Test (nucleari) mal riusciti nell’ex città chiusa dell’Urss

Letali e susseguenti detonazioni alle nove del mattino di ieri. Un improvviso picco dei livelli radioattivi dopo l’esplosione registrata nella regione di Archangelsk. E poi due morti. Sono le prime notizie che arrivano in fila a Mosca dal siderale e lontanissimo Artico russo e nucleare. Sono informazioni che giungono da nord, dalla città culla dei gloriosi sottomarini sovietici, tradizionale banco di prova di segreti test balistici: i cantieri navali di Severodvisk.

Il poligono della Marina russa è andato a fuoco, come sta facendo in queste settimane la Siberia per gli incendi che divorano le sue foreste e che il governo ha fallito nel domare. Nel villaggio di Nenoksa, distretto di Severodvisk, nei pressi di Archangelsk, nella zona militare dove la Marina russa conduceva dei test su un motore a combustibile liquido, “è avvenuta un’esplosione e le attrezzature hanno preso fuoco”, si legge nella versione ufficiale del ministero della Difesa russo. Sei sono i feriti, due gli esperti specialisti morti e senza nome, dice il Cremlino. Lo vzryv, l’esplosione è avvenuta invece su una chiatta del poligono dicono i media, oppure su una nave, riporta ancora il giornale Baza.

L’aumento dei livelli radioattivi a Severodvisk, – centro abitato da 185mila nel profondo nord slavo, dicono i dati ufficiali –, è stato riferito prima di tutti dalla Tass, l’agenzia di notizie statale in contatto con le autorità municipali, che insieme agli altri media governativi, ha dato notizia di un’esplosione avvenuta in mare. Le fonti militari invece confermano che sia avvenuta a terra. Per la Tass sono quattro i feriti, per l’agenzia Interfax sei, per un’altra agenzia di Stato, Ria Novosti, i feriti arrivano a 15. Le ore scorrono, le cifre cambiano, i picchi aumentano. “Un temporaneo aumento delle radiazioni è stato registrato a mezzogiorno a Severodvinsk” ha detto la portavoce delle autorità cittadine, Ksenia Yudina, ma ora tutto è v norme, “tutto è rientrato nella norma”. Eppure gli avvisi ufficiali dell’amministrazione dei porti marittimi dell’Artico occidentale ora per ordine del ministero della Difesa avvertono che nel Mar Bianco, per un mese, verrà vietata la navigazione libera, ha detto il vice capitano del porto marittimo di Archangelsk, Serghey Kozub.

Guardando titoli e notiziari alla tv, Andrey Beresy, meno di 50 anni, in visita da sua figlia a Mosca, boccheggia. Lavora a due giorni di treno dalla Capitale, nello stabilimento Gazprom a Iamal, un centro abitato solo dagli operai specializzati delle multinazionali russe nello sconfinato territorio artico della Federazione. “Sarà difficile avere notizie da Severodvisk, è una città segreta, un mio amico ha prestato servizio nella flotta stanziata lì e non ci ha mai raccontato cosa succedeva davvero, nemmeno davanti a una birra”.

Andrey dice che Severodvisk è una zato, acronimo per le “città chiuse” d’eredità sovietica, con accesso ristretto per gli stessi residenti, e assolutamente vietate agli stranieri. Tra gli Urali e la Siberia le città fantasma sulla mappa dei sovietici erano decine e alcune sono rimaste tali dopo il crollo dell’Unione Sovietica, altre città sono state “aperte” dopo il 1992, come Tomsk. Incidenti ed errori: l’esercito e il governo russo in questa estate rovente di proteste elettorali continuano a inanellarli. Questo è il secondo lutto della settimana tra le divise, dopo l’esplosione avvenuta in una base militare siberiana la settimana scorsa. Bilancio: un morto e 16mila persone costrette ad abbandonare le loro case.

Intanto il simbolo delle radiazioni, giallo e nero, continua a lampeggiare sulla copertina del giornale Severnaya Nedelja, la settimana del nord. Radiazii v norme, le radiazioni sono rientrate nella norma. “Dalle 14 i sensori non superano il picco di 0,11 microsivert” assicura dall’Artico il capo della protezione Valentin Magomedov, ma nei commenti alla sua dichiarazione gli utenti chiedono tre cose: prove, perché si conducevano esperimenti nucleari nei pressi di un centro abitato da migliaia di persone e ancora prove.

Saccomanni, la carriera incompiuta di un tecnico

Fabrizio Saccomanni è morto all’improvviso, a 76 anni. Chi lo ha conosciuto ricorda ora il suo carattere solare, la simpatia romanesca che declinava anche in versi, l’apparente leggerezza con cui affrontava incarichi gravosi. I siti web gli attribuiscono come qualifica “presidente di Unicredit”, perché questo era l’incarico che ricopriva da un anno. Eppure Saccomanni aveva passato la carriera dall’altra parte, dal lato dei vigilanti, non dei vigilati. Una carriera tutta in Banca d’Italia, fino al secondo gradino più alto, quello di direttore generale. Saccomanni era sicuro di raggiungere anche l’ultima tappa, quella di governatore. Ma è rimasto stritolato in una partita di potere: nel 2011 era l’erede naturale di Mario Draghi, in procinto di passare alla Bce. Ma per la poltrona correva anche Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro che vantava (o millantava) il sostegno del grande nemico di Draghi, l’allora ministro Giulio Tremonti. E c’era pure Lorenzo Bini Smaghi, di ritorno da Francoforte. I veti incrociati produssero la nomina di Ignazio Visco. Gli ultimi anni di Saccomanni sono stati un lungo e insoddisfacente risarcimento: direttore generale onorario di via Nazionale, poi ministro dell’Economia nel governo Letta e, infine, membro del cda di Unicredit al posto di uno dei simboli del potere bancario più vischioso, Fabrizio Palenzona. E poi presidente, succeduto all’ottuagenario Giuseppe Vita.

Fuori da Bankitalia la giovialità di Saccomanni è stata messa a dura prova. Si è trovato bersaglio del rimpallo di responsabilità sull’adozione disinvolta da parte dell’Italia delle nuove regole sui fallimenti bancari, quelle che hanno bruciato azioni e obbligazioni subordinate nel 2015 per Banca Etruria e gli altri tre istituti collassati. Nel 2017 lo stesso Ignazio Visco attribuisce al governo di cui Saccomanni faceva parte la colpa di aver gestito male la trattativa poi l’attuale titolare del Tesoro Giovanni Tria racconta in Parlamento che “Saccomanni fu praticamente ricattato dal ministro delle Finanze tedesco”, il quale disse che se l’Italia non avesse accettato “si sarebbe diffusa la notizia che il nostro sistema bancario era prossimo al fallimento”. Chissà se la prematura scomparsa renderà più facile usarlo come capro espiatorio di responsabilità collettive o prevarrà un po’ di ritegno.

Metti che il popolo bue comandi e Matteo sia l’agnellino

E se? E se Matteo Salvini non stesse trasformando gli italiani a sua immagine a colpi di tweet, ma inseguisse lui la maggioranza degli italiani? Se alla maggioranza del famoso popolo piacesse davvero fare selfie mandando baci e mangiando Nutella, sognasse di stare sulla spiaggia a torso nudo con le cubiste, vagheggiasse un giro sulla moto d’acqua della polizia (dove la cosa imbarazzante non è la polizia, ma la moto d’acqua) e non disdegnasse di tenere la pistola sotto il cuscino? Se la flat tax, in attesa che diventi legge, se la praticasse già in versione fai-da-te? Se non ne potesse più di vedere migranti abbandonati all’accattonaggio e alla disperazione?

E se fosse proprio questo il gap antropologico tra S. e B.? Come vaticinato da Pasolini in tempi non sospetti (ma esistono tempi non sospetti?), Berlusconi ha veramente omologato il paese attraverso il controllo dei media. In Italia fino agli anni Settanta esistevano una letteratura, un cinema, una musica, una politica; da trent’anni tutto passa dalla Tv e dalla rete, la sua serva padrona. E i radical-chic non rompano; la videocrazia se ne frega delle ideologie, non fa prigionieri, fa solo Vip. E se S., come già R., fosse il figlio anagrafico e l’erede sottoculturale di questa italietta da talk-show? Se non fosse l’Uomo Forte, ma l’eterno Uomo Furbo al passo coi tempi? E se l’Uomo Furbo non desse ordini al popolo bue, ma prendesse lezioni? E se illudersi del contrario significasse scavarsi la fossa?

Salute mentale, l’inferno accanto

Esiste una scuola di pensiero, circa i diritti, secondo cui essi sarebbero a somma zero. Un diritto ne annullerebbe un altro, in uno scontro darwiniano tra corpi sociali, fazioni, portatori di interessi diversi.

Guardiamo, ancora una volta, alla nostra Costituzione: diritto alla dignità sociale (art. 3), diritto al lavoro (art. 4), diritto alla salute (art. 32). Ma la Costituzione parla anche di doveri: per i membri della comunità, doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale (art. 2), per la Repubblica, il compito di rimuovere gli ostacoli di natura economica e sociale che limitando la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona. Solo la cattiva attuazione di un diritto può ledere altri diritti. Con la legge 180 del 1978 l’Italia ha chiuso i manicomi, ponendo fine a una logica segregativa e compiendo un passo in avanti verso una maggiore tutela delle libertà individuali. Nei fatti, questo progetto si è tradotto nel totale abbandono dei malati psichiatrici più gravi e delle loro famiglie. La logica che sottende l’intervento del pubblico, si basa su alcuni falsi assunti: il primo, che ogni ammalato, consapevole della propria malattia, possa chiedere le cure di cui necessita. Il secondo, che gli ammalati incapaci di provvedere al proprio quotidiano, possano demandare a qualcuno l’assistenza di cui necessitano, dal lavoro di cura alla relazione terapeutica. Se questi assunti fossero veri, ogni ammalato godrebbe del diritto ad essere curato a prescindere dal suo reddito e dalla sua famiglia d’origine. Così non è.

Gli ammalati più gravi, spesso, non sono consapevoli della propria malattia e finiscono per isolarsi in un mondo fatto di voci, deliri, solitudine. Se un ammalato non si reca autonomamente presso il Centro di salute mentale denunciando una condizione di malessere, non può essere “obbligato” a intraprendere alcun percorso di cura. È l’emergenza – un’azione eclatante, un tentato suicidio, un’aggressione nei confronti di terzi – ad obbligare la sanità pubblica ad aprire una cartella medica. Quando interviene il TSO – il trattamento sanitario obbligatorio – spesso la relazione con il mondo è spezzata da tempo. Nei reparti di TSO si mira a “compensare” farmacologicamente il paziente rispedendolo, nel giro di pochissimo, presso il centro territoriale. Qui, specialmente al Sud, non si prova a elaborare un progetto di intervento riabilitativo nemmeno per i pazienti più giovani, demandando alla famiglia del paziente – qualora essa esista – l’intera gestione della terapia, del quotidiano e di ogni altro aspetto relativo alla cura. Al di là di alcune eccellenze – prevalentemente al Nord, come a Trieste e Modena – l’intervento del servizio pubblico di salute mentale si limita alla prescrizione cartacea della terapia, senza verificare che essa venga assunta dal paziente, senza analizzare ecologicamente il paziente nelle sue relazioni concrete, senza predisporre una terapia familiare, senza prevedere alcun percorso. Così incomincia un gioco dell’oca in cui si riparte ogni volta dal via: crisi, emergenza, TSO, prescrizione farmacologica, assenza di assistenza e di un progetto riabilitativo, crisi, emergenza, TSO. Eppure tra i compiti di un Dipartimento di salute mentale (DSM), come quello di Napoli ad esempio, sono previste attività di “prevenzione, diagnosi e cura del disagio e del disturbo psichico per la popolazione, con particolare attenzione ai disturbi gravi”. Nei fatti, non solo non si cura il paziente, ma l’abbandono del pubblico contribuisce ad aggravare o a far ammalare l’intero nucleo familiare. Le stesse case si trasformano in piccoli manicomi privati in cui le famiglie vivono segregate col proprio ammalato, spesso ammalandosi a loro volta. L’assoluta insufficienza della presa in carico, soprattutto al Sud, è possibile grazie alla presenza di caregiver, un anglicismo che nasconde eufemisticamente una scomoda verità: se in una famiglia non ci sono le disponibilità economiche per assumere un badante a tempo pieno e pagare percorsi di psicoterapia e riabilitazione privati, è necessario che qualcuno si sacrifichi per svolgere questo ruolo. Questo qualcuno il più delle volte è una donna: una madre, una sorella, una moglie. Una ricerca condotta dall’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna afferma candidamente che “la storia” ha assegnato alle donne questo ruolo. Spingere le famiglie a chiudersi nel manicomio domestico insieme al proprio ammalato non rompe la logica manicomiale, ma la estende all’intero nucleo familiare coinvolto. E chi non ha famiglia, o chi non ha una famiglia in grado di provvedere alle cure? La risposta è per strada: la maggior parte dei senza tetto sono persone sole, affette da patologie psichiatriche.

Oggi circola una petizione per la riapertura dei manicomi. Questa atroce richiesta mostra il fallimento del sistema di assistenza psichiatrica sul territorio. Perché non si torni alla barbarie del manicomio, perché i malati non siano abbandonati per le strade o nei loro inferni manicomiali domestici è necessario un investimento del pubblico in grado di garantire il diritto alla salute del singolo e al contempo il diritto delle famiglie a una vita dignitosa. Il paziente deve essere visto come soggetto di cura, non come pericolo sociale da contenere. Non basta limitare – male – il danno sociale, agendo perennemente in una prospettiva emergenziale e manicomiale: occorre farsi carico con serietà del diritto alla salute di tutte le cittadine e i cittadini che vivono in Italia.

Gli ammalati psichiatrici hanno diritto alla salute? I loro familiari hanno diritto a vivere dignitosamente la propria vita? Occorre una risposta e subito. A Napoli mancano anche i servizi più essenziali. Per questo una prima piattaforma di richieste non può non andare dalla pretesa di alcuni servizi basilari, a un ripensamento profondo del paradigma della cura.

Per alleviare nell’immediato il carico di dolore di coloro che patiscono una grave sofferenza psichiatrica e i loro familiari occorrerebbe:

1) reale presa in carico di equipe (medici, psichiatri, psicologi, infermieri, educatori professionali, terapisti della riabilitazione e assistenti sociali), che valuti in modo multidisciplinare i casi più gravi, come pure è già previsto – sebbene, al momento, in linea del tutto teorica;

– valutazione da parte della ASL di terapie intensive per le psicosi;

– inserimento in comunità riabilitative ad alta intensità per i giovani e i giovani adulti;

– terapie mirate a curare il contesto di relazioni affettive del malato;

– percorso di educazione e supporto per le famiglie;

– coinvolgimento dei familiari e delle associazioni nelle attività dei Dipartimenti di salute mentale

2) potenziamento dei centri diurni, provvisti di mensa, che garantiscano a ogni famiglia di poter accogliere dalle ore 8.00 alle ore 18.00 i pazienti in condizione di non autonomia, prevedendo attività e percorsi riabilitativi che scandiscano i ritmi della giornata;

– creazione di centri pre-crisi in ogni UOSM e in ogni DSM h24;

– creazione in ogni UOSM di piccoli gruppi appartamento (massimo 5 posti) per persone non in grado di vivere da sole;

– rispetto del numero dei posti letto in SPDC previsti dalla legge (1 ogni 10.000 abitanti);

– installazione di videocamere per ogni posto letto psichiatrico, sia nelle SIR sia nella SPDC, così da controllare che le operazioni di contenzione per i casi più gravi non violino i limiti stabiliti;

– possibilità di controllo delle condizioni in cui sono gestiti i ricoveri psichiatrici da parte di associazioni per il diritto alla salute mentale.

Ma rompere adesso (anche i cabasisi) può portargli jella

Il mese di agosto è tradizionalmente dedicato dagli italiani al riposo. Perché Matteo Salvini abbia voluto sfrantumare i cabasisi dei suoi concittadini con una crisi di governo sotto l’ombrellone è dunque un mistero. È vero che l’appetito vien mangiando. Che i sondaggi, al pari dei mojito del Papetee di Milano Marittima, possono dare alla testa. E che quando non c’è amore anche le acrobazie erotiche di un’amante remissiva prima o poi vengono a noia. Ma la storia insegna che non vi è nulla peggio dei generali, o meglio dei capitani, che, infilata una vittoria dopo l’altra, credono di essere invincibili. Perché è quello il momento in cui arriva, inaspettata, la sconfitta.

Per questo sospettiamo che l’idea di Salvini di aprire la crisi di governo mentre buona parte degli italiani sono in ferie possa non portargli bene. La mozione contro il Tav votata dai 5Stelle non è un casus belli epocale. Tra i cittadini se ne è parlato poco, perché poco interessa il traforo sotto la montagna. Molti elettori in queste settimane hanno avuto anzi la netta percezione che Salvini vestisse i panni del lupo che accusava l’agnello sacrificale M5S di intorbidire l’acqua, quando in tutta evidenza il lupo nel ruscello (e non solo) stava sopra con l’agnello sotto.

In ogni democrazia, intendiamoci, le forze parlamentari hanno tutto il diritto di togliere la fiducia a un esecutivo. E se le elezioni e i sondaggi ti danno il doppio dei voti rispetto agli avversari è più che logico che la tentazione di farlo sia fortissima. Non siamo però sicuri che gli italiani siano così felici di andare alle urne ogni anno. Soprattutto se lo si fa per mandare a casa un premier come Giuseppe Conte, estremamente popolare, e un governo che continua ad avere un gradimento altissimo. Il giramento di cabasisi è insomma in agguato. E Salvini farebbe bene a tenerne conto.

Certo, c’è poi la seconda ipotesi. Che il leader della Lega sotto sotto tifi per un governo tecnico. Un esecutivo che si incarichi di approvare la manovra finanziaria d’autunno, prima di portare il Paese alle elezioni in primavera, senza l’approvazione del taglio del numero dei parlamentari. Un governo di questo tipo permetterebbe a Salvini di fare campagna elettorale contro l’Europa, i traditori e i burocrati.

Cosa saggia per i suoi avversari sarebbe quindi tenersene debitamente alla larga. Lo faranno? Lo speriamo. Anche se temiamo che la tentazione di non rinunciare in anticipo a 13 mila euro al mese di stipendio per centinaia di deputati e senatori sarà fortissima. Da questo punto di vista prepariamoci al peggio.

Ma prima ci dovrà essere il giorno della sfiducia. Una giornata in cui il premier, immaginiamo, elencherà puntualmente le cose fatte, compresi i tantissimi sì detti alla Lega. Ricordando magari che un anno e mezzo fa i Cinquestelle e il carroccio firmarono un contratto di governo della durata di cinque anni. Un documento in cui veniva anche messa nero su bianco anche la modalità per risolvere i punti di disaccordo che inevitabilmente sarebbero sorti. Visto come sono andate le cose, da oggi nemmeno il più sfegatato fan della Lega può quindi più sostenere che Salvini sia un uomo di parola. Perché non rispetta non solo quello che dice, ma pure quello che scrive. Un po’ come faceva un’altro Matteo quando su twitter digitava #enricostaisereno. Sappiamo tutti come è finita.

A Salvini consigliamo di toccare ferro.

Noi, assistenti sociali vittime della stampa

Sono un’assistente sociale e lavoro in Emilia Romagna. Come tutti, sono rimasta sinceramente addolorata dalle notizie di Bibbiano; aspetto che il percorso giudiziario definisca i confini effettivi di tutta la storia. Tuttavia, il modo sbagliato con cui parte della stampa e della politica hanno trattato la vicenda quando ancora le notizie erano incerte sta avendo effetti pesanti sul nostro lavoro, rendendolo ancora più difficile. Distruggere la fiducia in un intero sistema partendo da un caso specifico va solo a scapito delle persone più fragili, che nei servizi trovano l’ultimo baluardo di tutela.

Noi assistenti sociali facciamo un lavoro di frontiera: tutto quello che la società rimuove, che “scarta”, le sofferenze prodotte da un sistema basato sul culto sfrenato del sé e sulla ricerca ossessiva del profitto si scaricano sui servizi sociali. Nessuno racconta l’impatto umano di tutto questo sui lavoratori: il dolore, il limite, il senso di impotenza, la fatica. Ci assumiamo responsabilità pesanti, di cui portiamo il peso anche fuori dall’orario di lavoro. Le valutazioni sono difficilissime: dobbiamo prendere decisioni disponendo di informazioni imperfette; e aggiustare continuamente il percorso. Anche per questo il nostro lavoro è soggetto a margini di errore, perché la natura umana non è una equazione.

Il punto vero su cui dobbiamo focalizzarci, però, non è l’errore del singolo assistente sociale – che va senz’altro analizzato e, ove necessario, perseguito –, ma se il sistema dei servizi sia in grado di garantire strutturalmente i diritti di tutte le persone vulnerabili. Se la risposta è: non abbastanza, come penso, il passo conseguente non è smantellarlo ma pensare a come migliorarlo, rafforzarlo.

I servizi sociali scoppiano. Ogni assistente sociale ha decine di famiglie in carico e ha bisogno di una serie di strumenti indispensabili, che spesso non ha: si pensi al numero insufficiente di educatori domiciliari. Altro punto che merita una riflessione è la supervisione degli assistenti sociali e la possibilità di accedere a percorsi gratuiti di supporto psicoterapeutico. A ogni assistente sociale, cioè, dovrebbe essere garantito uno spazio di ascolto e di supervisione, dove rielaborare l’impatto spesso pesante delle esperienze che si raccolgono e riesaminare le ipotesi di lavoro, in modo da ridurre il rischio di burnout, identificazione o onnipotenza. Siamo invece lasciati soli.

Il terzo punto riguarda la prevenzione. I servizi sociali lavorano quasi sempre sull’urgenza, quando ormai il danno è fatto ed è molto difficile da sanare. La quarta riflessione è che sui servizi si scaricano le mancanze della società in generale, e degli altri sistemi (educativo, del lavoro, sanitario ecc).

L’ultimo punto riguarda la solitudine di tanti, troppi (genitori, bambini, giovani…). Non è solo un problema di servizi, ma è proprio il presidio civile della comunità a essere venuto meno. C’è quindi necessità di ricostruire un senso di comunità, di puntare sulla sicurezza sociale generalizzata che viene dal sentirci tutti responsabili degli altri, nessuno escluso.

C’è bisogno che la politica inverta la rotta dell’erosione del welfare, che dia l’esempio e cambi linguaggio, costruisca senso di comunità e di responsabilità reciproca, invece di dividere, escludere e far valere le legge del più forte, fino al prossimo scandalo.

C’è un allarme clima e loro fanno il Tav

È uscito ieri a Ginevra il Rapporto Speciale del Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (Ipcc) su desertificazione, degrado del suolo, gestione sostenibile del territorio, sicurezza alimentare e flussi di gas a effetto serra negli ecosistemi terrestri. Nulla di nuovo sotto il sole, se non l’ennesima riconferma, certificata da 195 Paesi, che le preoccupazioni già espresse da decenni sulle relazioni tra clima, agricoltura, cibo e popolazione sono purtroppo reali e incombono sul futuro dell’Umanità.

Circa il 23% delle emissioni di gas serra proviene da agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo, come deforestazione e cementificazione, e se si estende il calcolo all’intera filiera alimentare globale fino al consumo individuale, si arriva al 30% delle emissioni antropogeniche di gas serra. Una quantità enorme, che include l’intollerabile spreco del 30% del cibo prodotto in un mondo dove 821 milioni di persone soffrono ancora di denutrizione. La nostra dieta incide sul clima: un eccessivo consumo di carne, soprattutto bovina, aumenta le emissioni di metano e incalza la deforestazione tropicale per coltivare foraggio, e la globalizzazione di produzione e lavorazione del cibo ne aumenta il trasporto dai quattro angoli del pianeta.

I circa 5,3 milioni di chilometri quadrati di terreno agricolo mondiale, corrispondenti alla superficie dell’Europa continentale, richiedono crescenti apporti di fertilizzanti e fitofarmaci di sintesi, e si appropriano del 70% dell’acqua dolce utilizzata dall’umanità. Una pressione senza precedenti nella storia, che minaccia il clima, la salute umana e la biodiversità, soggetta ormai alla sesta estinzione di massa. D’altra parte, se il settore agroalimentare è pesantemente responsabile del riscaldamento globale, gli stessi fenomeni climatici estremi impatteranno proprio sulla produzione di cibo. Siccità, temperature troppo elevate, precipitazioni alluvionali, tempeste, incendi, diffusione di parassiti, aumento del livello dei mari per la fusione dei ghiacci polari con sommersione di zone costiere, saranno causa di una riduzione della produzione alimentare mentre la popolazione globale, oggi a quota 7,7 miliardi di individui vola verso gli 11 miliardi a fine secolo. In questo quadro già oggi instabile, è verosimile che aumentino drasticamente i movimenti migratori dai paesi poveri, soprattutto quelli aridi, più soggetti a carestie ingestibili.

Il Mediterraneo e l’Italia sono molto esposti alla severità del cambiamento climatico, già oggi si contano i danni alla nostra agricoltura di qualità, in futuro la pianura padana potrebbe inaridirsi nei mesi estivi e la viticoltura nazionale subire un grave colpo. I 46 gradi raggiunti a fine giugno in Provenza hanno disseccato interi vigneti, un anticipo di quanto nei prossimi anni sarà sempre più frequente. Sono dati che dovrebbero indurre qualsiasi governo saggio a occuparsi immediatamente di un articolato programma di resilienza, mitigazione e adattamento a questi scenari, che rischiano di mettere in ginocchio le generazioni più giovani. Ma come tanti altri rapporti che la scienza internazionale ha già sfornato su questi temi, anche questo finirà in un cassetto.

I nostri parlamentari hanno attribuito tutto il loro impegno all’anacronistica perforazione di un massiccio alpino, invece che a elaborare strategie utili a evitare il collasso climatico, ambientale, alimentare e sociale ben inquadrato nel rapporto delle Nazioni Unite, ma pure dagli stessi organi tecnici dello Stato. Quante volte Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ha ammonito il governo sul devastante consumo di suolo fertile non rinnovabile che deve garantire la sicurezza alimentare al nostro Paese? Eppure vai con lo sblocca cantieri! Sembra che betoncar ed escavatori siano l’unico obiettivo della nostra economia, ormai molto simile a colui che sega il ramo sul quale è seduto. Invece di mettere in atto una politica di efficienza energetica, riduzione delle emissioni, agricoltura sostenibile, riduzione del consumo di suolo, protezione del delta del Po dall’aumento del livello marino, riparazione degli acquedotti colabrodo, temi contenuti nella Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici da anni depositata al Ministero dell’Ambiente, noi dobbiamo assistere a improbabili alleanze di destre e sinistre accomunate soltanto dalla ripugnante spoliazione del malato terminale: invece di curarlo, gli rubano più in fretta possibile anelli e denti d’oro.

Con una destra negazionista che ignora i problemi climatici e ambientali, una sinistra che si fa paladina di Greta Thunberg e poi dà man forte a costruire l’inutile supertunnel Susa-Saint-Jean- de-Maurienne che emetterà almeno dieci milioni di tonnellate di Co2 contribuendo ad accelerare la catastrofe climatica, e in mezzo un micropartito verde che non approfitta di questo incredibile momento storico per riqualificarsi e conquistare i milioni di italiani che forse lo voterebbero se fosse presentabile. Si salvini chi può.

Mail box

 

Nemmeno al caro Matteo conviene divorziare da Luigi

Il Governo Conte – dopo la frattura interna sulla votazione Tav – è entrato nel limbo estivo, che nessuno sa se porterà a un rimpasto o al collasso. Il dilemma non riguarda M5S e PD, che non hanno alcun interesse a precipitarsi alle urne visti i sondaggi, ma riguarda Salvini. Lui, invece, dalla crisi trarrebbe tre vantaggi: evidenziare il suo carisma; incassare il consenso maturato; creare un governo di destra-destra senza l’attrito quotidiano con i 5 Stelle. Ma allora, perché non lo fa? La sua ascesa finirebbe, non appena dovesse allearsi con B. e la Meloni, perché il vecchio zavorrerebbe l’immagine che il capo leghista ha creato con tanta fatica a forza di nutella, pseudo-madonne, dirette fb e servizi su riviste di gossip. B. infatti non farebbe il gregario, ma inizierebbe a tormentarlo più e peggio di Di Maio (non dimentichiamo che possiede ancora soldi e tv). Così come la Meloni, che scaricherebbe sul Capitano la sua personale competizione con B. Insomma: non un Governo, ma un inferno.

Massimo marnetto

 

Siberia: se non rispettata, la natura si ribella

In Siberia milioni di ettari di foresta stanno andando a fuoco mentre in Groenlandia dieci miliardi di tonnellate di ghiaccio sciolto si sono riversate nell’oceano in un solo giorno. Tutto nella totale indifferenza dei politici. Il pianeta non è terreno di conquista del “progresso”. E non si riesce a vedere che c’è un legame tra le mutazioni del clima e il nostro scellerato comportamento che mette a repentaglio il futuro del pianeta e dei suoi abitanti. E chi se ne frega dell’effetto serra o dei disastri idrogeologici, del prosciugamento dei grandi laghi, dello scioglimento delle calotte polari che porterà all’innalzamento dei mari di alcuni metri, delle valanghe invernali, dei continui terremoti e delle frequenti eruzioni vulcaniche. E i nostri cari politici come si comportano? Pensano forse a una qualche strategia? Macché, nel loro delirio di onnipotenza non se ne preoccupano, attenti come sono a raggranellare voti per poi poter governare e continuare a fare ciò che hanno sempre fatto: non considerare la natura e le sue esigenze, ma utilizzarla solo come fonte inesauribile da sfruttare per il proprio tornaconto.

Giorgio Mezzatesta

 

Tutti sapevano che il Morandi sarebbe morto di vecchiaia

“Morto come una persona muore di morte naturale”. Parole chiare, queste del procuratore capo di Genova Francesco Cozzi, che alludono ad un “fine vita” della struttura. E che mi auguro non sollevino da responsabilità oggettive chi quelle responsabilità le aveva, come il Ministero deputato alle Infrastrutture durante il governo Letta. Certo, nessuno voleva quella tragedia ma la colpa sarà pure di qualcuno: perché un ponte non crolla dall’oggi al domani così come, continuando con la metafora, una persona non deperisce di vecchiaia dall’oggi al domani, ma dopo un lungo ed evidente percorso di decadimento.

Cristian Carbognani

 

La Lega vista da Tocqueville: la tirannide della maggioranza

Quello che dobbiamo veramente temere da Salvini è l’utilizzo arbitrario del principio di legittimità del potere, che in democrazia è basato sul consenso. In altri termini, è sotto i nostri occhi quel fenomeno politico tipico delle democrazie, definito da Tocqueville come “tirannide della maggioranza”, secondo cui si ha la tendenza a credere che un leader politico che da giorni svetta nei sondaggi di poco sotto il 40%, qualsiasi cosa dica o faccia è la cosa più giusta.

Jacopo Ruggeri

 

A proposito del vostro articolo “Tunnel, merci, posti di lavoro: le fake news al Senato”, riporto quanto scritto nel sito della TELT. Alla pagina “Cantieri in corso” si legge: “In totale sono stati scavati oltre 26 Km in Italia e in Francia: oltre 7,5 Km sul tunnel di base e 18,5 Km di discenderie”. Nella pagina “Saint-Martin-La-Porte” si legge ancora: “dall’estate 2016 la fresa ribattezzata Federica è al lavoro per scavare una galleria geognostica di 9 km, nell’asse e del diametro del futuro tunnel di base”. L’aggiornamento al 5 agosto dice che dei nove chilometri, già 8,485 sono stati scavati. Dunque, essendo “nell’asse e nel diametro della galleria definitiva”, è evidente che siamo stati “nella galleria definitiva”, perché lì non deve più essere scavato nulla, anche se non si può ancora definire col nome di “tunnel di base”, che infatti non ho usato. Da parte mia, dunque, nessuna fake news. Una visita sul posto, come ho consigliato al ministro Toninelli, rende tutto ancora più chiaro.

Lucio Malan, senatore di Forza Italia

 

Caro Malan, non dubitiamo della sua serietà. Ma l’idea che la galleria geognostica – che, come dice il nome, serve a conoscere il terreno – sia parte integrante dell’opera è convinzione dei più accaniti SiTav. Alla contesa ha dato una risposta la stessa Telt nella cartella stampa diramata all’inizio dei lavori a Saint-Martin-La-Porte scrivendo: “L’entità geognostica della galleria di Saint-Martin-La-Porte e il suo utilizzo per il futuro tunnel di base sono due realtà distinte e indipendenti”. Il tunnel di base va ancora realizzato e, infatti, i bandi per la sua assegnazione, non sono stati ancora deliberati. Forse serve un altro sopralluogo. Con stima,

s.c.

Stranieri. Davvero siamo ospitali solo con i turisti ricchi, in burqa e Chanel?

 

Ho letto la cartolina di Paolo Dimalio da Bodrum-Turchia. Forse ricordi di oltre 5 anni fa lascerebbero meno il tempo che trovano se un po’ più aggiornati. Anche a Rimini se arriva un caicco al di là delle spiagge affollate ci sarà qualcuno che offre piadine (o hashish, meglio, come in Mediterraneo).

E se compare da noi una col burqa sulla battigia? Dipende: se sta scendendo da un tender multimiliardario ponti d’oro. Altro che salsicce.

Claudio Fantuzzi

 

Caro Claudio,ha ragione su almeno un punto: la mia memoria perde colpi e dopo cinque anni ricordavo solo che alcuni locali avevano offerto carne. “Costolette d’agnello però, non salsicce”: così mi ha apostrofato la mia compagna, appena letta la cartolina da Bodrum, puntando un dito accusatorio. Sul resto però non sono d’accordo: dubito che offriremmo hashish ai turchi su una spiaggia libera. Lo dice pure Salvini: la cannabis è droga, pesante come l’eroina, ed è pericolosa pure in versione light. A donarla si rischierebbe la denuncia. E poi lo straniero viene prima, sempre, anche per la salute: i nostri giovani fumano marijuana e non muoviamo un dito; invece per evitare che i migranti assumano veleni, Emergency scaverebbe trincee nella sabbia. Ironia a parte, su un altro punto, forse, ha ragione Claudio: offriremmo piadine allo straniero in spiaggia. Sì, ma rigorosamente vegetariane, perché non tutti – e tra costoro i musulmani – mangiano la carne di maiale. Quindi regalare mortadella e salsicce risulterebbe solo offensivo, non accogliente. Almeno stiamo attenti alle tradizioni altrui.

La mia esperienza, torno a dirlo, è molto diversa: ero l’unico forestiero su un lido di locali e sono stato accolto, con garbo e rispetto. In quel caso, cinque anni fa, i turchi di Bodrum devono aver pensato: prima lo straniero (esattamente il contrario di certi slogan in voga tra alcuni nostri connazionali). E per farsi belli davanti agli altri hanno ingaggiato una gara del dono. Un’arma potente: il regalo è un obbligo a ricambiare. Il resto della vacanza infatti l’ho trascorsa da cittadino modello, per il terrore di non essere all’altezza di quell’accoglienza di lusso.

Claudio, infine, sostiene che l’ospitalità sia un privilegio riservato solo ai turisti ricchi, e che i poveri si arrangino. Spero non sia così, ma la sua provocazione ha un fondo di verità: è l’evoluzione sovranista? O forse la riedizione dell’antica legge: “Mors tua vita mea”.

Paolo Dimalio

Spiaggia di Chioggia, chiuso un lido: razzismo e violenza

Atti di razzismo e violenze anche sotto l’ombrellone, compiuti da chi doveva proteggere la tranquillità dei turisti. Non solo buttafuori che malmenavano i clienti, ma perfino un filtro arbitrario all’ingresso della spiaggia, basato sul colore della pelle. Per questo il Questore di Venezia ha disposto la sospensione per 15 giorni della licenza al Cayo Blanco stabilimento balneare di Chioggia-Sottomarina. Un provvedimento cautelare, in base dell’art. 100 del testo unico di pubblica sicurezza, conseguente ad una escalation di episodi violenti e razzisti dei quali è accusato il personale di sicurezza della struttura ai danni degli avventori. Il lido chioggiotto torna così sotto i riflettori della cronaca, dopo il caso della “spiaggia fascista” del luglio 2017, quando fece scalpore l’arenile tutto foto di Mussolini e slogan al manganello di “Playa Punta Canna”. Anche se poi l’ipotesi di apologia del fascismo venne archiviata. Non ideologia ma fatti accertati da carabinieri e polizia sono invece alla base del provvedimento della Questura per il Cayo Blanco. L’ultimo episodio risale alla sera del 3 agosto scorso. Un etiope si è sentito dire: “Chi ha la pelle scura qui non entra”.