Fotografie in bianco e nero. Fascicoli sbiaditi scritti a macchina e a mano negli anni ‘60 in cui si parla di fessurazioni, di deformazioni, di sprofondamenti. E poi collaudi da effettuare utilizzando mezzi più leggeri di quelli previsti. È tutto scritto nel fascicolo sul ponte Morandi conservato negli archivi della società costruttrice Condotte. Una montagna di carte che neanche la Procura di Genova, impegnata nell’inchiesta sul crollo, ha ancora acquisito. Il Fatto ne è entrato in possesso e può svelarle dopo mezzo secolo di silenzio.
Il ponte Morandi è crollato alle 11.36 del 14 agosto 2018 dopo che circa un miliardo di auto e camion l’avevano percorso. Sono morte 43 persone. La Procura sta indagando, le ruspe lavorano al nuovo ponte progettato da Renzo Piano. Del Brooklyn di Genova non rimangono che macerie. Ma il male del ponte forse ha radici antiche.
Del resto lo hanno confermato anche i tre ingegneri cui il gip Angela Maria Nutini ha affidato una perizia consegnata dieci giorni fa. Gianpaolo Rosati, Massimo Losa e Renzo Valentini puntano il dito sulla mancanza di manutenzione, complicando la posizione di Autostrade: “Non si evidenziano – scrivono – interventi atti a interrompere i fenomeni di degrado… Gli unici ritenuti efficaci risalgono a 25 anni fa”, cioè a quando la società era ancora in mano pubblica. Ma svelano problemi che erano rimasti nascosti nel cemento per cinquant’anni, lasciando che milioni di persone transitassero ignare sul ponte. Una novità che riguarda il passato, ma non cancellerebbe eventuali responsabilità di chi ha avuto in gestione il ponte e forse poteva scoprire per tempo il suo male segreto: all’epoca della costruzione, secondo la perizia, risalirebbe il fatto che “i cavi secondari sono spesso liberi di scorrere: alcuni trefoli non sono stati trovati dentro le guaine”. Ma emerge anche che “in generale i cavi secondari nelle guaine presentano fenomeni di ossidazione e, in alcuni casi, con riduzione di sezione, i quali hanno effetti diretti sulla sicurezza strutturale”.
Già. Il segreto di quel ponte forse è conservato negli archivi delle società e degli enti che lo realizzarono. Sono lettere raccomandate, avvertimenti, relazioni di collaudi, un fiume di carte scritte quando il ponte era appena entrato in esercizio, ma già suscitava allarme “per la pubblica incolumità”. Oggi quel materiale riemerge dagli archivi e racconta la storia segreta della nascita del ponte e del suo collaudo.
Appunti vergati a mano da Morandi, il padre del ponte, che difendeva con passione la sua creatura. Carte in cui il committente chiede garanzie all’esecutore per tutelare l’incolumità pubblica. Ogni elemento può essere utile per capire quando il ponte ha cominciato ad ammalarsi e quali erano i suoi punti deboli dalla nascita. Leggete cosa scrisse l’ingegner Nicolò Trapani, capo dipartimento Anas, in una lettera raccomandata del 23 novembre 1968: “A seguito di sopralluogo effettuato congiuntamente a tecnici dell’impresa e di Autostrade, che ha in concessione la Genova-Savona, è stato rilevato che su entrambe le pareti laterali esterne della travata scatolare facente parte dell’elemento bilanciato (pila 11) in corrispondenza dell’attacco dei ritti sono visibili filature capillari con inclinazione a 45 gradi circa”.
Trapani era un ingegnere puntiglioso che non aveva timore di mettere nero su bianco i suoi dubbi. A lui non importava che quel ponte fosse un’arteria fondamentale per il traffico del Nord. Che la politica premesse tanto perché si trattava di un simbolo dell’Italia che in quegli anni cavalcava il boom. Trapani temeva che lo Stato pagasse miliardi di lire per un’opera che eventualmente non fosse stata eseguita a regola d’arte. Ma soprattutto si curava della “pubblica incolumità”.
Non era il solo. Le anomalie erano descritte anche in una lettera del 9 dicembre 1968 dell’ingegnere Pasquale Prezioso, Capo della Commissione di Collaudo. Ma per capire il peso di simili lettere bisogna tornare a quei giorni. Ricordare, appunto, cosa significava il ponte Morandi alla fine degli anni ‘60. Più di un ponte, un monumento. Un sogno nato nel 1961, in quell’Italia dove la gente finalmente poteva comprarsi la Fiat 600, salire in auto e viaggiare. Quanti italiani ricordano ancora il rumore del motore, il suono degli sportelli di quell’auto, il clic che segnava la partenza, l’inizio della scoperta. Eravamo un Paese che si sentiva ricco, in piena espansione. Capace di realizzare opere invidiate nel mondo. Genova era uno dei vertici del triangolo industriale, uno dei dieci porti più grandi del mondo, mentre la Riviera era meta di milioni di turisti che arrivavano da ogni paese. La vetrina ideale per realizzare un ponte che non aveva uguali, progettato da quel Riccardo Morandi che nel settore era il maggior esperto. Così nacque quella struttura sospesa nel vuoto che tagliava di netto una valle: 1.182 metri di lunghezza e piloni alti 90 metri, come cattedrali. Nessuno prima aveva osato tanto. Qui, secondo i calcoli iniziali, potevano transitare 30mila auto al giorno.
Giorni trionfali, come dimostrano le immagini conservate nell’archivio Publifoto di Genova: ecco che dalla distesa di condomini e fabbriche della Valpolcevera – il cuore della Genova operaia e allora rossa – cominciano ad alzarsi piloni alti come grattacieli. Gru vertiginose da farci impigliare le nuvole lavorano senza sosta. In una manciata di anni nascono il ponte e un serpente di viadotti, dove si vedono correre vetture luccicanti.
La data di apertura fu il 4 settembre 1967. Ma tante questioni andavano ancora verificate. A partire appunto dai mali del pilone 11, da sempre l’osservato speciale del Morandi. Ci sono, per cominciare, le “filature capillari”, in pratica sottilissime crepe nel calcestruzzo. Quasi invisibili, ma molto allarmanti per i tecnici che dovevano mettere la loro firma sul via libera al ponte. Da qui, appunto, prende il via un serrato scambio di corrispondenza fra Trapani, Prezioso, il progettista Morandi e i responsabili della società costruttrice. Parliamo della Società Italiana Condotte d’Acqua. Fondata nel 1880, fino al 1970 è stata di proprietà dell’Amministrazione Speciale della Santa Sede e di Bastogi. Dopodiché è stata acquistata dal finanziere Michele Sindona che l’ha venduta al gruppo IRI-Italstat. Oggi si chiama Condotte e sta affrontando un difficile risanamento.
Ma torniamo a quel tourbillon di lettere allarmate, di collaudi a raffica.
Un allarme giustificato? No, secondo l’impresa e Morandi. Condotte ritiene che le fessure abbiano subito variazioni minime, “tra un millesimo e un decimillesimo di pollice (meno di 0,002 centimetri, ndr)”. E aggiunge: “Riteniamo molto probabile che dette ‘filature’ rappresentino il residuo di piccole lesioni che si sono prodotte all’atto della costruzione… quando, a struttura ultimata, è intervenuta la forte azione orizzontale prodotta dai tiranti obliqui, le piccole lesioni non si sono potute chiudere interamente… non si può riscontrare alcuna menomazione della capacità resistente della struttura nell’attuale condizione di esercizio”, garantisce l’impresa. Ma andrebbe notato che la struttura negli anni ha visto moltiplicarsi esponenzialmente il numero di auto e camion in transito, fino ad arrivare a picchi di centomila mezzi al giorno (con carichi eccezionali di decine di tonnellate).
Intanto vengono compiute delle analisi da parte dell’Università di Genova. E l’ingegner Trapani torna alla carica. Il 5 maggio 1969 sollecita risposte esaurienti: “Si invita codesta società a comunicare con cortese urgenza il parere del progettista dell’opera, professor ingegnere Riccardo Morandi, sulle risultanze delle operazioni di controllo dei coefficienti di dilatazione lineare effettuate dall’Università”.
Siamo al 26 maggio 1969 quando giunge la risposta di Morandi che si dimostra convinto della solidità dell’opera: “Le misurazioni dei coefficienti di dilatazione lineare in corrispondenza delle cavillature conducono alla conclusione che le deformazioni risultino di valore assolutamente modesto, paiono visibilmente costanti nel tempo e non sembrano potersi collegare ad alcuna ragionevole ipotesi sul comportamento della struttura attualmente in esercizio…”. Potrebbe trattarsi di variazioni dovute a “ragioni termiche”, insomma il caldo e il freddo che fanno dilatare o contrarre il cemento.
Certo, parliamo di un’opera colossale. Controlli e sopralluoghi (almeno 11), non mancano. Per esempio il 22 aprile 1966 ecco le prove di carico sui piloni di fondazione della pila 10 che danno “risultati del tutto soddisfacenti”. Sarà così anche in altri casi.
È normale che alla fine dei lavori si aprano questioni sull’esecuzione. Ne va di mezzo la sicurezza, ma anche il pagamento dei lavori. Però i rilievi della Commissione forse vanno oltre il fisiologico braccio di ferro con l’impresa realizzatrice. Perché, anche dopo gli studi dell’Università e le rassicurazioni di impresa e progettista, l’ingegnere Trapani dell’Anas e il Capo della Commissione Collaudi, Prezioso, continuano a marcare stretto chi deve occuparsi del ponte. Basta leggere un’altra lettera di Trapani, dopo l’undicesima visita della Commissione. E siamo al 29 settembre 1969: “Si invita codesta impresa – chiede Trapani – a predisporre un servizio di vigilanza continua alla travata sita in corrispondenza della pila 11… e a voler intervenire tempestivamente, in caso di necessità presso la direzione di Tronco di Autostrade per l’adozione di tutti i provvedimenti atti a garantire la pubblica incolumità”.
Gli fa eco Prezioso il 10 dicembre: “Prego informarmi se siano state fatte le accurate ispezioni richieste dalla Commissione e se siano emerse altre lesioni e dissesti nelle rimanenti strutture… Prego far pervenire al più presto alla Commissione le livellazioni longitudinali per accertare se vi siano stati aggravamenti o attenuazioni nei dislivelli, per eliminare detti vizi l’impresa dovrà fare proposte… in tale stato delle opere, ovviamente, ogni dichiarazione di collaudabilità incondizionata è preclusa, mentre una collaudabilità condizionata è subordinata all’esecuzione dei provvedimenti” da parte dell’impresa. Il 10 dicembre ‘69 gli ingegneri guidati da Prezioso aggiungono: “Mancano tra l’altro notizie relative ad analisi e referti di laboratorio e di cantiere sui materiali impiegati e sui calcestruzzi, sulle prove di portata sui pali di fondazione e di carico degli impalcati… sui dissesti constatati, sull’esito cronologico delle osservazioni estensiometriche delle lesioni”. Insomma, ci vogliono anni di controlli e analisi perché i dubbi vengano fugati. Sono necessari anche collaudi che oggi si compiono con simulazioni al computer mentre allora venivano effettuati sul campo. Con veri pesi, sollecitazioni reali.
E proprio qui spunta un foglio in mezzo a migliaia che rispolvera una pagina di cronaca. Che incrocia voci, quasi leggende, che da decenni circolavano tra chi aveva lavorato sul ponte e chi abitava all’ombra delle campate. È la famosa storia del camion. Nei giorni immediatamente successivi al crollo, nei racconti dei testimoni l’episodio ritornava spesso, ma senza riscontri. “Mi ricordo – disse una donna che abitava in via Fillak, nelle case che presto saranno abbattute – il racconto di un operaio del cantiere nel giorno del collaudo della pila 11. Quella più delicata. Doveva venire un camion enorme e invece… invece all’ultimo momento non si trovava, non c’era. E ne arrivò uno molto più leggero”.
Voci che non avevano riscontro. Fino a oggi. Ma con le carte coperte di polvere in mano al Fatto la storia del camion esce dall’ombra della leggenda e diventa un episodio circostanziato. Vero.
È il 26 settembre 1969 quando, dopo gli allarmi e i solleciti di Trapani e Prezioso, la società costruttrice scrive per informare sulla prova di collaudo della pila 11. C’è un solo modo per verificare che le maledette incrinature non siano pericolose: sottoporre la struttura a un peso enorme, ben superiore a quello delle normali condizioni di esercizio.
Un camion da centinaia di tonnellate, appunto. Condotte scrive: “In conformità alle visite di collaudo del 21 giugno 1969 relativamente alla possibilità di effettuare misurazioni sotto carico in corrispondenza delle crinature della campata 11 si prevede di eseguire le misurazioni con le seguenti modalità: la prova di carico avrà luogo nelle ore notturne… la misurazione delle flessioni sarà effettuata per mezzo di doppia livellazione”.
Ma ecco il passaggio decisivo, l’ultimo, nella seconda pagina del documento inviato a Morandi: “Non essendo stato possibile rintracciare un doppio carico eccezionale, la prova sarà effettuata con un unico carrellone. L’idoneità è rimessa al suo esame e al suo benestare”.
Morandi risponde: “Ho esaminato le caratteristiche del carrello con cui intendete effettuare la prova… Detto carrello produrrà sollecitazioni non molto inferiori a quelle prodotte dai sovraccarichi di calcolo”. A quelle teoriche insomma. E il progettista conclude: “Ritengo che il passaggio di questo carrello possa rappresentare un efficace controllo della consistenza statica delle strutture di impalcato”. Un collaudo problematico anche perché il peso da utilizzare – una bobina fornita dalla Marelli – non arriva a causa degli scioperi in corso.
Quindi il ricordo conservato da operai e abitanti era esatto.
È vero, il pilone 11 è sempre stato il grande malato del Morandi. Ma anche l’unico che ha subìto interventi risolutivi. Come ha raccontato al Fatto l’ingegner Gabriele Camomilla, negli anni ‘90 direttore della Ricerca e della Manutenzione di Autostrade: “A partire dagli anni ‘80 il ponte è stato oggetto di interventi di consolidamento, i più significativi sono quelli intrapresi nel 1993 sugli stralli della pila 11”. Fu proprio Camomilla, che del grande ponte parla quasi come di un figlio e che ha raccolto migliaia di firme per salvarlo, a realizzare quei lavori di ristrutturazione della pila malata: “Analogamente a quanto già era stato realizzato sul resto della struttura, infatti, anche nella pila 11 era stato programmato un intervento di parziale integrazione e di protezione del calcestruzzo, ma alcune verifiche preliminari avevano messo in luce una situazione ben più preoccupante”. Si capì immediatamente che non c’era tempo da perdere: “Facevamo ispezioni accuratissime. Appesi sui piloni alti novanta metri. Durante uno di questi controlli scoprimmo che sull’ultima porzione di uno strallo, in cima alla struttura del numero 11, il cemento aveva lasciato scoperta una porzione d’acciaio”. Si era prodotta una variazione della tensione del 30 per cento circa. “In pochi giorni avviammo l’interevento”. E gli altri piloni? “All’epoca erano perfettamente integri”.
Un quadro suscettibile di due letture opposte: certo, recuperata la pila 11, imbragata in una camicia di acciaio, anche i vizi originari potrebbero essere stati sanati. Ma tra gli ingegneri civili interpellati dal Fatto – che chiedono di restare anonimi – c’è chi propone una lettura più allarmante: “Le fessure nella pila 11 potrebbero non essere state le uniche. Forse in quella struttura si sono soltanto manifestate prima. Bisogna chiedersi se il ponte non sia nato fragile. Se non fosse malato dall’inizio”.
Torniamo allora alle carte degli anni ‘60. A quei documenti da cui emerge che già allora il problema non erano soltanto quelle minime fessure della pila 11. C’erano anche elementi da chiarire sulle 2 e 3. Il 7 dicembre 1968, all’epoca evidentemente non si faceva il ponte dell’Immacolata, la Commissione di Collaudo scrive: “È stato, inoltre, constatato che la piastra di appoggio del rullo mobile della trave esterna di accoppiamento lato mare compresa tra le pile 2 e 3 ha subìto deformazioni in conseguenza del cedimento del calcestruzzo di base, per cui risulta compromessa la funzionalità del rullo stesso”.
Il 30 novembre, dopo i primi solleciti, Condotte rassicura: “Per quanto riguarda l’inconveniente riscontrato alla piastra d’appoggio e al rullo mobile della trave esterna di accoppiamento lato mare compresa tra le pile 2 e 3 si comunica che l’Impresa ha dato assicurazione di provvedere tempestivamente e agevolmente alla rimessa in posizione corretta”.
C’è poi un’ulteriore questione che suscita i dubbi della Commissione di collaudo: “Si è venuti a conoscenza che è in corso di esame una variante proposta dall’impresa al fine di realizzare la soletta tra le travi degli impalcati con elementi pre-fabbricati, anziché con getto diretto”. Allora bisogna tornare alle parole di Camomilla: gli altri piloni all’epoca dei lavori alla pila 11 erano “perfettamente integri”. Ma da allora a oggi ci passano venticinque anni e molti milioni di auto e camion che sono transitati sul Morandi. E torna alla mente anche un passaggio della perizia del gip: “Non si evidenziano interventi atti a interrompere i fenomeni di degrado… Gli unici ritenuti efficaci risalgono a venticinque anni fa”, già proprio quelli eseguiti sotto la supervisione di Camomilla quando Autostrade era ancora pubblica.
E dopo? Autostrade ha sempre giurato di aver effettuato la manutenzione. Ma non sono stati realizzati interventi stutturali della portata di quelli degli anni ‘90. Eppure le condizioni non proprio perfette del ponte dovevano essere ben presenti, se Autostrade nel 2001 prese in considerazione l’ipotesi di demolirlo. Di costruirne un altro. Si preferì procedere con uno stillicidio di interventi. Finché si cominciò ad avvertire l’urgenza di una ristrutturazione completa della pila 9. Prima fu commissionata una consulenza alla società di ingegneria Ismes (che fa capo al gruppo Cesi, estraneo all’inchiesta) che diede un esito non rassicurante. Così Autostrade si rivolse anche al Politecnico di Milano che ribadì i timori. Così Autostrade, proprio il primo agosto 2018, avviò una consulenza anche con l’università di Genova, dipartimento di Ingegneria Civile. Ma non ci fu tempo, il ponte nel frattempo crollò. Pochi mesi prima che fosse realizzato l’intervento programmato: una specie di camicia di acciaio che risanasse la pila 9, proprio come era avvenuto per la 11.
Normale conseguenza dell’usura oppure un difetto di nascita?
Il ponte era un gigante delicato. Lo aveva scritto lo stesso Morandi in uno studio ‘testamento’ del 1979 : “Penso che prima o poi, e forse già tra pochi anni, sarà necessario ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di ruggine sui rinforzi esposti, con iniezioni di resine epossidiche dove necessario, per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza chimica. La struttura – scrisse il padre del ponte – viene aggredita dai venti marini che sono canalizzati nella valle. Si crea così un’atmosfera ad alta salinità che si mescola con i fumi dei camini dell’acciaieria e si satura di vapori altamente nocivi”. Morandi parla anche di “perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo”.
Oggi, dopo un anno, del Brooklyn di Genova non è rimasto nulla. Ma il segreto del Morandi è nelle macerie, immagazzinate nei capannoni ed esaminate dai periti a Genova e nei laboratori di Zurigo. Reperti che hanno portato i tecnici svizzeri a una diagnosi allarmante: su 458 trefoli (i cavi d’acciaio che tenevano su la struttura, a loro volta composti da decine di cavi intrecciati) esaminati molti sono risultati malati. Nella categoria 0 (dal 90 al 100% di riduzione di sezione) sono stati inseriti il 19% dei cavi primari e il 25 di quelli secondari. Un difetto di costruzione, di manutenzione o tutte e due le cose insieme? “Le indagini”, racconta il procuratore di Genova Francesco Cozzi, “andranno avanti almeno fino a dicembre quando si concluderà il secondo incidente probatorio”. Forse parte della risposta può arrivare da questi documenti coperti di polvere. Sono riemersi e il Fatto ne pubblica gli stralci più significativi e drammatici. Forse il Morandi era malato prima di nascere. Doveva essere dismesso o curato. È stato fatto?