Dieci minuti, sotto il sole giaguaro dell’8 agosto 1969. A Iain McMillan bastano pochi scatti dei quattro ragazzi che attraversano le strisce di Abbey Road. La sua Hasselblad cattura i Beatles alle prese con la copertina di un disco-capolavoro (Let it be sarà postumo) che segna il loro de profundis, tra session tempestose e la certezza che è arrivata l’ora di piantarla con questa follia planetaria che li vede protagonisti. E vittime.
Sono ancora giovani, ma hanno già visto tutto. O quasi. Per la confezione dell’album del passo d’addio avevano buttato giù mille idee mirabolanti: una foto in cima all’Everest? Dentro un anfiteatro romano in Nordafrica? A bordo della Queen Elizabeth II? Alla fine era stato Ringo ad avere la pensata giusta, la più semplice: farsi immortalare nel bel mezzo di Abbey Road, in fila indiana, sul passaggio pedonale. Da sinistra a destra. Paul era stato subito d’accordo: “Come se uscissimo dallo studio, alla fine del lavoro”. Non potevano immaginare che non sarebbe stato solo quello: oltre il margine destro della foto, nel vuoto, c’è l’agonia dei sogni degli anni Sessanta, e il mondo senza Beatles che si annunciava. Aldilà del bordo di Abbey Road montava già un’insopprimibile nostalgia. E poi nella cover realizzata da McMillan, arrampicato sopra una scala al centro della carreggiata, molti vedevano una messinscena cimiteriale. Sembrava un corteo funebre: Paul era ovviamente il morto, come si favoleggiava da qualche anno. Era scalzo e fuori passo rispetto agli altri tre, e teneva la sigaretta con la destra, lui mancino. Doveva essere dunque un sosia, e poco contava che i piedi nudi fossero determinati da quel caldo micidiale. McCartney si era presentato sul set con le infradito, poi se le era tolte. E gli altri? John era il gran sacerdote vestito di bianco, George lo scavafosse in jeans, Ringo l’impresario della ditta di becchini. Altri indizi sullo sfondo: il furgone nero, che sembrava quello per trasportare la salma (in realtà la polizia che aveva fermato il traffico) e sull’altro lato il Maggiolino con la targa decrittata dai complottisti: LMW28IF. “Linda McCartney vedova, lui avrebbe 28 anni se fosse vivo”. Chiaro no? E sì, la morte incombeva, ma non nel mezzogiorno di Londra.
Perché una manciata di ore dopo, nella notte atlantica tra l’8 e il 9 agosto, i pazzi adepti della Family di Charlie Manson mettono a segno la più efferata delle loro stragi. Irrompono al 10500 di Cielo Drive, Bel Air, la Los Angeles ultrachic della Beautiful People. Massacrano gli ospiti della villa affittata da Roman Polanski, che si salva perché è a Londra – a pochi metri dai Beatles – per la promozione di Rosemary’s Baby. Ma sua moglie, l’attrice Sharon Tate, incinta di otto mesi, viene uccisa senza pietà. Con il sangue gli assassini mandati da Charlie scrivono sulle pareti della casa Pig e Helter Skelter, riferimenti al White Album dei Fab Four. E ripeteranno il rituale satanico 24 ore dopo con l’omicidio dei coniugi LaBianca.
Perché Manson tira in mezzo i Beatles? Perché è un cantautore frustrato, con esperienze deludenti nel giro dei Beach Boys (che gli hanno fregato un pezzo) e perché è convinto che nei loro dischi Lennon, McCartney, Harrison e Starr gli stiano mandando messaggi subliminali. A lui e nessun altro. Nella sua testa Charlie aveva trasformato la criptica Revolution 9 in Revelation 9. Il Libro dell’Apocalisse: e Manson era certo di essere uno dei cinque “Cavalieri” che avrebbe salvato il mondo dall’imminente presa del potere da parte dei neri. Lui, gli altri erano i quattro di Liverpool. Che non avevano mai risposto alle sue lettere, lasciandolo incredulo. Ci volle il sangue di Bel Air per legare, in meno di un giorno, la fine dell’innocenza degli anni Sessanta e della Beatlemania all’orrore satanico della Manson Family. Una congiuntura astrale maledetta che annunciava la paranoia dei Settanta. C’era il buio glaciale di una generazione prediletta, oltre il bordo della copertina di Abbey Road.