Quei Fab Four dell’Apocalisse scatenata dal diavolo Manson

Dieci minuti, sotto il sole giaguaro dell’8 agosto 1969. A Iain McMillan bastano pochi scatti dei quattro ragazzi che attraversano le strisce di Abbey Road. La sua Hasselblad cattura i Beatles alle prese con la copertina di un disco-capolavoro (Let it be sarà postumo) che segna il loro de profundis, tra session tempestose e la certezza che è arrivata l’ora di piantarla con questa follia planetaria che li vede protagonisti. E vittime.

Sono ancora giovani, ma hanno già visto tutto. O quasi. Per la confezione dell’album del passo d’addio avevano buttato giù mille idee mirabolanti: una foto in cima all’Everest? Dentro un anfiteatro romano in Nordafrica? A bordo della Queen Elizabeth II? Alla fine era stato Ringo ad avere la pensata giusta, la più semplice: farsi immortalare nel bel mezzo di Abbey Road, in fila indiana, sul passaggio pedonale. Da sinistra a destra. Paul era stato subito d’accordo: “Come se uscissimo dallo studio, alla fine del lavoro”. Non potevano immaginare che non sarebbe stato solo quello: oltre il margine destro della foto, nel vuoto, c’è l’agonia dei sogni degli anni Sessanta, e il mondo senza Beatles che si annunciava. Aldilà del bordo di Abbey Road montava già un’insopprimibile nostalgia. E poi nella cover realizzata da McMillan, arrampicato sopra una scala al centro della carreggiata, molti vedevano una messinscena cimiteriale. Sembrava un corteo funebre: Paul era ovviamente il morto, come si favoleggiava da qualche anno. Era scalzo e fuori passo rispetto agli altri tre, e teneva la sigaretta con la destra, lui mancino. Doveva essere dunque un sosia, e poco contava che i piedi nudi fossero determinati da quel caldo micidiale. McCartney si era presentato sul set con le infradito, poi se le era tolte. E gli altri? John era il gran sacerdote vestito di bianco, George lo scavafosse in jeans, Ringo l’impresario della ditta di becchini. Altri indizi sullo sfondo: il furgone nero, che sembrava quello per trasportare la salma (in realtà la polizia che aveva fermato il traffico) e sull’altro lato il Maggiolino con la targa decrittata dai complottisti: LMW28IF. “Linda McCartney vedova, lui avrebbe 28 anni se fosse vivo”. Chiaro no? E sì, la morte incombeva, ma non nel mezzogiorno di Londra.

Perché una manciata di ore dopo, nella notte atlantica tra l’8 e il 9 agosto, i pazzi adepti della Family di Charlie Manson mettono a segno la più efferata delle loro stragi. Irrompono al 10500 di Cielo Drive, Bel Air, la Los Angeles ultrachic della Beautiful People. Massacrano gli ospiti della villa affittata da Roman Polanski, che si salva perché è a Londra – a pochi metri dai Beatles – per la promozione di Rosemary’s Baby. Ma sua moglie, l’attrice Sharon Tate, incinta di otto mesi, viene uccisa senza pietà. Con il sangue gli assassini mandati da Charlie scrivono sulle pareti della casa Pig e Helter Skelter, riferimenti al White Album dei Fab Four. E ripeteranno il rituale satanico 24 ore dopo con l’omicidio dei coniugi LaBianca.

Perché Manson tira in mezzo i Beatles? Perché è un cantautore frustrato, con esperienze deludenti nel giro dei Beach Boys (che gli hanno fregato un pezzo) e perché è convinto che nei loro dischi Lennon, McCartney, Harrison e Starr gli stiano mandando messaggi subliminali. A lui e nessun altro. Nella sua testa Charlie aveva trasformato la criptica Revolution 9 in Revelation 9. Il Libro dell’Apocalisse: e Manson era certo di essere uno dei cinque “Cavalieri” che avrebbe salvato il mondo dall’imminente presa del potere da parte dei neri. Lui, gli altri erano i quattro di Liverpool. Che non avevano mai risposto alle sue lettere, lasciandolo incredulo. Ci volle il sangue di Bel Air per legare, in meno di un giorno, la fine dell’innocenza degli anni Sessanta e della Beatlemania all’orrore satanico della Manson Family. Una congiuntura astrale maledetta che annunciava la paranoia dei Settanta. C’era il buio glaciale di una generazione prediletta, oltre il bordo della copertina di Abbey Road.

Serie tv? No, cloni di libri

R. non ha letto niente, ma ha visto il film. La battuta di Ennio Flaiano resta immortale, ma va riveduta al passo coi tempi: R. ha visto la serie tv, ma non ha letto niente (anche perché non c’è più tempo). E allora, cosa non si legge, quest’anno?

La bolla seriale ha cambiato le regole della trasposizione, le immagini stracciano le parole, scrittori e sceneggiatori sono figli delle stesse factory, il regista-autore ha abdicato in favore dello showrunner. Le serie tratte da libri sono in aumento, ma i titoli appartengono nella stragrande maggioranza ai generi dell’editoria mass market. Un immaginario perpetuo sospeso tra narrativa, fumetto e videogioco, come ci confermano alcune delle più attese novità della prossima stagione.

FANTASY. Fatalmente, gli occhi sono puntati sull’adattamento realizzato da Amazon dal Signore degli anelli. La gloriosa trilogia di J. R. Tolkien è candidata a raccogliere il testimone del Trono di Spade tratte dalle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George Martin (e dovrà vedersela pure con il precedente del film di Peter Jakson). Come si conviene ai megaeventi, pochissime le anticipazioni. Pare però che la prima stagione sarà imperniata su un’avventura di Frodo e Sam raccontata con la tecnica del prequel (cosa è successo prima dell’inizio?), tecnica tanto amata dagli sceneggiatori perché lascia loro mano libera nell’intreccio, ma con personaggi fatti e finiti. Dal canto loro, Hbo e Bbc annunciano la serie tratta da La Bussola d’oro di Philip Pullman – trilogie come se piovesse –, in particolare dal primo titolo Queste oscure Materie. Anche qui c’è un significativo precedente cinematografico; per aggirarlo gli autori si sarebbero orientati su una Oxford molto fatata, in odore di Harry Potter.

HORROR. Anche per questa stagione un solo autore al comando, Stephen King. The Outsider è annunciata da Hbo come una trasposizione fedele dell’ultimo romanzo del maestro con protagonista Ben Mendelsohn, il Danny Rayburn di Bloodline. Amazon risponde con The Dark Tower, altra megaproduzione tratta dalla omonima saga fusion di King, dove l’horror si mescola al western attraverso le avventure del pistolero-giustiziere Roland.

Niente paura (anzi, che paura): King a parte, non mancheranno streghe, né zombie, né vampiri. Per la fine d’anno è annunciata su Netflix V-Wars, basata sull’omonimo romanzo di Jonathan Maberry, specialista della suspense al chiaro di luna. Il dottor Luther Swann dovrà combattere il virus che sta trasformando gli esseri umani in vampiri assetati di sangue; è dura, ma ci sono ottime possibilità di vittoria se si pensa che Swann sarà interpretato da Ian Somerhalder, già Damon Salvatore in The Vampire Diaries (“Hai voglia di conoscere la morte? Te la presento io”).

SPY. Seconda stagione Amazon in vista per Jack Ryan, l’analista della Cia nato dalla penna di Tom Clancy, sempre impegnato a sventare le cospirazioni degli estremisti mediorientali ai danni dei governi occidentali. Una versione politicamente corretta del vecchio James Bond: profilo basso, niente sigarette e niente Vesper Martini, e dunque un perfetto eroe dei nostri tempi, a portata di nerd.

MILLENNIAL. Non è ancora un genere, ma lo potrebbe diventare. La Bbc ha messo in cantiere Normal People, serie tratta dai bestseller della scrittrice simbolo della sua generazione, la ventitreenne Sally Rooney: Parlarne tra amici (da non confondersi con i manuali per imparare l’inglese), e, appunto, Persone normali (non avevamo dubbi). Nel legame dei due ragazzi seguiti dall’adolescenza all’Università di Dublino, si nota una vaga assonanza con L’Amica geniale di Elena Ferrante, la cui seconda stagione, non a caso, è il fiore all’occhiello nel catalogo della prossima stagione di Rai Fiction.

CLASSICI. Non è semplicissimo per i classici diventare serie tv, ma qualcosa si può fare anche per loro. Philip Dick quest’anno riposa, ma in compenso Usa Network ha messo in cantiere una serie ispirata a Il mondo nuovo di Aldous Huxley, capolavoro della fantascienza distopica datato 1932 ma di attualità vertiginosa, in cui gli esseri umani vengono prodotti in serie, suddivisi e manipolati in caste a seconda della loro qualità genetica. Cast di prima grandezza, con Alden Ehrenreich e Demi Moore. Sempre a proposito di classici, Apple annuncia anche una serie ispirata a Emily Dickinson. Non alle sue intense poesie, difficilmente serializzabili, ma alla figura della grande poetessa statunitense, che sarà interpretata dalla giovane attrice Hailee Steinfeld.

Notoriamente, la Dickinson visse una vita spoglia, trascorsa per intero nella stessa casa dove era nata, coltivò rare amicizie e ebbe un unico amore platonico. Ma appunto per questo il suo personaggio iperletterario incarna il tema dell’artista donna, dalla sensibilità profonda, ribelle, in conflitto con la retriva società dei luoghi e dei tempi in cui visse. Chissà che dopo Jean Austen non si possa creare una nuova eroina prefemminista. Nel milionario mondo nuovo delle serie tv non si butta via niente.

È Pacifico: il tempo si è fermato a Niue

Il gommone, calato dalla barca, doveva attendere l’ascesa. L’aggancio avveniva con un gigantesco argano manovrato a braccia da tre operai addetti a quella operazione: l’unico modo per permettere ai viaggiatori di posare i piedi sulla terra ferma di Niue. Non esiste porto sulla minuscola isola nell’oceano Pacifico a circa 2 mila chilometri dalla Nuova Zelanda e anni luce dall’era digitale. La sosta a Niue sarebbe dovuta terminare in giornata. Ne eravamo sicuri. Il tempo di fare scorte di viveri.

Dopo giorni di navigazione l’esigenza era anche riuscire a comunicare a casa. Il satellitare di bordo era da utilizzare solo per le emergenze. Sotto il porticato un cartello con il simbolo di un telefono; era un ufficio postale in legno con un sorridente addetto.

Il tempo si era fermato a Niue, dove per chiamare bisognava attendere che l’omino componesse il numero sperando che la linea reggesse. Fu la chiamata più interrotta della mia vita. Tutte le volte si doveva ripetere ogni passaggio del procedimento. Le previsioni davano bel tempo, a eccezione di qualche nuvola verso sera. Il cielo andava via via rabbuiandosi. Decidemmo quindi di affrettare le cose entrando nel piccolo emporio, lista alla mano, cominciando a comprare il necessario per i successivi giorni in mare. Entrammo con il sole, uscimmo che stava iniziando a piovere. Pochi metri di corsa che sembrarono chilometri. Disponemmo le scorte a bordo del tender alla meglio perché non si bagnassero. All’argano però non c’erano più gli uomini che ci avevano issato, la tempesta infuriava, la pioggia batteva forte. Non ci rimaneva che fare da soli. In quel momento capii perché il capitano Cook molti secoli prima si avvicinò a Niue senza però metterci piede.

Le nuove invasioni barbariche: orde di cinghiali molesti in città

Eravamo abituati ad ascoltare e raccontare una versione della storia di Cappuccetto rosso – come cioè ce l’hanno sempre letta nella sua versione più nota, Rotkäppchen, quella a lieto fine dei fratelli Grimm –, la dolce pulzella incaricata di andare a trovare la nonna, recando in dono un cestino ricco di vivande e leccornie, dalla mamma che, proprio mentre la bimba sta varcando la soglia di casa, la esorta con il celebre avvertimento: “Attenta al lupo!”.

Ma se Cappuccetto fosse ambientata oggigiorno, la mamma le direbbe: “Attenta ai cinghiali”. E no, non è una boutade social, come quella di ieri l’altro, quando una corrente perbenista ha cambiato, seppure per qualche ora, la celebre filastrocca delle civette che non farebbero più “l’amore con” ma soltanto “facevano timore alla figlia del dottore”. È davvero successo a Roma, nel quartiere Spinaceto: un papà e suo figlio di 20 mesi sono stati aggrediti da un branco di cinghiali (è solo l’ennesimo degli assalti con protagonisti gli animali selvatici già accaduti in Puglia, Veneto e Friuli). La Cia (la confederazione degli agricoltori) documenta il proliferare dei cinghiali che in Italia sarebbero passati da una popolazione di 900 mila capi nel 2010 ai quasi 2 milioni di oggi (+111%). Oltre agli incidenti cittadini, tale presenza crea danni milionari all’agricoltura, aumenta il rischio di malattie, provoca incidenti stradali e minaccia anche la sicurezza dei cittadini anche nelle aree urbane.

Nella favola, alla fine arriva il cacciatore a salvare nonna e nipotina con un colpo, qui invece la Cia sostiene che non bastano i fucili, ci vuole una modifica alla legge 157/92 (quella proprio sulla caccia).

Sbronza all’antica: all’Elba ricreano il vino di Saffo & C.

“Ora bisogna bere e che uno beva a tutta forza/ perché davvero Mirsilo è morto”. Così recita il poeta greco Alceo nel 590 a.C. davanti ai compagni di eteria (nell’antica Grecia, lega di carattere politico), esortandoli a brindare per festeggiare la morte del tiranno Mirsilo di Mitilene, nemico dell’aristocrazia a cui Alceo e gli altri sodali del bevereccio simposio appartengono.

Anche noi, oggi, figli di una Storia ciclica per barbarie che sempre si ripete e tanto per smentire il filosofo Alexandre Kojève – che propugnava la fine della Storia – potremmo imitare il sommo poeta ellenico amico di Saffo, rimanendo in attesa della dipartita di uno di questi tiranni moderni che imperversano tale o tal’altra parte del mondo.

E non è solo la presenza dei suddetti tiranni a permetterci di mimare i gesti di Alceo, ma anche la rinascita all’Isola d’Elba del vino degli antichi Greci. Il sodalizio tra Attilio Scienza, docente di viticoltura dell’Università di Milano, e il viticoltore Antonio Arrighi hanno ricreato una specie di Brunello di 2.500 anni fa, il prelibatissimo e pregiatissimo Vino di Chio.

Dalle fonti storiografiche (Plinio e gli altri), sappiamo che da Chio originava un vino denso, zuccherino, di elevato tasso alcolico: in purezza, era ottimo per sopportare lunghi viaggi in mare o lunghi spostamenti via terra; diluito con acqua, imbandiva riccamente i banchetti. Il suo segreto era l’immersione delle uve nell’acqua marina e, in seguito, l’appassimento al sole. All’epoca, per renderlo identificabile, venne chiesto a Prassitele (non proprio al primo che passava) di creare, tra un’Afrodite di Cnido e un’Artemide brauronia, un’anfora riconoscibile: ecco il primo tentativo di brand. Ne venne fuori una bombata e bellissima, marcata con una sfinge.

Tra il 2017 e il 2018, il professor Scienza ha individuato che l’uva italiana più simile a quella di Chio è l’Ansonica, con cui si fa il bianco dell’Elba. L’isola toscana, per questo motivo, è stata eletta a laboratorio. L’esperimento, in collaborazione con l’Università di Pisa, è iniziato nel 2018. Il viticoltore elbano Arrighi spiega a La Nazione che, dopo esser stata immersa in mare di fronte a Porto Azzurro dentro a ceste di vimini per cinque giorni, l’uva “è stata poi messa ad appassire sulle cannucce e successivamente in anfora. La quantità di sale presente dopo 5 giorni in mare ha permesso di evitare l’uso di solfiti: il sale ha fatto da antiossidante e conservante.” Vinificato in anfore, lasciando macerare succo e bucce insieme, ne è risultato un bianco strutturato, molto corposo e sapido. “A marzo 2019,” prosegue Arrighi, “quando abbiamo assaggiato il vino con Attilio Scienza, ci siamo emozionati: è probabilmente un vino come usciva dalle cantine dell’isola di Chio, fino a questo passaggio identico a come lo abbiamo prodotto noi”.

L’esperimento verrà ripetuto nel 2019, apportando tuttavia alcune modifiche per tentare di perfezionare il metodo: sarà per esempio anticipata la raccolta dell’uva in modo da immergerla nelle acque ancora estive, affinché goda nella fase di appassimento di un maggior calore solare. Il progetto è stato anche raccontato in un breve documentario, Vinum Insulae, diretto da Stefano Muti, premiato il 16 giugno a Marsiglia quale miglior cortometraggio durante la ventiseiesima edizione di “Oenovideo”, il più antico festival cinematografico dedicato alla vite e al vino.

Non ci resta che assaggiarlo, nell’attesa di avere un motivo per festeggiare.

Schiaffi da Nobel: Vargas Llosa e Gabo si contendono Patricia

La grande letteratura è piena di triangoli amorosi, da Anna Karenina di Lev Tolstoj a Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Quello presunto tra due premi Nobel come il peruviano Mario Vargas Llosa e il colombiano Gabriel García Márquez, e Patricia, cugina e moglie dell’autore di Conversazione nella cattedrale, sarebbe stato persino la causa di una rissa con cazzotti.

Accadde nel 1976, a febbraio. Fu allora che Vargas Llosa prese a pugni il suo amico García Márquez. Il motivo? I giornali sostennero che avrebbe avuto come antefatto “una fuga d’amore di Vargas Llosa, che piantò moglie e figli per una pazza avventura con una ragazza svedese. A Barcellona, dove vivevano anche i García Márquez, la moglie Patricia si sfogò più volte con la coppia di amici colombiani e ne accolse i consigli e i suggerimenti”. Al momento della riconciliazione con il marito, Patricia gli confidò il contenuto di quei colloqui. Qualche frase, non si sa bene quale, offese Vargas Llosa. Secondo un’altra versione, però, “Patricia avrebbe fatto credere al marito che, in sua assenza, non avrebbe perso il tempo, e sarebbe stata, tra l’altro, con il suo grande amico Gabo”.

Vero o falso? Non si sa. I pettegolezzi, comunque, fecero il loro corso. Qualche anno prima Cesare Pavese all’amico Davide Lajolo, il 15 maggio del 1950, aveva scritto: “Visto che dei miei amori si parla dalle Alpi al Capo Passero, ti dirò soltanto che, come Cortez, mi sono bruciate dietro le navi”. Lo scrittore parlava del naufragio del suo rapporto con l’attrice americana Constance Dowling. Non si trattava di gossip sui giornali scandalistici, che all’epoca non erano di moda, bensì di chiacchiere di amici e amiche, tra Roma e Torino. Certo è che Pavese, poco tempo dopo, il 27 agosto del 1950, si sarebbe suicidato.

Il tempo passa, le mode cambiano, e oggi anche le storie private degli scrittori solleticano la stampa rosa. Dopo l’affaire García Márquez, Vargas Llosa, 83 anni compiuti a marzo, ha nuovamente dato linfa all’interesse scandalistico per le sue passioni, oggi senili. Dicono che pure lui, come Pavese, non ami i pettegolezzi. Dei suoi amori, anzi, dell’ultimo, in ogni caso se ne è parlato e se ne parla in tutto il mondo. Se ne è dovuta occupare addirittura The Nation, la più antica rivista degli Stati Uniti, faro della cultura di sinistra. In un articolo dell’aprile scorso ha rammentato che “Vargas Llosa è diventato il foraggio dei giornali tabloid, avendo lasciato sua moglie dopo 50 anni – sua cugina Patricia Llosa – per l’ispano-filippina Isabel Preysler”.

È sbocciata nel 2015 la love story fra il grande narratore peruviano e l’ex modella e conduttrice televisiva Isabel Preysler. Sessantotto anni all’anagrafe, Isabel è specializzata in matrimoni d’alto bordo, visto che ne ha ben tre alle spalle, tutti con persone del jet set: il cantante Julio Iglesias, don Carlos Falcó, marchese del Griñon, e Miguel Boyer, già ministro socialista delle Finanze, del quale è rimasta vedova. Ora ha aggiunto un premio Nobel della letteratura, arricchendo un palmarès sentimentale invidiabile.

La stampa rosa e scandalistica, guidata dal periodico spagnolo ¡Hola!, non si è lasciata scappare l’occasione. Nel giugno del 2015 il settimanale ha messo in copertina Isabel e Mario con il titolo “Pranzo per due”, raccontando che i due avevano intensificato il loro rapporto di conoscenza e insinuando che fosse qualcosa di più di una amicizia. Patricia, cugina e moglie dello scrittore premio Nobel, ha reagito come farebbe un esponente politico accusato di qualche traffico illecito: diffondendo un comunicato in cui manifestava sorpresa, visto che pochi giorni prima lei e Mario avevano celebrato insieme i cinquant’anni di matrimonio. Donna Patricia, del resto, se la storia con García Márquez fosse vera, non sarebbe nuova a incidenti nel matrimonio.

Sulla relazione fra Mario e Isabel, dopo il colpaccio di ¡Hola!, si sono scatenati per mesi quotidiani e riviste, scrivendo di tutto: le possibili accuse di bigamia in Perù per lo scrittore, i duemila euro spesi dai due per una notte in un albergo di Marbella per festeggiare il compleanno di Isabel, fino ai dettagli della separazione dei beni fra Mario e Patricia. I due maturi innamorati, a un certo punto, hanno ammesso il loro legame, ma non è bastato per fare cessare la campagna giornalistica. “Davanti alla casa di Isabel”, ha detto Vargas Llosa, “i giornalisti possono restare accampati per ventiquattro ore. Nella prima fase della nostra relazione era una cosa impressionante: si facevano portare il pranzo a mezzogiorno, organizzavano partitelle di calcio”. Tanto che nel suo romanzo Cinquina, uscito in Italia nel 2016, ha messo alla berlina la stampa scandalistica, anche se ha negato di averlo fatto per gli scoop su di lui e Isabel. “Ma no”, ha dichiarato in occasione della pubblicazione del libro da Einaudi, “ho cominciato a lavorare al libro molto prima che tutta questa storia cominciasse”.

Intanto, in attesa del matrimonio con Isabel, Vargas Losa continua a essere foraggio della stampa, quella rosa e quella no. Lo ha fatto sostenendo che “il femminismo è nemico della letteratura”, e quindi dimettendosi dalla presidenza del Pen Club internazionale perché contrario a un appello in favore di due intellettuali catalani in carcere da oltre un anno per reati d’opinione: secondo lui sarebbero “golpisti”. Una sua recente dichiarazione, a favore della concessione del Premio Nobel per la pace a Carola Rackete, lo riscatterà agli occhi delle donne che non frequentano il jet set?

La Russia rovente rischia di far gelare l’Europa

La patria del gelo sta bruciando. L’orizzonte è rosso fuoco come la mappa che segnala gli incendi in corso. L’ultima, inquietate fotografia satellitare la diffonde, allarmata, anche la Nasa perché le nubi di fumo stanno raggiungendo l’Alaska. Un giorno dopo l’altro le fiamme diventano alte come i tronchi di betulla che divorano. Da settimane, dagli Urali verso est, il fuoco sta mangiando la Siberia. La situazione siberiana “da tempo ha smesso di essere un problema locale: è diventata una catastrofe ecologica per un intero paese” è l’appello di Greenpeace. Un’area grande quanto il Belgio, riferisce l’agenzia forestale federale russa, è già sparita, divorata dalle fiamme. Il fumo viaggia veloce insieme alla nuvole. Intorno a Novosibirsk, Yekaterinburg, Chelyabinsk e Kazan è già difficile respirare, riferiscono i russi sui social media.

“Centinaia di persone sono intossicate dal fumo” ha riferito il ministro delle Emergenze Aleksandr Chuprian arrivato a Irkutzk per coordinare le operazioni dopo che Putin ha ordinato al suo esercito di fare tutto il possibile per domare le fiamme ieri. Anche su Krasnoyarsk il cielo è grigio. Nella stessa regione sono state registrate in una base militare una serie di esplosioni per un “errore umano”, riferisce il ministero della Difesa: 12 sono i feriti, 16mila i residenti evacuati ad Achinsk, dove anche la Rusal, tra i maggiori produttori di alluminio al mondo, ha sospeso i lavori ed evacuato i suoi operai. Intorno al lago Baikal, cuore della loro patria spirituale, hanno fatto risuonare i tamburi allo stesso tempo perfino gli ultimi sciamani delle tribù rimaste nelle foreste per invocare l’aiuto della pioggia per estinguere i fuochi. È rovente la Russia e sarà glaciale l’Europa se la situazione non verrà gestita. Record a ribasso delle esportazioni.

Affetti dagli incendi anche alcuni stabilimenti di Rosneft e GazpromNeft, che hanno evacuato gli operai delle zone a rischio e sospeso le trivellazioni a causa degli incendi e della visibilità ridotta a causa del fumo. La produzione più bassa degli ultimi tre anni era stata già registrata nel luglio appena trascorso, dopo la scoperta di un gasdotto contaminato che riforniva l’Europa. Una petizione firmata da oltre mezzo milione di russi adesso chiede che venga dichiarato lo stato di emergenza nazionale mentre le autorità continuano a ripetere che le fiamme divampano in “zone di controllo”, aree disabitate, e che gli incendi non costituiscono una minaccia per la popolazione. Le foto dei fuochi sono virali online e incendiano i dissidenti sul web. Mentre le proteste attanagliano Mosca ogni sabato prima delle elezioni della Duma di Mosca previste per l’otto settembre, un vento di ribellione arriva dalla Siberia anche nella Capitale: le autorità non stanno facendo abbastanza per estinguere i fuochi. Come a Mosca, anche a Krasnoyark i cittadini stanno chiedendo le dimissioni del governatore, Alexander Uss, che ha dichiarato che “spegnere i fuochi è inutile, si tratta di un fenomeno naturale”. Ad est si accede un altro punto caldo dove il partito di Putin, Russia Unita, perde consensi. “Spegnete i fuochi, non l’opposizione” dicono i cartelli dei manifestanti.

La giornata nera di Trump in visita a El Paso e Dayton

“Gli immigrati messicani sono killer, assassini”; dice il magnate presidente; e lo ripete. E una folla, intorno a lui, scandisce “finisci il muro”. Scene dall’ultimo discorso a El Paso di Donald Trump, nel febbraio scorso, quando nella città sul confine tra Texas e Messico cercò di ottenere dal Congresso i fondi per il muro. Difficile poi sostenere che lui non ha nulla a che vedere con la furia omicida suprematista di Patrick Crusius, l’uomo che sabato ha ucciso 22 persone, fra cui otto immigrati, dopo avere postato un manifesto “anti-invasione”.

Ma Trump, ieri, è tornato a El Paso per nulla pentito di quanto aveva detto. Non lo era parso lunedì, parlando alla nazione; e non lo è parso ieri, partendo per Dayton, nell’Ohio, dove sabato c’è stata un’altra sparatoria con nove morti, ed El Paso: “L’immigrazione illegale è una cosa terribile. La fermeremo: per questo stiamo costruendo il muro”, risponde a chi gli chiede se parlare di “invasione del Texas” possa aver ispirato il killer. Per una volta, lo showman presidente non sembra in sintonia con il Paese, traversato da una psicosi attentato-sparatoria. In Virginia, a McLean, alle porte di Washington, viene evacuata una sede non redazionale di UsaToday per la presunta presenza di un uomo armato – la polizia, però, non lo trova –. A New York, a Times Square, il ritorno di fiamma in una motocicletta causa il panico: i passanti corrono a rifugiarsi e il centralino del 911, l’equivalente del 112, è subissato, nonostante la polizia assicuri che “l’area è sicura”. È stata una giornata difficile per il magnate presidente: a El Paso e a Dayton, molti lo contestano: “Non sei il benvenuto”. Il sindaco della città texana, Dee Margo, lo avverte: “Non permetteremo a nessuno di farci passare per quello che non siamo”, inospitali e intolleranti. L’ex deputato Beto O’Rourke, cittadino di El Paso, in corsa per la nomination democratica, anima la contestazione. La polizia locale reclama alla Casa Bianca oltre mezzo milione di dollari per le spese di sicurezza sostenute a febbraio e non ancora rimborsate. Accompagnato dalla first lady Melania, Trump arriva prima a Dayton, dove la sindaca Nan Whaley ha incoraggiato proteste e contestazioni. Centinaia di persone in strada urlano slogan: “Dump Trump”, scarica Trump; “Do something”, fai qualcosa; “Save our guy”, salva i nostri ragazzi; e “Flip the Senate”, rivolta il Senato, dove la maggioranza repubblicana è contraria a una stretta sulle vendite delle armi da fuoco. Ma anche tra le fila dei repubblicani in Congresso qualcuno prova a sfilarsi dalla morsa della lobby delle armi, la National Rifle Association. Tra le proposte, il rafforzamento dei controlli su chi vuole acquistare armi da fuoco e il varo delle leggi che permettono di sequestrare armi a chi non è idoneo a possederle. Fra i promotori dei progetti anti-armi, altri aspiranti alla nomination democratica, come Joe Biden, secondo cui Trump “alimenta le fiamme del suprematismo bianco”, e Pete Buttigieg. A O’Rourke che lo critica il presidente twitta: “Stai zitto!”. E l’ex deputato replica: “Nella mia città sono morte 22 persone per un atto di terrore ispirato dal suo razzismo. El Paso non starà mai zitta e nemmeno io!”.

Fronte inchieste, l’Fbi indaga per terrorismo domestico anche a Dayton, considerata la personalità del killer Connor Betts, e a Gilroy in California, dopo avere scoperto che lo sparatore del 28 luglio aveva stilato una lista d’obiettivi: istituzioni religiose, uffici federali e organizzazioni politiche. Betts, 24 anni, soffriva di turbe psichiche ed era incline alla violenza: alle fidanzate, mostrava scene della strage nella sinagoga di Pittsburgh. Fra le sue nove vittime, c’è pure Megan, la sorella. Fronte media, il New York Times ha riconosciuto che il suo titolo della prima edizione di martedì sul discorso alla nazione di Trump, poi cambiato in ribattuta sotto la pressione dei lettori, non era “quello giusto”. Il presidente, invece, l’aveva apprezzato: “Dopo tre anni avevo avuto un buon titolo dal New York Times!”. Le dimissioni dell’ambasciatore degli Usa a Mosca Ion Huntsman potrebbero dare a Trump un’altra grana: Huntsman potrebbe contendergli la nomination repubblicana.

Erdogan, sultano tra due guerre

Non conosce riposo l’estate 2019 di Recep Tayyip Erdogan. Mentre in patria il Sultano sfida migliaia di ambientalisti che da giorni protestano contro la decisione di concedere alla società canadese Alamos (associata alla turca Dogu Biga) di tagliare migliaia di alberi per poter estrarre agevolmente l’oro del Monte Ida di omerica memoria, sul fronte internazionale è impegnato in due zone di guerra tra le più calde: Siria e Libia. Il presidente Erdogan potrebbe ancora muovere guerra contro i combattenti curdi siriani del Rojava e continuare a inviare altri carichi di armi a Tripoli per aiutare l’alleato Sarraj a far fronte ai bombardamenti di Haftar. Ma andiamo con ordine.

Due giorni fa Erdogan aveva annunciato che, se gli Stati Uniti non avessero collaborato alla creazione di una zona di sicurezza nel nord est della Siria, a oriente del fiume Eufrate, (l’area che i curdi, lì maggioranza etnica, chiamano Rojava) per allontanare i guerriglieri dell’Unità di Protezione Popolare, nota come Ypg, avrebbe “provveduto da solo”. I combattenti dello Ypg sono tutti curdi e legati al Pkk di Ocalan, la formazione che Ankara, Usa e molte nazioni europee hanno bollato fin dalla sua nascita negli anni ‘70 di terrorismo. Ma si dà il caso che lo Ypg sia stato e sia ancora alleato con il Pentagono nella guerra contro l’Isis in Siria. È altrettanto vero che Turchia e Usa sono alleati e storici partner Nato e, data l’importanza della Istambul come bastione sud-orientale dell’Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti non hanno convenienza a inimicarsela del tutto continuando a spalleggiare i curdi del Rojava attraverso il mantenimento del proprio contingente di circa 2mila soldati.

Dopo tre giorni di trattative tra delegazioni militari statunitensi e turche, ieri sembra sia stato raggiunto “un accordo per coordinare la creazione di una zona sicura che diventerà un corridoio di pace”, si legge in una nota diffusa dall’ambasciata americana ad Ankara. Le delegazioni, si legge nel comunicato che ricalca quello diffuso dal ministero degli Esteri turco, si sono accordate sulla “rapida attuazione delle misure iniziali per rispondere ai timori sulla sicurezza sollevati dalla Turchia” e sulla creazione “al più presto in Turchia di un centro operativo congiunto per coordinare e gestire insieme la creazione della zona di sicurezza”. Turchia e Stati Uniti convengono sulla necessità di “non risparmiare sforzi in modo che gli sfollati siriani possano rientrare” nelle aree d’origine. Non è comunque chiaro quando nascerà concretamente la “zona sicura”, anche perché rimane da stabilire se la fascia cuscinetto sarà profonda 32 chilometri – come vuole Erdogan – allo scopo di allontanare il più possibile i combattenti curdo-siriani dal proprio confine. Il Pentagono finora aveva sempre rifiutato questa possibilità concedendo al massimo 10 chilometri. Del resto gli Usa, se non vogliono perdere del tutto la faccia di fronte al protagonista e unico vincitore della guerra siriana, ossia la Russia di Putin, devono trovare il modo di concedere poco a Erdogan, a sua volta sostenuto da Mosca in chiave anti-americana. Ma il tempo ormai stringe e il Sultano ammonisce che la sua “pazienza è finita” e informa l’amministrazione Trump di aver già avuto il beneplacito di Putin per entrare in Rojava. Tradotto: se la zona di sicurezza non si farà, i miei soldati non faranno prigionieri. Il Segretario alla Difesa degli Usa, Mark Esper, ieri aveva detto: “Quello che stiamo facendo è cercare di evitare incursioni unilaterali che possano danneggiare, ancora una volta, gli interessi reciproci degli Stati Uniti e delle Sdf (le Forze democratiche siriane di cui i curdi dello Ypg sono la spina dorsale, ndr) riguardo alla Siria”.

Ma c’è anche la guerra in Libia a tenere impegnato Erdogan. Fin dal 2014, cioè quando scoppiò la guerra civile, la Turchia ha sostenuto i governi di Tripoli affidati a rappresentanti diretti e indiretti della Fratellanza Musulmana. Oggi a ricoprire questo ruolo c’è il premier riconosciuto anche dall’Onu, Sarraj. Ne deriva che Erdogan sia nemico di Haftar la cui artiglieria due giorni fa ha colpito un aereo militare da trasporto “Ilyushin”, proveniente dalla Turchia e carico munizioni e armi per sostenere le milizie terroristiche del governo di accordo nazionale del premier libico Sarraj”. È quanto ha diffuso in una nota l’aviazione dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), guidato dal generale Haftar. Per la Tuchia è vitale che la Libia non venga conquistata da Haftar, finanziato ed equipaggiato dagli Emirati Arabi e dall’Egitto, nemici di Ankara. Erdogan da una decina d’anni sta investendo molto nell’Africa del Nord e nel Corno d’Africa per espandere la propria influenza religiosa, geopolitica e commerciale.

Si impicca in cella: 30esimo suicidio dall’inizio dell’anno

Modesto Barrasi è impiccato ieri nella sua cella nel carcere di Cuneo. Aveva 69 anni era l’unico imputato per la morte di Baldassarre Ghigo, trovato carbonizzato nella sua auto nei boschi di Gambasca, nel Cuneese. Un caso avvenuto il 14 novembre 2015. Barra era accusato di omicidio volontario. Secondo l’accusa il delitto era maturato per un vecchio prestito, qualche decina di migliaia di euro mai restituite. Modesto Barra è il 30esimo suicidio avvenuto nelle carceri italiane dall’inizio anno. Una media davvero spaventosa. Nel 2018 le persone che si sono tolte la vita in carcere sono state 65, un record a ritroso fino al 2011 quando, ancora in piena emergenza sovraffollamento, furono 66. Il suicidio non riguarda solo i detenuti ma anche gli agenti di Polizia penitenziaria che condividono la vita dietro le sbarre. “Il carcere è un contenitore di disagio sociale e noi siamo dall’altra parte, disarmati, senza strumenti per affrontarlo” la recente denuncia del Sinappe, il Sindacato nazionale autonomo di Polizia penitenziaria. Nella vicenda di Modesto Barra il processo in Corte d’Assise era quasi terminato. L’uomo era detenuto da marzo, si è sempre professato innocente.