“Sono nato musicista di liscio. Da sardo amo mescolare”

Quando trentadue anni fa Paolo Fresu iniziò a organizzare – insieme a una manciata di amici e volontari – il festival Time In Jazz non avrebbe mai immaginato di arrivare a ospitare i più grandi artisti internazionale di jazz contemporaneo. Oggi la manifestazione è unanimemente riconosciuta come una delle più autorevoli e originali, soprattutto per le location meravigliose sparse nei dintorni di Berchidda, paese natale del trombettista.

Suonare in una piccola Chiesa, in un piccolo spiazzo presso un fiume, in un castello antico e diroccato oppure in un ex caseificio rende un concerto unico e irripetibile. Il pubblico è – per stessa ammissione dei musicisti – uno dei più preparati ed esigenti, ricambiato dalla possibilità di essere a stretto contatto con gli artisti. Il Festival, in programma sino al 16 agosto, ha come tema “Nel mezzo del mezzo”: “La Sardegna è un’isola che sta idealmente tra l’Europa e l’Africa; una terra di mezzo in quell’oceano contemporaneo che è il Mediterraneo”. Alla radice della volontà di creare il Festival c’è l’amore viscerale di Fresu per la sua terra, la voglia di condividere i luoghi e l’ospitalità degli abitanti di Berchidda.

Per una decina di giorni tutto il paese si mobilita e si apre al pubblico, offrendo passaggi in auto ai visitatori verso le località dell’entroterra, spesso raccontando aneddoti, diventando guida turistica, offrendo il pranzo o la cena. “Una volta una famiglia di musicisti non trovava più suo figlio piccolo, si stavano preoccupando. Poi hanno scoperto che stava giocando con altri due bambini e intanto i loro genitori gli avevano offerto il pranzo e la merenda”. È questa – più di ogni altra – la vera cifra stilistica di Time In Jazz, la totale condivisione con gli artisti e la popolazione per l’intera giornata.

“La partecipazione dei berchiddesi è totale e mi onora – continua Fresu –. La musica è il volano di condivisione in un momento in cui si discute di muri. È un luogo comune che il popolo sardo sia chiuso. Al contrario è troppo aperto e spesso si chiude per difendersi. Tutti dalla Sardegna si sono portati via qualcosa, ma l’essenziale è che abbiano lasciato anche qualcosa. Basta vedere il nostro miscuglio di lingue, tra le quali il catalano. La ricchezza della Sardegna è nella cultura dell’incontro. Il nostro popolo ha grande dignità, ti offre quel molto o quel poco che ha per raccontare se stesso. E tutto questo si riflette in Time in Jazz, lo dico da musicista che gira i festival nel mondo: spesso gli artisti mi raccontano che non vengono qui per il denaro ma per i luoghi, il cibo, il pubblico… E finisce che si sentono in dovere di dare di più sul nostro palco per restituire l’accoglienza”.

Fresu ha scelto di lavorare a titolo gratuito: “Non ho mai preso un solo euro per la direzione artistica e l’organizzazione e nemmeno come musicista. Metto il mio tempo e la mia passione. Non c’è concerto dove non ci sia io a dare il buongiorno a tutto il pubblico”. Molto ricco il programma di quest’anno che prevede Ornella Vanoni, Omar Sosa, Danilo Rea (con un omaggio a Fabrizio De André), Nils Petter Molvær, Jaques Morelenbaum e altri ancora.

Contaminazione è la parola d’ordine, dal jazz alla pizzica, alla musica dei balcani, all’elettronica sino agli ospiti outsider di quest’anno, l’orchestra Mirko Casadei. Chissà se nelle prossime edizioni arriverà anche l’hip hop del conterraneo Salmo? “Ci conosciamo e ci stimiamo, era venuto al concerto dopo la grande alluvione per raccogliere fondi da destinare alle scuole dell’isola. Magari organizzeremo qualcosa… Quest’anno c’è l’orchestra Casadei. Io sono nato come musicista di liscio, suonavo in paese nelle feste di piazza, nei matrimoni, ai compleanni: suonavo la loro musica. Ho conosciuto Mirko e Raoul, musicisti straordinari: hanno una apertura culturale incredibile, superiore a tanti jazzisti. E si torna al punto di partenza, ovvero la fusione di stili musicali ma, soprattutto, di grande umanità tra gli artisti che vengono in Sardegna: ognuno porta via qualcosa ma lascia anche una parte di sé”.

La musica anni Ottanta la suona Pier il libertino

Camere separate di Pier Vittorio Tondelli usciva nella primavera di trent’anni fa, in quel 1989 che pochi mesi più tardi vedeva franare il Muro di Berlino. Lo scrittore emiliano, classe 1955, viveva già come se la cortina di ferro non esistesse, per nulla irretito dai dogmatismi ideologici del Novecento. Era un uomo libero e vorace. Certamente di sinistra ma senza le paranoie ascetiche dei comunisti. Homme de lettres finissimo che non disdegnava la promiscuità pacchiana delle discoteche, riuscì a coniugare in un sincretismo azzardato le sue preghiere di cattolico osservante con il canto epico delle trasgressioni sessuali.

Consegnati agli archivi gli anni Settanta e il clima plumbeo delle P38, Tondelli respirò al Dams di Bologna il debutto del nuovo decennio, tra il rock demenziale degli Skiantos e le prime tavole di Andrea Pazienza. La parabola dell’autore di Correggio si consuma tutta dentro gli anni Ottanta, attraversati a bordo della sua Saab verde lotus e con le amate canzoni di Madonna e degli Smiths a far da colonna sonora.

La fortuna di Tondelli prese il via grazie a un magistrato bigotto che ordinò il sequestro per oscenità del suo esordio. Altri libertini, pubblicato da Feltrinelli nel 1980, si impone con l’aura maudit dello scandalo: tra bestemmie e impudicizie del parlato vanno in scena gay, tossici, travestiti, “scoppiati” di tutte le risme. A stretto giro arrivarono in libreria i tormenti sentimentali dei militari di leva di Pao Pao e il successo commerciale targato Bompiani nel 1985 di Rimini, affresco del divertimento by night della riviera romagnola da cui i Vanzina avrebbero voluto trarre una delle loro commedie.

Alla fine degli anni Ottanta ecco Camere separate. Leo, scrittore di successo, si innamora di Thomas, musicista tedesco, e subito lo idealizza come compagno perfetto ma quando la relazione sprofonda nella quotidianità Leo si ritrae, riservandosi un amore itinerante e a distanza. La rottura diventa inevitabile e si sublima in un dolore senza ritorno quando Thomas muore minato da una malattia lunga e straziante. Leo, alter ego di Tondelli, è uno scrittore e “scrivere è un esercizio di solitudine”. Questo è il torto di Leo, questo il suo pedaggio di inconciliabilità con il mondo. L’amore omosessuale è solo il pretesto drammaturgico di un romanzo centrato sul tema della morte, che mostra in tutta la sua impossibilità di redenzione appunto la solitudine di chi subordina l’intera esistenza alla parola scritta.

Tondelli ha tentato fino all’ultimo di sottrarsi al presepe autoghettizzante di una narrativa di genere, lontanissimo com’era dal feticismo rivendicativo. La sua filiazione con i “padri” era tutta dentro il perimetro letterario. Per questo potremmo dire che con Testori condivideva la fede tormentata del peccatore recidivo, con Arbasino la curiosità mondana per le fatuità del presente e con Pasolini la volontà di afferrare la realtà per raccontarla senza filtri.

L’autore di Biglietti agli amici può essere letto come il testimone di un’epoca – di quegli anni Ottanta scanditi dal potere socialista e dalla moda, dalle cabine telefoniche e dai taxi gialli, dai dischi dei Duran Duran e dalle imprese di E.T. e di Rambo sul grande schermo –, ma sarebbe un limite perché la sua eredità più autentica è un’idea di metodo: l’osservazione senza snobismi della realtà e la disciplina di una scrittura che si invera solo nella fedeltà a se stessi e agli altri.

Domandiamo a Mario Fortunato, che ha raccontato la sua amicizia con Tondelli nel suo Noi tre (in libreria di nuovo a settembre per Bompiani) quanto pesi ancora la mitomania post mortem sulla ricezione dell’opera dello scrittore di Correggio, morto di Aids nel 1991 a soli 36 anni. Fortunato non ha dubbi: “Le mode passano. L’unica cosa che conta è che i libri continuino a dire quello che devono dire. Nessuna enfasi o mistificazione potranno mai alterare o ridimensionare i testi di Pier. Il mito ha una sua incidenza ma senza la qualità letteraria non si va molto lontano. Pier attraversa le generazioni perché ciascuno ci trova sempre una sua verità esplorata e sviscerata con il passo dello scrittore autentico”.

Forse il segreto di Tondelli – se esiste un segreto per questa sua rara capacità di sopravvivere in questo tempo di fortune effimere – è, per dirla sempre con Mario Fortunato, perché negli anni Ottanta “la giovinezza sembrava una festa destinata a non finire mai”. E dunque l’autore di Un week-end postmoderno (raccolta di articoli che illustrano tutte le tendenze del suo decennio d’elezione) si è conquistato un ritaglio di eternità perché ciascun giovane nelle sue pagine si imbatte in uno specchio spietato dei suoi turbamenti.

Nei dieci anni che la vita gli ha concesso di dedicarsi alla letteratura Tondelli ha saputo seminare nell’immaginario collettivo più di tanti venerati maestri della nostra prosa. Ben altro destino gli è toccato che essere ricordato, come lamentava in un accesso di disillusione, alla stregua di “un minore padano”.

La filosofia del rasta: “Giamaica no problem”

Blue Mountains, Giamaica. Novembre 2009. Partimmo da Kingston a bordo di una vecchia Land Rover. Il rasta che la guidava proferì solo queste parole: “In caso di pioggia non potrete scendere prima che sia di nuovo tutto asciutto”. Ci caricò nella parte posteriore e iniziammo a macinare metri nella giungla, tra strapiombi, cascate e panorami mozzafiato. Arrivammo a destinazione qualche ora dopo abbastanza sconquassati. Ci attendevano tre donne corpulente che imbracciavano i fucili. Un cenno del capo e le seguimmo.

Entrammo in una casa del 700 a oltre 2 mila metri di altezza. Era appartenuta a un capitano dell’esercito inglese e poi era diventata un’azienda agricola di caffè. Al calar della sera, dopo una lunga passeggiata nella giungla e la vista di miriadi di lucciole a un tiro di schioppo, rientrammo nella tenuta per cenare. La casa sembrava sospesa nel tempo: legno ovunque, un pianoforte, qualche fotografia sbiadita, i letti con il baldacchino in pizzo. Niente elettricità. Solo lampade a olio. I dipendenti ci trattarono con garbo, ma sul finire della cena persi il filo del discorso. Il mio inglese rudimentale non aiutava, così in un batter d’occhio mi ritrovai ad assistere a un botta e risposta tra il mio fidanzato e il gestore. Avevo solo capito che in cima alla montagna c’era un campo di marijuana. il nostro commensale con tono perentorio prese a dire: “Business, my friend. Business”. Il mio fidanzato gli ripeteva che eravamo solo turisti e, a un certo punto, con lo sguardo sgranato, mi disse di andare in camera e di chiudermi a chiave. Furono attimi concitati. Li sentii discutere. Il mio ragazzo gli diceva: “Domattina andiamo via”. Poi il silenzio e infine una fragorosa risata. “Jamaica, no problem. It’s a joke my friend”, urlò l’autoctono. Uno scherzo. Un inaspettato scherzo di giamaicano burlone.

Pene finto e urina dei figli: così Tyson sperava di eludere l’antidoping

L’ex campione dei pesi massimi, Myke Tyson, torna a far discutere di sé. In una recente intervista rilasciata al media statunitense Espn, ha raccontato di aver cercato di eludere i controlli antidoping utilizzando un pene finto con l’urina dei suoi figli. Avrebbe voluto usare anche l’urina di sua moglie, ma c’era il rischio di risultare in stato interessante. “Poi risulta che sei incinto”, gli ha risposto la consorte.

Qualche giorno fa a risultare “incinto” è stato il noto playmaker americano DJ Cooper squalificato per 24 mesi, perchè ha scambiato le provette per il test antidoping utilizzando quella di una sua amica in gravidanza. Ma Tyson è ricorso a un altro escamotage ancora: “Ho pensato – ha detto – che sarebbe stato meglio prendere quella dei miei figli. Come facevo? Usavo un pene finto. La maggior parte degli uomini si sente a disagio quando mostri il pene, quindi si voltavano sempre e io potevo ricorrere a questo trucco”.

Uno stratagemma piuttosto diffuso tra gli atleti. Nel 2013 anche in Italia il mezzofondista dell’Areonautica Militare Devis Licciardi fu squalificato dopo essersi presentato a un controllo antidoping con un pene finto ripieno di urina “pulita”. Il kit è facilmente reperibile sul web e Tyson lo già nel 2013 aveva riferito di averlo utilizzato.

I cavolfiori del male: riapre il ristorante di Baudelaire e soci

Dopo aver composto le sue Gymnopédies (1888), l’eclettico musicista Erik Satié andò a festeggiare con gli amici Stéphane Mallarmé e Paul Verlaine alla Maison de plaisirs Lapérouse, il locale più libidinoso, festaiolo e à la page della Belle Époque. Alla sera, a Parigi, si andava tutti lì. Tanto era rinomato il suo indirizzo – il 51 di Quai des Grands Augustins – che dandovisi appuntamento, si proferiva solo “al 51”, lasciando sottinteso il resto. Oggi, dopo un minuzioso lavoro di restauro e un cospicuo investimento da parte del re delle soirées parigine Benjamin Patou, riapre le sue porte.

Ridecorato dall’architetto d’interni Laura Gonzales, al bar e soprattutto ai celebri salotti – dove signorotti e politici si appartavano con le giovani cocotte, cui facevano dono di diamanti in cambio di qualche mezz’ora d’amore – è stato restituito tutto il fascino del tempo con una tappezzeria scarlatta; mentre Cordelia de Castellane, direttore creativo di Dior, ha curato il decor della tavola.

Celebre per essere il centro d’attrazione della Parigi di quel tempo, in realtà il locale nasce un secolo prima, nel 1766, quando Monsieur Lefèvre, un commerciante di bevande alla corte di Luigi XV, acquista l’immobile per farne una locanda. Tale fu la qualità della cantina e dei (allora pochi) piatti serviti, che in breve tempo la concorrenza venne sbaragliata e Lefèvre si persuase ad affittare agli ospiti di passaggio le stanze del primo piano: nascono così i famosi salottini segreti.

Ma nella seconda metà dell’Ottocento, mentre Pierre-Auguste Renoir finisce di dipingere Bal au Moulin de la Galette – manifesto di quella nuova socialità pubblica che sta nascendo grazie all’istituzione della domenica come giorno libero –, e viene inventato il primo frigorifero della storia, il locale parigino passa nelle mani di Jules Lapérouse, che ha un’idea ben precisa: cucina eccellente, servizio irreprensibile, arredo prestigioso. Per tutte queste caratteristiche diventerà il simbolo di quella decadenza bohémienne da Rive Gauche: un luogo di culto. Le cronache mondane danno tra i clienti più affezionati il poeta della modernità Charles Baudelaire, e poi ancora Victor Hugo, Émile Zola, Guy de Maupassant, Gustave Flaubert, George Sand.

Anche oggi la cucina punta a tornare all’eccellenza: il nuovo chef Jean-Pierre Vigato mira a riconquistare le tre stelle Michelin (che Lapérouse aveva ottenuto durante il trentennio 1933-1969) con piatti nobili e tradizionali quali la charlotte di patate di Noirmoutier con caviale o il gigot di angello da latte. Piatti di punta, storici del ristorante, sulla cui altissima qualità, negli anni ’30, si era espressa anche la grande Colette, nota per essere pure una golosa.

La scrittrice era una habituée: su quei tavolini ha infatti capitolato il romanzo La gatta (1933). Accanto a lei, sedevano l’amico Jean Cocteau che abbozzava disegni su fogli e foglietti, e ancora Marcel Proust che auscultava la mondanità poi raccontata nella sua Recherche. Ma si potevano incontrare anche Ernest Hemingway intento a sbronzarsi, o Wiston Churchill di fronte a un whisky. A renderlo irresistibile erano i salottini (oggi ovviamente tornati a splendere) dove desinare in completa privacy e dove si racconta che Serge Gainsbourg abbia invitato la bellissima Jane Birkin per il loro primo appuntamento.

Ultimo capodanno a Berlino: il muro è ormai un souvenir

A fine dicembre del 1989 partimmo con la sua Peugeot 205 e un enorme plaid da mettere sulle gambe. In macchina si era rotto il riscaldamento. Non importava, ci amavamo. Un viaggio per andare a vedere quel muro di Berlino che stava cominciando a venire giù a picconate. Al telegiornale mostravano immagini che sembravano un concerto. Tutta una dissonanza, ma bella. Nei ferramenta scarseggiavano i martelli. “E se arriviamo a Berlino e non ne troviamo nemmeno uno? Io ne porto un paio” disse il mio fidanzato. Feci di sì con la testa e pensai a quel muro immacolato da un lato e dipinto, colorato, imbrattato, urlato, dall’altro. E adesso quella storia finiva. Frontiere aperte. Nel 1990 la città diventava una sola. Ma il confine sarebbe rimasto ancora un po’, non bastava buttare giù un muro.

La prima tappa la facemmo a Monaco. Mangiammo malissimo in un ristorante tedesco. Quando uscimmo andammo nella piazza che ancora oggi chiamo dei carillons perché a un certo punto, da un grande palazzo, delle statue uscivano fuori dalle loro nicchie come finti uccelli di orologi a cucù, si facevano un giretto con tanto di musichina e poi rientravano nella loro cripta. Poco più avanti, vedemmo un signore anziano, elegante, che sbraitava ubriaco mentre orinava contro un muro. Non riuscì a farla tutta e si riabbottonò la patta per rimanere lì, in piedi, a formare una pozza in terra.

Il giorno dopo, in albergo, consumammo un pasto a base di salsicce e uova con un sottofondo musicale: Volare. Cantata da Domenico Modugno.

– Dici che l’hanno messa perché sanno che siamo italiani? – mi chiese lui.

– Ma figurati.

Arrivammo a Berlino che era l’ora di cena. C’erano otto gradi sotto zero e non avevamo prenotato nemmeno una pensione. Io gliel’avevo detto, ma lui era un ottimista. “Troveremo”, non aveva fatto che ripetermi. E in effetti trovammo. Una specie di casetta delle bambole, con una signora florida, tutta vestita di rosa che aggiungeva addobbi. Metteva maialini di plastica dappertutto. Era il simbolo della fortuna per il nuovo anno, ci disse in un inglese molto sillabato. Ci mostrò una camera tutta in tulle rosa. Ci venne da ridere. Anche la signora lo fece, era contenta che ci piacesse. C’era solo un problema. Potevamo avere quella stanza per tre giorni, ma la notte di capodanno dovevamo rientrare dopo le quattro. Non avevamo scelta. Del resto, non ce ne importava molto, la notte di capodanno avremmo fatto tardi. Pensai che per ogni evenienza era meglio lasciare quel plaid in macchina. Andammo a cenare in un ristorante greco e poi ci avviammo verso il muro con i nostri martelli e una busta di plastica. Il cimelio. La reliquia. L’idea di farne incetta. Ogni tanto ci fermavamo a un baracchino con la scritta Inbis a bere un liquore caldo. E martellavamo con i guanti. La città era tutta uno sbattere. Un mezzo matto salì sul davanzale della sua finestra. Doveva essere ubriaco, o forse impazzito da poco perché aveva una pistola in mano e ce la puntò contro. Arretrammo spaventati. Quell’uomo non ce la faceva più con tutto quel rumore, non riusciva a dormire. Andammo a chiamare un poliziotto, ma non riuscimmo a spiegarci. Riprendemmo a martellare da un’altra parte. Ci voleva forza, quel muro era tenace. E ci voleva una tecnica, non era un lavoro che si poteva fare brutalmente. Se battevi e basta spaccavi e venivano via pezzi piccolissimi. Il martello non bastava. Ci voleva anche un puntello perché il colpo andava dato lateralmente. Allora sì che venivano via dei bei pezzi interi. I più bravi erano quelli che riuscivano a portarne via dei pannelli veri e propri. Poco più in là, sentimmo dire in italiano: “Questo, quando torno a casa me lo faccio incorniciare”. Ci spostammo verso quella voce. Erano un ragazzo e una ragazza del Nord e avevano già un bottino che ci mostrarono con orgoglio. “E voi?” Noi avevamo appena cominciato, non avevamo molto da mostrare. In realtà avevamo già qualche pezzullo, ma ridicolo in confronto a loro. Noi eravamo inesperti e impazienti. Facemmo però amicizia e decidemmo di trascorrere il capodanno con loro. Avremmo cenato da un greco, magari un po’ tardi per poi aspettare la mezzanotte con un paio di bottiglie di spumante in mano lungo l’Unter den Linden. Faceva un freddo terribile, almeno per me. Per strada saltellavo e mi tornò in mente una ragazza nel film Il cielo sopra Berlino che faceva come me scendendo e salendo da un marciapiede.

Cenammo con quell’unione che solo può esserci tra sconosciuti che vengono dallo stesso Paese in terra straniera. E poi ci mettemmo a camminare, a bere, e il viale Unter den Linden si riempì di gente. In molti salirono pericolosamente sulla porta di Brandeburgo. Se ne stavano appollaiati lassù, ubriachi. Anche un po’ spaventosi. A mezzanotte eravamo tutti stipati lì. Enormi ragazzi cercarono di baciarmi. Riuscii a sfuggirli. Il mio fidanzato si metteva davanti a me e poi scivolavamo via. Tutta quella folla, tutte quelle ambulanze che arrivavano una dietro l’altra per portare via i feriti, gli svenuti, quelli che erano crollati dall’alcol, tolse molto al fascino di quel momento. Alle tre del mattino decidemmo di tornare in albergo anche se era ancora presto. Trovammo tutte le nostre cose all’ingresso. La signora ci disse che c’era tutto e in meno di un’ora potevamo tornare in camera nostra. “Perché, chi c’è?” chiesi infastidita. E lei, continuando a preparare la sala della colazione, mi rispose che c’erano i clienti. Era dunque un bordello tedesco. La signora sorrise. “Cerchiamo come possiamo di guadagnare qualcosa. Del resto, quando siete arrivati, avreste trovato ben poco.” Ci guardammo. Ci venne anche un po’ da ridere. Il mio fidanzato, che non parlava nessuna lingua, a gesti le chiese se ci cambiava le lenzuola. Lei le andò a prenderle e ce le diede. Partimmo il giorno dopo, verso le due del pomeriggio. Decidemmo di fare tutta una tirata fino a Roma.

I reperti di quel leggendario muro della libertà andarono perduti in un trasloco. Sono convinta che me li rubarono.

Il califfo al Baghdadi passa il testimone a Abdullah Qardash

Passaggio di testimone alla guida dello Stato Islamico. Al Baghdadi ha annunciato tramite l’agenzia di propaganda Amaq di farsi da parte e di aver designato come suo erede Abdullah Qardash. La motivazione potrebbe essere la paralisi che lo ha colto dopo le ferite alla colonna riportate durante un bombardamento in Siria e sarebbe il segno che le sue condizioni fisiche potrebbero essersi ulteriormente aggravate. “Il califfo e combattente Abu Bakr al Baghdadi – si legge nella nota – ha nominato il combattente Abdullah Qardash per occuparsi dei musulmani all’interno dello Stato islamico”. Ruolo ormai impossibile da ricoprire per il Califfo, in base alle notizie che lo davano per gravemente ferito secondo quanto riferito da Abu Ali al Basri, il fondatore del gruppo terroristico, infatti, a Hajin, in Siria, non lontano dal confine iracheno, durante un bombardamento. Di Qardash, iraqueno turkmeno, in realtà non si conosce molto, se non che sarebbe originario di Tal Afar vicino a Mosul e che finora ha servito l’Is occupandosi degli affari di sicurezza dello sedicente Stato. Simile ad Al Baghdadi, Qardash era stato arrestato in Iraq dalle forze statunitensi, che avevano rovesciato Saddam Hussein nel 2003, inaugurando l’ascesa politica della maggioranza sciita del paese. Tra gli interrogativi certamente il più importante resta quello sul luogo in cui si rifugia al Baghdadi, l’uomo più ricercato al mondo, più volte già dato per morto o gravemente ferito. Le ultime notizie le ha date lui stesso al mondo intero ricomparendo ad aprile scorso in un video di 18 minuti per la prima volta dopo il sermone nella Grande Moschea di Mosul del 2014. “L’Isis ha lancciato una guerra di logoramento ordinata da Dio”, aveva annunciato nella sua apparizione, dalla quale non si era potuto accertare il suo stato di salute.

Latinos criminali? Ma con le armi degli Usa

Riprende lo scambio di accuse e di azioni punitive tra Messico e Stati Uniti dopo la tregua promossa dalla decisione presa, obtorto collo, dal presidente Manuel Lopez Obrador di accogliere la richiesta dell’amministrazione Trump di sbarrare il passaggio del confine comune ai migranti. Amlo (il soprannome di Obrador) ha dovuto accettare di imporre alle proprie forze dell’ordine di aumentare il blocco dei migranti in cambio del blocco dei dazi sui prodotti messicani venduti negli Usa. Ma dopo la maxi-retata di due giorni fa di ben 680 lavoratori, quasi tutti ispanici, realizzata dagli agenti dell’agenzia federale americana per il contrasto all’immigrazione clandestina nello Stato del Mississippi e l’assassinio di otto cittadini messicani nella recente strage di El Paso, Obrador ha sferrato la contromossa.

Il ministero degli Esteri ha infatti denunciato che oltre il 70 per cento delle armi sequestrate in Messico dal 1 dicembre 2018 – data di insediamento di Amlo – è di provenienza o fabbricazione statunitense. In Messico, dal giorno in cui Amlo è diventato capo dello Stato, sono state sequestrate 1.294 armi da fuoco, 3.353 caricatori, 156.610 cartucce, 41 granate e due lanciagranate. Il ministero della Sicurezza pubblica ha rivendicato “che il controllo delle armi è uno dei temi prioritari dello stato messicano” e ha annunciato la partecipazione “coordinata” di controllo presso la maggior parte dei passaggi di frontiera. Un piano sul quale Città del Messico aveva chiesto a metà luglio il coinvolgimento delle autorità statunitensi. “Abbiamo chiesto di organizzare una cooperazione effettiva perchè passare con armi dagli Stati Uniti al Messico è illegale”, ha detto il ministro degli Esteri messicano, Marcelo Ebrard, al segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. Il paese latino, ha segnalato Ebrard, ha registrato negli ultimi tempi un aumento del 122 per cento delle armi d’assalto e del 9 per cento delle armi di piccolo calibro e dei fucili. I dati sul traffico di armi assumono particolare rilevanza nei giorni in cui si commemorano le vittime delle due diverse sparatorie negli Usa. Il presidente Lopez Obrador ha chiesto una riflessione seria sull’uso “indiscriminato di armi” negli Usa. In settimana il ministro Ebrard ha consegnato al Procuratore generale del paese, Alejandro Gertz Manero, la documentazione sull’episodio, perché si valutino eventuali “azioni giuridiche da intraprendere”. “Tanto il ministro Ebrard quanto il procuratore generale Gertz Manero condividono il fatto che l’attentato di El Paso è un atto equiparabile al terrorismo contro cittadini messicani all’estero”. L’iniziativa permetterà al Messico di avere accesso alle indagini. Ebrard nel frattempo ha detto di aver chiesto “corresponsabilità” al vicino del nord, chiamato a “intervenire” ottenendo dal suo omologo Pompeo un certo “interesse a contribuire”. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo, questa volta, il muro.

Brasile, sì alla libertà di stampa. Niente indagini per Greenwald

Il Brasile di Luis Inacio Lula da Silva continua a fare i conti, politici e giudiziari, con il suo passato. Ma il Brasile di Jair Messias Bolsonaro deve fare i conti con il proprio presente e, dai punti di vista della tutela della democrazia e del rispetto dei diritti fondamentali, fanno molta più fatica a tornare. Le cronache di questi giorni sono un intreccio di informazioni contraddittorie: ne emerge il sospetto che la giustizia sia stata pilotata contro Lula, presidente per due mandati dal 2003 al 2011 e ora detenuto in carcere (sconta una condanna per corruzione a 12 anni, che gli ha impedito di candidarsi alle presidenziali dello scorso anno e di vincerle), e che sia ora pilotata per proteggere il suo grande accusatore, il giudice Sergio Moro, ora ministro della Giustizia.

Ieri, però, il presidente della Corte suprema brasiliana, Gilmar Mendes, ha vietato indagini, da parte di organi investigativi o amministrativi, avviate per verificare come il giornalista Glenn Greenwald abbia ottenuto documenti attribuiti ad autorità pubbliche e divulgati dal sito The Intercept Brazil. Mendes ha così accolto una istanza del partito Rede Sustentabilidade, secondo cui le indagini contro il giornalista, che avrebbero già condotto all’arresto di hacker, lederebbero la libertà di stampa.

La decisione, di cui dà conto O Globo, mira a proteggere la riservatezza della fonte giornalistica, garantita dalla Costituzione. Il sito di Greenwald pubblica da settimane i contenuti di conversazioni tra i pm dell’inchiesta Lava Jato, la madre delle indagini per corruzione in Brasile, e l’allora giudice di primo grado Sergio Moro. I testi suggeriscono una parzialità di Moro nei procedimenti giudiziari e nelle sentenze emesse contro l’ex presidente Lula. Ma per Bolsonaro, che non esista a interferire nelle inchieste con le sue dichiarazioni, il giornalista è un fuorilegge. E i sondaggi dicono che Moro e il presidente vedono la loro popolarità salire: un po’ quel che avviene in Italia, dove la tracotanza premia.

La decisione della Corte suprema sul “caso Greenwald”, ma è forse meglio dire sul “caso Moro”, coincide con quella di un tribunale federale che ha sospeso il trasferimento dell’ex presidente Lula dal carcere di Curitiba a un carcere dello Stato di San Paolo. L’ordine, dato mercoledì da un giudice dello Stato del Paranà, stabiliva che Lula lasciasse la cella speciale del commissariato di Curitiba per trascorrere i suoi otto anni e dieci mesi restanti di detenzione in una prigione di Tremembé, circa 150 chilometri da San Paolo. Lì, sono rinchiusi noti criminali, molti dei quali con i loro reati hanno scosso l’opinione pubblica del Paese. L’ex giudice e attuale ministro Moro, il grande accusatore dell’ex presidente ed ex sindacalista, respinge le accuse di avere manipolato l’inchiesta giudiziaria. Ma intanto il presidente Bolsonaro deve fare fronte alle critiche interne anche sul fronte ambientalista. L’ex candidata alla presidenza Marina Silva, la principale leader verde brasiliana, l’accusa di manipolare i dati sulla deforestazione dell’Amazzonia e denuncia “il grave problema del disboscamento illegale e della corruzione che comporta l’appropriazione di terre pubbliche”. La Silva è stata ministro dell’Ambiente quando Lula era presidente ed è una strenua paladina della conservazione dell’Amazzonia, dove è nata e dove lavorò come “seringueira”, cioè come estrattore di gomma dal caucciù. La deforestazione dell’Amazzonia è uno dei capitoli “criminali” del programma con cui Bolsonaro ha vinto le elezioni. Il fenomeno è evidente dalle osservazioni satellitari: ogni minuto si spazza via l’equivalente di un campo di calcio. Nella prima metà di luglio sono stati cancellati oltre mille chilometri, il 70% in più della superficie distrutta lo scorso anno nell’intero mese. Bolsonaro persegue “l’obiettivo di trasformare il bacino amazzonico da polmone verde del mondo a hub produttivo”.

Stato di allerta per l’uccisione di un soldato israeliano

Le forze di sicurezza israeliane hanno aperto una vera caccia all’uomo dopo l’uccisione del 19enne Dvir Sorek, soldato israeliano ucciso in Cisgiordania, vicino alla colonia ebraica di Migdal Oz, tra Betlemme ed Hebron e ritrovato disarmato e senza uniforme. Nella zona – occupata dal 1967 da Israele e ricorrente teatro di scontri fra palestinesi e forze israeliane – sono stati inviati rinforzi dell’esercito per tentare di ricostruire i fatti e individuare i sospettati casa per casa.

L’uccisione non è stata rivendicata da Hamas che ha parlato di “risposta forte all’idea di annessione della Cisgiordania occupata” che dimostra “il fallimento di Israele nell’ostacolare la nostra resistenza”. Mentre la Jihad islamica palestinese ha esultato definendo l’omicidio del soldato “un atto eroico che manda un segnale importante”. “Cattureremo il bieco terrorista”, ha fatto sapere il premier Benjamin Netanhyau, a cui ha fatto eco Benny Gantz, ex capo di Stato Maggiore israeliano ora alla guida del partito Blu e Bianco che ha rilanciato: “Le forze di sicurezza metteranno le mani su questi spregevoli assassini, vivi o morti”.

Solo un paio di giorni fa Israele aveva annunciato di aver neutralizzato un attentato programmato a Gerusalemme da una cellula di membri di Hamas attiva a Hebron, in Cisgiordania, che agiva sulla base di istruzioni provenienti da Gaza.

Secondo lo Shin Bet, Hamas aveva ordinato ai membri della cellula di colpire non solo obiettivi israeliani, ma anche di agire contro l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen.