Io, diciottenne della Val Susa, racconto il Tav

Numerose sono le questioni che ruotano attorno alla realizzazione del Tav, partendo dallo spinoso tema ambientale, ma non intendo soffermarmi sull’impatto fortemente negativo che la sua realizzazione avrebbe sull’ecosistema della Val di Susa e neppure sulle conseguenze sulla popolazione (incluso me, diciottenne della Valle), come la perdita di falde acquifere importanti per le zone circostanti il cantiere di Chiomonte e il temuto pericolo dell’amianto.

Vorrei porre l’attenzione sulle parole dei deputati leghisti, i quali affermano che l’alta velocità diminuirà sensibilmente l’inquinamento dell’aria e, soprattutto, porterà a una maggiore sostenibilità. Si tratta di propositi sicuramente nobili, ma, valutando i tempi necessari per il completamento della tratta, che secondo le stime attuali vedrà la luce nel 2035 circa, i 15/20 anni interessati dagli scavi richiederanno un grande passaggio e movimento di camion e tir per lo smaltimento delle macerie, che non diminuiranno assolutamente l’inquinamento; anzi, non faranno altro che aumentarlo. Chi risanerà, quindi, 15/20 anni di emissioni e di carburanti alle stelle per trasporto su strada di tutti i mezzi connessi alla costruzione della galleria?

Altra questione calda è quella politica: in un’Italia che si sbriciola in assenza di prevenzione geologica, in un’Italia in cui mancano molti servizi, o se ci sono, risultano insufficienti, in un’Italia in cui i terremotati di Amatrice e dell’Aquila attendono ancora l’intervento concreto delle istituzioni, in un’Italia in cui Matera diventa Capitale della cultura europea ma i turisti non possono arrivarci perchè c’è la stazione ma non il treno, il nostro unico vitale interesse è il Tav?

Un’altra riflessione su cui vorrei soffermarmi è la seguente: durante le elezioni per il nuovo presidente della Commissione europea, avvenute il 16 luglio scorso, la Lega ha gridato “al tradimento” contro i suoi alleati grillini, dichiarando che essi votarono a favore di una candidata, ovvero Ursula von der Leyen, osteggiata dal Carroccio. Tuttavia, allo stesso tempo, la Lega promuove e chiede di andare avanti su un’opera ad alta velocità richiesta in primis dalla Francia di Macron (duramente attaccata dal vicepremier leghista) e dalla stessa Unione europea di cui è divenuta il capo la von der Leyen criticata dai leghisti: divertente, no? E a tutti coloro che chiedono di rispettare i trattati internazionali ed europei, bisognerebbe ricordare che si tratta di accordi firmati da governi precedenti, passati, ovvero non stipulati dall’attuale maggioranza, e da un’Europa che il governo gialloverde ha espresso più volte di voler cambiare. Che il vento di tempesta italiano che si doveva abbattere su Bruxelles si sia trasformato in flebile brezza?

Per non parlare dell’aspetto economico e tecnologico della linea: miliardi di euro dei cittadini italiani che, invece di essere utilizzati per una tratta ormai vecchia e non prioritaria per il Paese, dovrebbero essere investiti in infrastrutture nuove, nella messa in sicurezza dei cavalcavia, nel risanamento della sanità pubblica e nella prevenzione di disastri idrogeologici (a questo proposito, vorrei ricordare la tragica alluvione del Tanaro nel 2016 in Piemonte, uno fra i tanti esempi di mal salvaguardia del territorio). Quando verrà completata, la Torino-Lione non potrà che essere minimizzata dalle nuove tecnologie che avanzano giorno dopo giorno ed essere, di conseguenza, declassata a normale mezzo di trasporto merci come ve ne sono tanti già adesso. Altro che progetto al passo con i tempi, visto che il trasporto merci è e diventerà sempre più imponente in un futuro quanto mai prossimo tramite mastodontiche navi mercantili e portaerei oggigiorno in fase di sperimentazione. È su queste tecnologie che bisognerebbe investire per rimanere, come molti chiedono, al passo con i tempi!

La democrazia è un allenamento

Vorrei condividere coi lettori del Fatto, l’unico giornale ad aver dato spazio al Comitato Rodotà in questi sei mesi di campagna raccolta firme, qualche riflessione. Questa per la Legge di iniziativa popolare di riforma del Codice civile è stata per me la seconda campagna nazionale a distanza di dieci anni dalla precedente, quella referendaria “Acqua bene comune”, in cui ho attraversato il Paese, dal Brennero a Capo Passero per raccogliere firme.

Anche 10 anni fa, come sempre avviene a sinistra (all’epoca collaboravo col Manifesto) noi giuristi autori materiali dei quesiti referendari (Lucarelli, Rodotà e il sottoscritto) incontrammo “fuoco amico” poi fortunatamente rientrato con la convergenza del “Forum italiano movimenti acqua” sulla nostra ipotesi. Come noto, le firme necessarie furono triplicate (ne raccogliemmo 1,5 milioni), il referendum fu stravinto (26 milioni di Sì) e ottenne il suo scopo istituzionale, quello di stoppare la privatizzazione obbligatoria entro dicembre 2011 dei servizi pubblici di rilevanza economica (acqua, trasporti e rifiuti per un valore di circa 200 miliardi). Il secondo quesito cercò inoltre di abrogare il profitto garantito del 7 per cento a favore dei gestori del servizio idrico, cosa riuscita solo in parte a causa dell’atteggiamento antidemocratico di tutti i governi successivi al referendum (centrodestra, tecnici, centrosinistra, gialloverdi), i quali non si misero mai al lavoro in buona fede per trovare un modello di gestione coerente con l’idea dei beni comuni e dell’articolo 43 della Costituzione (che consente di affidare i più importanti sevizi pubblici a “comunità di utenti e lavoratori”).

Il concetto di beni comuni come categoria “oltre il pubblico e il privato”, da governarsi nell’interesse delle generazioni future, fuori dalla logica del profitto e della rendita, fu il lascito fondamentale della Commissione Rodotà, che generò non solo il referendum sull’acqua ma anche mutamenti regolamentari, giurisprudenziali e dottrinari, senza tuttavia che questo nuovo diritto dei beni comuni riuscisse a diventare legge dello stato. Neppure purtroppo siamo riusciti a far capire agli statalisti più incalliti (soprattutto a sinistra) che il potere concentrato dello Stato e delle pubbliche burocrazie è tanto nemico dei beni comuni quanto quello privato (basti vedere la vicenda Tav in Valsusa), il che spiega le nuove raffiche di “fuoco amico” che hanno accolto la riproposizione del testo Rodotà tramite Iniziativa popolare, senza che stavolta ci fosse successivo ravvedimento.

Ciò che ho potuto constatare, svolgendo a distanza di 10 anni (di neoliberismo) identica attività di militanza di base, è un incredibile mutamento antropologico, una vera regressione democratica, avvenuta in un tempo davvero breve. Oggi le persone non hanno più voglia di fermarsi a parlare di politica, hanno una fretta indiavolata (anche di domenica mattina e perfino alla Festa dell’Unità), temono che tu voglia vendere loro qualcosa, non sopportano di attendere nemmeno tre minuti in coda per firmare. Il solo luogo dove ho constatato un interesse per i beni comuni non minore di quello generale di 10 anni fa (ho girato una settantina di piazze oggi come allora) è stato al Festival No Tav di Venaus.

Di questo mutamento antropologico occorrerebbe che si rendessero conto anche coloro che si proclamano democratici (non solo il Pd) e non soltanto quanti lo cavalcano. Dieci anni in cui: la sinistra è scomparsa tradendo un risultato referendario che in realtà non aveva mai voluto; la politica si è trsferita su Facebook e Twitter; la tossicodipendenza da smartphone ha contagiato tutti e certo non solo i ragazzi; il verticismo e il personalismo autoritario si è impadronito di tutti i partiti; i movimenti sociali si sono quasi tutti liquefatti. Sono stati anni in cui, come diceva il grande Debord, i critici accreditati della società dello spettacolo (ossia i pubblici intellettuali) sono diventati in maggioranza tanto volgari e narcisi quanto lo spettacolo che criticano, condannandosi in massima parte all’inutilità.

Una trasformazione così rapida e complessa ha infiacchito in modo drammatico il corpo sociale (non solo italiano), proprio quando maggiormente necessario ne sarebbe il vigore per affrontare sfide ecologiche e democratiche senza precedenti. Vale la pena di ricordarlo mentre molti affrontano in spiaggia la prova costume (forse l’unico test dal quale Salvini esce veramente male!). La democrazia è come la forma fisica. Se non la si coltiva la si perde. Ecco, al di là dell’esito della Lip Rodotà e del successivo tentativo della Cooperativa Delfino (www.generazionifuture.it), tanto ho imparato in questi mesi: c’è bisogno di gran ginnastica democratica!

Mail box

 

L’Europa sia più autonoma e meno servile verso gli Usa

I partiti socialdemocratici e popolari che hanno governato finora la Comunità europea e che si definiscono “europeisti”, dinnanzi alla Brexit, al disastro greco, all’aumento della povertà e delle disuguaglianze, alla crescita di forze “populiste”, avevano dato l’impressione di voler cambiare, o almeno attenuare quella politica neoliberista di austerità perseguita. Ed invece, riottenuta la maggioranza al Parlamento europeo, sembra che nulla debba cambiare. Ma se queste forze vogliono veramente un’Europa unita, capace di contare nella politica mondiale, perché non si preoccupano di garantire ai cittadini europei il lavoro, un buon stato sociale, la difesa dell’ambiente e della pace? Perché non si impegnano per un rafforzamento del potere del Parlamento europeo, per la democratizzazione dei centri di potere europei, per un sistema fiscale comune, per l’eliminazione dei paradisi fiscali, per un controllo ed una tassazione adeguata delle grandi multinazionali, per una riforma della Bce che presti il denaro agli Stati invece che alle banche, per una politica estera autonoma di pace, non suddita a quella degli Stati Uniti che – per i loro interessi e per la volontà di dominio – in questi ultimi 25 anni con la Nato hanno trascinato l’Europa in numerose guerre disastrose?

L’intellettuale Naomi Klein, rifacendosi agli scritti di Edward Said sulla cancellazione da parte dell’Occidente dell’umanità degli altri popoli nel nome di una supposta superiorità occidentale, denunciava le cause, collegate fra loro, del degrado della civiltà occidentale: le politiche neoliberiste e neocolonialiste, la distruzione dell’ambiente con il cambiamento climaticoe le guerre. In sintesi l’attuale capitalismo

Ireo Bono

 

Professore o passacarte: qual è il ruolo di chi insegna?

Per i docenti un argomento è sempre meno familiare: la didattica. La scuola, infatti, con gli insegnanti chiamati a svolgere una miriade di ruoli pseudo-manageriali e di tantalici adempimenti burocratici, sta sempre di più mettendo ai margini ciò che essa dovrebbe garantire nella sua essenza: l’insegnamento. Il castello di carta e byte spinge sempre più l’attività dei docenti in una sorta di Vietnam burocratico, in cui figurano come reduci. Si fanno grandi proclami veterosindacali ma non si vede che il problema ora è questo: lo spazio vitale che ancora è concesso al docente perché possa essere ancora un insegnante, una figura di riferimento per la crescita e lo sviluppo di ciò che c’è di più prezioso nei ragazzi: il loro spirito. Lasciateci leggere, studiare, conoscere. Insomma: lasciateci insegnare!

Giuseppe Cappello

 

La riforma della giustizia e il nodo del potere ai pm

Carlo Nordio da ex magistrato critica legittimamente la riforma di Bonafede, ma lo fa con dei toni e una severità che sinceramente non comprendo. La definisce riformina, un obbrobrio perché convinto che dia in mano ai pm poteri unici al mondo. Che ci debba essere un equilibrio (sempre difficile da mantenere) fra i due poteri è chiaro, ma dopo tutti gli scempi che sono stati commessi in materia di giustizia negli ultimi vent’anni dai precedenti governi, i violenti attacchi della politica alla magistratura e la classe politica che ci ritroviamo, mi pare molto strano che un uomo di legge dia un giudizio così severo su questa riforma e si preoccupi più degli arbìtri dei magistrati che di quelli della politica. L’impressione è che non abbia poi tutta questa fiducia nell’istituzione di cui ha fatto parte. Nordio ha definito Bonafede troppo ideologico, probabilmente preferisce il trasformismo della Bongiorno.

Enza Ferro

 

Grandi opere, ovvero i debiti dei padri pagati dai figli

Oggi, mercoledì 7 agosto 2019, con la votazione sulla Tav il Parlamento italiano ha palesato o meglio certificato la volontà di sottomettere le nuove generazioni (in minoranza) alle esigenze della maggioranza della popolazione. La scelta dei giovani del M5s di chiedere ai rappresentanti degli italiani – che per età rappresentano le generazioni dei nonni, zii, padri e fratelli maggiori – di non continuare a fare scelte non utili aggravando la montagna di debiti in carico al Paese è stata con fierezza e godimento rigettata. Il comportamento dei padri di famiglia si sta scontrando contro chi resta. Ma milioni di giovani sono fuggiti, non emigrati, ciò dovrebbe aver fatto riflettere anche il più ottuso degli egoisti.

Emilio Baldrocco

 

Lo sbarramento ai concorsi pubblici penalizza molti

Sono una nonna di 4 nipoti disoccupati. Sono ragazzi bravi educati, rispettosi e con la voglia di formare una famiglia. Purtroppo vengo a sapere che non possono partecipare ai concorsi pubblici perché non hanno ottenuto un voto alto alla licenza liceale. Mi chiedo: “Come faranno a trovare lavoro?” Non è giusto, è sbarrare la strada ai giovani.

Ivana

Pirateria. La centrale operativa delle frodi è in Arabia Saudita, ma tutti stanno zitti

 

Buongiorno, ho sentito in radio che la Lega di Serie A ha lanciato una campagna anti-pirateria audiovisiva nel mondo del calcio. Le intenzioni mi sembrano ottime, ma nei fatti l’iniziativa è ridicola e risibile: qualche striscione negli stadi e qualche hashtag in rete. Basterà scrivere #stopiracy per contrastare il fenomeno? Ho i miei dubbi.

Carlo Minetti

 

Caro Carlo, che ne direbbe di un genitore che dopo la condanna per pedofilia del direttore dell’asilo del paese, organizzasse la festa di compleanno del figlio proprio all’asilo per portare a casa il costoso regalo del direttore maniaco? Lo disprezzerebbe? Anche noi. E tuttavia, se ci passa il paragone, a parte il “Fatto” che ne parlò il 16 gennaio scorso, giorno di Juventus-Milan di Supercoppa a Gedda (Arabia Saudita), nessuno disse e scrisse nulla allora e nessuno dice nulla oggi dopo l’apertura della campagna anti-pirateria decisa dalla Lega di serie A. Tutti a far finta di niente, ma questa improvvisa presa di posizione contro il mostro della pirateria – che ha la sua centrale operativa in Arabia Saudita dove le Iptv illegali (su tutte BeOut-Q) vendono alla luce del sole i propri set-top, meglio conosciuti da noi come il “pezzotto” – ha una coda di paglia lunga 3370 chilometri, la distanza che separa Roma, Italia, da Gedda, Arabia; dove anche il prossimo inverno, pur di raccattare 7-8 milioni, porteremo Juventus e Lazio a contendersi il trofeo nella tana dei pirati-tv, quelli che rubano al nostro calcio il 38% delle risorse. Il tuo aguzzino ti uccide e tu vai a esibirti sotto il suo balcone. Quando si dice: la faccia come il deretano. Quando un anno fa Juventus e Milan disputarono la Supercoppa a Gedda, il Ceo di BeIn Media Group, Yousef Al-Obaidly, indirizzò una lettera aperta a Gaetano Miccichè, presidente di Lega. Scrisse: “Il signor Miccichè ha detto che la partita a Gedda promuoverà il Made in Italy e i suoi valori; in realtà servirà semplicemente a promuovere il ‘Rubato in Arabia Saudita’. Tra tutti i Paesi nel mondo che avreste potuto scegliere per ospitare la vostra partita, avete deciso proprio per quello che sta supportando il furto dei vostri contenuti su scala industriale. E la cosa più allarmante di tutte è che ne siete perfettamente consapevoli”. È passato un anno e non è cambiato niente. Sky ha 5,1 milioni di abbonati, 3,2 dei quali solo per il calcio; se è vero che la pirateria incide al 38 per cento, ciò significa che i 3,2 milioni di abbonati calcistici potrebbero essere 4,416 (1,216 in più) e i 5,1 totali 7,038. E che i 973 milioni che Sky e Dazn pagano ogni anno alla serie A potrebbero diventare 1,343 miliardi (+ 370 milioni). La verità è che siamo ridicoli. E facciamo pena.

Paolo Ziliani

Autostrade dei Parchi, salta blocco tariffe: da settembre +19%

Saltal’intesa per la sterilizzazione delle tariffe sulle autostrade abruzzesi e laziali A24 e A25 e torna il rischio della maxi stangata dal primo settembre. Dopo il superamento dell’ostacolo più grande con l’approvazione del Piano economico finanziario – al quale manca solo il parere dell’Ue – da parte di Cipe e Autorità per la regolazione dei Trasporti, sembrava allontanato il pericolo del maxi aumento dei pedaggi. Nel pomeriggio di ieri, invece, l’Anas non ha ratificato l’intesa sulla sterilizzazione delle tariffe trovata poche ore prima in un summit tra i ministeri dei Trasporti ed Economia e la concessionaria Strada dei Parchi Spa, del gruppo Toto. Si annuncia quindi un nuovo braccio di ferro tra la società pubblica e la concessionaria e parte un’altra corsa contro il tempo perché, come spiegato dal vice presidente del cda di Sdp, Mauro Fabris, senza un intervento del governo, non ci sono le condizioni per la proroga del blocco delle tariffe, già fatta il primo giugno, fino al 31 agosto. Una sterilizzazione che, se revocata, causerebbe una stangata del 19%: il 12,8% scattato da inizio anno sulla base di sentenze del Tar dopo tre anni di blocco da parte del Mit, e il 5,6% dal primo gennaio 2019 sulla base della concessione.

Da bonus a decontribuzione: le mani della Lega sugli 80 euro

Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ci gira intorno fin dal suo insediamento nel palazzo di via XX settembre. Proprio l’8 agosto dell’anno scorso rilasciava un’intervista al Sole 24 Ore in cui ventilava l’idea di abolire il cosiddetto bonus Renzi degli 80 euro in busta paga “anche per ragioni di riordino tecnico”. Un’affermazione che veniva prontamente rintuzzata all’unisono dai due vicepremier gialloverdi freschi di nomina, quando, sembra un’epoca fa, filavano ancora d’amore e d’accordo. “Il governo è compatto nella volontà di non aumentare l’Iva e di non mettere le mani nelle tasche degli italiani anche per quanto riguarda questa misura”, affermava allora senza tema di smentita Luigi Di Maio. Un anno dopo è la Lega a farsi carico, nella sua proposta di manovra-ombra illustrata l’altro giorno alle parti sociali al Viminale, di rimettere le mani sul tesoretto dei 10 miliardi accantonati per finanziare il bonus.

Il viceministro leghista all’Economia, Massimo Garavaglia, ha prospettato l’idea di trasformarlo da credito d’imposta a contributi figurativi direttamente a carico dello Stato. “Chi lo percepisce non perderà nulla, ma anzi gli 80 euro entreranno nel monte contributivo ai fini della pensione, proprio in un periodo in cui si parla di assegni di importi esigui”. Insomma, la decontribuzione sarebbe l’uovo di Colombo, secondo il viceministro del Carroccio, per aggirare i principali difetti che la formulazione della norma ha mostrato fin dal varo nel 2014 da parte del governo Renzi, a carico sia del bilancio dello Stato che dei contribuenti.

Anche quest’anno, puntuale, il fisco ha bussato alla porta degli italiani per chiedere indietro il bonus di 80 euro a chi ha guadagnato troppo o troppo poco per rientrare nei paletti fissati dal governo Renzi. Nel 2017 circa 1,8 milioni di soggetti hanno dovuto restituire l’agevolazione fiscale per un importo di circa 494 milioni di euro, ma il 56% dei destinatari (pari a 992.000 soggetti) l’ha addirittura rimborsato integralmente facendo rientrare nelle casse dello Stato 385 milioni di euro. Sono, invece, 1,2 milioni i contribuenti che hanno recuperato il bonus (pari a 770 milioni di euro) grazie alla dichiarazione dei redditi perché non gli era stato attribuito correttamente dal datore di lavoro. L’ex segretario del Pd Matteo Renzi ancora la difende a spada tratta e avverte: “La decontribuzione sugli 80 euro è una fregatura”.

Spacciata come un aiuto ai poveri, l’elargizione ha fatto presa su una larga fascia di elettorato. Gli 80 euro al mese più che un bonus sono tecnicamente un credito di imposta sull’Irpef per lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Ne hanno diritto i contribuenti la cui imposta lorda sia superiore alla detrazione per lavoro dipendente e il cui reddito è compreso tra 8mila e 26.600 euro. Per esempio, nel caso di un dipendente occupato per tutto l’anno con solo reddito da lavoro e senza familiari a carico, la soglia dalla quale è percepito il bonus è 8.145 euro. Al di sotto dei 24.600 euro gli 80 euro sono versati ogni mese; al di sopra invece si riducono progressivamente fino ad azzerarsi per i redditi superiori a 26.600 euro. Le soglie minime (al di sotto di 8.174 euro si rientra automaticamente nell’incapienza) e massime sono state alzate con la legge di Bilancio 2018, per non intralciare l’aumento contrattuale dei dipendenti pubblici.

Per come è congegnata, la misura individua una platea ben precisa in cui le famiglie a più basso reddito hanno speso, come era intuibile, la percentuale più alta del bonus, fino all’80 per cento. Ma i più poveri, coloro che guadagnano meno di 8 mila euro all’anno (e che per questo non sono soggetti a imposizione fiscale) non hanno ricevuto il beneficio promesso. A questi si aggiungono coloro che, a conti fatti, in occasione della dichiarazione dei redditi si trovano a non avere sufficienti imposte da pagare. Una riflessione che porta a un altro punto delle critiche all’attuale impianto del bonus, cioè che sia stato elargito anche e soprattutto a chi non ne aveva bisogno. Trasformarlo in un ulteriore detrazione, come si era ventilato nei giorni scorsi tra le tante ipotesi finite sul tavolo del ministero dell’Economia, aggraverebbe il problema della sua scarsa o nulla incisività sui conti delle famiglie più bisognose.

Anche la natura contabile del bonus di 10 miliardi di euro nel bilancio dello Stato – e quindi ai fini dei parametri di Maastricht – è un rompicapo dai tempi in cui al ministero dell’Economia sedeva il padre della misura, Pier Carlo Padoan. Così come è oggi, infatti, per i funzionari di Bruxelles il trasferimento di denaro dallo Stato ad alcuni cittadini è da considerare spesa pubblica a tutti gli effetti e grava sul calcolo del deficit e del debito in rapporto al Pil. Tecnicismi che diventano sostanza e una questione molto delicata, quando l’intestataria della partita doppia è l’Italia.

Cartone ondulato, multe da 287 milioni di euro contro aziende

Le principali imprese di produzione del cartone ondulato facevano cartello sulla vendita di questo diffusissimo materiale di imballaggio. Se ne è accorta l’Antitrust, che ha annunciato multe per oltre 287 milioni di euro, per accordi e operazioni che sarebbero state volte a distorcere la concorrenza. Il Garante le ha chiamate “intese distorsive della concorrenza volte a distorcere le dinamiche concorrenziali rispettivamente nel mercato dei fogli in cartone ondulato e nel mercato degli imballaggi in cartone ondulato”. Si tratta di accordi segreti che le aziende di cartone ondulato stipulavano tra loro per concordare insieme prezzi di vendita e termini di pagamento: un giro d’affari scoperto grazie alla collaborazione del nucleo speciale antitrust della guardia di finanza. Tutto era partito da una segnalazione di un’associazione di categoria e da una domanda di clemenza da parte di una delle società coinvolte. Così è stato avviato il procedimento e subito dopo sono arrivate anche le domande di clemenza di altre aziende. L’Autorità ha scoperto così un’intesa continuativa per tutto il periodo tra il 2004 e il 2017. Le aziende coinvolte sono 20, più un’associazione di categoria.

Ilva, Arcelor “batte” Di Maio e ora punta il ministro Costa

In attesa del testo del “decreto Imprese”, approvato martedì sera in Consiglio dei ministri, ci si deve accontentare del pudico accenno del comunicato di Palazzo Chigi: il governo, tra le altre, ha varato anche “disposizioni in materia di Ilva”. Dietro queste cinque parole c’è il ritorno dell’immunità penale per i nuovi proprietari dell’acciaieria di Taranto, la multinazionale ArcelorMittal, che sarebbe rimasta senza “scudo” dal 6 settembre e minacciava di fermare la produzione. Insomma Arcelor, che ha forti sponde leghiste nell’esecutivo, ha vinto sull’immunità e ha pensato bene di assestare anche un altro schiaffone ai 5 Stelle di governo: ha presentato ricorso contro il decreto del ministro dell’Ambiente Costa che ha avviato il riesame della Autorizzazione integrata ambientale (Aia) alla luce di nuovi dati sul rischio sanitario.

Partiamo dalla cosiddetta “esimente penale”. Luigi Di Maio aveva cantato vittoria a maggio quando il decreto Crescita eliminò lo scudo penale “totale” fino al completamento del Piano ambientale (2023) concesso da Matteo Renzi a gestori e proprietari dell’Ilva: l’esimente, prevedeva il testo, sarebbe stata abrogata a partire dal 6 settembre per Arcelor e restava in vigore per i commissari governativi alle bonifiche e solo per l’attuazione dell’Aia. Non sono passati neanche tre mesi e, viste anche le minacce di chiusura e causa miliardaria della multinazionale, lo stesso Di Maio è stato costretto alla marcia indietro: torna lo scudo, ma sarà meno vasto del precedente. È “l’immunità a scadenza” di cui Il Fatto ha già parlato tempo fa: in sostanza Arcelor avrà la stessa immunità dei commissari, cioè circoscritta all’attuazione delle prescrizioni dell’Aia e del relativo cronoprogramma. Se, per fare un esempio, il Piano ambientale prevede che i parchi minerari siano sistemati entro il 2020, lo scudo sarà valido solo fino a quella data e solo per le operazioni previste dall’Aia.

Di Maio, che in 90 giorni ha dovuto rimangiarsi un decreto, la mette così: “Abbiamo individuato una norma di equilibrio che rivede la precedente forma di immunità generalizzata in un sistema di tutele a scadenza vincolate al rispetto del piano ambientale”. Niente più scudo, dice il vicepremier, su sicurezza del lavoro e salute. In realtà, essendo ambiti strettamente connessi, è difficile che lo scudo penale non influenzi anche eventuali procedimenti contro l’azienda per questi reati.

ArcelorMittal, come detto, ha vinto e ora vuole stravincere: alla multinazionale non basta l’immunità né la cassa integrazione di oltre mille operai non prevista dal piano industriale (il mercato è in ribasso, dicono), ma adesso punta a bloccare pure Sergio Costa. Qual è il problema? Il ministro dell’Ambiente, dopo aver ricevuto un esposto del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci (Pd), con un decreto ministeriale del 27 maggio ha avviato il riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale. È contro questo decreto che la società proprietaria dell’Ilva di Taranto ha fatto ricorso al Tar: “È lo schiaffo più grande – s’è indignato il sindaco Melucci – Evidentemente qualcuno ha pensato che a Ferragosto fosse possibile l’ennesimo saccheggio e l’ulteriore presa in giro della città”.

Al ministero dell’Ambiente, invece, non sono sorpresi più di tanto. D’altra parte, per l’azienda, è una “grana” non da poco. Il Comune a fine maggio ha chiesto infatti al ministero di imporre alla fabbrica “condizioni di esercizio più severe per acclarati motivi sanitari”: i dati a fine 2018 dimostrano infatti che a Taranto – pur con l’acciaieria quasi ferma – si continua a morire e ammalarsi di più che nel resto d’Italia. Se i tecnici di governo confermeranno la pericolosità sanitaria dell’Ilva, Costa potrebbe chiedere ad ArcelorMittal di accelerare il Piano Ambientale e, soprattutto, porre nuovi tetti alla produzione rispetto ai 6 milioni di tonnellate annue attuali (ma l’impegno è portarle ad otto col tempo).

Acquisita la pericolosità dell’acciaieria per i tarantini, ora si può spiegare quella di Costa per la multinazionale. Lo stabilimento di Taranto, che perde un milione al giorno, tornerà redditizio solo ricominciando a produrre almeno 8 milioni di tonnellate l’anno (oggi è sotto le 5): con tetti più stringenti alla produzione tenere aperta l’acciaieria di Taranto semplicemente non converrebbe più. Un’opzione, quella della chiusura, che ad Arcelor dispiace fino a un certo punto: in Europa ci sono 30 milioni di tonnellate di sovracapacità produttiva e i clienti dell’Ilva se li è già presi…

Dalle Cinque Terre al Gargano: nominati i direttori dei Parchi

Arrivano i presidenti: Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha firmato il decreto di nomina dei presidenti di cinque parchi nazionali: Donatella Bianchi (Cinque Terre), Pasquale Pazienza (Gargano), Ennio Vigne (Dolomiti Bellunesi) , Francesco Tarantini (Alta Murgia), Francesco Curcio (Sila). “Si tratta di professionisti – sostiene Costa – che hanno dedicato la vita alla tutela dell’ambiente, che vengono dalla società civile e hanno una visione di sviluppo, tutela e valorizzazione dei territori di cui sono figli”. Positive le reazioni del mondo ambientalista: “È un passo importante, su diversi nomi c’era un consenso assoluto, dalla politica al territorio”, sostiene Stefano Ciafani, presidente di Legambiente. Certo, il percorso non è finito, come ricorda Giampiero Sammuri che guida Federparchi: “Un buon segno, ma otto parchi attendono la nomina dei vertici”. E restano da risolvere antichi problemi: “I parchi sono luoghi vivi, non soltanto per la loro biodiversità, ma anche perché devono essere un motore per l’economia del territorio”, sostiene Ciafani. Sammuri indica i prossimi passi: “Completare le nomine e arricchire le piante organiche. Mancano tecnici, come veterinari e agronomi”.

Taranto, le vittime dei fumi risarcite con un’affettatrice

Un pianoforte, un attrezzo da palestra e addirittura un’affettatrice. Sono i beni sequestrati a Fabio Riva, ex proprietario dell’Ilva di Taranto arrestato nell’inchiesta “ambiente svenduto” che ha documentato le emissioni velenose della fabbrica e i legami “gelatinosi” tra il gruppo industriale e la politica locale e nazionale. Valore commerciale dei tre oggetti? Meno di 15 mila euro in tutto. Una somma che dovrebbe ripagare i danni subiti da centinaia di abitanti del rione Tamburi, il più vicino e il più martoriato dai fumi e dalle polveri nocive dello stabilimento, le associazioni come Legambiente e le istituzioni come il Comune di Taranto, che da solo aveva chiesto oltre 3 miliardi. Quelle poche migliaia di euro sembrano un insulto. Alle vittime del capoluogo ionico era destinata una somma più alta: il piccolo tesoro di circa tre milioni di euro appartenuto in punto di morte a Emilio Riva, l’89enne padre di Fabio ed ex padrone dell’acciaio. Era una minima parte della fortuna scampata ai numerosi sequestri della magistratura e sarebbe servita a ripagare le parti civili di un vecchio processo per inquinamento in cui l’imprenditore era stato condannato in via definitiva. Sulla carta il vecchio Riva possedeva ancora denaro, immobili e quote societarie che poi, misteriosamente, scompaiono.

Tutto inizia il 30 aprile 2014 quando l’imprenditore lombardo muore per un tumore. Due anni prima, nel luglio 2012, la magistratura aveva sequestrato gli impianti dell’area a caldo dell’Ilva perché colpevole di diffondere “malattia e morte” con le emissioni nocive, ma in pochi ricordano che i vertici della fabbrica erano già stati condannati e obbligati a risarcire le parti civili. Una di queste sentenze è del 2005: la Cassazione condannò definitivamente Emilio Riva e l’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. Sulla base della sentenza penale, qualche tempo dopo, è iniziato il processo civile per quantificare l’ammontare del danno che Riva avrebbe dovuto pagare. Comune e Provincia di Taranto chiedono cifre talmente astronomiche che i beni di Emilio Riva in confronto sembrano pochi spiccioli. Infatti nessun parente accetta l’eredità per evitare di accollarsi il rischio di consistenti risarcimenti. Tra giugno e luglio 2014 firmano la rinunzia dal notaio e il tribunale di Varese, nell’ottobre successiva, nomina l’avvocato Omar Salmoiraghi come curatore dell’eredità “giacente”.

Salmoiraghi affida a un tecnico l’inventario dei beni: compaiono terreni, fabbricati, partecipazioni societarie e denaro contante su alcuni conti correnti. Valore complessivo, circa tre milioni di euro. L’avvocato di Varese contatta poi i legali delle parti civili per avere un’idea chiara dei debiti e delle pendenze. Circa due anni dopo, il tribunale di Varese a sorpresa lo sostituisce con un nuovo curatore: è l’avvocato Marco Moro Visconti, milanese. Perché questo cambio? L’avvocato Salmoiraghi, contattato dal Fatto spiega di non poter rispondere in assenza dell’autorizzazione del tribunale. Nel frattempo, nel procedimento civile, c’è un nuovo colpo di scena: Fabio Riva si dichiara unico erede del padre Emilio.

Fabio Arturo Riva, all’epoca 62enne, era rientrato in Italia a luglio del 2014 dopo 31 mesi di latitanza a Londra. C’ era un ordine di arresto per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, omissioni dolose di cautele sui luoghi di lavoro e poi corruzione in atti giudiziari e diversi altri reati contestati nella maxi inchiesta di Taranto: il processo è ancora in corso. Il 6 giugno 2015 atterra all’aeroporto di Fiumicino, finanzieri e poliziotti lo portano nel carcere di Taranto dove trascorre qualche mese in cella e poi, per motivi di salute, ottiene i domiciliari. Il 5 dicembre 2016 il secondogenito di Emilio Riva diventa il suo erede, ma nessuno dei creditori viene informato dal curatore Moro Visconti. Come mai? Dal suo studio ci spiegano che non è possibile parlare con lui. Intanto i conti correnti dell’ex patron dell’acciaio finiscono nella disponibilità del figlio Fabio. Quando la notizia arriva agli avvocati delle vittime di Taranto è troppo tardi: su quei conti correnti non c’è più nulla. Gli immobili? Neppure quelli ci sono. Perché in realtà Emilio Riva possedeva solo una quota dei terreni e un diritto parziale di usufrutto che sarebbe decaduto con la sua morte. Delle partecipazioni azionarie non c’è notizia.

Insomma, non c’è più niente. I cittadini dei Tamburi, Legambiente e gli enti pubblici, nonostante una sentenza abbia stabilito che hanno diritto a un risarcimento, non riceveranno nulla. Anzi, peggio. Quando l’avvocato Massimo Moretti di Legambiente chiede di pignorare i beni di Fabio Riva incassa forse la più grande delle beffe: sotto chiave finiscono solo il pianoforte, l’attrezzo da palestra e l’affettatrice. Ma c’è di più. Al primo curatore, l’avvocato Salmoiraghi, viene liquidata una parcella superiore ai 200 mila euro, soprattutto per aver seguito come i numerosi procedimenti civili in cui era coinvolto l’89enne tra Taranto e Milano. Il secondo curatore, l’avvocato Moro Visconti, invece, non chiede nulla al tribunale: sarà l’erede Fabio Riva a pagarlo. Ai tarantini resta la beffa. E un’affettatrice.