“A Bologna un’altra vittoria di Avvocato di strada sulla residenza ai richiedenti asilo. Il tribunale ha ritenuto inammissibile il reclamo del ministero dell’Interno contro l’ordinanza che aveva imposto al Comune di Bologna di iscrivere all’anagrafe una richiedente asilo, difesa dagli avvocati Antonio Mumolo e Paola Pizzi dell’associazione Avvocato di strada”. Lo rende noto Mumolo, che è anche consigliere regionale in Emilia Romagna: “Il ministero dell’Interno riteneva di essere legittimato a proporre reclamo in quanto litisconsorte necessario. Sosteneva inoltre di potersi sostituire al sindaco di Bologna, che aveva deciso di non proporre reclamo e aveva invece giá iscritto all’anagrafe la signora richiedente asilo. Ma il collegio ha invece stabilito che il ministero dell’Interno non ha il potere di sostituirsi al sindaco, se il sindaco decide di accettare la decisione del Tribunale. Ancora una volta un Tribunale afferma che anche il ministero dell’Interno è soggetto alla legge”. Ovviamente la replica minacciosa di Matteo Salvini non è tardata ad arrivare: “Dai giudici di Bologna altra sentenza a favore degli immigrati, il prossimo governo dovrà fare una vera riforma della Giustizia”.
Il partito del non voto e il rebus manovra
A nemmeno ventiquattr’ore dall’apertura della crisi – giovedì alle otto di sera – ieri mattina è uscito allo scoperto o quasi il fatidico partito del non voto, composto da tutti quei gruppi parlamentari che non vorrebbero andare a casa. Il più attivo è stato Renzi che, per una grottesca eterogenesi dei fini, vorrebbe stroncare Zingaretti (d’accordo invece con Salvini per il voto anticipato) lanciando segnali d’amore ai 5S del “perdente” Di Maio.
Una tattica politicista e dilatoria per aprire una palude in cui far impantanare Salvini e che al Quirinale non trova grande credito. Perdipiù da ieri il capo dello Stato è in vacanza alla Maddalena e il senso delle sue riflessioni rimane lo stesso di giovedì sera. Attendere cioè Conte in Parlamento (probabilmente il 20 o il 21 agosto). Per il presidente della Repubblica ogni singolo atto di questa incredibile crisi andrà vagliato con scrupolo, alla luce del suo metodo maieutico, che non “crea” alla maniera di Re Giorgio ma preferisce estrarre il “possibile” dalla “materia” che ha a disposizione. In soldoni: Mattarella aspetta pure di capire se Conte si dimetterà dopo il dibattito o sceglierà di cadere in aula con il voto contrario della Lega. In ogni caso le consultazioni saranno velocissime: un segnale chiaro ai manovrieri di queste ore. O in quei giorni, tra il 22 e il 25 agosto, ci saranno maggioranze chiare oppure si aprirà la fase che porta alle urne di ottobre, non escludendo l’ipotesi gestionista dello stesso Conte dimissionario con Salvini al Viminale. Il ruolo di arbitro secondo la Costituzione è questo. Sembra un messaggio di appeasement a Salvini, annunciato vincitore delle elezioni e con cui il Colle dovrà “convivere” fino al 2022. E che però non scioglie il rebus della manovra, con annesso spettro dell’esercizio provvisorio dello Stato. Il dilemma è al centro di questa crisi: sarà il nodo del governo che gestirà le elezioni oppure il primo guaio del governo Salvini che s’insedierà a dicembre?
La battaglia per portare Conte in Aula La Lega: “Martedì”. M5S e Pd: “Calma”
Ora la battaglia per le elezioni subito passa per quando le Camere saranno chiamate ad ascoltare Giuseppe Conte, che ieri ha scritto ai presidenti Casellati e Fico per annunciare le sue comunicazioni. La prossima settimana si riuniranno entrambe le conferenze dei capigruppo. La prima sarà quella del Senato, prevista per lunedì, dove la Lega ha già presentato una mozione di sfiducia al presidente del Consiglio. Quello che segue può apparire un contrasto da nulla, ma non lo è: quando sarà in Aula Conte? Le squadre in campo sono queste. La Lega, spalleggiata dal centrodestra (Forza Italia e Fratelli d’Italia), spinge per mandare a casa il presidente del Consiglio subito, già martedì prossimo, e a questo fine ieri Matteo Salvini ha convocato via messaggio tutti i senatori leghisti a Roma già da lunedì.
L’altra squadra invece – che comprende il M5S e, più defilato, il Partito democratico – preferisce che il tutto avvenga una settimana dopo, il 20 agosto, ma non è escluso neanche il 27: come ha anticipato il capogruppo in Senato Andrea Marcucci, i dem proveranno pure a inserire in calendario, prima della votazione sulla mozione anti-Conte, quella di sfiducia contro Matteo Salvini presentata proprio dal Pd. La ratio è semplice: prendere tempo, organizzarsi, capire che fare, vedere se c’è spazio per fare qualcos’altro che non sia andare di corsa al voto. Una “flemma” che incrocia la sola preoccupazione del Colle: non sciogliere le Camere e convocare le urne per fine ottobre senza aver varato una manovra che fotografi lo stato dei conti pubblici e rassicuri in qualche modo i mercati. Una prospettiva inaccettabile per Salvini e non senza ragioni: non solo la manovra vuol farla lui dopo, ma quando si apre una legge di bilancio poi non si sa mai quando finisce.
E qui si torna alla battaglia dei tempi in Senato. In questa vicenda un certo peso lo avrà Elisabetta Alberti Casellati, la presidente del Senato: 5 Stelle e Pd (158 voti in tutto) lunedì proveranno a imporre la convocazione di Palazzo Madama per il 20 o 27 agosto; il centrodestra (138 voti) spingerà per questo martedì. In questa divisione il “parere” di Casellati potrebbe essere determinante. Per chi “parteggerà”? Forza Italia, il suo partito, appoggia la richiesta di Salvini sperando nella riconoscenza del nuovo padrone del centrodestra e la stessa ex sottosegretaria berlusconiana ha tutto da guadagnare nell’imporsi a favore di Salvini (la sua speranza non troppo segreta è succedere a Mattarella sul Colle più alto).
Intanto il cosiddetto “Capitano” – non si sa se per calcolo o nervosismo – continua la sua campagna elettorale ad altissimo volume pescando un po’ dai vecchi toni di B. e un po’ pure, si parva licet, da quelli di M. Ieri, per dire, è tornato a chiedere “agli italiani” di dargli “pieni poteri” – espressione rozza quanto preoccupante – e messo a verbale che “il prossimo governo dovrà fare una vera riforma della giustizia, non viviamo in una repubblica giudiziaria”.
Come ai tempi di Berlusconi, gli ha risposto il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Giuliano Caputo: Salvini vuole che “le decisioni giudiziarie siano sempre gradite alla maggioranza politica” e “ogni aspirazione al controllo della magistratura” è “in contrasto con i principi fondamentali della democrazia”.
Il piano di Renzi: governo di un anno con il M5S
C’è un negoziato già in corso per evitare le urne, un’idea pazza: un nuovo governo di almeno un anno che si regga su un accordo tra il Movimento Cinque Stelle e il Pd. A gestire l’operazione però sarebbe nientemeno che Matteo Renzi. L’ex premier controlla ancora circa 45 senatori su 51 del Pd, cruciali per una maggioranza alternativa. Anche diversi esponenti di Forza Italia (una decina) sono pronti a sostenere il progetto, se Renzi fa partire l’operazione.
“La pace si fa con i nemici”, è la battuta che circola in ambienti renziani e, con parole simili, anche da alcuni Cinque Stelle. Il segretario del Pd Nicola Zingaretti vuole le elezioni il prima possibile, il Pd si troverebbe in una opposizione irrilevante ma il segretario piazzerebbe un po’ di parlamentari e guadagnerebbe una immunità sempre utile (pende ancora la richiesta di archiviazione per l’inchiesta per finanziamento illecito che coinvolge il lobbista Fabrizio Centofanti). Nell’ambiente zingarettiano si parla però di “preoccupazione” per questa ipotesi e il segretario non fa che ribadire di volere andare presto al voto. Ma il Quirinale teme l’esercizio provvisorio, vorrebbe un esecutivo che si faccia carico della legge di Bilancio in autunno e non vuole lasciare a Matteo Salvini, da ministro dell’Interno, la gestione delle elezioni.
A innescare l’operazione Renzi-M5S, nelle intenzioni di chi la sta pensando, può essere la riforma costituzionale che riduce a 600 i parlamentari. Manca l’ultimo voto, previsto per settembre. Renzi si è sempre astenuto nei tre voti precedenti, può rivendicare che anche la sua riforma costituzionale riduceva il numero dei senatori. Addirittura a gennaio 2014, in una intervista al Fatto, aveva tentato un abboccamento con i Cinque Stelle chiedendo il loro voto. Anche dopo le elezioni 2018 Renzi aveva partecipato a un trattativa per un possibile esecutivo congiunto che però si era arenata per le divisioni interne al Pd e perché un pezzo dei 5 Stelle aveva già deciso di puntare sulla Lega.
Ma ora è tutto diverso. Il Quirinale teme il caos in politica economica, Renzi voterebbe una manovra insieme ai Cinque Stelle anche se nessuno ama l’idea di intestarsi le nuove tasse o i tagli necessari. L’ex premier potrebbe rispolverare un’idea che ai 5Stelle non dispiace (chissà al Quirinale): deficit al 2,9 per cento del Pil per qualche anno, a fronte di un ambizioso programma di investimenti.
Cosa può offrire Renzi ai 5Stelle, oltre alla garanzia per i parlamentari di non perdere il posto per almeno un anno? Tre cose: salvare il reddito di cittadinanza, che un governo Salvini invece ridurrebbe subito, un presidente del Consiglio di garanzia di area Cinque Stelle (ma non Giuseppe Conte), e una sponda europea che ai pentastellati serve. Renzi ha conservato un buon rapporto con il presidente francese Emmanuel Macron e garantire l’ingresso nel gruppo di ispirazione macroniana Renew Europe. Il M5S potrebbe così sfruttare il credito che ha nei confronti della presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, eletta proprio grazie ai 15 voti 5Stelle.
Se tutto questo salta, Renzi ha due alternative. La prima è farsi dare da Zingaretti qualche seggio sicuro per sé e per i suoi, e magari il candidato governatore per la Toscana. La seconda è fare un partito in proprio, che, si pensa tra i renziani, potrebbe prendere tra il 5 e il 10 per cento. Entrambi gli scenari sono meno allettanti rispetto a quello che vederbbe l’ex premier tornare di fatto al comando del Pd, almeno della sua componente parlamentare, e un domani chissà.
Ma molto dipende dai Cinque Stelle: devono essere loro a cercare un’alleanza larga in nome della riduzione dei parlamentari.
Di Maio “richiama” i big. Ma ora al bivio c’è il Pd
Il capo non può più stare solo lassù, non può più decidere da solo o con la sua cerchia ristretta, perché è al bivio che vale tutto. Da una parte c’è la guerra all’orizzonte, la campagna elettorale che mai avrebbe voluto, e dall’altra il Pd, perfino Matteo Renzi e i suoi, che bussano alle sue porte promettendo aiuto per il taglio dei parlamentari e soffiando una parola che può essere dannazione, accordo. Ma da qui in avanti Luigi Di Maio la rotta dovrà deciderla con gli altri, perché è in ballo la sopravvivenza del Movimento, e perché lui non è quello del 33 per cento. Per questo mentre viene giù tutto il tuttora vicepremier raduna a Roma in una casa sul Lungotevere gran parte di quelli che pesano nel Movimento: Davide Casaleggio, i ministri e pretoriani Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro, i capigruppo alle Camere Stefano Patuanelli e Francesco D’Uva, i molto inquieti Nicola Morra e Paola Taverna, quel Max Bugani appena dimessosi da suo vice-caposegretario e ovviamente Alessandro Di Battista, l’ex deputato con cui era furioso ma a cui dovrà chiedere di recuperare entusiasmo e voti.
Di fronte a loro ammette (alcuni) errori e soprattutto promette “collegialità”. Ovvero che le decisioni importanti passeranno da lì, da un caminetto con le varie anime del M5S. Per questo Di Maio chiede a tutti di parlare chiaro, di dire come la pensano. Partendo da quella che è la prima urgenza del Movimento, rendere legge il taglio dei parlamentari prima del voto sulla mozione di sfiducia per il premier Giuseppe Conte. Una bandiera che si potrebbe sventolare, ma anche e soprattutto la via per far slittare il voto anticipato, perché tagliare 345 eletti imporrebbe di ridisegnare i collegi elettorali, e sarebbero necessari mesi per farlo. E in quel lasso di tempo chissà cosa potrebbe accadere in Parlamento.
Però il prezzo per i 5Stelle rischia di essere l’anima, perché per realizzare un’impresa quasi impossibile nei numeri e soprattutto nei tempi dovrebbero accordarsi con il Pd delle mille anime e delle mille trappole, che già chiede di più, un patto per un’altra maggioranza di governo. “Ma una cosa del genere potrebbe ucciderci” riassume un big del M5S. Perché lo sanno, i 5Stelle, che i messaggi e le telefonate dei dem (nonostante il niet del segretario Nicola Zingaretti) sono una porta con vista sull’inferno, la via che renderebbe facilissimo a Matteo Salvini gridare all’inciucio.
Per questo il leghista già ammicca: “Sento che ci sono toni simili tra Pd e M5S, ma un governo Renzi-Di Maio sarebbe inaccettabile per la democrazia”. Infatti il Movimento replica con sillabe violente: “Caro Salvini stai vaneggiando, inventatene un’altra per giustificare quello che hai fatto giullare”. E non a caso nella riunione romana, con toni e modi diversi, la maggioranza dei big rifiuta le offerte che lo staff del M5S nega ma che sono evidenti, rumorose. Almeno ora, perché dopo il voto chissà. Ma nell’attesa il taglio degli eletti con il quarto, definitivo passaggio a Montecitorio va rincorso in ogni modo. Lo dicono tutti, all’incontro di ieri. E la linea prevalente è: portiamolo a casa, poi si vedrà. Ovvero, un passo alla volta. Però Roberto Fico, il presidente della Camera, si sente di continuo con Di Maio. E gli ha confermato quanto sia difficile approvare la legge. Perché è vero, un terzo dei deputati basta per convocare d’urgenza l’Aula, e il M5S li ha. Però è necessario che la capigruppo della Camera, convocata per martedì, cambi il calendario a maggioranza. Nel caso lo faccia, bisognerebbe passare in commissione, almeno per mezza giornata, e servirebbero almeno due giorni di lavoro in Aula per approvare il testo. Maledettamente complicato in pieno agosto, per di più prima della votazione in Senato su Conte, che potrebbe svolgersi attorno al 20.
A meno che l’accordo con il Pd non sia granitico. E che Fico utilizzi a fondo i suoi poteri di presidente. Nell’attesa, Di Maio e il gotha del M5S ragionano sui nodi che verranno. A cominciare da come rimettere in gioco una classe di governo su cui grava l’esaurirsi dei due mandati. E la decisione paregià presa. Si voterà sulla piattaforma web Rousseau, dove verrà chiesto agli iscritti se ricandidare i parlamentari uscenti, spingendo sulla leva dei soli 14 mesi di legislatura, caduta per colpa di Salvini. Poi c’è il tema nodale, quello del candidato premier. Non potrà esserlo Di Maio, non più. E neppure Di Battista, trascinatore che si sentirebbe ingabbiato.
Quindi la speranza di molti, di quasi tutti è convincere Conte. Ripartire da lui, che pure lo ha giurato: “Non ho mai votato i 5Stelle”. Ma la politica corre. E può cambiare, tutto.
Il leghista premier fa venire “la pelle d’oca” ai giornali
“Salvini primo ministro italiano: un pensiero che fa venire la pelle d’oca”. In Germania il commento più duro a opera del sito del telegiornale del primo canale pubblico Ard. Il settimanale Der Spiegel e il quotidiano Sueddeutsche Zeitungsottolineano le incertezze sul fatto che le elezioni possano tenersi a breve. “Il governo italiano è alla fine, ma il ministro dell’Interno Salvini non ancora alla meta”. La Bild evidenzia, invece, che “adesso il terrore dei profughi d’Italia vuole il potere”. Il tema della spiaggia ritorna anche sul New York Times. “Il più potente populista in Italia governa dalla spiaggia”, è il titolo di un lungo articolo dedicato alla crisi di governo italiano. “Italia verso nuove elezioni che potrebbero spingere l’estrema destra”, è il commento del britannico Guardian. “Salvini chiede elezioni lampo”, titola la Bbc. “Conte richiama il Parlamento mentre Salvini cerca il voto”, titola da parte sua il Financial Times, mentre l’edizione europea di Politico parla del “governo italiano sull’orlo del collasso”. “Salvini dà il governo di coalizione in Italia per sfasciato ed esige elezioni anticipate”, titola lo Spagnolo El Pais mentre Le Monde sottolinea in prima pagina che “Salvini fa scoppiare la coalizione al potere”.
La Lega sale al 36%, lontani Pd (20,5) e 5S (17,8), sale FdI (7,5)
Le percentuali che i sondaggi attribuiscono alla Lega aiutano a comprendere le tentazioni salviniani per il voto. Secondo la rilevazione Ipsos per il Corriere della sera, il Carroccio sarebbe infatti salito al 36 per cento, in crescita di ben 3 punti rispetto al dato registrato dallo stesso Istituto a fine giugno. Lontano nei consensi il Partito democratico, che pure è il secondo partito: 20,5 per cento, in calo rispetto al 21,2 della precedenze rilevazione. Il Movimento 5 Stelle sarebbe invece stabile al 17,8 per cento. In questo contesto, Salvini potrebbe contare su un buon sostegno da parte di Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni, secondo Ipsos, è infatti al 7,5 per cento, uno dei livelli più alti mai raggiunti. Sorpassato anche Forza Italia, fermo al 7,1 per cento. Se ancora esistesse una coalizione Lega – Fratelli d’Italia – Forza Italia, la stessa che si è presentata alle elezioni del 2018, oggi supererebbe dunque il 50 per cento. Tra gli alleati del Pd, invece, stabili i Radicali e i Verdi: Più Europa galleggia intorno al 3,5 per cento, mentre il partito degli ambientalisti si avvicina al 2 per cento.
“In Parlamento dovrai guardarmi in faccia e poi votarmi contro”
“In Parlamento tu ci dovrai essere, non come hai fatto sulla Russia, mi dovrai passare davanti, guardare in faccia e votare contro”. Quando dice in faccia a Matteo Salvini queste parole, con il suo solito stile pacato, Giuseppe Conte sa che la sfida al leader leghista è lanciata. Che possa trasferirsi in una contesa elettorale è cosa che il presidente del Consiglio non dice a nessuno. Nessuno sa se potrà essere lui il candidato premier del M5S né se sia realizzabile l’idea di una lista civica a suo nome da far correre accanto a una lista 5 Stelle.
Quello che appare chiaro nella ricostruzione dei due incontri che il premier ha avuto con Salvini è l’irresponsabilità spensierata del secondo e il tentativo del primo di farlo ragionare e di evitare in tutti i modi l’epilogo che ora appare segnato.
“Matteo, pensaci bene, non hai consiglieri?”
Gli incontri sono stati due. Il primo, il giorno del voto sulla mozione Tav, avviene di pomeriggio, a Palazzo Chigi. Salvini non parla di rimpasti anche se si lamenta dei vari ministri e Conte lo incalza subito: “Ti avevo già detto dopo le Europee che volendo saremmo potuti andare al voto anche il giorno dopo. Tra l’altro avevi il pretesto degli attacchi ricevuti dal M5S in campagna elettorale. Ma tu hai detto no, perché oggi vuoi le elezioni?”.
Le giustificazioni di Salvini sembrano fragili: parla di “casini interni” del bisogno di una “campagna elettorale per compattare la Lega, sai c’è anche chi vuol farmi fuori, ora non si può più rinviare”.
Conte invita il suo vicepremier a “pensarci bene”. E comunque mette le mani avanti: “Sappi che comunque si va in Parlamento, io sono una persona corretta, non vado in aula a cercare altre maggioranze” e poi, non dismettendo gli abiti del professore, gli fa anche una piccola lezione di diritto parlamentare. “La via maestra è tornare dove ho ricevuto la fiducia, cominciando dal Senato. In passato le crisi si facevano nei corridoi di Palazzo o nelle riunioni riservate delle segreterie dei partiti, io voglio fare tutto alla luce del sole”. E qui lancia la freccia in pieno volto dell’alleato-avversario: “Tu ci dovrai essere, al contrario del dibattito sulla Russia e dovrai spiegare, guardandomi negli occhi, il motivo per cui ritiri la fiducia. Dovrai andare a votare passandomi davanti, guardandomi in faccia e poi votandomi contro”.
Salvini, in un sussurro, dice “va bene” e se ne va. A quel punto Conte inizia a riflettere sul quel che è successo alla ricerca di una spiegazione logica. Salvini ha parlato di problemi interni alla Lega, forse con Giancarlo Giorgetti, forse, soprattutto, con i governatori leghisti, tutti molto preoccupati per l’impossibilità di approvare una legge hard sulle Autonomie.
“C’è chi mi vuole fare fuori, devo farlo”
Ma ha fatto riferimento anche alle proteste dei propri parlamentari contrari al taglio dei seggi che sarà approvato in via definitiva il 9 settembre. E sembra che si accorga solo ora che quella legge costituzionale si porta dietro l’obbligo di ridisegnare i collegi elettorali e anche la necessità di una nuova legge elettorale. In modo tale che prima di sei mesi sarebbe impossibile andare al voto. Tempo che dilata anche lo spazio in cui Salvini rischia di essere esposto a possibili inchieste: quella su Savoini e il Metropol russo, del resto, è ancora lì che pende.
Ma, riflette Conte, nell’ultimo periodo si è visto anche un certo attivismo di quel partito degli affari che lo ha eletto come nuovo idolo: l’intervista dell’ex ad dell’Eni Paolo Scaroni sul Foglio, la prontezza con cui Confindustria si è recata ai vertici sociali del Viminale, l’insistenza a completare le grandi opere inutili, tutti segnali di interessi in cerca di una solida sponda e di insofferenza per gli ostacoli frapposti dal M5S. Infine, tra i motivi che potrebbero aver consigliato la fretta elettorale, anche la sensazione che una campagna elettorale infinita potesse iniziare a stancare. Meglio raccogliere i frutti . “Capitalizzare il consenso” come lo stesso Salvini ha detto al premier.
“Andiamo alle elezioni, facciamo in fretta”
Poi c’è il secondo incontro, giovedì 8 agosto, dopo che Conte torna dal faccia a faccia con Sergio Mattarella. Salvini a questo punto non ha dubbi: “Andiamo alle elezioni, basta, facciamo in fretta”.
Conte risponde ancora con la sua consueta calma: “Scusami, pensi davvero che si vada a votare domani? La finestra elettorale di settembre te la sei giocata, ora i tempi tecnici dicono che si arriva a fine ottobre e, se ti va bene, riuscirai a formare un governo non prima di dicembre. Cioè addio legge di bilancio in tempo per fine anno, cioè esercizio provvisorio”.
Poi l’accusa: “Sei un ingenuo o uno sprovveduto anche perché mica decidi tu la data delle elezioni”. Conte ne approfitta per difendere orgogliosamente l’operato suo e del governo: “Questo non è il governo dei no, lunedì scorso con la fiducia al decreto Sicurezza ne hai avuto la conferma: non ci provare a screditare il lavoro mio e dei miei ministri”.
Il premier cerca di rendere evidente anche il quadro europeo, la figura che farà l’Italia e il nodo del Commissario ancora non indicato per i veti di Salvini: “Guarda che così ti giochi anche quel nome. Se fai cadere il governo avrò le mani libere e finalmente potrò indicare un nome che vada bene all’Italia e non solo alla Lega”.
Conte pensa di poter riuscire ancora a strappare il dicastero della Concorrenza, anche se, per adattare la nomina a un profilo indicato dalla Lega, stava orientandosi a richiedere il Commercio: “Ho un buon rapporto con Ursula Von der Leyen e, dopo il dibattito parlamentare, proporrò un nome di alto profilo e di competenza per cercare di avere la Concorrenza”.
Ma a Salvini sembra non importare, fa spallucce. Si limita a giustificarsi con il premier: “Non pensare che per me non sia difficile, sono due notti che non dormo, non lo so se faccio bene, ma devo farlo”.
“Pensaci molto bene” prova ancora a convincerlo Conte: “La speculazione di agosto è quella più insidiosa, ma non hai economisti che ti consiglino bene? Fatti ragguagliare sulle conseguenze, sull’esercizio provvisorio, sul rischio dell’aumento dell’Iva. E poi, come farai a discutere con la Commissione europea, senza di me, l’ennesima procedura d infrazione? Senza interlocutori quelli ti massacrano e ci va di mezzo l’Italia. Pensaci davvero, stai rischiando di portare il Paese al disastro”.
Salvini uscendo da palazzo Chigi sembra perplesso, fa finta di prendere tempo: “D’accordo, faccio ancora qualche telefonata”. Ma pochi minuti dopo viene diramata la nota della Lega che chiede le elezioni e in serata il vicepremier lancia le sparate sul governo dei no e del non fare e sui parlamentari che devono tornare di corsa dalle vacanze, a lavorare come “fanno milioni di italiani”.
“Lui se ne sta in spiaggia, noi qui lavoriamo”
Conte a quel punto perde il suo aplomb e inizia a preparare il discorso che farà la sera: “Proprio lui che se ne sta in spiaggia da giorni tratta gli altri come degli ‘scioperati’? Io non sto in spiaggia, sto qui a lavorare”. Il discorso che farà in Parlamento inizia a delinearsi. Lo metterà a punto nel week-end, quando cercherà di staccare un po’. Dovrebbe pronunciarlo nella settimana successiva a Ferragosto, nonostante gli evidenti tentativi di Salvini di accelerare i tempi.
Quanto al futuro, per ora Conte non fa trapelare nulla. È preoccupato anche lui, come il Quirinale, del fatto che Salvini possa gestire la campagna elettorale da ministro dell’Interno. Del resto, il leghista, anche durante la campagna europea non ha dato prova di affidabilità, con i viaggi elettorali su voli di Stato col pretesto di incontri nelle prefetture. Conte pensa che occorrerà sorvegliare anche questo aspetto.
Quanto al proprio futuro politico le cose sono ancora molto incerte. Il premier è rimasto colpito dalle manifestazioni di solidarietà e affetto ricevute via social dopo il suo discorso dell’altra sera e si è anche accorto che sulla bacheca di Salvini, invece, fioccano gli insulti. Non ha ancora idee su cosa fare del proprio futuro politico. È grato ai 5 Stelle, ma non è un uomo del Movimento, ci tiene a ribadire la propria terzietà.
Se potrà capeggiare, da candidato premier, una lista del M5S oppure, come si dice da più parti, essere il leader di una lista civica, è questione che al momento non viene considerata. Conte ripete ai suoi di essere una figura terza, istituzionale, non adatta a campagne elettorali di parte. E di adorare il lavoro di avvocato.
Ma, spesso, la forza delle cose, e dei consensi, finisce col prevalere sulle migliori intenzioni. Si vedrà. La sfida con Salvini è già nelle cose. Quella non potrà essere evitata.
Niente pastrocchi
Nella crisi più pazza del mondo, capita anche questo: che il cazzaro primigenio, Renzi, auspichi la cosa più sensata mai detta da un pidino da mesi. E cioè che, contro la destraccia salvinista, l’unico governo possibile è fra 5Stelle e Pd. Purtroppo la proposta ha tre difetti. 1) Arriva con 14 mesi di ritardo e non sarebbe più -come a maggio 2018 – l’unione fra il primo e il secondo partito delle Politiche, ma tra i due sconfitti alle Europee contro chi le ha vinte. 2) Viene da Renzi, che ormai ha la credibilità di Pamela Prati e tifa per il taglio dei parlamentari perché, al prossimo giro, non ne avrà più neanche uno. 3) Sarebbe un regalo a Salvini, che già inizia a pagare caro il suo tradimento di sfasciatutto irresponsabile (è subissato di insulti sui suoi social, specie dopo la ferma risposta di Conte, suo unico vero competitor) e non vede l’ora di farlo dimenticare addossandolo ai 5Stelle e strillando al ribaltone. Certo, la metà e più dell’Italia che guarda con orrore e terrore alla prospettiva di avere presto un monocolore Salvini che si crede il Duce e parla come lui (senza neppure esserlo) a colpi di “Voglio pieni poteri”, “Ordine e disciplina”, “La giustizia la riformo io” accetterebbe di tutto, pur di allontanare l’amaro calice. Anche un ribaltone. Che sarebbe costituzionalmente ineccepibile (avrebbe la fiducia del Parlamento) e moralmente giustificabile (a brigante, brigante e mezzo). Ma politicamente a dir poco discutibile, mettendo insieme il secondo e il terzo partito per far fuori il primo. Con tutti i rischi che comportano, le elezioni restano la via maestra. Se a ottobre o a primavera, lo deciderà il Parlamento, dove Conte ha saggiamente portato la crisi in piena trasparenza.
Lì il premier esporrà le riforme in cantiere che Salvini ha bloccato col suo colpo di mano e chiederà la fiducia. La Lega gliela negherà. Il M5S gliela confermerà e nessuno può impedire ad altri di fare altrettanto. Se il Pd gli votasse la fiducia, il governo Conte resterebbe in piedi, senza i ministri leghisti (sostituibili con gli attuali vice o con personalità esterne). Per fare poche cose prima delle elezioni a primavera: la legge di Bilancio, scongiurando le conseguenze inevitabili di un voto a fine ottobre (esercizio provvisorio, spread ecc.); l’ok al taglio dei parlamentari; e la conseguente revisione della legge elettorale. Chissà che i pochi mesi trascorsi a collaborare, senza nuovi governi né ribaltoni, non inneschino la scintilla che noi auspichiamo da anni fra un centrosinistra totalmente rinnovato e ripulito e un M5S più maturo e meno improvvisato sotto la guida di Conte. Per salvarci da Salvini non prima né contro le elezioni. Ma dopo.
La selfie-parodia di Bennato su Salvini
Da sempre incline a provocazione e ironia, Edoardo Bennato torna con un nuovo singolo che poggia proprio su queste due caratteristiche. Esce oggi Ho fatto un selfie!, su tutti gli store digitali e i canali streaming. Lo spunto è chiaro: gli attacchi ricevuti dopo che Bennato aveva “accettato” nel novembre scorso (dopo un concerto a Roma) di concedere un selfie a Salvini, suo storico fan (anche se, come per Gaber e De André, Salvini è spesso estimatore di artisti geniali di cui però non ha compreso una beata mazza).
Le polemiche, soprattutto sui social, erano state l’ennesimo esempio di cloaca a cielo aperto, ormai un classico dei “dibattiti” online dove tutti sono tifosi di qualcosa e qualcuno (e dunque non c’è mai spazio per il dibattito). Bennato, “complice” anche la sua presenza a un evento dei 5 Stelle nel 2014, era così diventato “il menestrello del governo xenofobo”. Deliri talebani cari – da sempre – a una certa sinistra, la stessa che nei Settanta processava sul palco i De Gregori e i Gaber (e pure i Bennato), e poi magari si è ritrovata col poster in camera di Casarini – o peggio ancora di Renzi.
E sì che sarebbe bastato ascoltare in merito Eugenio Bennato: “Mio fratello è una persona ironica che può incontrare anche il diavolo che non gli succede niente. Rifiutare di farsi una foto con un fan che ti è venuto a trovare in teatro in un tuo concerto sarebbe stato un gesto discriminatorio ed estremamente violento, cosa che non sarebbe stata da Edoardo”. Otto mesi dopo, Edo esce con questo divertissement che tocca un tema cardine per il rocker napoletano: il confine sottilissimo tra “buoni”, o presunti tali, e “cattivi”, o presunti tali.
La canzone è orecchiabile (in senso buono) e apparentemente facile: potrebbe dunque avere una sua fortuna radiofonica, grazie al testo, i riff di chitarra del fido Giuseppe Scarpato e l’immancabile armonica. La chiave di lettura bennatiana è che, al giorno d’oggi, basti concedere un selfie (destinato peraltro a restare privato, o almeno lui aveva capito così) per ricevere la scomunica trasversale. Con buona pace di 40 anni e più di carriera non certo qualsiasi.
“Ho fatto un selfie con diavoli e santi”: il singolo comincia così, e il guaio è che l’artista non sempre si è ricordato di chiedere ai fan il loro nome. Più ancora: i loro eventuali precedenti penali. “Con il selfie c’è da stare attenti/ perché non sempre lo si può accordare/ senza richiedere i documenti/ voce del verbo discriminare”. Nella seconda parte del brano, Bennato confessa quindi i nomi delle persone inaccettabili con cui ha fatto una foto: Robert De Niro e Martin Scorsese, Ficarra e Picone, Lino Banfi e Marco Travaglio, Fausto Bertinotti e Graziano Del Rio, Lilli Gruber e Johnny Stecchino, Barbara D’Urso, cinque grillini “e un certo Salvini, ad un concerto di Edoardo Bennato”.
Si ride, anzi si sorride. Ma da ridere c’è sempre meno, con tutta questa ignoranza allo stato brado e tutta questa voglia greve di caccia alle streghe.