Cerno dice No: “È un’opera vecchia Spianiamo la strada alla destra”

Avevaannunciato il suo voto in una intervista al Fatto qualche giorno fa. E ieri Tommaso Cerno, senatore indipendente iscritto al gruppo del Pd, si è espresso in dissenso con i dem, votando a favore della mozione dei 5 Stelle per fermare il Tav. Una decisione presa in coerenza con gli anni di lavoro a L’Espresso, durante i quali Cerno si è spesso occupato in maniera critica del Torino Lione. Durante il suo intervento in Aula, ieri, Cerno ha ribadito i perché del suo voto, applaudito dai banchi del Movimento: “Chiedo di intervenire per tentare di evitare all’ultimo momento uno spreco colossale di danaro che è stato perpetrato nel nome del fare e che invece è lo strafare. Dicono che il mio sarebbe un voto contro il futuro. La domanda è: quale futuro? Il futuro che fu progettato, negli anni Ottanta, dai Governi Andreotti VI e Andreotti VII? Siamo già in ritardo di trent’anni e dobbiamo ancora cominciare”. Cerno si è poi rivolto ai colleghi di partito: “La pagherà il ministro Toninelli? Va bene, ci sarà un altro Governo? E che Governo sarà? Più di destra. Amici, ripensateci finché siete in tempo. State facendo un errore madornale”. Appello inascoltato.

Renzi si crede in Colorado, Airola va in crisi Bonino evoca “l’aggeggio” e torna Borghezio

“Non è che navighiamo a vista, una rotta ce l’abbiamo. È solo che non sappiamo quale”. L’incertezza regna, persino tra i leghisti. A sfogliare la margherita insieme ai colleghi, fuori dal Senato, c’è Giuseppe Basini, deputato salviniano e campione d’aforismi. Una sigaretta per sdrammatizzare e braccia aperte per tentare di indovinare il futuro: “Bismarck diceva che la politica è l’arte del possibile. Se lo era in Prussia, figuriamoci in Italia”. Come a dire: aspettiamoci di tutto.

Mentre in Aula si parla e si vota, nei corridoi compare pure Mario Borghezio. Che ci fa? Lui che è rimasto senza poltrona – pardon, senza seggio – dopo 27 lunghi anni tra Roma e Bruxelles, trombato dalle liste leghiste alle ultime europee, mette da parte il dente avvelenato. È venuto qui per godere della disfatta dei 5 Stelle, rimasti soli a contrastare il Tav. Si siede comodo e si alza poco, ascolta gli interventi dagli schermi, ogni tanto annuisce soddisfatto.

A fianco a lui, il più accanito Sì Tav italiano: Mino Giachino, già sottosegretario ai Trasporti con Berlusconi e “organizzatore manina” delle ultime manifestazioni pro Torino Lione con le madamine. Sventola un cartello giallo (con una scritta nera, forse omaggio al cantautorato italiano): “Sì tav, Sì lavoro”. A voto compiuto se ne va soddisfatto: “È una nostra vittoria, abbiamo spaccato il governo”. Veni, vidi, vici.

In Aula per la Lega parla Marzia Casolati, che si accoda al suo Capitano e evoca investiture divine pure sul voto Sì Tav/No Tav: “Le difficoltà morfologiche del territorio che la natura ha dato al Piemonte sono state compensate dal buon Dio, che ha voluto che la Regione fosse strategica nell’intersezione delle rotte delle merci tra Rotterdam e Genova e tra Kiev e Algeciras”. E se c’è di mezzo il buon Dio, chi siamo noi per bloccare un treno merci in più.

Oltretutto l’alta velocità, sotto sotto, fa comodo a tutti, compresi quelli che la osteggiano, come da testimonianza del berlusconiano Marco Perosino: “Viaggio in Frecciarossa e vedo spesso dei colleghi del M5S. Il Frecciarossa attraversa le gallerie da Bologna a Firenze e da Firenze a Roma, che sommate sono superiori alla lunghezza della galleria costruenda. A questi colleghi allora dico: venite in bicicletta!”. In bicicletta? “Io sono già venuto due volte a Roma in bicicletta nella mia vita, è possibile. Oppure venite con gli scassati regionali”. Sillogismi incontestabili: sei contrario al Ponte di Messina? Allora la prossima volta a Venezia ci vai a nuoto, altro che ponti.

Il 5 Stelle Alberto Airola, invece, si impappina sui numeri: “I francesi pagheranno per 45 km un miliardo, mentre noi, cioè loro, noi, no scusate il contrario, 45 km sono italiani e l’Italia paga i due terzi, cioè 4 miliardi e scusate, i 45 km sono francesi e l’Italia, scusate ma i dati sono molti, 45 km sono in Francia e l’Italia paga 4 miliardi per i chilometri francesi mentre per i suoi 12 ne paga 1”. Alle sue spalle Elisa Pirro si arrende: mani sulla fronte.

Si sente invece grillino per un giorno Tommaso Cerno, senatore Pd che vota contro il Tav. Quando esce dall’Aula, sulla giacca ha la spillina del Movimento 5 Stelle: “Me l’ha data Matteo Renzi”, racconta. D’altra parte l’ex premier va di gag in gag, tiene banco nel salone Garibaldi neanche fosse in Colorado o nel Montana, catechizza i cronisti sentendosi ormai conferenziere. A un certo punto si presenta con una cravatta colorata in mano: “È la cravatta No Tav, un omaggio di Nicola Morra”.

A fine seduta Emma Bonino lancia preoccupata un allarme alla presidente Casellati, denunciando un malfunzionamento del sistema di voto che potrebbe aver falsato la giornata: “Mi scusi presidente, ma qui l’aggeggio non ha funzionato”. “Bene, ne prendiamo atto”. C’è da andare in vacanza, non perdiamo tempo in quisquilie.

La paura del voto anticipato rovina le vacanze dei peones

I cannelloni con gli spinaci restano lì, ordinati in vetrina a gruppi di due, oleosi, verdastri, languidi. I senatori patiscono una violenta inappetenza, reclamano soltanto macedonie rigeneranti nel giorno che apre il lungo mese di ferie, perché l’animo – lo stomaco – è assai inquieto dopo le mozioni sul Tav. Colpa di una confusione di governo che fa vacillare poltrone, passioni, aspirazioni, e l’appetito. Non c’è pace neppure alla buvette di palazzo Madama, che sopisce i malumori con i caffè corretti alla grappa.

Le elezioni in autunno sono una paura ricorrente, ormai non più gestibile, aggressiva, fastidiosa, che rovina le vacanze, soprattutto dei renziani che scalciano nel partito dem di Nicola Zingaretti, negli orfani di Silvio Berlusconi non ancora fuggiti da Forza Italia, nei Cinque Stelle anonimi che affollano gli scranni. Eppure Maria Elisabetta Alberti Casellati, un attimo prima della chiamata al voto per il Tav, cioè un attimo prima dell’impatto che ha sbriciolato la maggioranza gialloverde, va ammesso con premura istituzionale, ha tentato di diradare la cupezza di una mattina d’agosto trascorsa in aula per un beffardo regolamento politico: “Signori senatori, prima di dare avvio alle votazioni, vorrei cogliere l’occasione per ringraziare tutti per il lavoro che avete svolto, per la collaborazione alla Presidenza, e soprattutto augurare a voi tutti e alle vostre famiglie una buona vacanza. Ringrazio anche tutta l’amministrazione, che, nonostante la forte riduzione di personale, ha permesso che i nostri lavori potessero procedere, con grande efficienza, efficacia e professionalità. Lo dico adesso, perché poi so che tutti scapperanno, come quando a scuola suona la campanella”. E invece la campanella ha creato sconforto, domande esistenziali: andiamo, e poi al ritorno che sarà di noi? Partire è un po’ morire.

I senatori erano accorsi, va detto spensierati, con leggere bisacce, non con le valigie pesanti delle settimane ordinarie, perché erano convinti, forse illusi, di adempiere a un’ultima sceneggiata, al solito litigio che Matteo (Salvini) e Luigi (Di Maio), con la sapiente regia di Giuseppe (Conte), poi ricompongono per il bene dell’Italia. Oggi no. Non per scaramanzia, ma qualcuno giura di aver visto a braccetto Pier Ferdinando Casini e Bruno Tabacci, e nel tenersi stretti, aspetto più grave, sorridevano, non un sorriso formale, non un istinto democristiano, un ghigno ecco. Quelli capiscono se tira aria di bonaccia o di tempesta e riescono a mettersi in salvo, sempre. Almeno così accade da trent’anni. Chi li vuole sfidare?

Il leghista Gian Marco Centinaio, il ministro dell’Agricoltura, il motociclista dal fisico tonico, avanza col piglio del vincente e trascina con sé Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, sindacalista Ugl. I colleghi dei Cinque Stelle origliano un po’, s’avvicinano, fanno i simpatici. La senatrice Barbara Floridia, siciliana, parlotta con Centinaio e Durigon: è la più significativa testimonianza di un dialogo tra i gialloverdi. Oltre, il nulla.

Danila De Lucia, di professione giornalista, eletta in Campania col Movimento, è afflitta per il Tav: “Il nostro è un do, do, do, do, do ut des”. Cinque volte. I pentastellati si svenano, i leghisti alimentano i consensi. Comandano. Che privilegio comandare.

In Forza Italia, partito destinato a dimagrire, l’amarezza turba il mare dei marinai, non del vecchio condottiero Silvio che, voto o non voto, spera di tornare in Parlamento e non teme Salvini per le cose di valore, gli interessi di famiglia, Mediaset e dintorni. Al Biscione tifano per altri dieci, cento, mille governi del tipo gialloverde.

A seduta conclusa, ritirate le portate alla buvette, palazzo Madama ha il fascino del tempo che fu. Il senatore Giacomo Caliendo, classe ’42, accompagna dei signori in visita, indica i cartelli storici. Il senatore Matteo Renzi, che voleva trasformare il Senato in museo, statua tra le statue, in splendida forma, intrattiene i cronisti per un’ora con aneddoti, racconti, riflessioni e la voce rimbomba nel vuoto e gli offre un certo piacere nel riascoltarsi. Al presidente di turno Paolo Taverna, agli esordi pugnace pentastellata, all’epoca si chiamavano “grillini”, tocca concedere l’intervento finale ad Albert Laniece, autonomista valdostano: “È di questi giorni una notizia che sta passando sotto traccia, nell’attuale clima vacanziero, ossia l’annullamento dell’autonomia speciale alla regione indiana del Kashmir con una modifica unilaterale della Costituzione voluta dal governo”. Taverna aggiorna l’assemblea al dieci settembre, martedì mattina. Se va bene, ci si rivede.

Zanda attacca Renzi “I dem dovevano uscire dall’Aula”

Nuovo scontro nel Pd. Il tesoriere del partito, Luigi Zanda ha espresso il suo dissenso rispetto alla decisione del gruppo dem di non uscire dall’Aula al Senato al momento del voto sulla mozione No Tav presentata dai grillini. “Sono a favore dell’opera ma uscire sarebbe stato più utile perchè poteva aiutare a far emergere con più forza l’incompatibilità ormai conclamata tra Lega e M5S”. Una critica alla gestione dei senatori, già messa in discussione nei giorni scorsi da altri esponenti del partito tra cui Carlo Calenda. Ma imposta dal capogruppo di Palazzo Madama, Andrea Marcucci, accusato indirettamente da Zanda di subire l’influenza di Matteo Renzi. “Non ci metteremo nella condizione di essere accusati di non volere la Tav”, ha spiegato prima del voto l’ex segretario oggi senatore semplice che però non rinuncia a far pesare la sua influenza sui parlamentari che ancora si riconoscono nella sua leadership. E che ovviamente attaccano il braccio destro del nuovo segretario Nicola Zingaretti. Per Ernesto Magorno l’atteggiamento di Zanda è “vergognoso”. “Sono irrecuperabili” ha chiosato Luciano Nobili.

Grillo replica a Perino: “Mancano i numeri, non siamo traditori”

Il Movimentonon ha tradito i No Tav. Beppe Grillo replica così a Alberto Perino, leader degli attivisti della Val Susa che due giorni fa aveva accusato i 5 Stelle di aver tradito la fiducia dei comitati contrari all’opera. Secondo il fondatore del M5S, il problema è di numeri, non di volontà politica: “Tradire, anche se non è un termine di moda, significa qualcosa come passare dalla parte dell’avversario. Non avere la forza numerica per bloccare l’inutile piramide non significa essersi schierati dalla parte di chi la sostiene”. In un lungo post pubblicato su Facebook, Beppe Grillo rivendica anni di lotte nella valle, rivolgendosi direttamente a Perino: “Non avrei mai immaginato che lei avrebbe provincializzato, anche cerebralmente, la lotta contro queste opere inutili e dannose. In Val di Susa ho rimediato un candelotto in faccia e 4 mesi di condanna, ma il peggio è essere stato al fianco di uno che ora mi da del traditore. Questa è una delusione. I suoi sforzi per insultare me ed il Movimento, con tarda pacatezza, esprimono la dinamicità di un fermacarte, incapace di farsi delle nuove domande, mentre l’avversario ha già cambiato pelle moltissime volte”.

Salvini vuole umiliare i 5S e chiede la testa di almeno tre ministri

Viene da chiedersi: non è forse l’attesa della crisi di governo, essa stessa la crisi di governo? Il lungo addio tra la Lega e i Cinque Stelle si regala un’altra giornata un po’ folle, un po’ ridicola. Matteo Salvini per tutto il giorno provoca, allude, evoca lo strappo con gli alleati, la fine dei gialloverdi, l’inizio della corsa verso le elezioni. “Il Capitano” è sempre al centro di tutto: monopolizza il Senato sul Tav, annulla comizi in serie da mattina a pomeriggio. Poi verso le 19, dopo ore di silenzio, sale a sorpresa a Palazzo Chigi per un colloquio con Giuseppe Conte. E da lì filtra una verità meno eroica: niente crisi, al massimo un rimpasto. Il dominio della Lega stabilito dalle Europee e dai sondaggi non passa solo per l’umiliazione ormai quasi quotidiana dell’alleato (dal decreto sicurezza all’alta velocità) ma pure per un significativo riequilibrio delle poltrone: nel mirino ci sono i soliti Toninelli e Trenta, nei desideri più spinti del “Capitano” anche l’austero ministro dell’Economia Giovanni Tria. E ancora: Costa all’Ambiente.

Infine, in tarda serata, Salvini attraversa la Pontina e arriva a Sabaudia per un comizio pubblico nella città del Duce, proprio sotto la Torre Littoria della piazza centrale. Non manca il siparietto ironico-nostalgico, quando il ministro legge la scritta sul campanile alle sue spalle: “Regnando Vittorio Emanuele II, Benito Mussolini capo del governo…”. Ride: “Ragazzi, così mi mettete nei guai”.

Sono passate le 21 e 30. Tutti gli occhi sono su di lui, molti si aspettano “il grande annuncio”, quello finale. E invece Salvini si ferma a metà. Entra sulle note del Nessun Dorma di Puccini, come al solito, ma si regala una stravagante variazione sul tema: sul Vincerò finale alza in aria il pugno chiuso. Un’immagine incomprensibile, forse provocatoria. Dal palco, poi, smentisce come di consueto le voci sul rimpasto. Con risolutezza: “Non siamo interessati alle poltrone. Anzi, quelle dei nostri ministri sono a disposizione degli italiani. Tenerci sette ministeri per non riuscire a fare le cose è inutile”. La rottura con i Cinque Stelle rimane ancora sullo sfondo, una minaccia costante, che non si sa quando diventerà concreta: “O si possono realizzare i nostri obiettivi o la parola torna al popolo”. Poi un’altra allusione: “Da qualche notte dormo male, sento la responsabilità”. Alla fine Salvini fissa una nuova scadenza: domenica sera, dopo i comizi in Sicilia, “saremo a Roma per fare una bella chiacchierata”. Insomma è crisi o non è crisi? Non si sa. In ogni caso, ammette: “Qualcosa si è rotto”.

Eppure stavolta sembrava davvero la volta buona. Sulle bocche dei suoi parlamentari circolava in modo sempre più insistente la stessa voce: “Oggi succederà qualcosa”, “Stasera a Sabaudia dirà qualcosa di importante”. L’attesa febbrile per l’atto finale monta nel pomeriggio: sarà crisi o rimpasto? La sepoltura finale dell’alleato grillino o la condanna definitiva all’irrilevanza?

Un’aspettativa costruita ad arte per tutta la giornata. Non c’è niente di normale, in questo 7 agosto del leader leghista, tutto giocato sullo scenario incredibile di un governo che cade a una settimana esatta da Ferragosto. Il primo appuntamento era fissato a Sabaudia alle 10 del mattino: la tappa iniziale del famigerato beach tour di Salvini in una delle spiagge più radical chic

(direbbe lui) d’Italia. Qui non è Milano Marittima e ad aspettarlo infatti non c’è nessuno, se non un pugno di cronisti arrivati dalla Capitale. Il paradosso è che non c’è nemmeno Salvini: il “Capitano” ha deciso di iniziare il suo gioco di nervi dal Senato e dal voto sul Tav.

Il secondo atto è un’altra assenza: alle 17 Salvini è atteso ad Anzio, seconda spiaggia della costa pontina, una meta più “pop” e più affine alle corde del leghista. Ma lui si nega anche qui, con un annuncio che arriva pochi minuti prima dell’inizio della manifestazione: del comizio del vicepremier restano solo i divieti di parcheggiare sul lungomare, accanto alla spiaggia dove avrebbe dovuto sfilare tra boschi di smartphone tesi. Il messaggio è chiaro: in queste ore Salvini ha cose più importanti da fare dei selfie sulla sabbia. E infatti anche le date abruzzesi del beach tour, previste per oggi, sarebbero in bilico.

In quelle ore concitate un fedelissimo salviniano di governo assicura: “Stasera a Sabaudia Matteo dirà qualcosa di definitivo”. Il capo della Lega tace da ore, non si sa dove sia, il suo staff della comunicazione non comunica. Si crea l’attesa del grande annuncio e del grande evento. Poi il colpo di scena: nel tardo pomeriggio, a ridosso del comizio finale a Sabaudia, il vicepremier sale a Palazzo Chigi. Un’ora di colloquio con Conte, le richieste (smentite dai leghisti in pubblico e in privato) sul cambio dei tre ministri. Poi lo show sotto la Torre Littoria. Anche oggi il governo cade domani.

Conte fa il mediatore, ma Di Maio dubita: “Non so se continuare”

Era un governo, ora è un posto dove non si parlano neppure, dove non stanno più neanche nella stessa stanza. Matteo Salvini, il probabile carnefice, e Luigi Di Maio, la probabile vittima, si schivano nel giorno che evoca la fine dei gialloverdi al potere. I due vicepremier si parlano tramite il presidente del Consiglio ormai anche fisicamente terzo, Giuseppe Conte.

In serata li incontra separatamente e cerca un punto di caduta tra le pretese del leghista, che vuole il sangue, cioè tre ministeri, e la soglia di sopravvivenza di Di Maio, che non può cedere ancora, non può cedere così. È un labirinto, e la strada per uscirne dovrebbe trovarla il Conte che nel frattempo cancella la conferenza stampa prevista per oggi. Ieri Mattarella non lo ha convocato al Quirinale per aiutarlo, per non certificare l’evidente, ma i contatti tra Colle e Palazzo Chigi sono stati continui. Però Di Maio, quello che non poteva che ridire no alla Torino-Lione, è stanco. Ha mezzo Movimento che gli soffia contro, che lo invita a finirla qui con la maggioranza gialloverde per salvare ciò che resta del M5S. E un big come Nicola Morra lo propone nella breve assemblea congiunta di ieri sera: “Votiamo sulla piattaforma Rousseau se continuare o meno”. Di Maio vuole e cerca comunque una via d’uscita. Ma adesso anche lui è assalito dai dubbi, si chiede se abbia senso “andare avanti così”.

Il capo politico appare tra gli arazzi del Senato in mattinata, quando nel palazzo ancora echeggia lo strappo del capogruppo leghista Romeo: “Chi vota no al Tav si assumerà le responsabilità politica delle scelte che seguiranno”. Di Maio si chiude col suo staff in una sala, mentre il senatore Salvini appare in Aula. “Sta parlando male coi suoi di Di Battista”, racconta in tempo reale un big del M5S che gli capita vicino. Tradotto, il capo della Lega commenta il post appena uscito dell’ex deputato romano: “Lo dico dalle Europee, il Salvini che bacia tutti i suoi detrattori di sinistra e pure certi suoi amichetti in odore di malaffare cerca qualsiasi pretesto pur di tornare al voto”. E non sono solo accuse al leghista, è anche un nuovo rimprovero al Di Maio succube del contraente di governo. Ma il capo del M5S non ha tempo di rispondergli.

Ora deve capire se c’è ancora un modo per evitare il burrone. Difficile, anzi di più. Anche perché il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, a cui i 5Stelle hanno chiesto ancora pochi giorni fa un passo di lato, non vuole saperne di mollare. Ed è pronto a farsi sentire, in caso di addio forzato. È una grana, ma non certo l’unica per il vicepremier. Di Maio, il volto che è una maschera di tensione, schiva correndo i cronisti e si trincera al secondo piano con alcuni fedelissimi. Sente Beppe Grillo, il fondatore, che lo rincuora, cerca di sostenerlo. E Davide Casaleggio, più incerto, dubbioso. E non è il solo. Perché la vecchia guardia grillina chiede compatta di staccare la spina al governo per salvare il M5S ormai sprofondato al 14% nei sondaggi, convinta che il rapporto con il Carroccio stia uccidendo il Movimento. È la linea del veterano Max Bugani, le cui dimissioni da vice-caposegreteria di Luigi Di Maio sono figlie di un profondo dissenso politico. È la linea di Morra. E batte un colpo anche il siciliano Ignazio Corrao, eurodeputato di peso, da mesi in freddo con Di Maio: “Io alla leganord (testuale, ndr) e ad uno come Salvini non ho mai creduto, neanche per un minuto. Ci dobbiamo ribellare, prima che sia troppo tardi, prima di abituarci alle loro facce, prima di non accorgerci più di niente”. Il segnale del malessere interno che si coagula, contro la rotta e la guida politica. Di Maio è in bilico, quanto il governo. Lo sa e per questo compulsa post e messaggi, telefona, si confronta. E nel corso della giornata lo chiede agli altri e a se stesso: “Ha senso continuare così?”. Però il destino del governo adesso dipende innanzitutto dall’altro vicepremier, da Salvini, e da quello che deciderà.

Intanto a Di Maio e ai suoi arrivano segnali di guerra. “Chiederà un rimpasto, ossia di avere tre ministeri, Infrastrutture (Toninelli), Difesa (Trenta) e Economia (Tria)” dicono i 5 Stelle (ma circola anche il nome del ministro dell’Ambiente, Costa). Una richiesta nei fatti irricevibile. “Trenta e Tria sono blindati dal Colle” ricordano dal Movimento. Ma poi c’è l’incontro tra Salvini e Conte. “Pacato e cordiale” giurano i leghisti. Ma tra i sorrisi il vicpremier chiede moltissimo, un cambio radicale di rotta e posti. Ed evoca una possibile crisi. Il premier prende tempo e convoca Di Maio, che fa rinviare l’assemblea congiunta degli eletti M5S. E assieme cercano una quadra. “Il rimpasto si sarebbe fatto a settembre, possiamo anche anticiparlo” riassume una fonte di governo. Ma il futuro dei gialloverdi è sempre più sbiadito.

Trionfa l’alleanza pro Tav. E poi la Lega apre la crisi

Matteo Salvini alza la posta: ora vuole di più ed è certo di poterlo ottenere. Così, approfittando della discussione sulle mozioni sul Tav nell’ultima seduta a Palazzo Madama prima delle ferie, fa materializzare la crisi di governo.

La apre formalmente in Aula il capogruppo del Carroccio, Massimiliano Romeo con un intervento concordato, parola per parola, col suo “Capitano”, che prima della seduta gli ordina di aprire il fuoco sui Cinque Stelle, rei di aver presentato la mozione No Tav: “Se fate parte del governo e il presidente del Consiglio ha dichiarato che l’opera va fatta, dovete essere a favore del Tav. Non ci sono alternative è una questione di credibilità complessiva”, ha detto facendo subito capire che non si trattava di una tirata d’orecchi o di un richiamo amichevole agli alleati recalcitranti.

Mancano pochi minuti a mezzogiorno quando il capogruppo leghista affonda il colpo, di fatto agitando lo spettro del ritorno anticipato alle urne che forse si tradurrà, alla fine, in un corposo rimpasto di governo che il Carroccio potrebbe chiedere come condizione minima per poter mandare avanti la legislatura.

“Non possiamo più accettare il blocco di alcune opere fondamentali: chi vota no alla Tav si assume la responsabilità politica delle scelte che conseguiranno nei prossimi giorni e nei prossimi mesi”, scandisce Romeo che però poi ha spiegato che il problema politico è complessivo e riguarda molti dossier di peso.

La Lega mette nel suo cahier de doléances “ il blocco dell’autonomia, il blocco sulla riforma della giustizia, il blocco sulla riduzione delle tasse: troppi ostacoli impediscono a questo governo di crescere con una certa velocità. Non nascondiamocelo”. Insomma la mozione Tav è l’occasione per una resa dei conti: d’altra parte la Lega l’aveva messa nel conto da giorni. Lo schiaffo agli alleati, però, arriva solo dopo aver portato a casa, in sequenza, due provvedimenti fondamentali: la fiducia sul decreto Sicurezza bis voluto fortemente da Matteo Salvini e la delega sull’ordinamento sportivo, tanto cara al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti.

Forse per questo il Carroccio ha tenuto per giorni le carte coperte su come si sarebbe mossa nel voto sulle mozioni sul Tav, salvo poi ufficializzare solo ieri mattina che avrebbe detto “sì” a tutte quelle favorevoli all’alta velocità presentate dalle opposizioni e “no” a quella del Movimento 5 Stelle, bocciata con 181 voti a sfavore grazie ai senatori di Carroccio, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia. A votare a favore del documento No Tav sono in 110: il gruppo pentastellato più il dem Tommaso Cerno e tre senatori di Leu su quattro.

In sequenza arriva poi il voto delle altre mozioni: quella di Forza Italia, che “vince” con 182 sì, +Europa e Fratelli d’Italia (181 voti) e quella del Pd (180), pure questa grazie ai voti del fronte sì Tav con in testa la Lega.

I lumbard non hanno rinunciato nemmeno allo sfregio finale all’indirizzo dei democratici e, in particolare, dei renziani, la componente che più temeva l’incidente in aula e che per questo più si è prodigata per raccogliere voti sulla loro mozione, la prima ad essere votata dopo quella grillina. Impegno che è arrivato al punto da emendare il testo – ridotto alla fine a due righe – per renderlo votabile anche dalla Lega. “Paura di andare a votare, eh?”, li ha irrisi Romeo chiarendo a tutti chi è a dare le carte: Matteo Salvini. Ai grillini non resta che denunciare, sul loro blog, “l’inciucio pro-Tav”.

Morituri te salutant

Rileggere Montanelli è sempre un ottimo esercizio, perché è morto 18 anni fa, ma è più vivo e attuale che mai. Il 28 agosto 1994, cioè 25 anni fa, scriveva questo sul primo governo B.: “Nelle ultime due settimane i consensi al governo e al suo capo sono passati dal 48 a quasi il 54%… È stata proprio questa politica balneare con le sue scene da telenovela minuziosamente descritte in tutti i loro particolari e diffuse in tutta Italia (e speriamo solo in Italia) da televisioni pubbliche e private in gara di zelo, a provocare questa impennata di popolarità. Se le cose stanno così… dobbiamo cospargerci il capo di cenere e chiedergli scusa. I problemi non li ha ancora affrontati né risolti. Ma è chiaro che gl’italiani sono sempre più convinti che lui è il solo uomo capace di farlo, e comunque quello in cui più e meglio si riconoscono”. Perché non amano i “personaggi color fumodilondra”, tipo De Gasperi o Einaudi: “Vorreste mettere il gioioso e giocoso Cavaliere, con le sue risate, le sue barzellette, il suo ottimismo, la sua cordialità, le sue barche, le sue ville. Vorreste mettere. Forse l’Italia non è lui. Ma certamente lui è l’Italia come gl’italiani vorrebbero che fosse. Il sondaggio non può avere altro significato”. Conclusione beffarda e paradossale: non resta che adeguarsi, arrendersi, mettersi a vento. “Senza bisogno di sopprimerci come minacciano di fare certi suoi alleati e ministri, finiremo automaticamente confinati in una specie di Arcadia del buoncostume politico, quello che usava quando Berta filava (ora va alla Standa di Berlusconi e compra il pret-à-porter). Non siamo pericolosi. La nostra audience si assottiglia di giorno in giorno nella stessa misura in cui s’infoltisce quella del Cavaliere. Ave, Silvio, morituri te salutant”.

Ditemi voi se non è la fotografia dell’Italia di oggi: basta sostituire B. con quell’altro cazzaro. Maestro d’ironia e paradosso, Montanelli provocava: infatti continuò a combattere il Caimano per altri sette anni, fino alla morte. E lo fece, conoscendolo nel profondo, con le uniche armi in grado di fargli davvero male: lo sberleffo, il sarcasmo e il disprezzo. Lo prendeva sul serio solo quando scherzava e lo trattava da pagliaccio quando faceva sul serio. Evitando la demonizzazione ossessiva e parolaia “h 24” che per vent’anni dannò la sinistra, peraltro beccata mille volte a inciuciare col presunto nemico. La stessa ossessione che riciccia oggi per Salvini, combattuto con gli stessi toni sdegnati, gli stessi autogol (il tifo per la Ue, le Ong, Macron, lo spread, le procedure d’infrazione) e gli stessi snobismi col ditino alzato. Sia che faccia scemenze innocue (sui social o al Papeete Beach).

Sia che si macchi di condotte gravi (lo scandalo Arata-Siri, il caso Rubli, le bugie per nasconderli, il rifiuto di riferire in Parlamento e in Antimafia, le sparate razziste, le intimidazioni a giornalisti e contestatori, le leggi vergogna riuscite e tentate). In questa penuria di teste pensanti, Montanelli resta la bussola migliore per orientarsi nella jungla della politica e della società. Che paiono tutte nuove, e invece sono vecchie come il cucco. L’Italietta arrapata dall’afrore del ducetto di turno sta per compiere cent’anni. E non ha mai imparato la lezione. Salvini non è il nuovo Mussolini, semmai il nuovo Ridolini; il 1922 fu una tragedia e il 2019 è una farsa. Ma lo spettacolo delle opposizioni in Parlamento ricorda quello di liberali, socialisti e popolari all’avvento del fascismo. A cui spianarono la strada fingendo o credendo di combatterlo. Ieri Pd e FI potevano rifilare il primo vero smacco a Salvini, mandando in frantumi la coalizione giallo-verde con una semplice uscita dall’aula, che avrebbe fatto passare le mozioni M5S-LeU. Invece si sono coalizzati con lui. Poi, ridicoli, han ricominciato a invocare le elezioni: quando era assodato che, anziché la crisi, sarebbero scattate le ferie. Con “nemici” come questi, il Cazzaro può campare di rendita chissà quanto. La cosiddetta informazione dovrebbe smetterla di definire Pd&FI “opposizioni” e di stalkerare i 5Stelle perché facciano ciò che conviene a loro, ma non a noi: aprire una crisi che consentirebbe a Salvini di attuare il suo piano senza pagare pegno. Cioè farsi la campagna elettorale contro i grillini traditori (ieri è lui che ha tradito, votando col Pd), votare a ottobre e occupare Palazzo Chigi.
Gli unici ostacoli alla sua presa del potere non stanno all’opposizione o nei giornaloni. Ma a Palazzo Chigi (Conte, che anche oggi gli darà qualche cazzotto con mano guantata), al Quirinale (Mattarella, che fa l’arbitro imparziale e tanto basta a indispettirlo), in Vaticano (il Papa che non riceve il catto-pagano e che denuncia l’uso politico della religione ridotta a superstizione) e qua e là per l’Italia (i No Tav e gli altri movimenti ambientalisti, il popolo degli striscioni, la Raggi che difende la Capitale dalla protervia fascio-salvinista ecc.). Potrebbero esserlo anche i 5Stelle, se capissero che Salvini evoca continuamente la crisi (per qualche poltrona in più col rimpasto? O per votare davvero? E quando?), ma non vuol essere lui ad aprirla: teme nuovi sviluppi degli scandali leghisti e non sa quanto perderebbe rovesciando il premier e il governo più popolari degli ultimi 10 anni. Paure che un M5S ai minimi storici, con ben poco da perdere, dovrebbe usare per passare da ricattato a ricattatore. Mettendo sul tavolo cinque leggi-bandiera previste dal Contratto, sfidando Salvini a proporne altrettante (con le coperture finanziarie) e poi votandole a coppie: una del M5S e una della Lega insieme, onde evitare che quello incassi i voti degli alleati e poi neghi loro i propri. Così, se il Cazzaro vuole comandare da solo, sarà lui a rompere. L’alternativa è la beffa montanelliana: “Ave Matteo, morituri te salutant”.

 

Sedicimila occhi puntati su Locarno

“Non devi dar conto di noialtri qui dentro: la nostra miseria non è materia da mostrare”. Se Mathieu Volpe avesse obbedito al “desiderio” degli abitanti del ghetto di Rignano (Foggia) oggi non esisterebbe il suo piccolo grande documentario. Perentoriamente intitolato Notre Territoire è costruito nella forma di diario esperienziale e narrato in prima persona dal giovane autore italo-belga. Con un primo “approccio” nel 2014 a seguito di una Ong e realizzato dopo un mese e mezzo di “quotidiana immersione nella vita dei migranti africani del ghetto, unica condizione per ottenere la loro fiducia,” nel 2015, il film in bianco & nero sembra sovvertire i canoni della contemporaneità, essendo girato in filmine Super8 intervallate a immagini fotografiche: “La pellicola è sottoposta alla stessa precarietà di cui sono minacciate le esistenze di questi migranti”.

Volpe, barese di origini ma “migrante” egli stesso a 19 anni in Belgio dove ha studiato cinema, vive e lavora, non è nuovo a questo tipo di approccio nel “cinema del reale”, ove l’incontro tra forma e contenuto tenta di sondare territori espressivi nuovi e certamente personali. Il suo film è inserito fra i cortometraggi del poderoso programma del 72° Locarno Film Festival che alzerà oggi il sipario per riabbassarlo il 17 agosto.

La kermesse ticinese si pregia di una nuova direttrice artistica, la francese Lili Hinstin, che ribadisce la doppia natura del principale festival svizzero: la “rispettabilità” e la “capacità di rischiare”, andando per così dire “fuori norma”, a partire dal suo superbo schermo di piazza Grande (il più grande d’Europa in un’arena esterna) che arriva a fino a 8mila paia di occhi. E questi occhi provenienti da ogni angolo del mondo – Locarno è una manifestazione cinematografica dalla vera anima glocal – vedranno davvero di tutto: da Quentin Tarantino a presentare il suo Once Upon A Time… in Hollywood alla diva Hilary Swank vincitrice del Leopard Club Award, dal grande autore giapponese Kiyoshi Kurosawa che presenta la sua nuova opera al mitico John Waters, regista indie e “fuori norma” par excellance a cui è attribuito il Pardo d’onore di quest’anno.

Ad aprire le danze in piazza Grande, però, è incaricata una cineasta italiana, Ginevra Elkann, al suo esordio alla regia con una commedia sentimentale dal titolo Magari, che mette al centro l’infanzia di tre fratelli molto uniti figli di genitori divorziati interpretati da Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher. Ma il tricolore vira al rosa anche nel concorso internazionale: è infatti la bolzanese Maura Delpero con Hogar l’unica voce italiana in corsa per il Pardo d’oro. Il suo lavoro, il primo di finzione dopo una serie di premiati documentari, indaga il destino di un centro religioso italo-argentino (l’Hogar, appunto) destinato a ragazze madri adolescenti.