“Date subito le urne al fascista Matteo”

Paradossi della Terza Repubblica. Spariscono destra (forse) e sinistra (già da un po’), ma soprattutto si mescolano alleanze, interessi, tatticismi. E così capita che nella gestione della crisi di governo la Lega trovi la sponda dell’ala zingarettiana del Partito democratico, quella che ha preso la segreteria anche sulla promessa di una svolta a sinistra rispetto alle politiche di Matteo Renzi.

A esplicitare il paradosso c’è Repubblica, il quotidiano di riferimento di quell’area politica, che ieri ha aperto la prima pagina con un manifesto ideologico, più che una rappresentazione della realtà: “Voto subito”. Nonostante una spiccata anima anti-salviniana, dunque, la priorità sembra esser quella di neutralizzare una volta per tutte le ambizioni di governo dei 5 Stelle. E che importa se il rischio – meglio, la certezza – è quella di consegnare l’esecutivo a Salvini, così spesso additato dallo stesso gruppo editoriale come “fascista”.

La situazione è rappresentata in maniera chiara nella copertina de L’Espresso in edicola oggi, ovvero l’illustrazione di Salvini con lo scalpo del collega Luigi Di Maio: “In 500 giorni Salvini ha ucciso il Movimento 5 Stelle. Ora punta a prendersi il Paese”.

Per farlo potrà quindi avvalersi di nuovi e vecchi sostenitori del voto immediato, contro ogni ipotesi di governo alternativo – in cui la Lega sarebbe esclusa – e contro ogni slittamento anche solo di qualche mese, appena in tempo magari per approvare il taglio di 345 parlamentari voluto dal Movimento 5 Stelle.

Tra i salviniani all’improvviso c’è, appunto, Nicola Zingaretti. Il governatore del Lazio vuole rimediare ad una delle tante contraddizioni del Pd, che vede in questo momento i gruppi parlamentari rispondere per lo più a un leader che non è il segretario, ma il “senatore semplice” Matteo Renzi. Prima delle elezioni del 2018 era stato infatti l’ex premier a decidere le liste, lasciando le briciole alle correnti allora minoritarie del partito. Il nuovo voto garantirebbe posti in Parlamento agli zingarettiani, a patto ovviamente che non si approvi il taglio delle poltrone. Per questo, nell’ottica del segretario, bisogna fare presto e bloccare ogni accordo con i 5 Stelle.

Stessa posizione esplicitata ieri su La Stampa dal vicesegretario dem Andrea Orlando: “Un governicchio fatto con chi ha appena votato il decreto sicurezza non mi pare lo strumento per fermare Salvini. Nell’ultima direzione Pd abbiamo escluso tutti alleanze con M5S in questa legislatura”.

In coro, anche l’altra vicesegretaria Paola De Micheli a Rainews: “Non esistono condizioni politiche per un altro governo con il Pd”. Persino Enrico Rossi, appena tornato nel Pd dopo l’esperienza in LeU, si allinea: “Io dico che è bene togliersi dalla testa ogni ipotesi di intesa coi 5 Stelle per rinviare le elezioni. La linea giusta è quella di Zingaretti, si vada al voto subito e si eviti di salvare i pentastellati nel momento massimo della loro crisi”.

A conferma che il leitmotiv è uno solo: meglio affossare definitivamente i 5 Stelle piuttosto che evitare un governo salviniano. È Zingaretti, ma sembra il Renzi di una volta: mancano solo i pop corn.

Enrico Letta: “Le urne sono la prima opzione, ma dipende dal M5S”

La prima opzione “deve essere il voto”, ma tutto dipenderà “dalla volontà dei 5 Stelle”. Lo ha detto ieri l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, riferendosi alla possibilità che il Pd si impegni o meno in un esecutivo con i 5 Stelle nei prossimi mesi. Intervenuto durante la trasmissione In Onda su La7, Letta ha chiarito che il destino dei dem dipenderà dunque da cosa vorrà fare il Movimento: “Il Pd dovrebbe essere molto chiaro, netto e lineare e avere come prima opzione il voto, non aver paura delle urne e organizzarsi per andare al voto, magari evitando le divisioni interne e cercando toni e temi coi quali ritrovare una sintonia col Paese. Le elezioni sono la via maestra delle opposizioni, dopodiché il presidente della Repubblica guida la crisi e il partito di maggioranza deve decidere cosa vuol fare”. E dunque, palla ai 5 Stelle: “Se vogliono andare al voto bene, se vogliono fare altre cose, dipende da loro”. Il tutto evitando che Salvini detti le condizioni: “Noto una certa sindrome di Stoccolma nei confronti di Salvini, la nostra è una Repubblica parlamentare. Non è che si vota il 13 ottobre perché lo decide lui”.

L’Iva, l’esercizio provvisorio e la Ue: i conti pubblici e le mosse del Colle

Sergio Mattarella non è Giorgio Napolitano. Nel senso che l’attuale capo dello Stato non ama fare l’arbitro-giocatore, imbastire accordi, garantire governi. Eppure su una cosa il Colle sta tentando una discreta moral suasion: non si può sciogliere il Parlamento e andare al voto in ottobre/novembre non avendo fatto la legge di bilancio, anche in una forma minimale. Un appello che Salvini ha già rifiutato, ma i timori del presidente restano e questo tema, se la Lega non riesce a far precipitare la situazione, tornerà a breve al centro dell’agenda.

I rischi che il Quirinale ha sottolineato ai suoi interlocutori sono sostanzialmente due: una crisi di fiducia dei mercati verso l’Italia (improbabile, però, mentre la Bce vara un nuovo Quantitative easing) e il cosiddetto “esercizio provvisorio”. Di che parliamo? È un provvedimento, previsto dall’art. 81 della Costituzione per massimo 4 mesi, che scatta quando il Parlamento non riesce ad approvare la legge di Bilancio entro il 31 dicembre. Di fatto vincola le amministrazioni pubbliche a spendere, per ciascun capitolo, un dodicesimo per mese di quanto speso l’anno precedente: l’Italia è andata in esercizio provvisorio ben 33 volte, l’ultima però risale al 1988.

Connesso all’esercizio provvisorio c’è il problema dell’aumento automatico dell’Iva: nel dicembre 2018 il governo Conte, per convincere Bruxelles a dire sì alla manovra, ha stabilito che dal 1° gennaio 2020 l’aliquota ordinaria salga dal 22 al 25,2% (e al 26,5% nel 2021), mentre quella agevolata dal 10% al 13%. La norma, a bilancio, vale 23 miliardi nel 2020 e 29 l’anno dopo, quasi due punti di Pil di maggiori entrate che dovrebbero portare l’Italia al pareggio di bilancio. Ovviamente un aumento dell’Iva di questa portata sarebbe una catastrofe per i già disastrati consumi interni: l’effetto recessivo, peraltro, finirebbe per attenuare assai il miglioramento del deficit per effetto del calo del Pil (successe già nel 2012-2013 per effetto della cura Monti).

E qui si torna ai timori di Mattarella. L’Italia, è il ragionamento del Quirinale, nonostante lo scampato pericolo di luglio è ancora nel mirino della Commissione Ue e il cosiddetto “semestre europeo”, cioè quello in cui si varano le politiche di bilancio, è momento delicatissimo: il governo dovrebbe predisporre entro il 27 settembre il Documento di economia e finanza col quadro dei conti pubblici e, tra il 15 e il 20 ottobre, inviare la manovra a Bruxelles e in Parlamento.

Far passare l’autunno senza far nulla spingerebbe l’Ue a metterci subito in mora. Questo è lo scenario secondo il Colle, che infatti continua a chiedere che prima del voto il governo – un governo, meglio se con Tria all’Economia – provveda almeno a fotografare i conti: si tratterebbe, come fatto a luglio, di certificare i risparmi su reddito di cittadinanza e quota 100 anche per i prossimi anni, confermare i tagli lineari già promessi all’Ue col Def e fornire una stima veritiera del deficit 2020. Si dovrebbero pure disapplicare, magari per pochi mesi, gli aumenti dell’Iva e rifinanziare le “spese indifferibili” (4 miliardi). A quel punto si potrebbe votare e lasciare la palla al prossimo governo. Problema: se si crea una nuova maggioranza sulla manovra, è difficile che si torni subito al voto.

Ecco il calendario della crisi e tutte le ipotesi per le elezioni

La partita della crisi è appena iniziata. Potrebbe chiudersi in un lampo o trascinarsi per un po’ fino ad esiti inaspettati (un nuovo governo). Qui cerchiamo di fare un punto della situazione e di quel che potrà succedere dopo che Giuseppe Conte ha chiesto, con una lettera ai presidenti, di poter fare comunicazioni al Parlamento.

Domani. A mezzogiorno è convocata la riunione dei capigruppo del Senato. È qui che la Lega ha presentato la sua mozione di sfiducia ed è qui che si giocherà la prima mossa. Le decisioni di merito possono essere tre: far parlare Conte, votare il testo della Lega, votare la mozione di sfiducia a Salvini come chiede il Pd. Quanto alle date, Salvini spinge per arrivare allo showdown già dopodomani; gli altri gruppi per una convocazione il 20 o addirittura 27 agosto. Probabile che la crisi verrà conclamata in Parlamento tra dieci giorni.

Martedì. Si riunisce la capigruppo della Camera. Lì si gioca una ulteriore partita: il M5S, infatti, propone una calendarizzazione immediata per la “sua” riforma costituzionale, quella che taglia 345 parlamentari (230 a Montecitorio e 115 a Palazzo Madama) e a cui manca giusto l’ultimo sì dei deputati. La legge non dispiace a Matteo Renzi e soci, che sono un bel pezzo dei gruppi del Pd e la giudicano il modo perfetto per dare l’avvio a un progetto di “governo costituzionale”, mentre il nuovo segretario dem Nicola Zingaretti giudica la proposta una perdita di tempo: se la riforma passa, infatti, ci vogliono almeno sei mesi per adeguare la legge elettorale (collegi uninominali e circoscrizioni proporzionali) ai nuovi numeri.

In Senato. Il 20, come detto, è il giorno più probabile per vedere Conte a Palazzo Madama. Le ipotesi su come si svolgerà la giornata sono molteplici: il premier potrebbe parlare e poi andare a dimettersi (improbabile), potrebbe essere sfiduciato in Aula oppure addirittura vedere bocciata la mozione contro di lui (uscita dall’aula di Pd e sinistra, molte assenze in FI) ma certificando comunque la crisi politica della maggioranza che lo ha espresso finora. A quel punto, e in ogni caso, la palla passerebbe al Colle.

Il Quirinale. Sergio Mattarella avvierà, come da prassi, le consultazioni. Saranno molto veloci e a quel punto le scelte potranno essere molto diverse. C’è il rinvio di Conte alle Camere per verificare se esiste una maggioranza e, essendo probabile un esito negativo, la permanenza in carica per gli affari correnti fino alle elezioni. Oppure Mattarella potrebbe assegnare un mandato esplorativo: gira, in questo senso, il nome di Roberto Fico, terza carica dello Stato e profilo perfetto per l’eventuale appeasement tra M5S, Pd e responsabili vari (che alle Camere abbondano, se non altro per meri motivi di difficile rielezione). Terza opzione è un incarico pieno a un nome di garanzia che, con un governo snello e senza fiducia del Parlamento, porti l’Italia al voto.

26 agosto. Il termine ultimo entro il quale l’Italia deve indicare il suo nome per la prossima Commissione europea. Conte ha già fatto sapere che intende nominarlo lui, probabilmente subito dopo il suo passaggio in Senato: sarà un tecnico “europeista”, coerente con la maggioranza che ha eletto presidente Ursula von der Leyen all’Europarlamento (Pd, M5S e FI). Il 26 o 27 agosto, se non viene fuori una nuova maggioranza, potrebbe anche essere il giorno in cui si sciolgono le Camere.

Il Viminale. È noto che Mattarella (ma non solo lui) non gradisce l’idea che sia Matteo Salvini, mentre si candida a presidente del Consiglio, a gestire le operazioni di voto dal ministero dell’Interno, magari approfittandone per farsi campagna elettorale coi mezzi dello Stato. Il Colle potrebbe ovviare al problema, una volta dimesso Conte, nominando un governo nuovo per gestire il voto. Ieri, però, lo stesso Salvini ha aperto alla possibilità di una rinuncia volontaria: “L’importante è che le elezioni ci siano, poi se le gestisce qualcun altro sono pure più contento perché avrò più tempo”.

Le urne. Se alla fine non verrà fuori una “accozzaglia” capace di tenere in piedi la legislatura, si voterà in autunno per la prima volta dal 1919. Il 27 ottobre è la data più accreditata, anche perché si vota già per le Regionali in Umbria. La legge prevede che le elezioni vengano convocate tra 45 e 70 giorni dal momento dello scioglimento: visto il meccanismo farraginoso del voto all’estero, però, servono almeno due mesi di tempo. Tradotto: se si scioglie entro il 27 agosto si può votare a fine ottobre, altrimenti il voto potrebbe slittare a novembre.

Nomine Csm, ecco i candidati per la guida della Cassazione

Sono nove i candidati per il vertice della Cassazione, tra cui i procuratori di Roma, Napoli e Venezia e tre avvocati generali della Cassazione. Non sarà facile per il Csm, travolto dal caso Palamara, la scelta del successore di Riccardo Fuzio, che ha lasciato in anticipo la magistratura a seguito dell’indagine in cui è finito coinvolto. Quella del pg della Cassazione è una delle nomine più delicate che Palazzo dei Marescialli dovrà affrontare (visto che non è solo al vertice dei pm italiani ma è anche titolare dell’azione disciplinare sui magistrati), insieme alle Procure di Roma e Perugia, di cui Palamara discuteva liberamente con i deputati Pd Lotti e Ferri e altri consiglieri. Le nomine sono state congelate dallo scandalo ma presto dovranno essere decise. Tra i possibili favoriti per il ruolo di Pg della Cassazione ci sono Giovanni Salvi, esponente di Magistratura democratica (sconfitto in passato proprio da Fuzio), Luigi Riello (procuratore di Napoli); in corsa anche Mura, Salvato, Matera, Finocchi Ghersi, Giacalone, Napolitano, Fumu.

“Il premier vale l’11%”, “No, appena il 4”

I sondaggi non sempre sono perfetti, ma quasi mai sono incoerenti tra loro. Magari ballano uno o due punti percentuali, ma difficilmente un partito al 30 per cento scende al 20 nei dati di un altro istituto. Il caso di Giuseppe Conte, però, fa eccezione.

Le ipotesi di un partito dell’attuale premier o di un Conte nuovo leader del M5S dividono i sondaggisti. Marco Valbruzzi (Istituto Cattaneo) distingue le due possibilità: “Se formerà un suo partito non avrà molto margine. È vero che ha un grande consenso personale, ma spesso non si traduce in voti e soprattutto se davvero si voterà fra due mesi non avrà il tempo di far conoscere la sua nuova forza politica. Se diventasse leader dei 5 Stelle, invece, Conte potrebbe portare dal 3 al 5 per cento in più”.

Più disfattista Enzo Risso (Swg): “I nostri dati di fine luglio danno una lista Conte sotto al 5 per cento. Così come Gentiloni, che aveva un gradimento molto alto, non credo riesca a convertire l’apprezzamento per i toni, i modi e l’equilibrio in voti”. Neanche come guida dei 5 Stelle: “Sarebbe un profilo simile a quello di Di Maio, non è una svolta come potrebbe essere un Di Battista”.

Di tutt’altra idea è Antonio Noto (Noto Sondaggi): “Secondo le nostre rilevazioni di inizio luglio, un partito di Conte varrebbe già un 11 per cento. Non si può dire che la stessa percentuale si aggiungerebbe ai voti del M5S se Conte ne diventasse leader, perché l’elettorato del premier è piuttosto trasversale, essendo percepito prevalentemente come un moderato di area centrosinistra”. Questa circostanza, secondo Noto, potrebbe favorire scenari post-voto: “Una lista Conte sarebbe ponte perfetto tra Pd e 5 Stelle”. A patto, naturalmente, che il partito di Conte e i 5 Stelle tolgano almeno una decina di punti alla Lega.

Cauto è invece Pietro Vento (Demopolis): “Negli ultimi mesi la statura politica di Conte è cresciuta notevolmente e dopo l’apertura della crisi da parte di Salvini l’ultimo intervento del premier è stato apprezzato da ampi segmenti di opinione pubblica”. Motivi per cui “la fiducia in Conte resta significativa e trasversale”, senza però che si possano trarre conclusioni elettorali: “È ancora troppo preso per stimare oggi l’eventuale peso di una sua lista civica”. Anche Nicola Piepoli (Istituto Piepoli) non si sbilancia, ma è certo che Conte possa favorire i 5 Stelle erodendo il gap con la Lega: “Potrebbe aiutarli a risalire di qualche punto, perché negli ultimi giorni si è comportato da perfetto uomo della Costituzione, regolando Salvini e chiarendo che non può essere lui a decidere quando e come si sciolgono le Camere”.

Che il premier abbia o meno un certo consenso, Lorenzo Pregliasco (Youtrend) crede comunque che Salvini avrà gioco facile: “Conte potrà raccogliere un apprezzamento abbastanza trasversale, ma è lontano nei toni, nel linguaggio e nel mondo di riferimento dal leader della Lega. Per questo non penso che una sua discesa in campo come leader scalfisca il Carroccio”. Per sapere chi avrà ragione potrebbero bastare poche settimane.

Il discorso che farà Conte: “È Salvini l’uomo dei No”

Il discorso che il presidente del Consiglio farà al Senato avrà un peso. Innanzitutto per il posizionamento nei confronti di Matteo Salvini: Conte punterà a ribaltare la narrazione leghista sul governo del No addebitando a quello i No. E da quel discorso, oltre che dall’esito del dibattito parlamentare, dipenderanno gli scenari successivi tra i quali non va escluso nemmeno un Conte-bis, dal mandato circoscritto e a tempo, che faccia alcune riforme – legge elettorale e manovra – per poi andare a votare.

Le linee programmatiche dell’intervento sono inscritte nel discorso pronunciato lo scorso 3 giugno in occasione della conferenza stampa in cui chiedeva a Lega e M5S di chiarire il futuro del governo, pena le proprie dimissioni. Conte rivendicherà innanzitutto il Contratto di governo, rivendicherà il “cambiamento”, passato attraverso misure come il Reddito di cittadinanza, decreto Dignità o Quota 100.

Non potrà non rivendicare anche le misure legate all’immigrazione, che sono sfociate nell’approvazione di ben due decreti Sicurezza e su cui probabilmente il M5S ha avuto più problemi al proprio interno. Ma a Salvini si ricorderà che dopo aver votato la fiducia al decreto Sicurezza bis, ora si passa al voto contrario. Rivendicherà la legge Spazzacorrotti, la modifica dell’articolo 416-ter sul voto di scambio mafioso e ricorderà che per applicare le riforme fatte servirebbero diverse misure di accompagnamento. La sfiducia significa dire No anche a questo.

Una volta ribadita la bontà della “fase 1”, il presidente del Consiglio sottolineerà l’importanza della “fase 2” ricordando i progetti su cui il governo sta(va) lavorando: la riforma della Giustizia, le Opere pubbliche, travolte dalla discussione sul Tav, il Conflitto di interessi, in realtà evocato da tempo, la riforma del Fisco, al di là della semplice flat tax o della revisione delle aliquote, per una “giustizia tributaria efficiente”. E poi i progetti strategici che più stanno a cuore a Conte: un piano nazionale per la Ricerca, uno per il sistema scolastico e quello universitario, un piano straordinario per il Turismo e un progetto strategico, già compreso nel Contratto di governo, per il potenziamento dell’Economia circolare, favorendo la politica del riciclo e “dismettendo quella del rifiuto”. Un progetto che si iscrive all’interno di una strategia “green” che Conte vorrebbe portare avanti.

Questo è l’elenco dei progetti a cui, dirà Conte, Matteo Salvini ha detto no. Preferendo la politica dei sondaggi a quella dei progetti. Dopo il discorso, da come andrà il dibattito e l’eventuale voto finale, si capirà il futuro immediato.

Il premier dovrebbe sottoporsi al voto dell’aula come ha fatto a suo tempo Romano Prodi: “Voglio che mi guardi in faccia e mi voti contro” ha detto a Matteo Salvini nel colloquio di palazzo Chigi. Una rottura “traumatica” come nota efficacemente Giancarlo Giorgietti che, capendo il rischio dello scontro, dice che sarebbe stata meglio “una separazione consensuale”.

Con il voto sfiducia, Conte si dimetterà nelle mani del presidente della Repubblica. Se le opposizioni, però, accogliessero la proposta avanzata dall’ex presidente del Senato, Pietro Grasso, non partecipando alla contesa, Conte, non essendo sfiduciato tecnicamente, potrebbe puntare a un reincarico da parte di Mattarella in un Conte-bis dalla data di scadenza incorporata e per alcune misure obbligate: il taglio dei parlamentari, una legge di Bilancio, la legge elettorale. Per poi tornare a votare.

Nel mondo 5Stelle di questa ipotesi si pensa che “se fosse un governo non impopolare, non alla Monti per intenderci, potrebbe fare bene e beneficiare dell’appoggio del Pd e di altri settori. Oppure dell’astensione”. Un governo di scopo, o delle astensioni, che sarà Sergio Mattarella a decidere. Lo farà al termine di consultazioni che, nello stile del Capo dello Stato si annunciano “molto serie”.

Da Giolitti a Salvini, il passo non è breve

Da Giovanni a Matteo, da Giolitti a Salvini, il passo non sembra proprio così breve. Eppure c’è una circostanza che potrebbe accomunare lo statista che ha dato il nome a un’era politica e il “Capitano” (come ama definirsi lui) della Lega: il voto in autunno. Un inedito assoluto o quasi per il nostro Paese. Pur di assecondare la voglia matta della Lega di andare alle urne e capitalizzare quel consenso che le attribuiscono i sondaggi, bisogna infatti rispolverare i libri di storia: il vicepremier chiede “voto subito”, che significa elezioni a metà ottobre o al massimo a novembre (dipenderà dalla data esatta di scioglimento delle Camere), ma l’ultima volta in cui l’Italia ha votato alle Politiche in autunno risale addirittura a un secolo fa. Era il 23 novembre 1919 e Giolitti era appena tornato in politica per candidarsi alle elezioni successive alla Grande Guerra, da cui sarebbe nato poi il suo quinto e ultimo governo, prima dell’avvento del fascismo. La ricorrenza è infelice, da allora sono passati esattamente cento anni e l’Italia non ha mai più votato in autunno, fuori dalla tradizionale finestra di primavera. Ma forse Salvini questo nemmeno lo sa.

Il Carroccio: “Prima il giorno delle urne, dopo le alleanze”

Matteo Salvini tiene sulla corda Forza Italia e Fratelli d’Italia, ma è possibilista. Anche se di alleanze ora non vuole parlare: “Ora mi interessa la fissazione della data del voto. Di tutto il resto parleremo dopo”. Ma prima – ha detto – bisogna mandare in soffitta il governo Conte, una pratica su cui il capo della Lega chiede di accelerare. “Spero che il Parlamento si esprima prima di Ferragosto, non dopo. Gli italiani devono sapere quando votare”. E soprattutto agli italiani serve “un nuovo governo che vari la manovra economica a cui stiamo già lavorando e che vada avanti per cinque anni” ha detto. Chiede il ritorno immediato alle urne anche Fratelli d’Italia e Forza Italia che raccoglie al volo l’appello del capo del Carroccio. Mentre Giovanni Toti di Cambiamo! sottolinea l’esigenza di un governo “che faccia correre il Paese, cosa che non è accaduta in quest’anno. Basta costi-benefici, il nostro Paese ha bisogno di opere, grandi e piccole. Alle prossime elezioni – ha detto via social – ci saremo accanto a chi ha le idee chiare e la volontà di dare agli italiani una vera chance di crescita e lavoro”.

“Solo ora Renzi apre all’intesa con i 5 Stelle? Un po’ tardi. Ora il rischio è un’Italia fascista”

Massimo Cacciari lo strappo di Salvini non se l’aspettava: “Mi ha stupito. Era evidente che il rapporto con i Cinque Stelle fosse a termine, ma non pensavo che gli convenisse rompere in questo momento. Si vede che anche a livello personale, con Di Maio, le questioni erano arrivate a un punto insostenibile”.

Ora che scenario vede?

Quella gialloverde è stata una coalizione coatta, priva di qualsiasi punto di riferimento culturale e strategico, non poteva che finire così. Il problema è che ha rafforzato in modo strepitoso la destra. Una destra che un po’ di paura dovrebbe farla.

Non c’è alternativa?

Pd e Cinque Stelle sono un casino inenarrabile: come può uscire qualcosa da quelle parti lì? I grillini ricadranno nella loro solitudine e pretesa di purezza. Il Pd non si sa che fine farà, visto che la leadership di Zingaretti è quotidianamente contestata dai renziani. C’è davvero il rischio di trovarsi una solida maggioranza fascista: Lega, Meloni e Casa Pound. Fascisti nel vero senso della parola.

Da qui al voto però Salvini rischia di lasciare per strada un po’ di consenso. O no?

Il suo consenso ha radici solide, soprattutto a nord: lì non c’è partita. E mentre le ragioni di Salvini – opere pubbliche, investimenti, autonomia – sono radicate, gli altri non hanno una linea e non hanno niente in comune. Pd e Cinque Stelle non hanno mai lavorato in questi anni perché ci fosse la prospettiva futura di una minima intesa. Ora non possono certo andare dagli italiani a dirgli che faranno il governo insieme per fermare Salvini. Non hanno reso credibile questa prospettiva.

Eppure qualcosa si muove in quella direzione. Anche Beppe Grillo ha aperto a un’intesa con i dem.

Ora Grillo si sveglia contro i nuovi barbari? Vivaddio. Chi ha aperto la strada alla destra fascista ha responsabilità gravissime, sia nel Pd che nei Cinque Stelle. Le leadership sono state inadeguate.

Anche i renziani hanno rivalutato l’ipotesi “inciucio”.

Renzi oggi sarebbe il primo a fare un’alleanza con i Cinque Stelle. Io ne parlai subito dopo le elezioni politiche, quando invece Renzi impedì ogni intesa con i Cinque Stelle solo perché era evidente che non poteva essere lui a gestirla. Ora che i grillini sono deboli, Renzi ci ripensa. Ma non si fa politica così: una leadership non può fondarsi solo sulla spregiudicatezza tattica. Si porta un paese allo sfascio. E ora siamo a un passo dallo sfascio: un governo Salvini-Meloni rende anche inesorabile la prospettiva dell’uscita dall’euro e dall’Europa.

Potrebbe essere il tema della prossima campagna elettorale della Lega.

È una linea. Sciagurata, di destra, ma è una linea. Gli altri non ce l’hanno: non hanno un discorso, una strategia, una narrazione. L’unica incognita per Salvini sarebbe quella di presentarsi con la Meloni e CasaPound. Gli elettori potrebbero spaventarsi.

Cosa farà Giuseppe Conte? È una figura spendibile?

I Cinque Stelle dovranno far fuori quell’incapace assoluto di Di Maio. Per loro non vedo alternativa a Conte. Ha svolto la sua funzione con educazione e buonsenso. Con lui un’intesa con Renzi sarebbe semplice. Prima di entrare in orbita Cinque Stelle, come è noto, era stato presentato a Renzi dalla Boschi.