Sapienza ricorda la pedagogia Dio nei riguardi del suo Popolo e verso di noi: la liberazione dalla schiavitù non avviene mai con facilità. Egli conduce attraverso un lungo e arduo cammino, nel deserto, nella totale spoliazione da ogni illusione e dalla preoccupazione di apparire ciò che non siamo.

La vita, dunque, va vissuta nella confidente attesa dell’arrivo del padrone che torna dalla festa di nozze. L’attesa è rallegrata certamente dalla festa, ma, a volte, può scemare per la fatica di credere, di vegliare, di cercare, di amare. Quando viviamo questa umana e comprensibile debolezza, pensiamo alla fiducia che il Signore della nostra vita e della nostra attesa ha riposto in noi. Egli ci affida la Sua casa, le Sue cose, i Suoi beni, la Sua creazione, la Sua buona Notizia e ci sostiene con l’assicurazione della Sua promessa: beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. Guardiamo ai Santi, a coloro che ci hanno preceduti nel compimento di questa promessa, ai testimoni della fede che ci hanno lasciato la traccia della loro attesa e del loro incontro con il Signore.

* Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Il proporzionale: non c’è nulla di più democratico

La Lega di Matteo Salvini si è posta – con parole e opere – fuori dalla Costituzione, e davvero ai limiti della democrazia: se non già fuori. E la storia è piena di esempi di democrazie spazzate via da risultati elettorali “democratici”. Come uscire, dunque, da questa letale aporia del sistema? Per quanto formalmente legittimi, passi come il rinvio del voto, la costituzione di nuove maggioranze parlamentari o di nuovi governi tecnici avrebbero un costo politico altissimo: e, in ultima analisi si rivelerebbero dei boomerang, consentendo a Salvini di cavalcare (impropriamente, ma non per questo meno efficacemente) la retorica del “ribaltone”.

L’impressione – infondata, ma poco importa – sarebbe quella di una stretta contro la democrazia. Dunque, la domanda decisiva di queste ore non è se votare o no: ma come votare. Con quale legge elettorale. Ebbene, da passaggi stretti e insidiosi come questi si esce solo con più democrazia: anzi, con la massima democrazia possibile. E non c’è nulla di più democratico di una legge elettorale puramente proporzionale, senza sbarramenti e premi di maggioranza.

Un’Italia così profondamente divisa ha bisogno di un Parlamento che rispecchi fedelmente l’articolazione delle opinioni presente nel Paese. Una legge elettorale proporzionale garantirebbe tutti, invitando a tornare a votare anche coloro che non lo fanno da molto tempo. Quella legge darebbe a ciascuno il suo: a partire dalla Lega, probabilmente il primo partito italiano. Un partito a cui nessuno vuole togliere nemmeno un capello: ma nemmeno dare un capello in più di potere rispetto ai voti effettivamente conquistati.

È possibile che anche con un proporzionale puro la Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e annessi e connessi possano raggiungere la maggioranza in Parlamento. Benissimo (anzi, malissimo): che governino, assumendosi la responsabilità dell’esercizio provvisorio e di tutti gli atti di Salvini. Ma c’è un limite, invalicabile: non devono poter cambiare le regole del gioco, modificando unilateralmente la Costituzione. Né un partito da solo deve poter eleggere l’arbitro, cioè il prossimo presidente della Repubblica (che comunque, dal quarto scrutinio, sarà nella disponibilità della maggioranza).

Finora l’estrema debolezza politica di Movimento 5 Stelle e Partito Democratico ha permesso a Salvini di fare tutto ciò che voleva con il 17% dei voti: una follia di cui gli elettori dovranno chiedere conto. Ma ora si tratta di evitare danni irreversibili.

Tutto il sistema delle garanzie interne alla Carta (a partire dalle procedure previste nell’articolo 138) funziona solo in un sistema proporzionale. Una scellerata politica “multipartisan” ha spezzato da tempo questo congegno giusto ed efficiente: ora è venuto il momento di rimetterlo in funzione. Lo strumento più adatto sarebbe un governo “del presidente” – cioè voluto e garantito dal garante della Costituzione, il presidente Sergio Mattarella – che abbia come unico, trasparente scopo la sollecita sostituzione dell’indegno Rosatellum con una legge elettorale proporzionale. Con i voti di 5 Stelle e Pd lo potrebbe fare in pochissimi giorni.

Si tratterebbe non solo di una (necessaria) messa in sicurezza della democrazia in Italia di fronte a un pericolo mai così oggettivo e incombente. Sarebbe anche la chiusura di una lunga stagione di “corruzione” del nostro sistema parlamentare e politico, e la ricostruzione di un parlamento finalmente capace di rappresentare gli italiani. Il Movimento 5 Stelle potrebbe, dopo la sua disastrosa esperienza di governo, darsi un senso e un futuro, e il Partito Democratico avrebbe l’occasione di riparare a una fatale sequela di errori. Ma soprattutto avremmo difeso l’unica cosa a cui non possiamo rinunciare: la democrazia.

La guerra dell’uomo bianco è cominciata

Ecco due frasi che ci servono per capire dove siamo. Salvini, ministro o ex ministro dell’Interno italiano, nell’ anniversario (8 agosto) della strage dei minatori italiani di Marcinelle ha detto: “Nessuno paragoni i nostri emigranti italiani del passato, i nostri nonni e bisnonni andati a lavorare in tutto il mondo, ai troppi clandestini fatti arrivare in Italia negli ultimi anni e mantenuti a spese degli italiani”. Toni Morrison, premio Nobel, nel romanzo Beloved (Amatissima,1987) ha scritto: “Nel mondo la sfortuna non esiste. Esiste solo l’uomo bianco”.

Salvini, senza saperlo e senza meritarlo, fa da documento e da certificazione per la tragica frase di Toni Morrison. Pensate alla nave che in queste ore è costretta a restare al largo, affollata di gente salvata dal mare, alcuni feriti, molti bambini, perché “i porti sono chiusi” e nessuno si oppone (nessun bianco, nessuna “autorità”) alla crudeltà di un ministro o ex ministro che vuole uniformarsi al manifesto dell’uomo bianco. Torniamo alla frase di Toni Morrison. La grande scrittrice ha capito, nel 1987,che, dopo John Kennedy, dopo Martin Luther King, dopo Robert Kennedy, stava iniziando la grande vendetta – l’uomo bianco contro i neri –, una vendetta che sarebbe diventata una guerra. Ora la guerra è cominciata e l’Italia, comandata da Salvini, ministro o ex ministro, sembra collegata moralmente (ma forse anche in modo organizzato, vedi la tabella dei viaggi di Savoini in Russia in tempi recenti; vedi la somiglianza del linguaggio leghista con il linguaggio ormai esplicito degli stragisti di Usa, Norvegia, Nuova Zelanda) e fa la sua parte, anche se ancora dalle retrovie.

Un punto molto forte lega la “nuova Italia” razzista, in cui la gente nera viene abitualmente insultata sui treni e i rom vengono scacciati direttamente dalla folla senza bisogno di sgombero municipale: è il senso di nazione. La scrittrice americana Kathleen Belew (Università di Chicago) fa notare il senso della parola “nazione” nel linguaggio suprematista. I nuovi bianchi intendono difendere i confini della patria in quanto barriera della razza ariana. “I suprematisti bianchi – cito da un lungo editoriale del New York Times del 7 agosto – sono un vasto schieramento interconnesso che pratica una ideologia transnazionale. I suoi aderenti si raccordano per diffondere idee e iniziative (dove, come colpire). Lo sterminatore di Christchurch (Nuova Zelanda ) sostiene di essersi ispirato agli Stati Uniti, all’Inghilterra, all’Italia. I nazionalisti bianchi sono i protagonisti di attacchi locali, ma l’ideologia è globale. L’autore della strage di El Paso ha detto di temere “una invasione in Texas di ‘hispanic’ (America Latina ) che vengono mandati a prendere il posto dei bianchi”.

Chiedo al lettore di ritornare alla frase iniziale del ministro o ex ministro Salvini riportata all’inizio di questa pagina. Dice esattamente (usando la parola “clandestini” come modo diffamatorio per definire i migranti) che “troppi clandestini vengono fatti arrivare in Italia negli ultimi anni e mantenuti a spese degli italiani”. La prima frase appartiene ai “manifesti” degli sparatori di Christchurch e di El Paso, corrisponde alle dichiarazioni di Breivik e di Tarrant. E include la leggenda metropolitana dell’emigrazione come business organizzato, usando tutti la frase-codice “vengono fatti arrivare”, come se Medio Oriente e Africa non esplodessero di guerre, stragi, persecuzioni religiose e razziali, fame e siccità estrema. La seconda frase (“tutto ciò a spese degli italiani”) è fatta per suscitare rabbia, risentimento, odio, ragioni di vendetta. Pochi finora hanno sparato, ma nessuno più accoglie, il respingimento diventa regola di condotta e i parroci non tentano più di ripetere in chiesa le parole solidali e umane del Papa per timore di essere insultati dai parrocchiani. E poi se il governo fa il lavoro sporco del razzismo violento – lasciando in mare le barche cariche di profughi e facendosi approvare leggi che puntano alla eliminazione dei naufraghi (multe da un milione di euro a chi salva e trasporta un migrante) – bastano ai bravi cittadini buone occasioni di disprezzo, aggressione, insulti (magari al bambino nero italiano) e la ripetizione della penosa e umiliante frase “prima gli italiani” per dare un valore a se stessi e alla propria giornata.

Persone rimaste normali nel mondo ti domandano: ma perché tanta enfasi religiosa, con dediche al “Cuore Immacolato di Maria” per celebrare una legge di morte che chiude ogni passaggio alla salvezza dei naufraghi? Purtroppo il trucco funziona. Io ho la mia identità, la mia superiorità (vengo prima, per ragioni di cui non mi vergogno) e ho dalla mia la religione. Se ce l’ho, vuol dire che sono dalla parte giusta. Il Manifesto della razza è sempre uguale, da Lecco a El Paso. È la guerra dell’uomo bianco, annunciata per tempo da Toni Morrison.

Morandi, il collaudo dimezzato

Fotografie in bianco e nero. Fascicoli sbiaditi scritti a macchina e a mano negli anni ‘60 in cui si parla di fessurazioni, di deformazioni, di sprofondamenti. E poi collaudi da effettuare utilizzando mezzi più leggeri di quelli previsti. È tutto scritto nel fascicolo sul ponte Morandi conservato negli archivi della società costruttrice Condotte. Una montagna di carte che neanche la Procura di Genova, impegnata nell’inchiesta sul crollo, ha ancora acquisito. Il Fatto ne è entrato in possesso e può svelarle dopo mezzo secolo di silenzio.

Il ponte Morandi è crollato alle 11.36 del 14 agosto 2018 dopo che circa un miliardo di auto e camion l’avevano percorso. Sono morte 43 persone. La Procura sta indagando, le ruspe lavorano al nuovo ponte progettato da Renzo Piano. Del Brooklyn di Genova non rimangono che macerie. Ma il male del ponte forse ha radici antiche.

Del resto lo hanno confermato anche i tre ingegneri cui il gip Angela Maria Nutini ha affidato una perizia consegnata dieci giorni fa. Gianpaolo Rosati, Massimo Losa e Renzo Valentini puntano il dito sulla mancanza di manutenzione, complicando la posizione di Autostrade: “Non si evidenziano – scrivono – interventi atti a interrompere i fenomeni di degrado… Gli unici ritenuti efficaci risalgono a 25 anni fa”, cioè a quando la società era ancora in mano pubblica. Ma svelano problemi che erano rimasti nascosti nel cemento per cinquant’anni, lasciando che milioni di persone transitassero ignare sul ponte. Una novità che riguarda il passato, ma non cancellerebbe eventuali responsabilità di chi ha avuto in gestione il ponte e forse poteva scoprire per tempo il suo male segreto: all’epoca della costruzione, secondo la perizia, risalirebbe il fatto che “i cavi secondari sono spesso liberi di scorrere: alcuni trefoli non sono stati trovati dentro le guaine”. Ma emerge anche che “in generale i cavi secondari nelle guaine presentano fenomeni di ossidazione e, in alcuni casi, con riduzione di sezione, i quali hanno effetti diretti sulla sicurezza strutturale”.

Già. Il segreto di quel ponte forse è conservato negli archivi delle società e degli enti che lo realizzarono. Sono lettere raccomandate, avvertimenti, relazioni di collaudi, un fiume di carte scritte quando il ponte era appena entrato in esercizio, ma già suscitava allarme “per la pubblica incolumità”. Oggi quel materiale riemerge dagli archivi e racconta la storia segreta della nascita del ponte e del suo collaudo.

Appunti vergati a mano da Morandi, il padre del ponte, che difendeva con passione la sua creatura. Carte in cui il committente chiede garanzie all’esecutore per tutelare l’incolumità pubblica. Ogni elemento può essere utile per capire quando il ponte ha cominciato ad ammalarsi e quali erano i suoi punti deboli dalla nascita. Leggete cosa scrisse l’ingegner Nicolò Trapani, capo dipartimento Anas, in una lettera raccomandata del 23 novembre 1968: “A seguito di sopralluogo effettuato congiuntamente a tecnici dell’impresa e di Autostrade, che ha in concessione la Genova-Savona, è stato rilevato che su entrambe le pareti laterali esterne della travata scatolare facente parte dell’elemento bilanciato (pila 11) in corrispondenza dell’attacco dei ritti sono visibili filature capillari con inclinazione a 45 gradi circa”.

Trapani era un ingegnere puntiglioso che non aveva timore di mettere nero su bianco i suoi dubbi. A lui non importava che quel ponte fosse un’arteria fondamentale per il traffico del Nord. Che la politica premesse tanto perché si trattava di un simbolo dell’Italia che in quegli anni cavalcava il boom. Trapani temeva che lo Stato pagasse miliardi di lire per un’opera che eventualmente non fosse stata eseguita a regola d’arte. Ma soprattutto si curava della “pubblica incolumità”.

Non era il solo. Le anomalie erano descritte anche in una lettera del 9 dicembre 1968 dell’ingegnere Pasquale Prezioso, Capo della Commissione di Collaudo. Ma per capire il peso di simili lettere bisogna tornare a quei giorni. Ricordare, appunto, cosa significava il ponte Morandi alla fine degli anni ‘60. Più di un ponte, un monumento. Un sogno nato nel 1961, in quell’Italia dove la gente finalmente poteva comprarsi la Fiat 600, salire in auto e viaggiare. Quanti italiani ricordano ancora il rumore del motore, il suono degli sportelli di quell’auto, il clic che segnava la partenza, l’inizio della scoperta. Eravamo un Paese che si sentiva ricco, in piena espansione. Capace di realizzare opere invidiate nel mondo. Genova era uno dei vertici del triangolo industriale, uno dei dieci porti più grandi del mondo, mentre la Riviera era meta di milioni di turisti che arrivavano da ogni paese. La vetrina ideale per realizzare un ponte che non aveva uguali, progettato da quel Riccardo Morandi che nel settore era il maggior esperto. Così nacque quella struttura sospesa nel vuoto che tagliava di netto una valle: 1.182 metri di lunghezza e piloni alti 90 metri, come cattedrali. Nessuno prima aveva osato tanto. Qui, secondo i calcoli iniziali, potevano transitare 30mila auto al giorno.

Giorni trionfali, come dimostrano le immagini conservate nell’archivio Publifoto di Genova: ecco che dalla distesa di condomini e fabbriche della Valpolcevera – il cuore della Genova operaia e allora rossa – cominciano ad alzarsi piloni alti come grattacieli. Gru vertiginose da farci impigliare le nuvole lavorano senza sosta. In una manciata di anni nascono il ponte e un serpente di viadotti, dove si vedono correre vetture luccicanti.

La data di apertura fu il 4 settembre 1967. Ma tante questioni andavano ancora verificate. A partire appunto dai mali del pilone 11, da sempre l’osservato speciale del Morandi. Ci sono, per cominciare, le “filature capillari”, in pratica sottilissime crepe nel calcestruzzo. Quasi invisibili, ma molto allarmanti per i tecnici che dovevano mettere la loro firma sul via libera al ponte. Da qui, appunto, prende il via un serrato scambio di corrispondenza fra Trapani, Prezioso, il progettista Morandi e i responsabili della società costruttrice. Parliamo della Società Italiana Condotte d’Acqua. Fondata nel 1880, fino al 1970 è stata di proprietà dell’Amministrazione Speciale della Santa Sede e di Bastogi. Dopodiché è stata acquistata dal finanziere Michele Sindona che l’ha venduta al gruppo IRI-Italstat. Oggi si chiama Condotte e sta affrontando un difficile risanamento.

Ma torniamo a quel tourbillon di lettere allarmate, di collaudi a raffica.

Un allarme giustificato? No, secondo l’impresa e Morandi. Condotte ritiene che le fessure abbiano subito variazioni minime, “tra un millesimo e un decimillesimo di pollice (meno di 0,002 centimetri, ndr)”. E aggiunge: “Riteniamo molto probabile che dette ‘filature’ rappresentino il residuo di piccole lesioni che si sono prodotte all’atto della costruzione… quando, a struttura ultimata, è intervenuta la forte azione orizzontale prodotta dai tiranti obliqui, le piccole lesioni non si sono potute chiudere interamente… non si può riscontrare alcuna menomazione della capacità resistente della struttura nell’attuale condizione di esercizio”, garantisce l’impresa. Ma andrebbe notato che la struttura negli anni ha visto moltiplicarsi esponenzialmente il numero di auto e camion in transito, fino ad arrivare a picchi di centomila mezzi al giorno (con carichi eccezionali di decine di tonnellate).

Intanto vengono compiute delle analisi da parte dell’Università di Genova. E l’ingegner Trapani torna alla carica. Il 5 maggio 1969 sollecita risposte esaurienti: “Si invita codesta società a comunicare con cortese urgenza il parere del progettista dell’opera, professor ingegnere Riccardo Morandi, sulle risultanze delle operazioni di controllo dei coefficienti di dilatazione lineare effettuate dall’Università”.

Siamo al 26 maggio 1969 quando giunge la risposta di Morandi che si dimostra convinto della solidità dell’opera: “Le misurazioni dei coefficienti di dilatazione lineare in corrispondenza delle cavillature conducono alla conclusione che le deformazioni risultino di valore assolutamente modesto, paiono visibilmente costanti nel tempo e non sembrano potersi collegare ad alcuna ragionevole ipotesi sul comportamento della struttura attualmente in esercizio…”. Potrebbe trattarsi di variazioni dovute a “ragioni termiche”, insomma il caldo e il freddo che fanno dilatare o contrarre il cemento.

Certo, parliamo di un’opera colossale. Controlli e sopralluoghi (almeno 11), non mancano. Per esempio il 22 aprile 1966 ecco le prove di carico sui piloni di fondazione della pila 10 che danno “risultati del tutto soddisfacenti”. Sarà così anche in altri casi.

È normale che alla fine dei lavori si aprano questioni sull’esecuzione. Ne va di mezzo la sicurezza, ma anche il pagamento dei lavori. Però i rilievi della Commissione forse vanno oltre il fisiologico braccio di ferro con l’impresa realizzatrice. Perché, anche dopo gli studi dell’Università e le rassicurazioni di impresa e progettista, l’ingegnere Trapani dell’Anas e il Capo della Commissione Collaudi, Prezioso, continuano a marcare stretto chi deve occuparsi del ponte. Basta leggere un’altra lettera di Trapani, dopo l’undicesima visita della Commissione. E siamo al 29 settembre 1969: “Si invita codesta impresa – chiede Trapani – a predisporre un servizio di vigilanza continua alla travata sita in corrispondenza della pila 11… e a voler intervenire tempestivamente, in caso di necessità presso la direzione di Tronco di Autostrade per l’adozione di tutti i provvedimenti atti a garantire la pubblica incolumità”.

Gli fa eco Prezioso il 10 dicembre: “Prego informarmi se siano state fatte le accurate ispezioni richieste dalla Commissione e se siano emerse altre lesioni e dissesti nelle rimanenti strutture… Prego far pervenire al più presto alla Commissione le livellazioni longitudinali per accertare se vi siano stati aggravamenti o attenuazioni nei dislivelli, per eliminare detti vizi l’impresa dovrà fare proposte… in tale stato delle opere, ovviamente, ogni dichiarazione di collaudabilità incondizionata è preclusa, mentre una collaudabilità condizionata è subordinata all’esecuzione dei provvedimenti” da parte dell’impresa. Il 10 dicembre ‘69 gli ingegneri guidati da Prezioso aggiungono: “Mancano tra l’altro notizie relative ad analisi e referti di laboratorio e di cantiere sui materiali impiegati e sui calcestruzzi, sulle prove di portata sui pali di fondazione e di carico degli impalcati… sui dissesti constatati, sull’esito cronologico delle osservazioni estensiometriche delle lesioni”. Insomma, ci vogliono anni di controlli e analisi perché i dubbi vengano fugati. Sono necessari anche collaudi che oggi si compiono con simulazioni al computer mentre allora venivano effettuati sul campo. Con veri pesi, sollecitazioni reali.

E proprio qui spunta un foglio in mezzo a migliaia che rispolvera una pagina di cronaca. Che incrocia voci, quasi leggende, che da decenni circolavano tra chi aveva lavorato sul ponte e chi abitava all’ombra delle campate. È la famosa storia del camion. Nei giorni immediatamente successivi al crollo, nei racconti dei testimoni l’episodio ritornava spesso, ma senza riscontri. “Mi ricordo – disse una donna che abitava in via Fillak, nelle case che presto saranno abbattute – il racconto di un operaio del cantiere nel giorno del collaudo della pila 11. Quella più delicata. Doveva venire un camion enorme e invece… invece all’ultimo momento non si trovava, non c’era. E ne arrivò uno molto più leggero”.

Voci che non avevano riscontro. Fino a oggi. Ma con le carte coperte di polvere in mano al Fatto la storia del camion esce dall’ombra della leggenda e diventa un episodio circostanziato. Vero.

È il 26 settembre 1969 quando, dopo gli allarmi e i solleciti di Trapani e Prezioso, la società costruttrice scrive per informare sulla prova di collaudo della pila 11. C’è un solo modo per verificare che le maledette incrinature non siano pericolose: sottoporre la struttura a un peso enorme, ben superiore a quello delle normali condizioni di esercizio.

Un camion da centinaia di tonnellate, appunto. Condotte scrive: “In conformità alle visite di collaudo del 21 giugno 1969 relativamente alla possibilità di effettuare misurazioni sotto carico in corrispondenza delle crinature della campata 11 si prevede di eseguire le misurazioni con le seguenti modalità: la prova di carico avrà luogo nelle ore notturne… la misurazione delle flessioni sarà effettuata per mezzo di doppia livellazione”.

Ma ecco il passaggio decisivo, l’ultimo, nella seconda pagina del documento inviato a Morandi: “Non essendo stato possibile rintracciare un doppio carico eccezionale, la prova sarà effettuata con un unico carrellone. L’idoneità è rimessa al suo esame e al suo benestare”.

Morandi risponde: “Ho esaminato le caratteristiche del carrello con cui intendete effettuare la prova… Detto carrello produrrà sollecitazioni non molto inferiori a quelle prodotte dai sovraccarichi di calcolo”. A quelle teoriche insomma. E il progettista conclude: “Ritengo che il passaggio di questo carrello possa rappresentare un efficace controllo della consistenza statica delle strutture di impalcato”. Un collaudo problematico anche perché il peso da utilizzare – una bobina fornita dalla Marelli – non arriva a causa degli scioperi in corso.

Quindi il ricordo conservato da operai e abitanti era esatto.

È vero, il pilone 11 è sempre stato il grande malato del Morandi. Ma anche l’unico che ha subìto interventi risolutivi. Come ha raccontato al Fatto l’ingegner Gabriele Camomilla, negli anni ‘90 direttore della Ricerca e della Manutenzione di Autostrade: “A partire dagli anni ‘80 il ponte è stato oggetto di interventi di consolidamento, i più significativi sono quelli intrapresi nel 1993 sugli stralli della pila 11”. Fu proprio Camomilla, che del grande ponte parla quasi come di un figlio e che ha raccolto migliaia di firme per salvarlo, a realizzare quei lavori di ristrutturazione della pila malata: “Analogamente a quanto già era stato realizzato sul resto della struttura, infatti, anche nella pila 11 era stato programmato un intervento di parziale integrazione e di protezione del calcestruzzo, ma alcune verifiche preliminari avevano messo in luce una situazione ben più preoccupante”. Si capì immediatamente che non c’era tempo da perdere: “Facevamo ispezioni accuratissime. Appesi sui piloni alti novanta metri. Durante uno di questi controlli scoprimmo che sull’ultima porzione di uno strallo, in cima alla struttura del numero 11, il cemento aveva lasciato scoperta una porzione d’acciaio”. Si era prodotta una variazione della tensione del 30 per cento circa. “In pochi giorni avviammo l’interevento”. E gli altri piloni? “All’epoca erano perfettamente integri”.

Un quadro suscettibile di due letture opposte: certo, recuperata la pila 11, imbragata in una camicia di acciaio, anche i vizi originari potrebbero essere stati sanati. Ma tra gli ingegneri civili interpellati dal Fatto – che chiedono di restare anonimi – c’è chi propone una lettura più allarmante: “Le fessure nella pila 11 potrebbero non essere state le uniche. Forse in quella struttura si sono soltanto manifestate prima. Bisogna chiedersi se il ponte non sia nato fragile. Se non fosse malato dall’inizio”.

Torniamo allora alle carte degli anni ‘60. A quei documenti da cui emerge che già allora il problema non erano soltanto quelle minime fessure della pila 11. C’erano anche elementi da chiarire sulle 2 e 3. Il 7 dicembre 1968, all’epoca evidentemente non si faceva il ponte dell’Immacolata, la Commissione di Collaudo scrive: “È stato, inoltre, constatato che la piastra di appoggio del rullo mobile della trave esterna di accoppiamento lato mare compresa tra le pile 2 e 3 ha subìto deformazioni in conseguenza del cedimento del calcestruzzo di base, per cui risulta compromessa la funzionalità del rullo stesso”.

Il 30 novembre, dopo i primi solleciti, Condotte rassicura: “Per quanto riguarda l’inconveniente riscontrato alla piastra d’appoggio e al rullo mobile della trave esterna di accoppiamento lato mare compresa tra le pile 2 e 3 si comunica che l’Impresa ha dato assicurazione di provvedere tempestivamente e agevolmente alla rimessa in posizione corretta”.

C’è poi un’ulteriore questione che suscita i dubbi della Commissione di collaudo: “Si è venuti a conoscenza che è in corso di esame una variante proposta dall’impresa al fine di realizzare la soletta tra le travi degli impalcati con elementi pre-fabbricati, anziché con getto diretto”. Allora bisogna tornare alle parole di Camomilla: gli altri piloni all’epoca dei lavori alla pila 11 erano “perfettamente integri”. Ma da allora a oggi ci passano venticinque anni e molti milioni di auto e camion che sono transitati sul Morandi. E torna alla mente anche un passaggio della perizia del gip: “Non si evidenziano interventi atti a interrompere i fenomeni di degrado… Gli unici ritenuti efficaci risalgono a venticinque anni fa”, già proprio quelli eseguiti sotto la supervisione di Camomilla quando Autostrade era ancora pubblica.

E dopo? Autostrade ha sempre giurato di aver effettuato la manutenzione. Ma non sono stati realizzati interventi stutturali della portata di quelli degli anni ‘90. Eppure le condizioni non proprio perfette del ponte dovevano essere ben presenti, se Autostrade nel 2001 prese in considerazione l’ipotesi di demolirlo. Di costruirne un altro. Si preferì procedere con uno stillicidio di interventi. Finché si cominciò ad avvertire l’urgenza di una ristrutturazione completa della pila 9. Prima fu commissionata una consulenza alla società di ingegneria Ismes (che fa capo al gruppo Cesi, estraneo all’inchiesta) che diede un esito non rassicurante. Così Autostrade si rivolse anche al Politecnico di Milano che ribadì i timori. Così Autostrade, proprio il primo agosto 2018, avviò una consulenza anche con l’università di Genova, dipartimento di Ingegneria Civile. Ma non ci fu tempo, il ponte nel frattempo crollò. Pochi mesi prima che fosse realizzato l’intervento programmato: una specie di camicia di acciaio che risanasse la pila 9, proprio come era avvenuto per la 11.

Normale conseguenza dell’usura oppure un difetto di nascita?

Il ponte era un gigante delicato. Lo aveva scritto lo stesso Morandi in uno studio ‘testamento’ del 1979 : “Penso che prima o poi, e forse già tra pochi anni, sarà necessario ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di ruggine sui rinforzi esposti, con iniezioni di resine epossidiche dove necessario, per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza chimica. La struttura – scrisse il padre del ponte – viene aggredita dai venti marini che sono canalizzati nella valle. Si crea così un’atmosfera ad alta salinità che si mescola con i fumi dei camini dell’acciaieria e si satura di vapori altamente nocivi”. Morandi parla anche di “perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo”.

Oggi, dopo un anno, del Brooklyn di Genova non è rimasto nulla. Ma il segreto del Morandi è nelle macerie, immagazzinate nei capannoni ed esaminate dai periti a Genova e nei laboratori di Zurigo. Reperti che hanno portato i tecnici svizzeri a una diagnosi allarmante: su 458 trefoli (i cavi d’acciaio che tenevano su la struttura, a loro volta composti da decine di cavi intrecciati) esaminati molti sono risultati malati. Nella categoria 0 (dal 90 al 100% di riduzione di sezione) sono stati inseriti il 19% dei cavi primari e il 25 di quelli secondari. Un difetto di costruzione, di manutenzione o tutte e due le cose insieme? “Le indagini”, racconta il procuratore di Genova Francesco Cozzi, “andranno avanti almeno fino a dicembre quando si concluderà il secondo incidente probatorio”. Forse parte della risposta può arrivare da questi documenti coperti di polvere. Sono riemersi e il Fatto ne pubblica gli stralci più significativi e drammatici. Forse il Morandi era malato prima di nascere. Doveva essere dismesso o curato. È stato fatto?

Arcelor Mittal premia chi non ha scioperato per il collega morto

Fino a 500 euro per i dipendenti che non hanno scioperato dopo la morte del collega. È la nuova bufera scatenata dai sindacati contro ArcelorMittal, gestore dell’ex Ilva di Taranto.

Nei giorni scorsi solo ad alcuni dipendenti è stato infatti riconosciuto in busta paga un premio inatteso. Le verifiche e le domande rivolte dai sindacati metalmeccanici hanno poi appurato che il riconoscimento era stato devoluto ai lavoratori che, in occasione dello sciopero indetto per la morte del gruista Cosimo Massaro, avevano scelto di lavorare negli impianti per garantire la produzione.

Quel giorno, inoltre, alcuni dei capi turno avevano anche preso il posto di colleghi operai senza averne le competenze: i tecnici dello “Spesal“, l’Ispettorato del Lavoro, su richiesta dei sindacati, erano così intervenuti censurando la scelta e dichiarando la sospensione dell’attività perché avevano ritenuto quelle sostituzioni improvvisate rischiose per la sicurezza. Una decisione improvvida per lo Spesal è invece stata premiata dai nuovi padroni franco-indiani con un premio per i “lavoratori aziendalisti”.

Open Arms, lite Viminale-Richard Gere. Oltre 300 in mare aspettano Roma e Ue

La sorte degli ormai 160 migranti a bordo della Open Arms e di altri 185 sulla Ocean Viking dipende dai faticosi negoziati europei sulle ricollocazioni, che nessuno Stato almeno ufficialmente vuole aprire. I responsabili della Ong catalana Oscar Camps e Riccardo Gatti ieri hanno lanciato l’allarme a Lampedusa insieme a Richard Gere e a Gabriele Rubini detto chef Rubio, che venerdì avevano portato viveri sulla nave da undici giorni fuori dal limite delle acque territoriali italiane. “Sono venuto a Lampedusa solo per aiutare queste persone”, ha detto l’attore ricordando il muro di Donald Trump, incredulo quando gli hanno spiegato il decreto Sicurezza bis e le multe da un milione alle Ong. Matteo Salvini non vedeva l’ora di rispondere male anche a lui: “Visto che il generoso milionario annuncia la sua preoccupazione per la sorte degli immigrati della Open Arms, lo ringraziamo: potrà portare a Hollywood, col suo aereo privato, tutte le persone a bordo e mantenerle nelle sue ville. Grazie Richard!”, ha scritto il vicepremier. Tutte le varie destre gli fanno il coro, la soluzione non è vicina.

Le partenze dalla Libia aumentano e di conseguenza i salvataggi. Open Arms, che aveva 121 migranti a bordo, ha raccolto altre 39 persone da una barca in avaria in zona Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) maltese. La Valletta ha coordinato l’operazione e ha dato la disponibilità a far sbarcare i 39, ma non i 121. Naturalmente non è praticabile, la tensione a bordo esploderebbe se gli ultimi arrivati fossero i primi ad andare a terra. Restano tutti lì, con i 19 dell’equipaggio sono 179 persone con due bagni: “Non ci sono emergenze sanitarie – ha detto Gatti – ma psicologiche sì”. Lo stesso vale per la Ocean Viking di Medici senza frontiere, che ha aggiunto 85 persone ripescate in zona Sar libica agli 80 già a bordo. C’è il divieto di ingresso nelle acque italiane anche per loro. La Farnesina ha chiesto alla Norvegia, di cui la nave batte bandiera, di indicare il porto. A livello diplomatico nulla è cambiato, dicono da Bruxelles, rispetto a venerdì, quando la Commissione Ue prometteva una risposta “entro qualche giorno” all’appello del presidente dell’Europarlamento David Sassoli per Open Arms, ricordando però che i negoziati si aprono solo se un governo lo chiede. Madrid ufficialmente non è intenzionata, vedremo Oslo. Persino la neopresidente dell’esecutivo Ue Ursula Von der Leyen ha invocato “nuovi criteri di ripartizione” dei migranti in Europa. Intanto sono sbarcati in 6 a Linosa e in 67 in Sardegna: non c’erano Ong, sono al sicuro.

Per ora l’unica “crisi” è sua: cariche in piazza e insulti su tutti i social

C’è la contestazione sul web e quella nel mondo reale. A Soverato, in provincia di Catanzaro, è andata in scena una delle proteste più forti da quando Matteo Salvini è al centro della politica italiana. Circa 200 manifestanti – tra cui alcuni con bandiere del Movimento 5 Stelle – si sono raccolti a poche decine di metri dal palco da cui stava per parlare. La tensione è salita rapidamente: le due fazioni – pro e anti Capitano – sono quasi venute alle mani. Poi è intervenuta addirittura la polizia con una carica di alleggerimento. Gli agenti hanno diviso in due la piazza con una sorta di cordone sanitario per impedire l’accesso ad altri manifestanti. Il comizio è iniziato in forte ritardo ed è stato scandito dai fischi e dai cori contro il ministro (“Buffone”, “scemo”, “ladro”), presidiato dagli agenti in tenuta anti sommossa. È stato anche interrotto dopo poco più di 20 minuti per un black out dell’impianto elettrico.

Sui social invece è stato il giorno di sofferenza numero due per Salvini: nelle ultime 48 ore, per la prima volta da quando il capo della Lega ha stabilito il suo dominio nella comunicazione politica su Facebook, Instagram e Twitter, sulle sue bacheche si sono accumulati più commenti negativi di quelli positivi. Per “il Capitano” è arrivato anche il primo calo nei numeri: da giovedì la sua pagina Facebook ha perso oltre 5mila followers (mentre Giuesppe Conte è cresciuto di circa 10mila fan e Luigi Di Maio di 4mila). È chiaro che sono movimenti legati soprattutto agli elettori dei Cinque Stelle, che sul web ci sono nati e sono in grado di produrre campagne efficaci. Ma evidentemente c’è anche una massa spontanea che non ha per nulla gradito la scelta di staccare la spina al governo Conte.

Nel quartier generale leghista l’ondata social non è stata ignorata. La strategia adottata da Salvini e dal suo portavoce digitale Luca Morisi, che tradisce un certo nervosismo, è quella di rispondere personalmente ai commenti negativi che prendono più “like” e di etichettarli come opera di militanti grillini. Ad esempio, uno dei messaggi con più “like” sulla pagina Facebook del “Capitano” è quello firmato dall’utente Angelo Rende sotto le foto del vicepremier a Polignano (Bari): “Caro Salvini, sei un buon ministro dell’Interno ma la tua notorietà per i fatti dei migranti non giustifica la caduta del governo tanto voluto dal popolo italiano. Se lo farai cadere cadrai anche tu. Noi come tanti altri non ti voteremo più”. Qui ha risposto direttamente Salvini: “Angelo Renchi tu di certo già non mi votavi visto che hai il profilo pieno di propaganda grillina. Non è che siamo scemi, eh? Bacioni”. Altrove, invece, è intervenuto proprio Morisi. Che ha replicato acidamente al commento di tale Claudio Febe: “Salvini fa cadere il governo prima di settembre quando dovevano eliminare 340 parlamentari e togliere la concessione delle autostrade ai Benetton… complimenti”. La risposta oxfordiana del “guru” di Matteo: “Claudio Febe torna da Giggino! Tutte palle!”. Lo stesso Morisi è intervenuto anche durante la diretta Facebook di Salvini da Policoro (Matera), sotto la quale si stavano accumulando insulti e commenti negativi. Ecco il messaggio del “social megafono” leghista: “I grillini son nervosetti perché perderanno la poltroncina: in un anno hanno dimezzato”.

Su Instagram invece ha preso piede un’altra campagna lanciata da Jasmine Cristallo, l’attivista calabrese che aveva ideato la protesta dei balconi: decine e decine di persone hanno pubblicato la propria foto con la scritta “Siamo pronti anche noi!”. Sottinteso: alle elezioni tanto volute dal capo della Lega. E anche su Twitter la giornata del vicepremier non è stata delle più felici: l’hashtag #salvinitraditoredelpopolo è stato costantemente nelle prime posizioni tra gli argomenti “di tendenza” sul social network.

Fischi sul web e nelle piazze, dicevamo. Anche a Policoro Salvini è stato accolto, oltre che dalla consueta folla di adoratori, da un discreto numero di contestatori, tra i quali una donna che l’ha colpito con un “gavettone” d’acqua. In spiaggia è stato esposto uno striscione con la scritta “Salvini beach party – ingresso: 5 rubli”. Il capo della Lega ha risposto facendo un giro in canoa insieme a un bambino, mentre a riva i manifestanti cantavano “Bella ciao”. A Isola Capo Rizzuto (Crotone) sono arrivati i cori “buffone, buffone” (ben udibili anche nella sua diretta Facebook). Salvini si è girato verso i balconi da cui arrivavano le grida e ha risposto inviando i suoi proverbiali “bacioni”.

Il capo del Carroccio ignora tutto e va per la sua strada. L’ha ribadita anche ieri: chiede “pieni poteri” e vuole sfiduciare Conte immediatamente. “L’unica cosa che mi aspetto è che il Parlamento si esprima non dopo Ferragosto ma prima”.

De Magistris nel Pd? La senatrice Valente nega: “Un suicidio”

In caso di elezioni anticipate potrebbe affacciarsi alla politica nazionale Luigi De Magistris, sindaco di Napoli al secondo mandato. Difficile però che l’ex pm lo faccia con la sua DemA, progetto civico che finora non ha mai trovato dimensione più ampia di quella locale. Così ieri il Mattino ha diffuso la notizia che a garantire un seggio a De Magistris potrebbe essere il Partito democratico, con cui i contatti sarebbe avviati già da mesi. Una soluzione, scrive il Mattino, ben più praticabile di quella, pur valutata dal sindaco, di un ticket con Roberto Fico per lavorare a fianco del Movimento 5 Stelle. A stroncare l’ipotesi di un De Magistris dem, però, ci ha pensato ieri Valeria Valente, senatrice napoletana del Pd: “Non vorrei che il caldo d’agosto stia giocando brutti scherzi a qualcuno. Quindi meglio fare chiarezza: un’alleanza del PD con De Magistris alle prossime elezioni è ipotesi suicida oltre che imbarazzante. Napoli merita un’alternativa netta al cattivo governo di questi anni”. Proprio a Napoli, infatti, De Magistris ha costruito le sue vittorie amministrative opponendosi con forza alla dirigenza locale dem, che ora difficilmente gli spalancherà le porte del partito.

La firma di Giorgetti sulla fine del governo

Con un vistoso sorriso, nel pomeriggio di martedì, durante la sospensione del Consiglio dei ministri e le congetture parlamentari alla vigilia delle mozioni sul Tav, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha salutato i collaboratori di palazzo Chigi per andare in vacanza nel nord leghista, tra le montagne in Valchiavenna.

Ieri ha ricevuto il premio Madesimo, comune di 517 abitanti a 1.550 metri di altitudine, perché “artefice e promotore delle olimpiadi invernali 2026”. Giorgetti ha interrotto il silenzio per chiarire un paio di concetti.

Uno: “Bisogna prendere atto della situazione e dare la palla al presidente della Repubblica, come dice la Costituzione. A noi sembra naturale e scontato andare a nuove elezioni”. Due: “Mi sembra di aver capito che il premier Conte non si voglia dimettere, ma preferisca una conta in aula. Questa è una rottura traumatica”. Nulla di imprevisto, non per Giorgetti. Il sottosegretario ha lasciato palazzo Chigi, cinque giorni fa, dopo aver preparato l’innesco per scatenare la caduta del governo. Ha istruito il capo Matteo Salvini, che da tempo prepara la trappola ai Cinque Stelle e rimbalza di spiaggia in spiaggia. Ha confortato gli interlocutori stranieri, per contenere la solita agitazione dei mercati finanziari. Ha ottenuto una rassicurazione dal Quirinale: in assenza di nuove maggioranze o ampi rimpasti, l’ipotesi elezioni in autunno è plausibile. Giorgetti è un leghista antico, più federalista che sovranista, più strategia che propaganda. Non dice, fa intuire. Un giorno fa trapelare che si dimette, un altro che si lavora duro, un altro ancora che la pazienza è finita. Non mente, perché davvero il rapporto con il premier Conte e i Cinque Stelle era pessimo.

Negli ultimi mesi, mentre Salvini era oberato dalla campagna elettorale permanente con i porti chiusi, prima gli italiani, meno tasse per tutti, i cattivoni di Bruxelles, Giorgetti ha riportato la Lega nel campo atlantico, al fianco degli americani sempre più delusi dai Cinque Stelle. Il memorandum per la “Via della seta” che Conte e Di Maio hanno sottoscritto con il governo di Pechino non c’entra, è un documento simbolico, nient’altro che fuffa. Washington contesta la pericolosa sintonia sullo sviluppo di internet 5G tra i Cinque Stelle e la cinese Huawei, la multinazionale sospettata di spionaggio. E poi gli americani non sopportano le convulsioni dei pentastellati sui progetti energetici (gasdotto Tap) e militari (caccia F-35) che da anni legano Roma agli Stati Uniti. Giorgetti è il riferimento leghista degli americani, tant’è che l’ambasciatore Lewis Eisenberg s’è rivolto al sottosegretario per tentare di resuscitare il decreto legge, affossato dai Cinque Stelle, che serviva a bloccare l’avanzata italiana di Huawei.

Salvini ha occultato la sbandata russofila, ma Washington ha una memoria indelebile, non dimentica. Con le garanzie di Giorgetti e gli affronti del Movimento, adesso la Lega, però, è un buon alleato per gli americani. Il sottosegretario ha scortato Salvini verso il voto in autunno con solide argomentazioni: è il momento di incassare il consenso perché uno scandalo (vedi Savoini al Metropol) può rovinare la scalata; i Cinque Stelle li abbiamo spolpati a sufficienza; le opposizioni non sono organizzate e non aspettiamo che si organizzino. Illustrata la teoria, attuata la pratica, martedì Giorgetti s’è rifugiato nel misticismo montanaro per assistere, con una gradevole temperatura, al tramonto del governo gialloverde.